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Crisi pandemica e passaggi di fase
di Raffaele Sciortino
“… alienati dalla natura, e quindi infelicissimi”
Leopardi, Zibaldone
"Non le cose turbano gli uomini ma i giudizi che gli uomini formulano sulle cose"
Epitteto, Manuale
Probabilmente solo questo autunno-inverno, a fronte di una nuova ondata pandemica o del suo affievolirsi, si capirà qualcosa in più sulla natura del covid dal punto di vista “medico-scientifico” (terreno spinosissimo questo del rapporto non lineare tra tecnoscienza, potere, capitale, informazione…). Ciò non toglie che, anche dovesse sperabilmente confermarsi la relativamente bassa letalità del virus sull’insieme delle popolazioni, il suo impatto è un fenomeno sociale di primaria grandezza legato al quadro di insicurezza strutturale dell’esistenza dentro il capitalismo globale, di cui le percezioni soggettive di paura, come sull’altro versante di scetticismo o negazione, sono manifestazione oggettiva. La pandemia - crisi sociale non solo globale ma simultanea - si sta rivelando infatti un notevole acceleratore delle particelle già discretamente impazzite del capitalismo a più di dieci anni dallo scoppio della crisi globale. Al tempo stesso è un potente rivelatore delle patologie del capitalismo all’altezza della sussunzione reale e un catalizzatore di reazioni sociali profonde. Reazioni che manifestano all’oggi tendenze contraddittorie compresenti che in parte si scontrano, in parte si intrecciano, con esiti politici indeterminati. Qui di seguito, per punti, alcune valutazioni in corso d’opera e qualche ipotesi interpretativa.
§ 1. Doppia crisi: deglobalizzazione o crisi della globalizzazione? Usa/Cina; cambio di passo UE; keynesismi selettivi
Ad un’analisi impressionistica il coronavirus può apparire uno shock esogeno: in realtà, non solo il sistema economico globale era a inizio 2020 già sotto notevole stress, ma l’intreccio tra crisi economico-finanziaria e sconvolgimenti in senso lato ambientali andrebbe oramai considerato a pieno titolo un fattore endogeno.
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Il grado zero della politica
di Geminello Preterossi
Lo Stato-nazione è il luogo dove nasce la democrazia rappresentativa moderna (con molte contraddizioni e grazie a dure lotte per rendere effettiva l’uguaglianza). Se si tiene alla democrazia e al primato degli interessi collettivi su quelli privati, è necessario tener ferma la centralità dell’organizzazione statuale della politica e del principio costituzionale della rappresentanza, intesa innanzitutto come rappresentatività delle istituzioni democratiche. Senza Stato e sovranità democratico-rappresentativa, prevalgono i poteri indiretti dell’economia. Così che lo stesso costituzionalismo novecentesco deperisce, svuotandosi di fatto il suo nucleo più innovativo ed emancipante: i diritti sociali come precondizione dell’inclusione delle masse nella cittadinanza e della stessa partecipazione popolare alla determinazione dell’indirizzo politico.
Bisogna quindi stare molto attenti a liquidare la rappresentanza. E’ del tutto evidente che i parlamenti hanno perso centralità, e che il circuito della rappresentanza è più o meno in crisi in tutto l’Occidente. Ma innanzitutto bisognerebbe chiedersi perché, producendo un’analisi meno superficiale della polemica contro la Casta. Non sarà forse perché la definizione dell’agenda è largamente sottratta ai parlamenti e le decisioni sono prese nel circuito esecutivi-lobbies-tecnocrazia? Ad esempio, in Italia oggi la dialettica non è più tra governo e parlamento, ma tra governo e UE. In generale, gli interlocutori degli esecutivi sono le tecnocrazie finanziarie globali. Ciò è compatibile con la democrazia? E fino a dove potrà spingersi il processo di delegittimazione strisciante delle istituzioni politiche che ne deriva? Piuttosto che stracciarsi le vesti di fonte al “popolo” recalcitrante che non capisce le mirabolanti ricette dei riformisti delle controriforme, o credere ingenuamente che sia tutto un problema di buone intenzioni, sarebbe il caso di scendere in profondità, di sforzarsi di elaborare un’analisi un po’ più strutturale.
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Chi ha sbagliato le strategie antivirus
di Antonio Lettieri
Le diverse risposte politiche nella lotta contro le conseguenze economiche della pandemia. I casi della Cina, del Giappone e degli Stati Uniti. Le decisioni europee e il discutibile approccio in Italia e Spagna
La pandemia generata dal coronavirus ha messo in crisi paesi sparsi in tutto il pianeta. L’allarme suscitato non può stupire. Si sono verificate altre epidemie nel corso dell’ultimo secolo, ma in generale hanno avuto un impatto geograficamente limitato. La pandemia del nuovo coronavirus ha secondo gli esperti un solo devastante precedente nella crisi che colpì l’intero pianeta con l’infezione che fu definita “Spagnola” benché non fosse originata in Spagna ma negli stati Uniti. Si trattò in ogni caso di un'immane tragedia. L’epidemia causò fra cinquanta e cento milioni di morti in un tempo i cui gli abitanti del pianeta erano intorno a due miliardi, circa un quarto degli attuali.
Il confronto ci aiuta a realizzare il rischio che comporta una pandemia che si estende a livello globale senza che si sia in grado di conoscere con precisione la natura del virus e il modo di eradicarlo. Tuttavia, le speranze di averne ragione non mancano. In Russia e in Cina si proclama l’individuazione di un vaccino già in corso di sperimentazione con risultati promettenti. Altri vaccini si annunciano sulla base delle ricerche in corso in Europa e Stati Uniti.
Cina e Stati Uniti
Quale che sia l’auspicabile futuro di un vaccino efficace, il coronavirus ha già provocato conseguenze economiche, sociali e umane disastrose. I governi hanno messo in atto interventi poderosi, sia pure con esiti finora diversi. Il caso della Cina, la prima essere colpita, è significativo. Sia pure accusata di aver colpevolmente rivelato in ritardo la natura del virus all’origine della pandemia, la Cina ha mostrato una capacità d’intervento che per l’intensità e la rapidità, ha consentito di fermare in meno di tre mesi la pandemia a Wuhan, nella provincia di Hubei dove per prima è comparsa provocando la perdita di circa 5000 vite umane.
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La banda unica in Italia: come si espropria un bene comune
di Andrea Fumagalli
Ha trovato una scarsa eco sui media l’accordo tra Tim e Cassa Depositi Prestiti (Cdp) per la creazione di un’unica società che gestisca la banda larga in Italia, ovvero l’acceso a Internet[1]. La notizia è circolata solo il giorno (27 agosto 2020) in cui il governo ha dato parere positivo e il via libera alla creazione di una newco che avrà il controllo della rete unica. Il 1° settembre 2020 i CdA di Tim e di Cdp hanno contemporaneamente approvato il piano e siglato una lettera di intenti per arrivare a primavera 2021 alla creazione della nuova società, che si chiamerà AccessCo.
Per raggiungere tale scopo, Tim farà affidamento a FiberCop (la società che cura l’ultimo miglio della rete, quello dagli armadietti in strada alle case), a cui sarà conferita la rete secondaria di Tim sulla base di un valore d’impresa di circa 7,7 miliardi di euro (per un valore azionario minore, pari a 4,7 miliardi di euro: il che fa presagire un aumento futuro del valore delle azioni per la gioia degli azionisti).
In FiberCop entra anche il fondo d’investimento privato americano Kkr con il 37,5% (1,8 miliardi) e Fastweb che acquisisce il 4,5%. Ne consegue che Tim deterrà il 58% della nuova società.
Secondo fonti informate, si prevede che FiberCop avrà un profitto lordo (Ebidta) di circa 0,9 miliardi (pari al 19% del valore azionario, livello assai alto) con un cash-flow positivo a partire dal 2025 e non richiederà quindi iniezioni di capitale da parte degli azionisti.
Solo successivamente alla creazione della nuova FiberCop, entra in gioco l’accordo tra Cdp e Tim per la messa in opera della rete unica, non oltre il primo trimestre 2021.
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Il lavoro. Quale, fatto da chi, per chi e per che cosa
di Dino Greco
Editoriale del n. 2 2020 della rivista Su la testa
Il capitalismo sta morendo”, recitava l’ottimistico refrain di una scolastica marxista conquistata alla credenza di un prossimo, necessario tramonto del sistema imperniato su rapporti capitalistici di produzione. La stupefacente capacità del vecchio mondo di risorgere dopo ogni crisi si è incaricata di dimostrare l’infondatezza di meccanicistiche profezie “crolliste” e il capitalismo, nella sua vocazione polimorfa, ha saputo di volta in volta mettere in atto misure antagonistiche che lo hanno reso capace di sopravvivere alle crisi più acute da cui è stato attraversato. Del resto, mai Marx aveva autorizzato l’illusione di un epilogo evoluzionistico verso il socialismo dei rapporti sociali, avendo non a caso dedicato l’intera sua vita all’organizzazione del partito comunista. E da Rosa Luxemburg ad Antonio Gramsci fu subito chiaro che il capitalismo non se ne sarebbe andato da solo.
Colonialismo, imperialismo, inaudita concentrazione del potere, globalizzazione, iperfinanziarizzazione dell’economia, misure non convenzionali di politica monetaria, innovazione tecnologica, organizzazione del lavoro, sino al ricorso allo sfruttamento umano spinto a limiti estremi e – non ultima ratio – il ricorso alla guerra, sono lì a dimostrare che la piovra ha saputo trovare e trova in se stessa mille risorse ed artifizi per riprodursi.
La crisi sistemica del capitale
Cionondimeno, il sistema retto sul rapporto di capitale è entrato in una crisi sistemica, andando progressivamente a sbattere contro quello che Marx definì un suo limite “interno”, un limite che rende via via decrescente la remunerazione del capitale in rapporto all’investimento fisso. Comunque la si pensi a questo riguardo, è un fatto difficilmente contestabile che la crescita rallenta da decenni in tutto l’Occidente sviluppato e che lo stesso vale per il saggio di profitto, ovunque in tendenziale diminuzione.
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La matrice di Bazarov-Kautsky e il trotzkismo mediatico
di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
Dopo più di nove decenni di vita stentata si rivelano sempre più evidenti la crescente debolezza, i continui fallimenti politici e le acute divisioni esistenti tra i diversi e rissosi gruppi che compongono il frastagliato microarcipelago del trotzkismo contemporaneo: non è certo casuale che ai nostri giorni sussistano almeno una dozzina di autoproclamate “Internazionali” che affermano di agire su scala planetaria, rimanendo spesso quasi sconosciute persino ai sempre più rari militanti di base del milieu trotzkista.
L’estrema sinistra di natura trotzkista, come del resto quella di altre correnti politiche (anarcocomunista, bordighiana, ecc.) non solo non ha fatto alcuna rivoluzione, ma non ci si è avvicinata nemmeno da lontano; la sua esperienza su scala internazionale durante circa nove decenni, a partire dal 1928, rappresenta dunque la storia di un fallimento permanente, contraddistinto dall’assoluta incapacità di incidere seriamente sulla realtà politica e sui rapporti di potenza concreti, mancando quasi ovunque persino di avviare processi concreti di accumulazione di forza in grado di far superare la soglia critica dell’irrilevanza politico-sociale.
Ma, simultaneamente, continua invece da molti decenni l’utilizzo quasi costante su larga scala, da parte dei mass media della borghesia occidentale, specie se di “sinistra”, del principale asse politico e del più importante segno distintivo comune ai gruppi che fanno riferimento alla Quarta Internazionale: elemento facilmente individuabile nell’ostilità e nella sfiducia politico-sociale da essi mostrata in modo quasi permanente, a partire dal 1926, contro i nuclei dirigenti politici dei paesi socialisti e delle nazioni antimperialiste sotto il manto di una fraseologia rivoluzionaria, partendo dall’Unione Sovietica dopo la morte di Lenin fino ad arrivare alla Cina Popolare, a Cuba socialista e al Venezuela bolivariano dei nostri giorni.
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Didattica del virus
di Rocco Ronchi
Siccome mi rivolgo agli insegnanti, alla vigilia di un anno scolastico che sarà tra i più difficili e incerti, mi preme innanzitutto chiarire che cosa ci accomuna tutti in quanto insegnanti. Ciò che condividiamo è una “pratica”: l’insegnamento. Ciò che, in quanto insegnanti, sappiamo del nostro mestiere, sebbene esitiamo talvolta a confessarlo pubblicamente, è che la nostra pratica non si definisce a partire dai suoi contenuti (se non derivatamente) e che non si risolve nella trasmissione degli stessi “alla più alta velocità consentita dal canale” (se non derivatamente). A definire quello che facciamo non è ciò che facciamo ma come lo facciamo. Per questo l’assegnazione dell’insegnamento al dominio delle “pratiche” (o delle “arti” nel senso greco delle technai) risulta pertinente. Il come insegnare la scienza pedagogica lo chiama “didattica”. Nei dipartimenti di scienze della formazione la didattica è oggetto di uno specifico insegnamento. In quanto insegnanti che si sono fatti le ossa sul campo, noi però sappiamo che la didattica non è una metodologia che si possa insegnare separatamente. La didattica non è cioè una propedeutica all’insegnamento (da filosofo, aggiungo poi che una “didattica della didattica” è un autentico paradosso perché è solo insegnando che si può insegnare ad insegnare…). Come insegnanti noi sappiamo che l’insegnamento è piuttosto un atto sempre sospeso al suo quando e al suo dove, un atto situato che ha il suo perno e la sua condizione di possibilità in una relazione determinata, prescindendo dalla quale non vi è più insegnamento alcuno. La didattica è perciò il suo elemento, non il suo metodo a priori.
Quello che propongo, anche per farla finita con il tempo dei lamenti, è di provare a pensare il Covid come occasione. Provare a pensare il Covid come kairos, questa è la sfida. Kairos, lo sapete, nomina in greco antico il momento propizio, l’occasione da cogliere al volo per agire efficacemente.
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Richard Baldwin, “Rivoluzione globotica”
di Alessandro Visalli
Il libro[1] di Richard Baldwin, che reca come sottotitolo “globalizzazione, robotica e futuro del lavoro”, è del 2019 e si concentra su quella che definisce “rivoluzione globotica”. Per Baldwin si tratta di una grande trasformazione in avvio che deriva dalla convergenza sul mondo del lavoro di due potenti forze: la globalizzazione (con la concorrenza globale che porta con sé) e la robotica.
In particolare il suo testo non ha di mira la rivoluzione avviata durante gli anni novanta e dispiegata negli anni zero, quando l’insorgere della mondializzazione delle merci e il decentramento dei processi produttivi iniziato negli anni settanta produsse un enorme impatto progressivo sul “colletti blu”, ovvero sugli operai delle fabbriche. Ha invece di mira una nuova che sta arrivando e inizia a mordere le nostre società da qualche anno: l’aggressione che i “robot colletti bianchi” sta producendo proprio ai lavoratori della conoscenza e dei servizi che avevano “vinto” nella precedente trasformazione. Una aggressione che ha due aspetti strettamente interconnessi e reciprocamente potenzianti: da una parte alcuni e sempre più lavori potranno, e di fatto sono, automatizzati da processi di intelligenza artificiale di nuovo tipo sempre più potenti[2]; dall’altra sempre più “telemigranti” entreranno in competizione con le mansioni direttive e da analisti di simboli che pensavamo al sicuro dalla rivoluzione tecnologica.
Una cosa del genere è spesso accaduta in passato ed è stato sempre superata. Ma per l’economista inglese “questa volta è diverso”. La ragione è che sta arrivando con velocità inaspettata un radicale disallineamento che supererà di molto la normale capacità del mercato di trovare nuovi lavori sostitutivi.
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Intervista a Bernard Chavance
di Bollettino Culturale
Bernard Chavance è professore emerito all'Università Paris-Diderot. La sua ricerca si concentra sull'analisi comparativa dei sistemi economici e delle istituzioni. Allievo di Charles Bettelheim, ha scritto per importanti riviste come Actuel Marx. In italiano è disponibile il suo libro “L’economia istituzionalista”.
* * * *
1. Professore, lei è uno dei principali rappresentanti della teoria della regolazione. Può spiegare brevemente cosa questa teoria ci permette di analizzare, in relazione al marxismo, dell'attuale fase del capitalismo?
1. La teoria della regolazione è una corrente o una scuola di pensiero, che ha subito uno sviluppo e acquisito un'influenza significativa in Francia e, in misura minore, all'estero, dagli anni '70, per quasi quattro decenni, il che è notevole. È un approccio istituzionalista, prevalentemente macroeconomico, caratterizzato da un ancoraggio storico della teoria economica e da un'enfasi sulla prospettiva comparativa. Le influenze iniziali sono il marxismo, il post-keynesismo e la scuola storica francese degli Annales. Ma presto prese forma un approccio originale al capitalismo, in particolare per quanto riguarda le tradizioni marxiste dell'epoca.
Si prolunga l'eredità marxiana riguardo alla conflittualità tra lavoro e capitale e tra capitalisti reciprocamente competitivi, luogo centrale dell'accumulazione del capitale, dinamica trasformativa permanente del sistema. Un allontanamento avviene simultaneamente rispetto ai temi delle tradizioni marxiste, del teleologismo, della nozione di leggi tendenziali, della teoria del valore, della concettualizzazione del denaro.
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David non ci vorrebbe Graeberiani
di Lorenzo Velotti
All’inizio di quest’anno, Goffredo Fofi mi chiese di intervistare David Graeber con l’idea di farne un libro-intervista. Estremamente onorato e al contempo nervoso, in cerca di qualche direzione, cominciai a chiedere a Goffredo che temi avremmo dovuto affrontare, e a David che disponibilità avesse e di cosa gli sarebbe piaciuto parlare. Il primo mi rispose che ero libero di fare quello che volevo, il secondo che certamente avremmo potuto fare l’intervista e parlare di qualsiasi cosa! Che potevo aspettarmi, incastrato tra due anarchici? Ricordo una meravigliosa conversazione con David nel suo studio, dove parlammo a lungo del libro e dei titoli che avremmo potuto dargli, finché David non cominciò a espormi la sua teoria delle libertà perdute, che aveva appena formulato per il suo prossimo libro (The Dawn of Everything: A New History of Humanity, 2021), un po’ come se io avessi dovuto offrire un commento critico (cosa che chiaramente non feci). Non perché io fossi speciale in alcun modo, ma perché, da anarchico e da antropologo, pensava e scriveva con gli altri. Infine parlammo d’attivismo, su cui mi diede alcuni consigli. Da allora cercammo di fissare delle date per l’intervista, ma la pandemia stava scoppiando, l’università stava chiudendo e David mi disse: “l’intervista la facciamo non appena finisce questo casino”. Fu l’ultima volta che lo vidi. Non avrei mai pensato che il casino gli sarebbe sopravvissuto.
Ho conosciuto David Graeber nel 2018, seguendo il suo corso di “Antropologia e Storia Globale” alla London School of Economics, all’inizio di un percorso che mi ha cambiato la vita. L’ho conosciuto per poco e tuttavia non poco, come tanti suoi studenti e compagni, per via della sua irriverente trasparenza e di una curiosità volutamente infantile verso l’altro.
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Razzismo: falsa coscienza della modernità occidentale
di Armando Lancellotti
Alberto Burgio, Critica della ragion razzista, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 272, € 20,00
L’ultimo lavoro di Alberto Burgio, da pochi mesi dato alle stampe, tratta di una materia di studio su cui, da oltre vent’anni a questa parte, il filosofo e docente di storia della filosofia dell’Università di Bologna è ritornato più volte: il razzismo, le sue forme, la sua storia. Il titolo del volume, Critica della ragion razzista, ricalca chiaramente ed opportunamente quelli delle Critiche kantiane, perché l’operazione che l’autore si propone di condurre è l’analisi dei fondamenti, delle condizioni di possibilità e di realizzazione della razionalità che ha prodotto l’ordine del discorso razzista; in altre parole, del razzismo vuole comprendere la genesi, la ragion d’essere e la morfologia.
Sul piano metodologico Burgio, fin dalle prime pagine, mette a fuoco come si renda necessario procedere preliminarmente ad una definizione del concetto di razzismo, che sia in grado di fuggire i limiti di un approccio meramente “storiografico”, che sembrerebbe intendere il razzismo come l’inventario fenomenologico completo delle sue multiformi manifestazioni. Si ripresenta, insomma, l’annosa questione, ben nota da molto tempo alla riflessione epistemologia, del corto circuito tra concetto (“a priori”, “la parola”) e dato empirico (“a posteriori”, “la cosa”); tra la necessità di una preliminare elaborazione concettuale, che guidi l’atto empirico, rendendolo capace di riconoscere “il dato” e l’altrettanto indispensabile e costante confronto con la concreta realtà dei dati d’esperienza (in questo caso le specifiche forme e manifestazioni particolari del razzismo), che diano sostanza e legittimità alla definizione del concetto.
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Perché l’impresa privata ha bisogno dello Stato (e della grande impresa pubblica)
di Thomas Fazi
Che moltissimi imprenditori piccoli e medi vedano oggi lo Stato come un nemico è un dato di fatto. È un sentimento comprensibile, dato che le loro interazioni quotidiane con lo Stato sono fatte perlopiù di tasse e burocrazia. Ma gli imprenditori commettono un errore madornale nell’identificare il nemico nello Stato tout court piuttosto nelle specifiche politiche portate avanti da questo Stato. Per il semplice fatto che, se è vero che oggi lo Stato è causa di molti dei loro mali, è altresì vero che solo lo Stato può risollevare le loro sorti. La soluzione, tuttavia, non consiste – come pensano probabilmente molti imprenditori, che se lo sentono ripetere tutti i giorni da anni dalle veline liberiste che affollano le tribune politiche, nonché da praticamente tutti i partiti politici dell’arco parlamentare – nel “lasciarli lavorare” (o laissez-faire, come direbbero i francesi), cioè in una semplice riduzione dell’opprimente interferenza dello Stato nella vita economica delle imprese. L’idea che le tasse e la burocrazia rappresentino il principale freno dell’economia italiana, e che basterebbe levare queste di mezzo perché le imprese tornino a volare – come ama ripetere Salvini –, è seducente (perché intuitiva) quanto sbagliata.
Ora, è evidente che tutte le imprese beneficerebbero da una riduzione delle tasse e/o da una semplificazione della burocrazia. Questo lo capirebbe anche un bambino. L’errore sta nel considerare queste misure sufficienti per rilanciare l’economia. Basti pensare che, secondo i dati della Banca mondiale, la pressione fiscale sulle imprese negli ultimi otto anni è scesa di ben nove punti, dal 68 al 59 per cento; nello stesso periodo, nella classifica internazionale “Doing Business”, redatta sempre dalla Banca mondiale, che calcola la “facilità di fare impresa”, l’Italia è passata dal 78esimo al 58esimo posto. Qualcuno ha notato grandi balzi in avanti nell’economia nel periodo in questione? Appunto.
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'Next Generation e stop & go dell’Europa'
guest post di Gabriele Pastrello
1. Premessa. Maastricht e il Trilemma di Rodrik
Il trilemma di Rodrik[1] suona: non puoi avere democrazia, globalizzazione e sovranità nazionale tutti assieme. Affermazione che riecheggia il trilemma di Triffin, che non puoi avere contemporaneamente tre opzioni: cambi fissi, movimenti incontrollati di capitali e politiche espansive, ma solo due.[2] Il che rinvia direttamente all’impostazione data dai Trattati di Maastricht al rapporto tra stati nazionali, mercati globali e politiche economiche europee.
Il trilemma di Triffin[3] fu enunciato in riferimento agli accordi di Bretton Woods come anticipazione di un loro finale fallimento, come fu. Ma gli accordi di Maastricht seguono un’impostazione opposta a quelli di Bretton Woods. E se i primi sono storicamente collegati al nome di Keynes i secondi lo sono - anche se in modo meno pubblicamente esplicito - al nome dell’arci-antagonista di Keynes, Friedrich von Hayek. E, di fatto, a questi Trattati si applica maggiormente, come si è visto dopo la crisi del 2008-09 (e anche adesso) il Trilemma di Rodrik.
Quindi, se il Trilemma di Triffin rinvia a Bretton Woods e a Keynes. Il Trilemma di Rodrik rinvia piuttosto ad Hayek e alle sue idee sul federalismo.
2. Hayek & la Teoria Generale. Una recensione in maschera.
Sappiamo che alla base dei Trattati di Maastricht ci fossero idee elaborate da Hayek. L’economista Issing, - che fu tra gli estensori - ne era un seguace e lo dichiara in una conferenza all’Institute of Economic Affairs di Londra.[4]
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La Cattiva Possibilità. Una pagina di Spettri di Marx
di Leo Essen
Alcuni hanno considerato Spetti di Marx il libro più importante scritto nell’ultimo mezzo secolo da un filosofo di primo piano e dedicato a Marx. Altri, soprattutto marxisti, hanno considerato questo libro come l’occasione per un’adesione (sempre che si tratti di adesione) tardiva di Derrida al marxismo, adesione in grado di nobilitare una carriera votata a un nichilismo inconcludente.
Sia come sia questo libro c’è, e bisogna farci i conti. Non basta citarne qualche frase per arricchire una propria uscita con un frammento di un accademico figo. Oppure bollarlo in blocco come un testo farraginoso, esagerato, eccessivo, baracco. Bisogna dedicargli l'attenzione che merita e mostrare la torsione che imprime al marxismo novecentesco, soprattutto alla Moneta e alla Valorizzazione del capitale. Bisogna misurarsi con il «Paradosso dell’iterabilità» - essa (l’iterabilità) fa sì che l’origine debba originariamente ripetersi e alterarsi per valere come origine, cioè per conservarsi (Nome di Benjamin).
L’iterabilità non impedisce una certa sostanzializzazione. Ecco perché occorre stare in guardia contro i suoi pericoli. In più, l’iterabilità che opera nell’origine – o in una cosiddetta accumulazione originaria – non si consuma, ma agisce in ogni atto in cui la moneta o il capitale si pongono ogni volta nuovamente in gioco in uno scambio – e non solo in uno scambio con il lavoro.
In virtù di questa legge della iterabilità, la distinzione - che regge la tesi circuitista - tra Moneta (emessa originariamente dalla banca centrale) e Denaro (usato nelle transazioni ordinarie), perde la sua consistenza.
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La teoria della moneta moderna non aiuta1
di Doug Henwood2
La MMT viene definita dai suoi sostenitori come un nuovo modo radicale di comprendere il denaro e il debito. Ma ci vorrà più di qualche battuta sulla tastiera di un computer per cambiare l'economia
Quando li sogniamo, quando li sogniamo, quando li sogniamo
Li sogneremo, li sogneremo gratuitamente, soldi gratis
soldi gratis, soldi gratis, soldi gratis, soldi gratis, soldi gratis, soldi gratis
— Patti Smith
Ora che le politiche rese famose da Bernie Sanders, come Medicare for All e il college gratuito, e quelle più recenti come il New Deal verde3, stanno penetrando nel mainstream politico, i sostenitori si trovano sempre più di fronte alla domanda: "come li pagheresti?" Sebbene a "questa domanda" ci siano buone risposte che potrebbero anche essere ridotte ad una lunghezza e ad un vocabolario adatti alla TV, non sempre sono fruibili. Persino i socialisti autodefinitisi sembrano avere difficoltà a pronunciare la parola "tasse". Quanto sarebbe bello se si potesse semplicemente respingere la domanda come una distrazione irrilevante?
Esiste opportunamente una dottrina economica che consente di fare proprio questo: la Modern Monetary Theory (MMT). La neoeletta Alexandria Ocasio-Cortez manifesta almeno una certa curiosità per la MMT, e tale teoria è presente in tutti i gruppi di lettura marxisti e nei capitoli dedicati ai Democratic Socialists of America. Si sta diffondendo persino nelle pubblicazioni aziendali: Joe Weisenthal di Bloomberg è un simpatizzante di tale dottrina. James Wilson del New York Times ha twittato recentemente: "La velocità con cui i giovani attivisti sia di sinistra che di destra stanno migrando verso la MMT avrà un profondo effetto sulla politica americana negli anni 2020- 2030".
Mentre gli adepti affermano strenuamente che la MMT è più fine e più complessa di questo, il suo punto di forza principale è che i governi non devono tassare o prendere in prestito per spendere: possono semplicemente creare denaro dal nulla. Basta pigiare alcuni tasti del computer e tutti ricevono un'assicurazione sanitaria, scompare il debito degli studenti e possiamo anche salvare il clima, senza tutto quel caotico conflitto di classe.
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Covid 19. Cavalcare la tigre
Guardare il dito e non la luna
di Giovanna Cracco
Siamo in piena crisi. Il Pil italiano 2020 potrebbe diminuire fino al 9% e il deficit del bilancio pubblico arrivare all'11%. È la fotografia scattata il primo luglio dall'Ufficio parlamentare di Bilancio nel "Rapporto sulla programmazione di bilancio 2020". Numeri che potrebbero peggiorare ulteriormente, avvisa il report, perché si basano sul presupposto di una progressiva ripresa dell'economia senza una seconda ondata Covid 19 in autunno. Il fabbisogno di risorse pubbliche a giugno è stato di 21 miliardi contro i 903 milioni di giugno 2019, arrivando a totalizzare 62 miliardi in più rispetto agli stessi sei mesi dell'anno precedente; denaro che finora il governo ha raccolto emettendo nuovi titoli di Stato, dunque aumentando il debito pubblico - che si prevede possa superare il 160% del Pil.
Sul fronte europeo, sempre il primo luglio i tecnici della Commissione dichiarano che al più tardi nella primavera 2021 si dovranno fornire indicazioni sui tempi e sulle condizioni per il ritorno a una piena applicazione, o la revisione, del Patto di Stabilità e Crescita, sospeso a marzo scorso (il Fiscal compact, che prevede un deficit massimo al 3% e una riduzione progressiva del debito pubblico fino ad arrivare a un rapporto con il Pil del 60%); il vicepresidente della Commissione Dombrovskis conferma che la questione sarà affrontata in autunno o in primavera.
In questo contesto si sta consumando il dibattito politico italiano sul MES (Meccanismo europeo di Stabilità) e sul Recovery Fund. Se il primo scatena un confronto - utilizzarlo sì/no, prevede condizionalità sì/no -il secondo trova tutti d'accordo: è finalmente la risposta della Ue che si aspettava, strutturata su sovvenzioni a fondo perduto e prestiti e, una volta trovato il compromesso tra i 27 Paesi, non c'è alcun motivo per non aderire, anzi.
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Referendum costituzionale tra normalizzazione del vincolo esterno ed efficienza... nella riduzione del PIL
di Arturo*
Come sapete, il 20 e 21 settembre si svolgerà un referendum confermativo ex art. 138 della Costituzione sulla legge costituzionale concernente "Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari".
Posto che votare è un dovere civico (art. 48 Cost.), vi ricordo che non c’è quorum, quindi l’astensione è irrilevante ai fini del risultato.
Credo possa essere interessante un esame molto semplice ma – speriamo – preciso degli argomenti pro e contro più direttamente attinenti al taglio del blog (per gli altri, vi rimando all’articolo della Algostino linkato al n. 5), alla luce di un approccio alla Costituzione che intenda “prenderla sul serio”, come dice Dworkin.
1. In primo luogo un riferimento temporale: come si legge su Wikipedia, fu dagli anni Settanta che cominciò ad essere agitato l’auspicio di una riduzione del numero dei parlamentari. Difficile non lasciar correre il pensiero al paradigma della governabilità lanciato dalla Trilaterale (qui, addendum) e da allora dominante nei salotti, buoni o meno buoni che siano.
Questo scambio in Costituente fra Einaudi, ovviamente favorevole alla riduzione, e Terracini tende ad avvalorare molto i sospetti circa la matrice antidemocratica, e specificamente neo-liberale, del provvedimento oggetto del referendum:
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Vaccino: di obbligatorio vi siano sicurezza, efficacia ed equità
di Luca Savarino, Guido Forni, Paolo Vineis
Sono oltre una dozzina i vaccini contro Covid-19 su cui i i ricercatori stanno attualmente lavorando: in quest'articolo, Luca Savarino (Università del Piemonte Orientale), Guido Forni (Accademia Nazionale dei Lincei) e Paolo Vineis (Imperial College) fanno il punto sulle loro caratteristiche, ma anche sugli effetti che la "corsa al vaccino" ha avuto sui tempi e le fasi della sperimentazione in diversi Paesi del mondo, per concludere con alcune importanti considerazioni etiche sull'eventualità di un obbligo vaccinale.
Al momento attuale, oltre una dozzina di vaccini contro il virus SARS-CoV-2 sono in sperimentazione sull’uomo. Solo pochi tra questi sono stati preparati seguendo tecnologie “tradizionali”, già ben collaudate con numerosi altri vaccini, cioè partendo dal virus che viene reso incapace di riprodursi (inattivato) o che è in grado di causare solo una malattia molto lieve (attenuato). La sperimentazione sui vaccini tradizionali di questo tipo è portata avanti principalmente da alcuni enti di ricerca in Cina e in India.
Al contrario, la maggior parte dei vaccini messi a punto per prevenire la Covid-19 sono creati utilizzando sequenze di RNA o di DNA che codificano parti del virus SARS-CoV-2 (WHO, 2020). In certi casi, la sequenza di RNA viene introdotta all’interno di una piccolissima vescicola lipidica (tecnicamente, dentro un liposoma) oppure dentro all’involucro di virus (adenovirus, virus del morbillo, virus della stomatite vescicolare…). Una volta inoculati in un essere umano, questi involucri permettono alla sequenza di RNA di entrare nelle cellule che, sulla base dell’informazione contenuta nell’RNA, producono la proteina verso cui si intende vaccinare (Callaway, 2020).
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La crisi smascherata. Reportage dalla piazza No Mask
di Julia Page
Reportage dalla manifestazione No Mask tenuta a Roma il 5 settembre
0. Una doverosa premessa
Da qualche tempo sembrerebbe essere tornato in voga un vecchio adagio, per cui bisognerebbe «fare quel che si dice, dire quel che si fa». Fedeli a questo assunto, abbiamo pensato che convenire sull’avvento di una nuova composizione di riferimento – le famose piazze «spurie», che sempre di più trovano la loro genesi nel declassamento e nella conseguente crisi di mediazione del cosiddetto ceto medio – per poi etichettare a priori (leggi: senza nemmeno avventurarsi in una di queste piazze) i movimenti in ascesa come «imbecilli», «pazzi» o «reazionari», sarebbe da considerare un’operazione se non problematica, quantomeno inutile.
Per questo, sabato siamo andati a vedere con i nostri occhi la famigerata piazza dei «No Mask», certi del fatto che solo lo sguardo inchiestante possa davvero osservare il presente per tracciare linee di ragionamento scevre da due rischi opposti ma speculari: da un lato, appunto, quello di liquidare ogni momento di piazza che esuli dai nostri rigidi (e ormai ristrettissimi) confini come ontologicamente «reazionario» – magari basandoci solo sulle testimonianze del Gruppo L’Espresso o del Partito di Repubblica, oppure sulle dirette Facebook degli interventi dal palco, dimenticando invece che l’importanza delle piazze, anche nostre, sta, in genere, lontano dai riflettori. Dall’altro lato, invece, sta il rischio di trasformare in feticci cose che non stanno né in cielo né in terra: dire che le piazze di oggi e di domani saranno «spurie» (come se poi ci fossero mai state delle piazze – rilevanti – «pure») non vuol dire esaltare e innalzare a emblema dell’imminente rivolta dei soggetti che vanno in giro vestiti come un Gesù blasfemo che brucia la foto del Papa o quelli che naufragano al largo di Ustica alla ricerca della fine della terra (chiaramente, considerata piatta).
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“Il progetto e la sponda”
Dalla distruzione delle istanze collettive alla distruzione del soggetto
di Elisabetta Teghil
<Dire fare baciare lettera testamento…>
Filastrocca per un gioco infantile
Vi ricordate questo gioco infantile? Era basato sulle penitenze. Il malcapitato/a doveva pagare pegno e sottostare a delle penitenze che suo malgrado era lui/lei stesso/a a scegliere. Ad occhi chiusi doveva toccare la mano di un compagno/a scegliendo un dito: le cinque dita della mano corrispondevano a dire, fare, baciare, lettera, testamento e ad una relativa penitenza ed era veramente difficile dire quale fosse la peggiore.
Con riferimento alla situazione politica, economica, sociale e personale, gli italiani non sanno quale dito scegliere, qualunque sia la loro scelta pagheranno pesantemente. E non solo gli italiani/e, parliamo del nostro paese solo per semplicità di riferimenti e perché siamo qui.
Il neoliberismo si è caratterizzato per la distruzione delle istanze e delle strutture collettive, per la destituzione di partiti, sindacati, forme politiche organizzate, delle stesse istituzioni rappresentative delle nostre democrazie occidentali diventate democrazie autoritarie e democrazie di mercato in cui l’uno e l’altro aspetto non sono in contraddizione bensì due facce della stessa medaglia. Le grandi raffigurazioni politiche ma anche sociali ma anche religiose che costituivano nei secoli passati il riferimento in cui la persona poteva ritrovarsi e costituirsi sono state smontate in nome dell’autonomia del soggetto a cui è stato imposto il farsi da sé in una costruzione personale che viene propagandata come il massimo della libertà di scelta, di azione, di realizzazione. Si sperimenta così una nuova condizione soggettiva della quale però nessuno possiede le chiavi di interpretazione, tanto meno le nuove generazioni a cui è stata negata perfino la conoscenza e l’esperienza del passato recente.
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Le catene globali del valore dopo la pandemia
di Andrea Muratore
“Attraverso le infrastrutture di comunicazione siamo riusciti ad accelerare (e quindi a trasformare qualitativamente) dei fenomeni che prima mettevano millenni ad accadere. Pensiamo al virus del morbillo: non era altro che una mutazione della peste bovina che si è trasmessa all’essere umano quando abbiamo iniziato ad addomesticare la mucca. Il morbillo ha invaso il mondo camminando, a piedi. Pensiamo all’influenza spagnola, che un secolo fa ci ha messo ben due anni per diffondersi. Questa volta invece sono bastate un paio di settimane”: quanto dichiarato alla rivista francese Le Grand Continent da una scienziata di valore come Ilaria Capua in riferimento all’esplosività della diffusione globale del coronavirus[1] si può traslare alla discussione sulle conseguenze economiche del Covid-19[2].
Il virus, prima ancora che creare ex novo fattori di instabilità nell’economia, accelera e complica le tendenze già esistenti, funge da elemento di cesura. Per alcune settimane, la globalizzazione ha preso due strade divergenti. Da un lato, è accelerata nella sua componente immateriale, con le piattaforme tecnologiche, i social network e le aziende specializzate nell’elaborazione dati e nelle discipline più innovative[3] che hanno lavorato a pieno regime acquisendo ulteriore centralità nei sistemi produttivi. Dall’altro si è gradualmente paralizzata[4] sul fronte dei commerci internazionali e della produzione industriale, facendo emergere come preponderante il tema della gestione delle catene del valore.
Le catene del valore “globali” saranno al centro di numerosi discorsi di tema politico ed economico nella fase post-pandemica[5]: e anche qui notiamo come non ci si trovi di fronte a nuovi scenari aperti dalla pandemia, ma a un’accelerazione dettata dall’impatto del virus sugli equilibri globali.
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Come dominare il nostro futuro digitale
di Alessandro Visalli
Andrew McAfee, Erik Brynjolfsson: “La macchina e la folla. Come dominare il nostro futuro digitale”, Feltrinelli, 2020
Il libro di McAfee e Brynjolfsson[1] è stato pubblicato nel 2017 e segue di tre anni il best seller di cui abbiamo già parlato[2], “La nuova rivoluzione delle macchine”[3]. Ne è in qualche modo un aggiornamento. Se il testo del 2014 impostava il suo discorso sulla base di una sorta di determinismo tecnologico (le tendenze economiche e sociali, per esse l’ineguaglianza di cui in quegli anni si parla molto[4], sarebbero determinate dall’evoluzione tecnologica, anziché, ad esempio, dalla stagnazione secolare derivante da deficit di domanda e dinamiche demografiche[5], o da dinamiche del sovraindebitamento[6]), in questo segue implicitamente la stessa strada e ne esplora le conseguenze più recenti. In modo ancora più pronunciato, in questo testo gli autori prendono posizione per l’esaltazione, sopra ogni rischio tecnologico di disintermediazione del lavoro e della mente umana, della “genialità del libero mercato” e per la sua capacità di “inventare” soluzioni ai problemi che esso stesso crea.
Siamo da tempo in una sorta di compromesso sociale, fondato su un consenso che si ripresenta spesso anche in forme apparentemente imprevedibili[7], che fa leva sul consumo anziché sull’integrazione sociale ed il lavoro. A causa di questa condizione l’insieme di determinanti e di nessi nei quali siamo immersi erode costantemente le condizioni della riproduzione della vita e rende instabili le nostre società. La lettura di libri come quello di Brynjolfsson e McAfee aiuta a focalizzare una delle più potenti di queste determinanti: la tecnologia (informatica, Ia, meccanizzazione/automazione) e le nuove modalità di comunicazione, creazione, distribuzione ed accumulo di informazione. E, precisamente, consente di misurare il grado di spiazzamento (in rapidità e magnitudine) del lavoro in tutte le sue dimensioni.
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Sdoppiamento
di Giorgio Galli
Pubblichiamo l’introduzione di Giorgio Galli, intitolata “Sdoppiamento” al libro di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli “Il prometeismo sdoppiato: Nietzsche o Marx?” che uscirà a novembre con la casa editrice Aurora
Gli elaboratori della teoria dello sdoppiamento, che l’hanno utilizzata per una originale interpretazione della successione dei modi produzione, si impegnano, in questo libro, ad applicarla ad una ricostruzione storica che, appunto, a quella basata sul succedersi dei modi di produzione, può efficacemente accompagnarsi, ma che presenta forti tratti di novità. Il succedersi millenario dei modi di produzione, sino all’odierno capitalismo globalizzato delle multinazionali, ha costantemente dato luogo a società nelle quali gruppi privilegiati sfruttavano maggioranze sottomesse e talvolta ribelli, con relative contese (la marxiana lotta di classe): è quella che nella teoria dello sdoppiamento viene definita linea nera, la società classista fondata sullo sfruttamento, nella quale però coesisteva, pur molto minoritaria, una linea rossa del collettivismo egualitario.
Mentre questa linea interpretativa, a mio avviso un arricchimento di quella marxista, è occasione di ulteriori approfondimenti, i suoi autori propongono un secondo sdoppiamento, questa volta a livello culturale e, quindi, marxisticamente, sovrastrutturale livello che definiscono prometeico, del quale danno questa iniziale definizione: “Una complessa e contradditoria corrente culturale e politica che risale all’era paleolitica e che ha accumulato quasi tremila anni di storia scritta in Europa, che ai nostri giorni si materializza anche nelle avanzate scoperte scientifiche sul potenziamento genetico della nostra specie, col processo di sdoppiamento verificatosi sin dalle origini fra la corrente fraterno-cooperativa e quella del titanismo elitario-classista”: anche a questo livello, dunque, una linea nera prevalente e una linea rossa minoritaria, che hanno ritmato lo sviluppo umano per ben trentamila anni”. In precedenza, come detto, la tesi era stata avanzata a livello economico in due libri dell’editrice Aurora, “Microsoft o Linux?” e “Effetto di sdoppiamento, il ‘paradosso di Lenin’ e la politica struttura”, quest’ultimo con mio intervento al quale voglio aggiungere qualche considerazione circa “Microsoft o Linux?”.
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Covid fase attuale. Lettere aperte di medici, scuole usa&getta, allarmi, ricorsi, speranze africane
di Alba Tecla Bosco
La confusione continua a essere grande sotto il cielo e lo sarà anche nella nebbia d’autunno. I politici italiani amano ripetere che con le loro misure di contrasto al Covid-19 si stanno scrivendo pagine di storia. Del resto, fin dall’inizio della pandemia, governi, media, addetti ai lavori hanno parlato di guerra, linee del fronte, armi, nemico unico, eroi. Dopo molti mesi la narrazione rimane invariata. Tuttavia c’è chi si fa domande
L’educazione usa e getta
Rigorosamente monouso dovranno essere le montagne di mascherine che si useranno in classe. Il 1 settembre così ha deciso il Comitato tecnico scientifico (Cts) di nomina governativa che detta le linee anti-Covid agli italiani. Niente mascherine cosiddette di comunità di stoffa, lavabili e riutilizzabili (e meno che mai autoprodotte), pur ammesse dai Dpcm dei mesi scorsi. Ogni mattina, senza creare assembramenti per carità, le monouso saranno distribuite a tutti. Undici milioni al giorno, ha annunciato il commissario al Covid Domenico Arcuri. E insieme, 170.000 litri di gel igienizzante x le mani a settimana (https://www.orizzontescuola.it/ritorno-in-classe-arcuri-saranno-distribuiti-11-milioni-di-mascherine-al-giorno-e-170-mila-litri-di-gel-igienizzante-a-settimana/).
Anche a non voler contestare l’utilità sanitaria e l’accettabilità psico-pedagogica dei dispositivi in ambiente scolastico, rimane il loro onere ambientale. Non solo mascherine, non solo gel, non solo «sanificazione» a gogò. Dalle scuole usciranno verso la rottamazione tre milioni di banchi, sostituiti dai nuovi arrivi: quelli a rotelle per il tablet, e gli altri monoposto. Usciranno anche un numero difficilmente quantificabile di piatti e stoviglie di plastica, visto che (https://www.peopleforplanet.it/scuola-post-covid-e-pasti-monoporzioni-in-mensa-ce-chi-dice-no/), come denuncia la petizione di Foodinsider.it con Food Watcher e MenoPerPiù, il ministero dell’istruzione indica il lunch box e le monoporzioni come una soluzione per consumare il pasto in classe uno dei possibili scenari della mensa scolastica antiCovid che si prefigura è questo: pasti in monoporzioni di plastica sigillate e menù semplificati stile fast food. Un disastro i contenitori, un disastro il contenuto.
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Che fare nella crisi?
Ascanio Bernardeschi intervista Alan Freeman
La crisi del capitalismo ha come cause la questione ecologica, la natura dell’accumulazione capitalistica e le crescenti diseguaglianze fra nazioni. L’immissione di liquidità non può risolvere questi problemi. Serve il ritorno del protagonismo delle classi lavoratrici e una politica estera indipendente
Alan Freeman, uno dei principali economisti della Greater London Authority ai tempi di Ken Livingstone, è stato docente universitario ed è uno dei massimi esponenti della scuola del Temporary Single System Interpretation (TSSI). Ha pubblicato, come autore e curatore, diversi libri sulla teoria del valore di Marx. Attualmente è condirettore del Geopolitical Economy Research Group e anche in tale veste è autore di diversi libri sui cambiamenti che stanno intervenendo a livello geopolitico. Le sue pubblicazioni si possono trovare qui.
Dopo l’intervista a Domenico Moro, continuiamo con Alan, che ringraziamo per la disponibilità, le nostre interviste a economisti e lavoratori militanti sulla situazione che si va affermando a seguito della pandemia che ha investito il modo e soprattutto i paesi a conduzione liberista, molto più impreparati ad affrontare l’emergenza sanitaria.
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Domanda (D). Alan, la pandemia da Covid-19 ha senz’altro fatto da detonatore della crisi economica e l’ha inasprita. Noi riteniamo però che essa sia intervenuta in un momento già critico per l’economia mondiale e che pertanto non possa essere considerata l’unica responsabile dei problemi economici che stiamo vivendo. Per te qual è la natura di questa crisi?
Risposta (R). Tutte le crisi sono la conseguenza di una combinazione di cause. Il problema non è di utilizzare questo fatto ovvio in una maniera facile e superficiale per evitare decisioni difficili, come fanno molti commentatori, ma, per poter agire, di identificare in ciascuna crisi particolare quali cause particolari operano.
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