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Lukashenko “come Videla”
Il grande blob: odio, paura, menzogna
di Fulvio Grimaldi
Rivoluzioni colorate, la pandemia vera
Ogni volta che ti trovi dalla parte della maggioranza, è il momento di fermarsi e riflettere”. (Mark Twain)
Cercate su Google un’immagine dei 65mila (3000 per i nostri media) che l’altro giorno hanno manifestato per Lukashenko inalberando bandiere rossoverdi (quelle sovietiche). A fatica ne troverete una. Ma ne troverete tantissime con le bandiere biancorosse, quelle del dopo-URSS, di altre migliaia di manifestanti (milioni per i nostri media). Quelle pro-USA e pro-UE. Le uniche viste sui giornali e in tv. E’ la stampa, bellezza.
Badanti
Finora non se n’erano mai viste. A pulire le terga degli anziani non autonomi, a stramazzarsi a lavare scale e cantine, a spingere carrozzelle con vecchi e disabili, a procurare e procurarsi documenti fino alle sevizie e all’esaurimento nervoso, a essere imputati di untorame slavo da Coronavirus, a farsi pagare cinque euro/ora per spazzare una casa da cima a fondo, o svellere uva dai tralci, ad avere come unico momento di tregua e di socialità, in mancanza di figli o dei vecchi rimasti in patria, la panchina al parco con le sorelle della deportazione, ci avevamo le moldave, le ucraine, le bulgare, le rumene, le polacche, qualche russa. Se va male, per strada, a volte nelle “case”.
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Introduzione a Ian Angus: Anthropocene
di Giuseppe Sottile
GMO are an ‘invention’ of corporations, and therefore can be patented and owned.
Ana Isla
Nature, too, awaits the revolution
Herbert Marcuse
Il libro di Ian Angus è stato pubblicato nel 2016. Da allora si sono avute novità e conferme. Il 21 maggio dello scorso anno, l’Anthropocene Working Group ha formalizzato la proposta di considerare quella in cui viviamo una nuova epoca successiva all’Olocene, definita Anthropocene, il cui inizio viene datato a partire dalla metà del secolo scorso, con quella che è stata definita la «Grande accelerazione». Adesso si attende il parere di altri organismi.ii L’AWG individua questa nuova realtà cronostratigrafica in una serie di fenomeni imputabili alle recenti attività umane, che consentono di paragonare “l’umanità” ad una potente e distruttiva forza geologica.
Fondamentali cicli naturali sono stati compromessi a causa dei processi di industrializzazione ed urbanizzazione per come li abbiamo conosciuti e delle attività militari in campo nucleare, cosa che ha procurato il riscaldamento globale a cui stiamo assistendo, nonché una generale devastazione del pianeta; e molti di questi cambiamenti sembra persisteranno per millenni. La più importante traccia (primary marker) che segnala lo spartiacque tra le due epoche geologiche viene individuata nella presenza di radionuclidi dovuta alle esplosioni nucleari, che al ritmo di una ogni 9,6 giorni hanno caratterizzato il Secondo dopoguerra dal 1945 al 1988.
Intanto, vasti incendi hanno interessato la Russia, la California, l’Amazzonia e di recente in misura ancora più drammatica l’Australia, e inondazioni il Sud-Est asiatico. Circa dieci milioni di ettari di vegetazione scomparsi a causa degli incendi e si stimano un miliardo di animali morti nella sola Australia. In fondo, tutto come niente fosse.
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Cambio di paradigma, ad alto rischio
di Dante Barontini
In calce l'intervista di Tatiana Santi a Guido Salerno Aletta
Sollevare lo sguardo dal flusso impazzito delle news ora per ora; individuare una logica, o una tendenza, nel mare magnum senza coordinate stabili; capire dove stiamo andando per vedere se è possibile cambiare direzione prima che sia troppo tardi.
Lo sforzo informativo e analitico che facciamo ogni giorno è spesso superiore alle nostre forze, e dunque siamo abituati ad “aiutarci” con il meglio che troviamo in giro. E’ la ragione per cui pubblichiamo spunti e contributi che ci sembrano importanti, spiegando il legame che vi rintracciamo con quanto andiamo analizzando.
Questa intervista di Sputnik news – sì, sono russi, e allora? – a Guido Salerno Aletta, editorialista autorevole di testate come Milano Finanza e TeleBorsa, fornisce un altro tassello.
Diciamo subito le cose per noi rilevanti, che sottolineiamo in corsivo e grassetto anche nel testo dell’intervista.
In primo luogo il raffronto con l’altra grande crisi di “paradigma”, ossia la crisi petrolifera del 1973. Anche allora un evento geopolitico ed economico di grande dimensione – l’aumento shock del prezzo del greggio, anche fino al triplo – portò a politiche di “austerity” e divieti di ampia portata sulla vita quotidiana dei cittadini.
In quel caso, il “fatto economico” si accompagnava ad una guerra potenzialmente pericolosa (la “guerra del kippur”, tra Siria ed Egitto contro Israele) per gli equilibri mondiali congelati dal bipolarismo Usa-Urss.
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Sul concetto di formazione economico-sociale in Marx
Parte II. L'interpretazione sovietica e althusseriana
di Bollettino Culturale
Qui la Parte I
L'interpretazione sovietica
Durante i decenni che ci interessano ai fini di questo lavoro, la partecipazione di questa matrice interpretativa attorno alla definizione del concetto di formazione economico-sociale avviene in due forme, ma in entrambe resta una concezione specifica, ereditata dal periodo antecedente gli anni ‘50: i rapporti di produzione costituiscono l'elemento di discernimento sia del modo di produzione, sia della formazione economico-sociale, che si definisce dalla coesistenza dei rapporti di produzione con le “sovrastrutture politico-ideologiche”.
Vediamo, inizialmente, come avviene questa costruzione nei manuali di economia politica del periodo indicato, come è il caso di Nikitin, e poi analizzeremo l’analisi fornita da Oskar Lange.
Partendo dalla definizione di economia politica marxista-leninista come scienza che studia le leggi che governano lo sviluppo della società, Nikitin afferma che il movimento e il progresso delle società umane devono essere compresi dalla produzione di beni materiali, come base della vita sociale. La produzione dei beni materiali avviene nell'ambito di un certo processo produttivo che contiene necessariamente il lavoro dell'uomo, i mezzi di lavoro e l'oggetto su cui lavorare. In questo modo, “in qualsiasi fase di sviluppo che si incontra, la produzione ha sempre avuto i seguenti aspetti: le forze produttive e i rapporti di produzione”.
Ecco i due concetti fondamentali per la concezione sovietica dello sviluppo delle società e, di conseguenza, dei modi di produzione e delle formazioni economico-sociali. Le forze produttive sono intese come mezzi di produzione e strumenti di lavoro prodotti nella società e, inoltre, dagli uomini che hanno prodotto questi beni materiali.
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La storia della terza rivoluzione industriale*
6-L’illusione della società dei servizi
di Robert Kurz
Sesto capitolo della sezione VIII dello Schwarzbuch Kapitalismus (“Il libro nero del capitalismo”) di Robert Kurz
Naturalmente le elite funzionali del capitalismo si rendono conto, o quanto meno hanno sentore del fatto che, prima o poi, si arriverà alla fine della corsa. Se non si verificherà al più presto una nuova avanzata della crescita e dell’occupazione su scala globale accadrà ciò che sembrava già incombere drammaticamente, su di uno stadio di sviluppo assai inferiore, durante la prima parte del XIX secolo: lo sgretolamento della società capitalistica, ostinatamente attaccata alla sua forma, nelle guerre civili e negli stati di assedio permanenti, nel terrore e nella follia. Il discorso della «tolleranza zero» è già un sintomo della crescente paura da parte delle elite, che potrebbero perdere completamente il controllo della situazione. Ma poiché, com’è logico, la violenza in uniforme, nuovi campi di correzione e di lavoro non possono generare da soli una nuova accumulazione di capitale, bisogna comunque insistere con la claudicante promessa di un miglioramento economico, anche se quest’ultima sembra essere ormai del tutto insussistente.
La scomparsa definitiva del miracolo economico industriale è ormai un fatto universalmente noto. Nessuno parla più della teoria delle «onde lunghe», un tempo il paradigma della crescita industriale. Conformemente alla tesi della «disoccupazione naturale» di Milton Friedman, esiste oggi un consenso generale fra economisti e consulenti aziendali circa il fatto che la «piena occupazione» non tornerà mai più. Ma per «gestire», in un modo nell’altro, il sistema globale capitalistico nel suo processo di crisi occorre trovare, costi quel che costi, un nuovo settore di crescita per l’«occupazione» per arrestare l’incessante processo di liquefazione almeno in una parte relativamente considerevole dei settori industriali.
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Beirut come Belgrado, Kiev, Teheran, Bengasi, Damasco
Minsk come Caracas, Roma come allora. Anzi, peggio
di Fulvio Grimaldi
I “comunisti” neocon del Terzo Millennio e i loro “rivoluzionari”
In prima pagina, con esaltata gigantografia, titolo e occhiello che un giornale, con la tracotanza di chiamarsi “quotidiano comunista”, dovrebbe dedicare all’ottobre 1917 di Leningrado, al luglio 1789 di Parigi, al gennaio 1959 dell’Avana. E, invece, confermandosi organetto dei neocon globali, sussidiato da pubblicità turbocapitaliste e, indecentemente, da cittadini ignari depredati per questo scopo dallo Stato, celebra in tal modo il contrario di quanto chiedevano le lotte di massa in quegli eventi emancipatori.
Le rivolte in cui il giornale, peggio mimetizzato da indipendente, o di sinistra, si riconosce sono altre. Tutte di destra estrema. Quelle i cui fili dipartono dalla Vedova Nera, il mostro letale che fa tessere la sua tela a Langley, Wall Street, Pentagono, Bilderberg, Davos. Parliamo dei “rivoluzionari libici”, così omaggiati da Rossana Rossanda, dei vari “colorati” alla Otpor, dei “ribelli democratici” di Hong Kong o Portland, di “Black Lives Matter”, Me TooI e affini. E, si parva licet, delle nostrane Sardine, anch’esse fasulle e dunque di vita brevissima, rispetto a quella dei nobili pesci di cui avevano usurpato il nome.
Il modo più facile per riconoscerli è l’uniformità degli slogan, l’attrezzatura logistica omogenea e immediata, la violenza estrema e indistinta nella ricerca del caos, lo sfruttamento di rivendicazioni popolari mutate, su ordine della Cupola, in regime change attraverso il depistaggio su obiettivi che i militari chiamano “falsi scopi”. Immancabili il plauso unanime di tutta la propaganda finto-giornalistica del globalismo, il finanziamento da centrali occulte, ma per niente oscure, tipo Open Society di Soros, Fondazione Ford, Fondazione Rockefeller, National Endowment for Democracy e tante altre.
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Femminismo anticapitalista?
Elementi di una critica del femminismo II*
di Marino Badiale
I. Introduzione
Questo scritto parte dalla convinzione della fine relativamente vicina dell’attuale organizzazione economica e sociale, che a partire dal 1989 si è estesa al mondo intero [1]. Il collasso di questa forma sociale, il capitalismo, dipende dal fatto che essa è entrata in una fase di totale distruttività: sta ormai divorando natura e società, distruggendo in tal modo i fondamenti stessi della propria esistenza.
Se questo dato di fatto è già piuttosto preoccupante, ciò che veramente spaventa è rendersi conto della sostanziale assenza di ogni forma di opposizione o di resistenza al suicidio collettivo verso il quale il capitalismo sta portando l’umanità. Ciò dipende sicuramente da molti fattori, ma credo che uno di questi sia il fatto che chi arriva oggi a sviluppare, in un modo o nell’altro, una coscienza critica anticapitalistica, lo fa attraverso una serie di mediazioni culturali che sono in realtà completamente inadatte a costruire una resistenza effettiva. Anche qui, il discorso per essere completo dovrebbe toccare molti temi (di alcuni ho discusso recentemente [2]). Uno di questi è sicuramente la predominanza, all’interno delle minoranze anticapitalistiche, delle tesi del “politicamente corretto”. Nel breve spazio di questo scritto mi concentrerò su un punto specifico, quello del femminismo, e discuterò l’idea, molto radicata nelle piccole cerchie anticapitalistiche, che il femminismo debba essere parte essenziale di ogni progetto di superamento del capitalismo. Intendo quindi discutere le relazioni fra femminismo e anticapitalismo, e intendo criticare la tesi appena esposta.
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Bielorussia: un futuro complesso tra due imperialismi in lotta tra loro
di Redazione
Le elezioni in Bielorussia hanno portato alla riconferma per la sesta volta consecutiva del presidente uscente Aleksandr Lukašenko, rieletto con l’80,23% dei voti.
È opportuno precisare subito che il presidente bielorusso non è un comunista, ma un “paternalista autoritario”, fautore di “un’economia di mercato socialmente orientata”. Nel 1994, anno della sua prima elezione, basò la sua campagna elettorale su un programma di lotta alla corruzione dilagante negli apparati statali e di introduzione di riforme di mercato e di privatizzazioni meno selvagge che nelle altre repubbliche ex-sovietiche.
Successivamente ha più volte ribadito la necessità di favorire e accelerare la destatalizzazione dell’economia, pur mantenendo il controllo pubblico dei grandi monopoli strategici, organizzati in forma di società per azioni, cioè di imprese capitalistiche, in cui lo stato viene ad assumere il ruolo di “capitalista collettivo”: una cosa ben diversa dalla proprietà socialista. Non stiamo parlando, quindi, di un’economia socialista pianificata, ma di un tipo di gestione della restaurazione dell’economia di mercato in maniera meno selvaggia che altrove. Un capitalismo di stato che, tuttavia, ha permesso alla Bielorussia di ottenere una buona performance economica, con la disoccupazione allo 0,5% (percentuale ben più bassa che negli USA e in tutti gli stati europei), il PIL pro capite più alto tra tutte le repubbliche ex-sovietiche, un apparato produttivo solido e funzionante per il 50% ancora nelle mani dello stato, un welfare molto più sviluppato che in altri paesi, una sanità efficiente ereditata dall’Unione Sovietica e un tenore di vita discretamente elevato. Sono queste le ragioni del relativo consenso di cui gode Lukašenko tra la popolazione.
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Sul concetto di formazione economico-sociale in Marx
Parte I. Il dibattito marxista fino agli anni '50
di Bollettino Culturale
Sfortunatamente Marx non espose formalmente cosa intendeva con il concetto di formazione economico-sociale. Marx utilizza alcune derivazioni per questa nozione, come la formazione sociale, la formazione della società, le forme economiche, ecc., derivazioni che seguono il processo di maturazione della teoria di Marx. Tuttavia, in due occasioni, secondo Sereni, Marx utilizza il concetto di formazione economica della società (Ökonomische Gesellschaftsformation), la cui nozione si avvicina alla concezione attribuita successivamente dagli autori marxisti alla formazione economico-sociale. Dovrebbe essere chiaro che l'obiettivo di questo scritto non è ricomporre il concetto di formazione economico-sociale in Marx, ma piuttosto rivedere il dibattito più recente attorno a questo concetto. A questo punto, è interessante evidenziare in Marx i due contesti in cui sono stati utilizzati tali concetti preliminari, lasciando così una base per il dibattito che svilupperemo intorno all'obiettivo che proponiamo.
Nella Prefazione per la critica dell'economia politica, pubblicata originariamente nel gennaio 1859, Marx fa una retrospettiva della sua formazione politico-intellettuale dove espone il risultato generale dei suoi studi in una sintesi chiara e astratta di dialettica dei rapporti di produzione e sviluppo delle forze produttive dalla concezione materialistica della storia. Dopo aver distinto, nella trasformazione materiale del processo storico, il movimento delle condizioni economiche di produzione dalle forme ideologiche, Marx sviluppa dialetticamente questo movimento, esponendone le implicazioni per società specifiche, dove sottolinea:
“Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza.
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Libano: il collasso del neo-liberalismo e la prima tappa della nuova guerra fredda
di Rete Dei Comunisti
Lunedì 10 agosto il governo libanese si è dimesso a fine giornata, sei giorni dopo l’esplosione che ha devastato il porto ed il centro di Beirut ed al terzo giorno consecutivo di proteste popolari.
L’esecutivo uscente con a capo Hassan Diab era in carica da gennaio dopo le dimissioni di Saad Hariri lo scorso ottobre che erano state provocate da inedite mobilitazioni popolari per la storia recente del Libano.
Lo scorso sabato il premier nel tardo pomeriggio aveva promesso che lunedì avrebbe chiesto “elezioni anticipate”, chiarendo che sarebbe potuto rimanere in carica “per due mesi” cioè il tempo necessario affinché le forze politiche si fossero accordate per tale fine.
Ma l’effetto domino delle dimissioni “a catena” di vari ministri, la pressione popolare e le non poche interferenze straniere hanno spinto per la scelta delle dimissioni “in toto”, aprendo una fase di “vuoto politico” in una situazione sull’orlo della bancarotta economica e con classe dirigente delegittimata.
Per comprendere la situazione che si sta sviluppando nel “Paese dei Cedri” è indispensabile capire come questa sia diretta conseguenza di un modello di sviluppo al capolinea, di un sistema politico che ha portato il Libano ad essere uno “Stato Fallito”, con il concorso dell’Occidente così come delle petrol-monarchie del Golfo.
Il sistema politico di stampo confessionale sostanzialmente tuttora vigente sorto dopo la Seconda Guerra mondiale sulle ceneri del colonialismo francese, è stato costruito più in una logica di spartizione di potere tra notabili delle comunità principali, piuttosto che sulla necessità di dare rappresentanza a tutte le componenti della popolazione del complesso mosaico etnico-confessionale.
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Pensare l'antropocene per evitare la catastrofe
di Roberto Paura
Fino a qualche anno fa, il termine “Antropocene” era noto solo tra i circoli degli addetti ai lavori: geologi, climatologi, ambientalisti e pochi altri. Oggi, questa parola complicata che si basa su due termini greci (anthropos e kainos) è entrata nel linguaggio comune con molta più facilita e velocità di quanto chiunque avrebbe osato sperare. Google sforna 730.000 risultati correlati ad Antropocene (in italiano), ci sono almeno diciassette volumi in italiano che usano questo termine nel titolo, un album della band Il rumore bianco e il docufilm Antropocene. L’epoca umana, girato da Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier con l’abbagliante fotografia di Edward Burtynsky e, per l’Italia (disponibile in Dvd, Blu Ray e Digitale grazie a CG Entertainment), l’ipnotica voce narrante di Alba Rohrwacher, nell’originale affidata ad Alicia Vikander, nota soprattutto per la sua apparizione in The Danish Girl di Tom Hopper, che le valse nel 2016 l’Oscar come miglior attrice non protagonista. Il documentario ci porta in diverse parti del mondo per mostrarci la realtà del concetto di Antropocene, secondo cui, a partire da un certo momento storico (sulla cui datazione gli studiosi si interrogano ancora, ma probabilmente dall’inizio della rivoluzione industriale) l’umanità è diventata la principale forza di cambiamento su scala geologica nel pianeta, superiore a tutti gli altri fenomeni naturali.
La fortuna di questo termine sta nel fatto che offre una visione nuova del problema da tempo noto dei cambiamenti climatici e dei danni ambientali. Anziché considerare tutti questi problemi – l’aumento delle temperature, i fenomeni meteorologici estremi, l’estinzione di specie viventi, la deforestazione, la distruzione della barriera corallina, i danni dell’estrazione di minerali, il buco nell’ozono, l’acidificazione degli oceani, e potremmo allungare questo elenco ancora per parecchie righe – come elementi a sé stanti, l’Antropocene ci offre una cornice epistemologica per tenerli tutti insieme.
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Critica, Capitale e Totalità
di Roberto Finelli
Critica e totalità sono due categorie che entrano nella cultura moderna come intrecciate e inscindibili solo con la filosofia di Hegel. Già Kant, com’è ben noto, aveva fatto della critica la modalità fondamentale di una filosofia che, rinunciando alle astrazioni di una metafisica ontologica dell’Essere o della Realtà Oggettiva, indagasse di fondo le strutture invarianti e trascendentali della soggettività. Ma è propriamente con Hegel che, a partire dalla tesi secondo cui «il vero è l’intero», la critica diventa fattore intrinseco della costruzione di una totalità, giacchè solo attraverso il progressivo autotoglimento di visioni fallaci e parziali si raggiunge la verità di un intero: attraverso cioè la dialettica dell’autocritica e dell’autocontraddizione in cui non può non cadere qualsiasi pretesa di un lato solo particolare o di una configurazione parziale di valore come l’intero. Il finito si toglie da sé medesimo, perché, non riuscendo alla fin fine a coincidere e a consistere solo con sé stesso, è costretto, per necessità interiore, a negarsi e a trapassare in altro.1 La critica qui, ancor più che in Kant, non rimanda più ad alcun osservatore o giudice esterno ma è il giudizio che la realtà stessa produce su sé medesima, in un’autonegarsi attraverso contraddizione, che dovrebbe garantire insieme verità del sapere ed emancipazione dell’agire. Solo che Hegel per dare continuità ai diversi passaggi dialettici ha dovuto forzare, almeno a mio avviso, la natura della negazione, assolutizzandola e ipostatizzandola, fino ad estremizzarla in un purissimo negativo, che non nega alcunché di determinato fuori di sé, ma alla fine null’altro che il proprio negare. Estenuando, con ciò, il nesso fondamentale genialmente istituito tra critica e totalità nella chiusura, invece, di una metafisica immanente del nulla/negazione.
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Quattro modi in cui l’ecologia ci fa dare di matto
di Bruno Latour*
Pubblichiamo un estratto da La sfida di Gaia di Bruno Latour (Meltemi)
Non c’è mai tregua, ogni mattina ricomincia tutto da capo. Un giorno, l’innalzamento delle acque; un altro, la sterilità del terreno; la sera, la scomparsa accelerata dei ghiacciai; dal telegiornale delle venti apprendiamo che, tra un crimine di guerra e l’altro, migliaia di specie sono destinate a scomparire prima ancora di essere state adeguatamente classificate; ogni mese, il tasso di Co2 nell’atmosfera è sempre più elevato, ancor più di quello della disoccupazione; ogni anno che passa, ci dicono, è l’anno più caldo mai registrato dalle stazioni meteorologiche; il livello dei mari non fa che innalzarsi; i litorali sono sempre più minacciati dalle tempeste di primavera; quanto all’oceano, a ogni campagna di misurazione risulta sempre più acido. È quel che i giornali definiscono vivere nell’epoca della “crisi ecologica”. Purtroppo, parlare di “crisi” sarebbe ancora un modo per darsi facili rassicurazioni, per dirsi che “passerà”, che “presto ci lasceremo alle spalle” questa crisi.
Se fosse soltanto una crisi! Se solo fosse stata semplicemente una crisi! Secondo gli specialisti, si dovrebbe parlare piuttosto di “mutazione”: eravamo abituati a un mondo; passiamo, mutiamo in un altro. Quanto all’aggettivo “ecologico”, lo utilizziamo troppo spesso, anch’esso, per rinfrancarci, per porci a una certa distanza dai problemi che ci minacciano: “Ah, state parlando di questioni ecologiche, be’, non sono cose che ci riguardano!”.
Una mutazione nel rapporto con il mondo
Come è già accaduto, d’altronde, nel secolo scorso, quando si parlava di “ambiente” e si designavano con questo termine gli esseri della natura considerati da lontano, al riparo di una teca di vetro. Ma oggi, siamo tutti noi – dall’interno, nell’intimità delle nostre preziose, piccole esistenze – a essere toccati, coinvolti in prima persona, dicono gli esperti, dai bollettini che ci mettono in guardia su quel che dovremmo mangiare e bere, sul nostro modo di sfruttare i terreni, di spostarci da un luogo all’altro, di vestirci.
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Grottesco fachinelliano
di Dario Borso
I. Appena laureatosi in Medicina a Pavia, Elvio Fachinelli si trasferì nel 1953 a Milano, dove lavorò per qualche anno come microbiologo in una grossa industria farmaceutica. Di sera, frequentava una compagnia così descritta quasi mezzo secolo dopo dal poeta Elio Pagliarani, allora giornalista del quotidiano socialista “L’Avanti!”:
Il ritrovo dove ci si vedeva più spesso era la trattoria di Poldo, in via Borgospesso, dove costituivamo un gruppetto abbastanza fisso e piuttosto affiatato: c’era e c’è il mio Virgilio, Luciano Amodio, guida assatanata e indistruttibile, non solo di me medesimo (per lui conobbi i Solmi, Vittorini, Fortini, Basso, Chiara Robertazzi, le tre sorelle Bortolotti, Giancarlo Majorino, Michele Ranchetti, Ettore Capriolo, Sergio Caprioglio che se n’è andato appena un mese fa, Antonino Tullier fra Dada e surrealismo, scomparso già da molto tempo) ma di tutta la giovanissima intellighenzia milanese in quegli anni, almeno così a me pareva allora e ne sono convinto ancora, e c’era Elvio Fachinelli, che non c’è più da troppo tempo1.
In un dibattito riportato su “Il Tempo” del 19 dicembre 1976, Fachinelli aveva ironicamente specificato le dinamiche del gruppetto, dichiarando che nel 1955
era sorta l’idea di fare una rivista, che si chiamasse “Borgospesso”, perché mangiavamo tutti in via Borgospesso. C’erano Elio Pagliarani, Gianni Bosio, Amodio, Giuseppe Bartolucci e tanti altri2. E c’era, telefonato, Fortini. Verso l’ora del profiterol infatti arrivava un cameriere, chiamando Amodio al telefono. Grande irritazione di tutti, sia verso Amodio, che era il prescelto, che con Fortini, che telefonava per “dare la linea”, per farci sapere cosa andava, e cosa no.
E un appunto sparso datato 20 dicembre 1954 (il primo in assoluto conservatoci) fotografa la posizione di Fachinelli stesso, ironica e disincantata:
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Essere marxista, essere comunista, essere internazionalista oggi
di Samir Amin
Da: http://www.rifondazione.it/formazione - [estratto dal libro di Samir Amin LA CRISI. Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi? Punto Rosso 2009].
Samir Amin è stato un economista, politologo, accademico e attivista politico egiziano naturalizzato francese
Io sono marxista. Per me vuol dire “partire da Marx”. Sono convinto che la critica che Marx ha messo nell’agenda del pensiero e dell’azione – la critica del capitalismo, la critica della sua rappresentazione centrale (l’economia politica del capitale), la critica della politica e del suo discorso – costituisce l’asse centrale e imprescindibile delle lotte per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli.
Io non sono “neo-marxista”. Per esserlo, bisogna confondere Marx e i marxismi storici, il che non è il mio caso. I “neo-marxisti” vogliono rompere con il marxismo storico e pensano che bisogna andare “oltre Marx”. Di fatto, essi si oppongono solo a quelli che io definisco “paleo-marxisti”, cioè ai seguaci acritici del marxismo storico, in particolare il “marxismo-leninismo” nelle sue diverse versioni. Essere marxista come intendo io non significa essere “marxiano” (che trova “interessante” una qualche “teoria” di Marx, isolata dal resto dell’opera), né essere “marxologo”.
Significa necessariamente essere comunista.
Marx non dissocia teoria e prassi. Non si può seguire la scia di Marx se non ci si impegna nella lotta per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli. Essere comunista significa anche essere internazionalista. L’internazionalismo non è solo un’esigenza della ragione umanista. Non si cambierà mai il mondo se si dimentica l’immensa maggioranza dei popoli che lo costituiscono, quelli delle periferie.
Questi popoli hanno la responsabilità del proprio avvenire. Non sono i popoli dei centri imperialisti opulenti che possono da soli “cambiare il mondo” (in meglio). La carità, gli aiuti, l’umanitarismo, che si vuole sostituire all’internazionalismo, inteso come solidarietà nelle lotte, contribuiscono solo a consolidare il mondo come è, o, peggio, ad avviarlo verso la costruzione di un apartheid su scala mondiale.
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Il partito dello stato forte e la battaglia su Keynes
di Vadim Bottoni
La battaglia su Keynes è politicamente importante.
Si ritenga importante tatticamente, strategicamente, dialetticamente o che si condivida integralmente, il pensiero keynesiano ben interpretato fornisce uno strumento utilissimo per chi crede nella centralità dello Stato in economia.
D’altronde basta pensare a quante volte vengono tirate in ballo le politiche keynesiane come risposta alla crisi, come naturali implementazioni della parte economica della Costituzione, come aspetti costitutivi delle moderne economie monetarie, e così via.
Se questo dà la misura della sua importanza, un altro aspetto dà la misura della fragilità del richiamo al pensiero keyenesiano: il fatto è che Keynes risulta tanto nominato quanto poco letto e questo vale sia per i sostenitori che per i detrattori.
Questa fragilità presta il fianco a due tipi di attacchi da parte del mainstream liberista: o il loro qualificarsi come veri keynesiani mentre in realtà ne stravolgono il pensiero, o identificare chi crede nello Stato interventista come falsi keynesiani statalisti, i keynesiani de’ noantri, il cui pensiero non avrebbe non solo nulla a che fare con il (probabilmente) più grande economista del Novecento, ma che per giunta neanche avrebbero letto.
Il caso in questione rientra in quest’ultimo tipo di attacchi, che non sono solo pretestuosi e capziosi, ma sono anche perpetrati spesso senza assumersi l’onere della prova, perché se si scrive su testate prestigiose agli occhi del grande pubblico si eredita quel prestigio che consente di esimersi dalla giustificazione delle invettive.
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Bussole possibili per sinistre solide
di Andrea Cengia*
Da Etica & Politica / Ethics & Politics , XXII, 2020, 2, pp. 601-609, ISSN: 1825-5167
Esiste ancora oggi uno spazio teorico-politico che risponde al nome di Sinistra? Giungere oggi a porre questa domanda, dopo la fine della drammatica esperienza sovietica, apre ad una rosa di riflessioni non scontate. Nel discorso pubblico generale, il richiamo a una non meglio precisata sinistra politica e culturale circola con grande facilità. Tuttavia, i partiti presenti, che numericamente dovrebbero farsi carico di rappresentare le istanze politiche di sinistra, non sembrano godere oggi di buona salute non solo dal punto di vista del consenso elettorale, ma anche sul piano della proposta politica. Si potrebbe sostenere che tale quadro si inserisce nella difficoltà più generale ad assumere una Weltanschaauung differente da quella di matrice riformista. Quest’ultima è individuata come unica possibilità — dialogica, comunicativa e di creazione di spazi di consenso —attraverso cui giungere alla levigazione delle asperità del dominante quadro di mercato, magari attraverso ‘sapienti’ interventi di ottimizzazione del sistema normativo e redistributivo. Questa descrizione coincide quasi integralmente con quella che Jacques Bidet ha definito come polo politico delle competenze, nominalmente alternativo al polo del capitale. Mentre quest’ultimo avrebbe una collocazione immediatamente riconoscibile, il primo è frequentato da individualità politiche che giustificano la propria esistenza sulla scena pubblica, basandola sul fatto che sarebbe in loro possesso, quasi esclusivo, la competenza a saper gestire e organizzare, anche con maggiore ‘umanità’, la macchina politico-produttiva del modo di produzione capitalistico1. La ricollocazione di queste formazioni riformiste all’interno dell’alveo del sistema sociale egemone, al fine di ristabilire chiarezza di proposte, finalità e referenti sociali, può essere ben condotta attraverso A Sinistra (G. Cesarale, A sinistra. Il pensiero critico dopo il 1989, RomaBari, Laterza, 2019).
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La collocazione dell'uscita dall'UE nella strategia per il socialismo
di Domenico Moro
Il dibattito intorno all’Unione Europea e alla permanenza dell’Italia al suo interno ha attinto nuova linfa dalla crisi sanitaria del Covid 19 e dalle conseguenti contrattazioni tra i paesi europei per l’individuazione dei meccanismi di sostegno agli Stati. Ciò che è, però, largamente assente dalla discussione è una posizione autonoma dei comunisti che approfondisca le condizioni attuali del processo di integrazione europea, la complessità delle relazioni competitive tra paesi capitalistici e i meccanismi di controllo e oppressione messi in campo attraverso le istituzioni dell’Unione Europea.
Con il seguente articolo inauguriamo una rubrica di discussione sul tema e intendiamo lanciare un’ampia riflessione strategica sul ruolo dei comunisti nella lotta contro le istituzioni europee. Lo faremo grazie a diversi contributi che si soffermeranno sui vari aspetti che compongono la questione, attraverso una molteplicità di punti di vista provenienti, anche, dai partiti comunisti degli altri paesi membri, con il fine di contribuire a far avanzare il dibattito tra i comunisti su questa importantissima tematica.
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La questione del giudizio da dare sull’Ue e sull’euro appare oggi ancora più centrale che nel passato alla luce della recente crisi del Covid-19. Come già verificatosi nel corso della crisi precedente, quella del 2007-2008, l’Ue e l’euro presentano delle caratteristiche intrinseche che impediscono di far fronte alla crisi e soprattutto di rispondere al peggioramento delle condizioni del lavoro salariato, a partire dai suoi settori più deboli quali quelli precari e sottoccupati.
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L’autunno che verrà e i polli di Renzo
di Michele Castaldo
La questione sindacale ha costituito da sempre un rompicapo per le formazioni politiche di sinistra e di estrema sinistra fin dal sorgere del capitalismo e della conseguente nascita del proletariato, o classe operaia, secondo le migliori tradizioni marxiste. Si tratta di una questione spinosa che a distanza di circa 200 anni (datiamo per comodità esplicativa i primi tentativi di costituzione in Inghilterra di società di mutuo soccorso e comitati operai) non ha trovato ancora una sistemazione teorica definitiva.
L’Italia ha avuto il “privilegio” di una esperienza per una insubordinazione di alcuni settori sia del Pubblico Impiego che in aziende a partecipazione statale, durante gli anni ’70 del secolo scorso, quando si sono sviluppate una serie di organizzazioni definite di base, in alternativa ai sindacati confederali esistenti e maggiormente rappresentativi, cioè Cgil, Cisl e Uil, con un ruolo molto marginale della Cisnal che era la cinghia di trasmissione del Movimento Sociale Italiano e che non compariva nelle mobilitazioni unitarie che le tre Confederazioni indicevano, per una sua certa nostalgia nei confronti del Fascismo.
Il presupposto teorico del “basismo”, senza farla troppo lunga, era, ed è, una critica allo spirito collaborazionista della tre confederazioni con l’economia nazionale e con la Confindustria. Si trattava, secondo la gran parte delle organizzazioni “basiste”, di sindacati che avevano abbandonato la causa dei lavoratori e la loro autonomia per subordinarsi totalmente alle esigenze dei padroni. Da questo assunto teorico-politico si sanciva, perciò, la necessità di costituire nuovi organismi di base e strada facendo della formalizzazione di nuovi sindacati veri e propri.
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Finalmente scoperti i portatori del Covid-19: gli immigrati
di Il Pungolo Rosso
Ce l’aspettavamo da un po’, e puntuale è arrivata. La più falsa di tutte le false notizie da cui siamo bombardati h24: “c’è una evidente correlazione tra immigrazione e Covid”. Pensate che la frase sia del cumulo di spazzatura che è anche segretario della Lega? Errore! L’ha pronunciata il suo padre spirituale, il lugubre Marco Minniti, Pd, lo stato di polizia fatto uomo.
Visto che si chiama in causa l’evidenza, dovrebbe esserci una sovrabbondanza di fatti a provarlo. Sennonché la sola cosa di cui si ha evidenza da molte indagini o inchieste è che il Covid-19 è arrivato in Italia, precisamente in Lombardia, nel bergamasco, via Germania, non tramite lavoratori immigrati irregolari, ma per mezzo di manager e padroni-padroncini assatanati di affari e totalmente incuranti della salute pubblica, o anche – forse – di figure tecniche specializzate alle loro dipendenze. La responsabilità della sua diffusione, poi, si deve alle pressioni della associazione dei suddetti signori autoctoni, la Confindustria, contraria a qualsiasi forma di lockdown. Ed è anche del governo Conte-bis che l’ha decretato a metà o ad un terzo quando già era tardi, incalzato dalla protesta operaia nella logistica e tra i metalmeccanici, e terrorizzato che la massa dei ricoveri d’urgenza svelasse quanto è stata criminale la politica pluri-decennale di tagli alla sanità.
Ma “ora, dopo tanti sacrifici – qui è il trasformista Conte-2 che interviene, parlando da Conte-1 – non si può assolutamente accettare che si mettano [cioè: che gli immigrati mettano] a rischio i risultati raggiunti”.
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La proiezione internazionale della Cina nello stallo degli imperialismi
di Paolo Beffa e Lorenzo Piccinini
In questo articolo presenteremo una breve ricostruzione della storia della proiezione internazionale della Repubblica Popolare, per poi ripercorrere come il recente protagonismo cinese stia venendo interpretato in occidente, in particolare riguardo alle teorizzazioni di un “imperialismo” cinese.
Infine abbiamo tradotto e pubblichiamo un articolo dello studioso zimbabwiano Sam Moyo su un aspetto specifico della proiezione internazionale cinese: Prospettive riguardo le relazioni Sud-Sud: la presenza cinese in Africa.
1. Il contesto internazionale: lo stallo degli imperialismi
Ci troviamo ormai da decenni all’interno di una crisi sistemica del sistema sociale ed economico capitalista, che periodicamente si manifesta sotto forme diverse. Che sia come crisi finanziaria o, come stiamo vivendo in questi mesi, una crisi sanitaria globale che impatta in maniera più forte quei paesi che del libero mercato hanno fatto il proprio feticcio, la causa di fondo rimane la stessa: una disperata difficoltà a livello globale di valorizzazione degli investimenti, che spinge il capitale a cercare i profitti di cui disperatamente ha bisogno nella speculazione finanziaria, nella distruzione dell’ambiente naturale, nel saccheggio del patrimonio pubblico, nelle privatizzazioni barbariche e sregolate.
Con l’esaurirsi della spinta data dalla mondializzazione avviata dopo la caduta del muro di Berlino, questa sempre maggiore difficoltà alla valorizzazione sta portando sempre di più ad una competizione internazionale tra macro-blocchi che si fa sempre più accesa (vedi per un’analisi più approfondita http://lnx.retedeicomunisti.net/2020/01/21/dazi-monete-e-competizione-globale-lo-stallo-degli-imperialismi-3/).
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Beirut: chi, cosa, dove, quando, perchè
Basta riavvolgere il filo
di Fulvio Grimaldi
“La fiducia dell’innocente è lo strumento più utile al bugiardo” (Stephen King)
Disinformare evitando il contesto
Clicca qui per vedere l'intervista fattami da Edoardo Gagliardi di Byoblu (aprire con CTRL e clic sul link), a poche ore dalle due esplosioni che il 4 agosto hanno distrutto il porto di Beirut, ucciso circa 150 persone, ferito altre 5000 e devastato gran parte della capitale libanese. Qui si tratta di un primo giro d’orizzonte lungo le domande che, codificate un tempo dalla stampa anglosassone, un qualsiasi cronista dovrebbe porsi. Le risposte dovrebbero inserire il fatto con le sue coordinate nel suo contesto ambientale, politico, geopolitico, temporale, storico. Un’abitudine da lungo tempo persa, o piuttosto abbandonata, dalla stragrande maggioranza della stampa nazionale e occidentale, che, in omaggio agli interessi dei suoi editori e referenti politico-economici, preferisce fornire le risposte da costoro richieste. Avendo attraversato più di mezzo secolo di pratica giornalista per un notevole numero di testate stampa, radio e televisive, sono testimone di questo trapasso.
Libano, la preda negata
E ho potuto anche essere testimone di ciò che è culminato ora a Beirut: una storia dei popoli arabi che, liberatisi dal gioco coloniale europeo, da quel momento subiscono la ritorsione, via via più feroce e letale, degli ex-colonialisti, dei quali hanno preso la guida due nuove presenze innestate in Medioriente, Usa e Israele.
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Quale sinistra?
di Salvatore Bravo
La engelsiana dialettica della storia è non solo antiumanistica, ma favorisce forme di sudditanza rafforzando comportamenti fatalistici e minando l’essenza stessa del comunismo, la quale è emancipazione comunitaria, tensione positiva tra libertà del singolo e libertà della comunità
La sinistra che non c’è lascia spazio alle sue imitazioni, ai partiti-movimenti utilizzati ad hoc dai potentati economici per le elezioni o per far accettare più docilmente dai popoli “provvedimenti e riforme” contro i popoli. La fine del comunismo reale novecentesco impone un lungo percorso di ricostruzione ideologica mediata dalla riflessione non solo sugli errori strettamente storici, ma anche di ordine ideologico.
Il comunismo è stato segnato, in tal senso, dall’interpretazione engelsiana di Marx. Non è stato sufficientemente valutato che il determinismo di Engels era parte del positivismo dell’Ottocento, un mezzo, probabilmente, per rendere il messaggio coerente alla sua epoca e per rafforzare la lotta con l’errata idea della inevitabilità della vittoria finale del proletariato. Il determinismo ha anche favorito la sconfitta della sinistra, poiché è stato utilizzato dai burocrati e dalle nomenclature per passivizzare l’attività politica della base – tanto il successo era già iscritto nella dialettica della storia, pensata come ineluttabilmente vincente –, con l’inevitabile allontanamento della base dal comunismo reale del Novecento, vissuto come estraneo ed opprimente. Non solo! Forse vi è una sostanziale relazione tra la passività con cui i popoli hanno accettato l’economicismo crematistico attuale ed il passato ideologico comunista, in quanto anche quest’ultimo era sostanzialmente una forma di economicismo che aveva esemplificato banalizzandolo il ben più profondo e radicale pensiero di marxiano. Vi è stato solo un passaggio di consegne tra forme diverse di economicismo.
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Sei tesi su complottismo e rivoluzione
di Alessandro Lolli
Un contributo di Alessandro Lolli, autore de La guerra dei meme (effequ 2017), il quale del complottismo si è già occupato: sei tesi dallo sguardo obliquo articolate per punti, utili per cominciare ad aprire un dibattito necessario sulla questione
1. Che cos’è il complottismo.
a. Si definisce complottismo l’insieme di credenze aberranti, cioè che divergono in maniera inconciliabile dalle credenze comunemente accettate. Complottismo è anche il nome dato all’unificazione teorica di più credenze aberranti entro un quadro sistemico che aspira a una sua coerenza interna (il complotto giudaico, il complotto del Deep state, il complotto degli Illuminati, eccetera).
b. Fondamentale capire chi ha il potere di definire complottismo questo o quell’insieme di credenze. Complottismo è infatti un esonimo: un nome dato a quelle credenze da chi non le sostiene. I marxisti chiamano se stessi marxisti, i rapper chiamano se stessi rapper, i complottisti non chiamano se stessi complottisti.
c. Complottismo è il nome dell’insieme di credenze aberranti dato da chi reputa quelle credenze non solo aberranti, ma false. Il complottista sa che le sue credenze sono aberranti, cioè che divergono in modo inconciliabile dalle credenze accettabili, ma non le ritiene false.
d. Le singole credenze aberranti sono anche chiamate “bufale” o “fake news” e possono o non possono fare a capo a uno o più teorie del complotto.
2. Su cosa verte il complottismo
a. Un ampio spettro di affermazioni e teorie ricade nel complottismo al punto che questo viene spesso definito un’ideologia o una filosofia. Per questo è giusto sottolineare che l’affermazione inaugurale del complottista verte sui concetti di vero o falso, non di giusto e sbagliato.
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Ripartire da Marx
Alessandro Bartoloni intervista Giulio Palermo
Dal 25 al 29 agosto si terrà a Seriate (BG) la seconda scuola estiva internazionale diretta da Giulio Palermo in cui si parlerà di teoria marxista, istituzioni europee, crisi da coronavirus nel contesto della crisi globale e relative vie di uscita anticapitalistica, con l’obiettivo di porre la scienza al servizio della rivoluzione proletaria
Il nuovo Coronavirus ha reso evidente la crisi economica che covava da tempo. Ciononostante, sui grandi mezzi di informazione, nelle università e nei bar, il virus viene dipinto come la causa dei problemi. Un’operazione di disinformazione molto simile a quella messa in campo nel 2008 quando ad essere portati sul banco degli imputati furono l’avarizia dei banchieri, la deregulation, i mutui subprime. Per rimettere le cose al proprio posto c’è bisogno di analizzare la realtà in maniera scientifica e per farlo è necessario possedere le giuste categorie analitiche. Un’ottima occasione per impossessarsene è rappresentata dalla Scuola estiva internazionale organizzata dall’Università critica, l’Università di Brescia ed il Coordinamento comunista. Ne parliamo con Giulio Palermo, economista e animatore di questa seconda edizione che si intitola “crisi economica e lotte sociali nell’Unione europea”.
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D. Ciao Giulio. Innanzi tutto grazie per l’intervista. Puoi raccontarci come nasce questa scuola estiva e a chi è rivolta?
R. La scuola estiva nasce all’interno di un progetto scientifico-politico di trasformazione dell’università borghese e della società capitalista intitolato Università critica.
L’università svolge precise funzioni economiche e sociali nella produzione scientifica e nella riproduzione ideologica del capitalismo. La critica scientifica e la produzione di nuove conoscenze utili alla lotta non possono quindi separarsi dalla critica dell’università stessa, sempre più asservita al capitale, in cui non c’è coerentemente spazio per la critica anticapitalistica.
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