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Sul concetto di formazione economico-sociale in Marx
Parte III. L'intervento di Luporini e Sereni
di Bollettino Culturale
Qui la Parte I, qui la Parte II
Sulla base di queste due grandi tendenze, altri autori sono entrati nel dibattito sul concetto di formazione economico-sociale negli anni '60 e '70. I contributi di Cesare Luporini ed Emilio Sereni hanno segnato in modo decisivo questo dibattito. Le interpretazioni emerse sono state caratterizzate da un approfondimento della definizione del concetto di formazione economico-sociale attraverso la critica delle interpretazioni correnti e un ritorno ai testi di Marx.
Nonostante le divergenze sulla comprensione del concetto, è possibile unire questa discussione sotto la stessa matrice dal momento in cui i due autori si allontanano, secondo Luporini, dallo stesso campo di indagine, caratterizzato da due punti principali:
1) applicare la nozione di “modello” teorico alla nozione di formazione economico-sociale
2) esistenza di una "legge generale" per tutte le formazioni economico-sociali - anche come criterio per il "modello" teorico - enunciata da Marx nell'Introduzione alla Critica dell'Economia politica del 1857:
“In tutte le forme di società vi è una determinata produzione ed i suoi rapporti, che assegnano rango ed influenza a tutte le altre [produzioni] ed a tutti gli altri rapporti. Si tratta di una generale lucentezza, che investe tutti gli altri colori e da cui essi vengono modificati nella loro particolarità. Si tratta di un etere particolare, che determina il peso specifico di ogni esistenza, che in esso assume rilievo.”
La revisione di questo dibattito si propone di mettere in luce questi due punti comuni agli autori, nonché di evidenziare le loro diverse interpretazioni.
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Le presidenziali dell’incertezza: la sfida Trump-Biden nell’America divisa
Andrea Muratore intervista Stefano Graziosi
Il 3 novembre, nelle elezioni presidenziali statunitensi, sarà Donald Trump contro Joe Biden. Gli States arrivano divisi e polarizzati alla fase finale della corsa alla Casa Bianca, fiaccati dai dissidi politici, dalla pandemia, dalla crisi economica e dalle tensioni sociali. L’appuntamento elettorale di novembre sarà anche una vera e propria resa dei conti tra Democratici e Repubblicani, rare volte divisi in passato come negli ultimi anni. Con una nostra vecchia conoscenza, il giornalista ed esperto degli Usa Stefano Graziosi, parliamo oggi delle principali tendenze che guidano i candidati, i maggiori partiti e il Paese nella marcia di avvicinamento al voto.
* * * *
Les jeux son faits: ora Donald Trump e Joe Biden hanno acquisito ufficialmente la nomination per la corsa alla Casa Bianca. Quali sono i tratti salienti che hai colto dallo svolgimento delle convention dei due maggiori partiti Usa?
Il tratto principale della convention democratica è stato quello di un viscerale anti-trumpismo: l’unico collante che, al momento, sembra di tenere insieme un partito internamente spaccato come quello democratico. Puntare quasi tutto sull’opposizione al presidente in carica ha avuto un senso, per mantenere aleatorio un programma che – qualora fosse stato affrontato nel dettaglio – avrebbe determinato il riesplodere delle tensioni intestine: dalla convention non è del resto emerso concretamente dove il ticket democratico si collocherà su ordine pubblico, fratturazione idraulica, riforma sanitaria e – più in generale – recupero dei colletti blu della Rust Belt. Trump, di contro, ha utilizzato la convention repubblicana per cercare di ribaltare la narrazione cucitagli addosso dai suoi avversari: in questo senso, i vari interventi hanno valorizzato l’immigrazione legale, le minoranze etniche e la sua politica estera.
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Il ruolo del settore pubblico nella lotta della Cina contro il COVID-19
di Thomas Fazi
A prescindere dalle opinioni che uno abbia sulla Cina, l’efficacia mostrata dal gigante asiatico nel risolvere prontamente la crisi sanitaria causata dal COVID-19, e nel minimizzarne l’impatto economico, soprattutto a confronto con le esperienze dei paesi occidentali, è universalmente riconosciuta (o quasi). Ma a cosa è da imputare questo successo? Secondo l’economista Francesco Macheda dell’università Bifrost, in Islanda, autore di un recente paper sull’argomento, le ragioni sono da rintracciarsi soprattutto nelle caratteristiche strutturali del modello di sviluppo cinese, e più specificatamente nell’estensione del settore pubblico dell’economia cinese e nel ruolo fondamentale delle imprese a conduzione statale (state-owned enterprises, SOE), nonché nella forte presenza pubblica all’interno del settore bancario oltre che industriale. La tesi di Macheda è che la massiccia presenza dello Stato nell’economia «abbia dotato il governo del paese delle risorse necessarie a ridurre sensibilmente i tempi di risoluzione della crisi sanitaria, riattivare prontamente la filiera produttiva domestica, e massimizzare l’efficacia degli stimoli fiscali e monetari tendentia stabilizzare l’output».
Nonostante la crescente rilevanza delle imprese private nel paese, infatti, le imprese a conduzione statale continuano a giocare un ruolo fondamentale nello sviluppo industriale cinese. Macheda ricorda come nel 2017 le imprese pubbliche detenessero il 48.1 percento dello stock di capitale impiegato nell’industria – in particolare in settore strategici “pesanti” quale quello estrattivo ed energetico, siderurgico, metallurgico e meccanico, ma anche in settori ad alto valore aggiunto quali quello automobilistico e informatico –, nonché il 90 per cento degli asset in mano alle 500 maggiori imprese operanti all’interno dei confini nazionali. A titolo di confronto, nei paesi europei più avanzati la quota “pubblica” sul totale dello stock di capitale risulta essere dalle due alle tre volte inferiore rispetto a quella della Cina.
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Anno zero
di Salvatore Bravo
Lo scandalo del denaro
I Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx e pubblicati nel 1932, sono giudicati un’opera “giovanile”. In realtà i manoscritti sono fondamentali per riscontrare – in un periodo di passaggio tra le opere giovanili e le opere della maturità – il nucleo profondamente umanistico del pensiero marxiano. Per umanistico si intende la centralità dell’essere umano nella storia e nel sistema sociale e politico, che può essere giudicato positivamente, se risponde all’essenza generica e sociale dell’essere umano.
L’umanesimo marxiano pone al centro della storia l’essere umano. Non si tratta di un essere umano astratto ed idealizzato, ma colto nella concretezza della sua realtà materiale. L’umanesimo marxiano riporta il male ed il dolore alle condizioni storiche che ne determinano la genesi, per trascenderlo. Il male non ha realtà ontologica, ma alligna nei rapporti sociali ed economici. Marx è nello stesso solco di autori come Spinoza e Rousseau, i quali hanno smascherato il male metafisico per riportarlo a quella che è realmente la sua dimensione all’interno delle relazioni sociali. Il male è l’epifenomeno dei sistemi che negano la natura sociale dell’essere umano. L’essere umano che soffre è spesso il portatore infetto di relazioni sociali sbagliate, innaturali.
Marx ha la capacità di scandalizzarsi dinanzi al male, non indietreggia, ma lo attraversa. Il negativo, ove necessario, va vissuto e compreso per poter riportare l’ordine razionale dove vige e regna il male. Scandalo[1] in greco significa “inciampo”, per cui bisogna inciampare in esso, per potersi cognitivamente rialzare e ritrovare la dignità dell’essere umano. Essa vive nell’autonomia del giudizio che si coniuga con la prassi storica: teoria e prassi sono tra di loro in una tensione feconda e sono capaci di riorientare l’umanità. Il male non è un destino, ma una condizione socialmente fondata dalla struttura economica e dalla sovrastruttura.
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Homo prometheus e marxismo prometeico
di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
Pubblichiamo la prefazione “Homo prometheus e marxismo prometeico” al nuovo libro che uscirà a novembre, intitolato “Il prometeismo sdoppiato: Nietzsche o Marx?”, scritto da Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli, con un’introduzione di Giorgio Galli
Cosa hanno in comune il mito di Faust e i fumetti dell’Uomo Ragno; gli sciamani del paleolitico e Superman; il grande poeta comunista Shelley e il filosofo anticomunista Nietzsche; Marx e Pico della Mirandola; il mito di Icaro e quello di Frankenstein; Esiodo e il geniale Goethe; il Golem medioevale e il temerario capitano Achab creato da Melville; la torre di Babele biblica e il potente stregone Prospero della “Tempesta” di Shakespeare; i due splendidi film su Blade Runner e 2001: Odissea nello spazio; la saga di fantascienza dei Precursori, ideata da Greg Bear, e quella su Harry Potter?
L’Homo prometheus, la tendenza titanica.
Cosa hanno in comune i romanzi di Chrétien de Troyes, Tolkien, Terry Brook e Dan Brown, se non la ricerca affannosa del proteiforme Graal con le sue sconfinate conoscenze esoteriche? 1
Il prometeismo costituisce una tendenza cultural-politica che ha come suo fondamento la valutazione positiva della carsica ma concreta trasformazione, da parte umana, dell’impossibile di ieri nel possibile del presente, e soprattutto nella realtà del futuro: ossia l’esaltazione delle grandi capacità di sviluppo dei poteri e delle conoscenze umane, soprattutto nella sfida contro i limiti interni/esterni posti al pieno dispiegarsi delle loro potenzialità di crescita.
Si tratta di una complessa e contraddittoria corrente, culturale e politica, che risale all’era paleolitica di trentamila anni fa e che ormai ha accumulato quasi tremila anni di proteiforme storia scritta in Europa, rappresentando un pezzo importante all’interno del mosaico del processo di riproduzione delle ideologie, delle concezioni del mondo e della letteratura all’interno dell’occidente, dall’800 a.C. fino ad arrivare al nostro terzo millennio: un fenomeno significativo sia per gli intellettuali che per le masse popolari, anche se in forme e con livelli di elaborazione assai diverse, che ha segnato concretamente non solo le classi sfruttatrici ma anche quelle sfruttate, partendo dal mito del serpente della Genesi biblica e da Esiodo, con la sua prima cristallizzazione del mito prometeico per arrivare via via anche ai film e ai fumetti dedicati ai supereroi contemporanei.
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Riappropriarsi di Spinoza. Sull’uso corretto di un filosofo alla moda
di Matthieu Renault, Guillaume Sibertin-Blanc
Questo testo di Guillaume Sibertin-Blanc e Matthieu Renault – apparso in francese sulla Revue du Crieur (n. 10, 2018) – ripercorre la genealogia del cosiddetto «spinozismo di sinistra» francese, e in parte italiano (non di secondo piano sono i riferimenti alla fine e acuta spinozista Emilia Giancotti): da Althusser a Lordon, passando per Deleuze, Matheron (e Gueroult), Macherey, Balibar, Negri, Sévérac e tant* altr* filosofe e filosofi. Materia calda, con i suoi impensati (l’immanenza, il pensiero sulla e della vita, la teoria genetica dello Stato, il materialismo radicale, ecc.), la filosofia di Spinoza è un campo di battaglia attraversato da numerose generazioni, ora più apertamente ora più velatamente. I due filosofi, in guisa di conclusione, lanciano una sfida per i/le novell* spinozist*: «Nell’epoca della decomposizione e delle ricomposizioni della sinistra, più che determinare se lo spinozismo sia «di sinistra», la questione è senza dubbio valutare in quale misura la sinistra è «spinozista» e ciò che guadagnerebbe o perderebbe nell’essere tale; e ciò non solo dal punto di vista delle sue idee o della sua ideologia ma, come impone il parallelismo spinoziano, anche dei suoi modi di esistenza e organizzazione come corpo e insieme di corpi, «convenienti» o convergenti sotto alcuni aspetti, «sconvenienti» o divergenti sotto altri: lo spinozismo come scansione delle pratiche militanti, tutto un programma». Riappropriarsi di Spinoza è «pensare con» e non «a partire da» Spinoza. Perché lo spinozismo è, innanzitutto, un metodo di studio e di pensiero e una postura etico-politica. [Marco Spagnuolo]
* * * *
Al fianco delle letture conservatrici e delle interpretazioni liberali delle opere di Spinoza, è possibile delineare i contorni di uno «spinozismo di sinistra». E non recente: se Marx si è subito allontanato dal filosofo di Amsterdam, i pensatori della II e della III Internazionale ne hanno riconosciuto i tratti tipici di un autentico materialista.
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Un'opera incomparabile nella letteratura critica
di Anselm Jappe
Non è certo una novità affermare che oggi stiamo vivendo in una situazione di crisi permanente, e che la crisi ecologica e quella economica - la devastazione delle basi naturali della vita e la povertà crescente nella società - convivono in quella che è un'atmosfera di catastrofe che si fa sempre più intensa. Mentre le minacce sembrano riproporsi continuamente, mettendoci davanti a dei pericoli della cui esistenza fino a poco tempo fa non eravamo nemmeno a conoscenza - come il cambiamento climatico - o che ritenevamo fossero completamente superati - come i movimenti politici di stampo fascista - allo stesso tempo, il minimo che si possa dire è che negli ultimi decenni, il pensiero che avrebbe dovuto permetterci di fronteggiare tali minacce non si è rinnovato con la stessa rapidità e con lo stesso vigore.
La maggior parte delle volte, si è cercato di comprendere delle situazioni storicamente inedite per mezzo di categorie ereditate dal marxismo tradizionale e dal liberalismo, dalla teoria dello sviluppo o da quella del sottosviluppo, dalla giustizia sociale redistributiva e dalla democrazia rappresentativa. Tra i rari tentativi di ripensare globalmente ciò che ci sta accadendo, troviamo la "Critica del Valore" , la quale consiste in una critica radicale del valore mercantile e del denaro, del lavoro e della merce, dello Stato e del feticismo della merce, tutte cose che costituiscono le categorie centrali del capitalismo fin dai suoi inizi. La critica del valore analizza anche quella che è la crisi irreversibile in cui oggi si trovano tutte queste categorie. Si tratta di un approccio che si ispira a Marx, ma che lo fa in un modo assolutamente non «ortodosso». Nata in Germania negli anni '80 (ed in modo del tutto simile, seppure indipendentemente, negli Stati Uniti, con l'opera di Moishe Postone) intorno alla rivista "Krisis", la critica del valore ha avuto una ripercussione particolarmente importante in Brasile.
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NO al referendum confermativo di settembre. Un voto politico: la Costituzione va attuata, non demolita pezzo dopo pezzo
di Giuseppe D'Elia
La vera posta in gioco di questa ennesima partita referendaria, l’obiettivo reale è l’impianto egalitario, solidaristico e genuinamente democratico della Costituzione repubblicana. L’attacco all’assetto istituzionale è solo il primo passo. Se si afferma definitivamente l’idea che la Carta — la Legge Fondamentale — è un problema da risolvere e non un progetto di società da realizzare, la strada per la definitiva cancellazione di ogni conquista sociale del movimento operaio sarà spianata e il ritorno al lavoro servile per quasi tutti è ciò che ci aspetta alla fine della corsa: lavoro scarso, precario, povero e senza nessuna prospettiva di concreto miglioramento per la maggioranza della popolazione e tutta la ricchezza che si concentra nella mani di pochi privilegiati (ricchi e super-ricchi)
* * * *
La questione della rappresentanza, come sappiamo, è il tema concreto messo in gioco da questa ennesima riforma costituzionale.
Tuttavia, a mio avviso, è fondamentale capire che le ragioni del NO vanno difese e sostenute, andando al di là della singola e specifica questione.
Il punto nodale, insomma, non è solo ed esclusivamente capire se — al netto dei senatori a vita — sia meglio avere 600 parlamentari o 945.
Dirimente è capire bene quale sia la vera posta in gioco, ovvero lo spazio democratico (= il controllo delle istituzioni democratiche) e le politiche concrete che per mezzo di queste istituzioni si possono realizzare.
Non è un caso che il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale metta espressamente in correlazione questo progetto di riforma con i precedenti tentativi, già bocciati dal popolo sovrano, e con la necessità di reintrodurre nel sistema una legge elettorale di tipo proporzionale puro:
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Sulla questione dell'italexit
Comunicato
di Nuova Direzione
1- Alcune note preliminari sulla situazione
Nuova Direzione è nata per fare lotta politica e culturale. La sua dimensione non permette al momento di darsi un’organizzazione politica strutturata in forma partito.
Siamo ormai abituati al nanismo di quelle organizzazioni della sinistra che si autodefiniscono ‘partito’ pur potendo contare su poche migliaia di attivisti, ma scendere al livello delle centinaia rischierebbe il ridicolo.
Un’associazione formata da un paio di centinaia di attivisti può e deve impegnarsi su due fronti: da un lato lo sforzo teorico (produrre analisi politica, economica e sociale e condurre discussione pubblica), dall’altro quello pratico (partecipare alle lotte sociali, con il duplice obiettivo di comprendere cosa si muove nella società e di promuovere il conflitto tramite il confronto e il dialogo nei luoghi di lavoro, l’adesione e il supporto alle istanze dei lavoratori, la spinta a formularne di nuove).
Cioè essere nelle lotte attuali, per le lotte da organizzare, formulando sintesi dalle lotte in corso.
Un approccio che nulla ha a che fare con l’attendismo o il ritiro nella torre eburnea.
L’associazione non ha mai promesso di partecipare a tornate elettorali per far eleggere i propri iscritti nelle amministrazioni pubbliche. Non ne abbiamo la forza e non è il nostro obiettivo primario.
Come si può desumere dalle Tesi Politiche ampie ed ambiziose che abbiamo prodotto, vogliamo promuovere un cambio di paradigma sistemico e lottare per contribuire nella misura del possibile a cambiare i rapporti di forza all’interno della società, perché i cambiamenti a livello istituzionale possano avvenire e non essere facilmente neutralizzati.
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Umanesimo europeo
Discussione
di Stefano Virgilio
F. S. Trincia, Umanesimo europeo. Sigmund Freud e Thomas Mann, Morcelliana 2019
Umanesimo europeo. Sigmund Freud e Thomas Mann, ultimo lavoro di Francesco Saverio Trincia, uscito nei tipi di Morcelliana/Scholè (2019), è un denso e interessante tentativo di riscoprire alcuni tratti della portata filosofica (termine particolarmente significativo, considerando la diffidenza di Freud nei confronti della filosofia) della psicoanalisi freudiana alla luce del filtro interpretativo di Thomas Mann. Parallelo a tale riscoperta è il proposito di fare chiarezza e di reinterpretare alcuni aspetti del pensiero freudiano in modo tale che, senza facili sensazionalismi o avventurismi ermeneutici, vi si possano accostare categorie apparentemente lontane, attraverso un metodo che procede senza contrapporre elementi opposti (ad esempio “razionalità e irrazionalità”, “progresso e regresso”), bensì mostrando “hegelianamente” una loro reciproca implicazione “ossimorica”.
Sotto questo punto di vista, degno di interesse è già il titolo, che associa il concetto di “umanesimo” al padre della psicoanalisi. Tale nesso, infatti, non appare affatto immediato, e non è un caso che l’autore dedichi al «senso del problema» l’intero primo capitolo, nel quale illustra gli scopi del lavoro e il percorso attraverso il quale si propone di raggiungerli. Trincia cerca di mettere a fuoco il modo in cui si può parlare di “umanesimo” all’interno del pensiero freudiano e, va detto, si tratta di un’impresa non facile, non foss’altro per il fatto che «Freud non definisce se stesso mai “umanista”. Nessuna dottrina e tanto più nessuna retorica o ideologia dell’uomo è presente nel suo universo concettuale e clinico» (p. 12). Siamo quindi di fronte a un primo apparente paradosso: ricercare un umanesimo che “non c’è”. Trincia affronta la sfida col supporto essenziale di due saggi di Thomas Mann (uno dedicato direttamente a Freud e uno su Nietzsche), di cui si serve per individuare la presenza di un progetto umanistico all’interno del pensiero di Freud.
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Note sulla crisi: pandemia e trasformazioni capitalistiche
Intervista a Giovanni Semi
A cura di Città Senza Centro e Commonware
CSC: Nella “città del contagio” secondo te quali sono le tendenze di trasformazione del capitalismo delle piattaforme? Pensiamo da un lato ai processi di gentrification e turistificazione dei centri storici e dall'altro a quelli di produzione, consumo e distribuzione di beni e servizi culturali. Con la pandemia il consumo culturale comporterà una ristrutturazione delle gerarchie? Quali saranno i dispositivi di esclusione da certe esperienze di consumo culturale?
Una cosa che sostengono quelli che si occupano di consumi culturali da quarant’anni a questa parte è che esiste una tendenza massiccia e diffusa verso quello che chiamano “onnivorismo culturale”, ovvero il fatto che una quota sempre maggiore di popolazione consuma sempre più prodotti culturali simili indipendentemente dalle diverse appartenenze di classe. Questa è stata una rivoluzione del Novecento. Fino agli anni Cinquanta e Sessanta le classi sociali avevano consumi completamente diversi tra loro e molto segmentati. Dagli anni Sessanta in poi si è sviluppata la tendenza a mescolare i codici e a consumare merci simili. È ovvio che non sono mai prodotti identici. Prendiamo l'esempio dell'automobile che – anche se non è un consumo culturale – funziona bene in questo senso. Tu puoi accedere a un'automobile che ha buona parte degli optionals che ha anche l'automobile di un consumatore più ricco. Tu accedi a quel bene con la finanziarizzazione, sei obbligato a comprare l'auto attraverso l'indebitamento, che ti consente quindi di accedere non al modello di classe superiore ma ad uno con caratteristiche abbastanza simili, mentre il consumatore con più disponibilità economica la compra con la carta di credito o con un bonifico ed ha il top della gamma.
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Tra Italia e Bielorussia c’è di mezzo il mare (oceano atlantico)
di Massimiliano Bonavoglia
La Bielorussia è oggi nell’occhio del ciclone mediatico (occidentale). Sino a poco tempo fa molti manco sapevano esattamente dove fosse collocata geograficamente, ma dopo quelle deprecabili elezioni ora tutti finalmente sanno che laggiù, anzi lassù, la democrazia non è di casa.
Lasciamo per un momento questo argomento e andiamo dall’altra parte dell’Atlantico. La cosiddetta pandemia ancora in corso nel pianeta ha colpito duro anche gli USA. La FED ha stampato trilioni di dollari su ordine di Trump, si sono dati sussidi a fondo perduto come non mai nella storia americana, enorme ossimoro per il Paese più capitalista del mondo, gesto voluto da un presidente repubblicano, liberale e molto ricco di suo, il 2020 è un anno che troverà ampio spazio nei libri di storia dei prossimi secoli. Il PIL americano è calato, la disoccupazione è esplosa, i volumi nei mercati sono scesi, ma gli indici azionari, dopo un grande tonfo sono risaliti. Che sta succedendo? Proprio quest’anno, i colossi multinazionali si sono arricchiti in modo impressionante, come mostra un recente articolo di Forbes:
(https://www.forbes.com/sites/niallmccarthy/2020/06/22/us-billionaire-wealth-surged-since-the-start-of-the-pandemic-infographic/#5e03e8643f8b)
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Habemus Papam: Eminentissimum ac Reverendissimum Dominum Mario Draghi
di Ascanio Bernardeschi
Draghi pontifica al meeting di Rimini, ma la ricetta è fare debito a carico delle nuove generazioni, che però dichiara di voler tutelare
L’Italia ha un nuovo Papa. E non un Papa divisivo, come quello di stanza in Vaticano, ma un Papa ecumenico: sia le destre moderate, con qualche distinguo di facciata, che – più convintamente – le sedicenti sinistre, plaudono al discorso di Mario Draghi al Meeting di Comunione e Liberazione (Cl), che qualcuno ha letto come un’autocandidatura al soglio del Quirinale.
Già la scelta del luogo per proferire il suo messaggio urbi et orbi è una strizzata d’occhio ai settori più conservatori del cattolicesimo. Lo è anche l’esordio con cui si dichiara “partecipe della vostra [di Cl!] testimonianza di impegno etico”, glissando sull’impegno etico di Formigoni e della Compagnia delle Opere. Ma, potrebbe obiettare qualcuno, si tratta di una formalità e di un gesto di buona educazione nei confronti di chi lo ha ospitato e gli ha offerto quel pulpito. Quindi soprassediamo e veniamo alla “ciccia”, che comunque è sempre ben velata da frasi di apparente buon senso idonee a renderla più facilmente digeribile sia alla destra che alla “sinistra” (sempre sedicente, per essere precisi), come si conviene a un buon Pontefice.
Due sono le parti più rilevanti del suo discorso, una analitica e una propositiva.
Cominciamo dalla prima che attiene essenzialmente alla valutazione della crisi e della capacità di risposta delle istituzioni europee.
Il coronavirus, per sua stessa ammissione, si è abbattuto su un’Italia già in recessione, e tuttavia egli si ostina a denunciarlo come la causa di questa crisi. Potrebbe il mentore del capitale finanziario ammettere che il problema è il capitalismo? No. Quindi passiamogli anche questa.
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La limpidezza ha bisogno dell’offuscamento
di Eugenio Donnici
Chi studia la visione è d’accordo sul fatto che essa comporta un processo di costruzione. In condizioni normali questo assunto non appare così ovvio, ma in condizioni in cui la vista è impedita per una ragione o l’altra, nelle situazioni in cui siamo costretti a ricostruire il puzzle ovvero quando la confusione sovrasta la scena osservata, iniziamo ad avere la sensazione che il riconoscimento degli oggetti nel mondo richiede di mettere insieme le parti percepite in un intero coerente. Di solito, nessuno di noi si pone la domanda sul come vediamo, di contro, molto spesso, accade che, nel notare un peggioramento nel nostro campo visivo, ci rechiamo da uno specialista della visione, per ripristinare i parametri standard degli input sensoriali. D’altronde, un tale atteggiamento è naturale, spontaneo, e ci protegge dal rimanere paralizzati come il millepiedi che risponde all’interrogativo della formica: «in che ordine metti i piedi l’uno dietro l’altro?»
La soluzione di questa storiella Zen potrebbe essere proprio nel riconoscere che è la stessa domanda a essere sbagliata, ragion per cui non aborriamo qualsiasi domanda, anzi ci tocca individuare e rispondere a quegli interrogativi che, di volta in volta, ci consentono di esplorare la scena visiva.
Nello scorrere le pagine del bellissimo libro di Kevin O’ Regan, Perché i colori non suonano, è possibile trovare un’ampia e ricca trattazione di temi strettamente interconnessi tra di loro, che ci permettono di aumentare il nostro grado di consapevolezza sulle caratteristiche del processo visivo. Il suo lavoro spazia dalla cecità al cambiamento del sé cognitivo e sociale, dall’intelligenza artificiale alla nuova teoria sulla coscienza, dalla concezione della pura sensazione alle differenze tra il vedere, immaginare e ricordare, eccetera.
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Next Generation Fund1: bastone & carota
di Gabriele Pastrello
§ 1. Premessa
La chiusura della vicenda ex-Recovery Fund e oggi Next Generation Fund ha scatenato in Italia un diluvio di polemiche.2
Da un lato gli entusiasti. Quelli che avevano sofferto dell’atteggiamento negativo dell’Unione rispetto al sostegno ai paesi in difficoltà, e che vedono nel Next Generation Fund l’opportunità di ravvivare la speranza nella ‘riformabilità’ dell’Unione europea. Che addirittura parlano di momento Hamiltoniano,3 che ovviamente non c’entra nulla col NG. Che verrà finanziato con l’emissione di titoli sotto la responsabilità comunitaria della Commissione, ma che evidentemente non ha, né nessuno intendeva avesse, un ruolo rispetto al debito pregresso degli Stati.4
Dall’altra parte, chi a tutti i costi cerca di minimizzare funzioni ed effetti di questa scelta, senza avvertire che la vera novità di questa misura non è certo un’improvvisa e poco credibile ‘generosità’ europea - di cui si cerca di dimostrare l’inconsistenza al di là dell’evidenza - quanto la scelta di affiancare un consistente finanziamento (come incentivo obbligante) alle tradizionali richieste di condizionalità sia nel senso di ‘riforme’ sistemiche che nel senso del ‘rigore finanziario’; condizionalità a loro volta rafforzate dal ‘freno olandese’.
La vera novità starebbe nell’aver introdotto una strategia del ‘bastone & carota’ al posto di quella del solo ‘bastone’, come fu il caso di quando, col governo Monti, ci venne5 imposta l’adesione senza riserve al Fiscal Compact, con la conseguenza che la debole ripresa italiana post-crisi venne spezzata, e il paese non ha ancora riguadagnato i livelli del Pil pre-2008.
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L’imperialismo del libero scambio
di Giacomo Gabellini
Uno degli effetti generati dalla Prima Guerra Mondiale fu indubbiamente quello di imprimere una brusca accelerata al trasferimento del centro di gravità geopolitica del pianeta dal “vecchio continente” agli Usa. Un processo costellato da una serie di crisi in grado di raggiungere un’intensità tale da condurre all’implosione del Gold Standard sterlino-centrico, intrinsecamente votato alla massima limitazione delle fluttuazioni monetarie. L’instaurazione del regime aureo rappresentava un passaggio cruciale della “scalata” intrapresa dalla Gran Bretagna verso la conquista dell’egemonia globale a detrimento delle declinanti Province Unite olandesi. Un percorso che, nato dalle ceneri della Santa Alleanza, condusse all’instaurazione di un ordine europeo fondato sull’equilibrio delle forze e strutturato a sufficienza per sopravvivere alle brame imperiali napoleoniche, che indirizzò le direttrici di espansione inglesi dal “vecchio continente” verso Americhe, Asia ed Africa. Il risultato fu la formazione di un impero geograficamente gigantesco presidiato sul piano militare dalla formidabile Royal Navy e capace di associare al “centro”, costituito dai “tradizionali” possedimenti coloniali, una periferia integrata informalmente per mezzo di accordi bilaterali di libero scambio stipulati con una miriade di Paesi del mondo – molti dei quali di recente decolonizzazione. Naturalmente, laddove i trattati non conducevano all’integrazione delle nazioni firmatarie nel sistema liberoscambista egemonizzato dalla Gran Bretagna, Londra non disdegnò mai il ricorso alla forza bruta, come avvenuto con le Guerre dell’Oppio nel 1840 e nel 1857. Il cui risultato, però, fu sempre l’estensione dell’impero informale.
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Mario Draghi for president, e che Grecia sia…
di Dante Barontini
Quando ai piani alti dicono “bisogna fare di più per i giovani” è bene fare gli scongiuri. Dovremmo avere imparato, dopo 30 anni di discorsi con questa frase in testa, che si sta preparando un attacco pesante alle condizioni di vita di tutta la popolazione. Di qualsiasi età, in qualsiasi posizione lavorativa, ma soprattutto con redditi medio-bassi o addirittura senza reddito.
Del discorso fatto ieri da Mario Draghi in apertura del Meeting di Comunione e Liberazione tutti – ma proprio tutti – i media principali hanno estratto la frase-killer per farne un titolo. Sicuri che il discorso completo non sarebbe stato letto da molti.
Così, ve lo proponiamo al termine di questo articolo, ma con qualche premessa che aiuti a districare la melassa retorica e individuare i nodi centrali. Che sono poi quelle “riforme” che l’Unione Europea continua a pretendere da tutti i suoi membri e che in Grecia sono state pienamente realizzate.
Lasciando un Paese distrutto, impoverito, con la popolazione alla fame e “i giovani” che fuggono a frotte cercando una soluzione di vita in altri Paesi.
Del resto, nessun programma di questo genere può essere proposto nudo e crudo, così com’è. Nessun leader può indicare la Grecia post-Memorandum come esempio di “successo”. Ma tutti i partecipanti alla vita politica – in posizioni chiave o dall’opposizione più ferma, come noi – sanno benissimo che la “cura greca” è stata voluta proprio come esempio macabro da tener presente in ogni momento.
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Nihil sub sole novi. L’intervista di Veltroni ad Occhetto: anticomunismo e revisionismo storico
di Salvatore Distefano*
Caro Direttore de “L’AntiDiplomatico”, alcuni giorni fa avete pubblicato l’intervista di Veltroni ad Occhetto apparsa su “Il Corriere della Sera”. Poiché, per i temi trattati, non si tratta certo di un’intervista di routine, mi permetto – sempre nell’ottica della per noi preziosa collaborazione con il giornale che dirigi - di inviarti un articolo che il professor Salvatore Distefano ha scritto per “Cumpanis” proprio in relazione ai temi che in quell’intervista sono stati sollevati, sia da Veltroni che da Occhetto. Sperando di aver fatto cosa gradita, ti invio i miei più cari saluti. Fosco Giannini, direttore di “Cumpanis”
Nihil sub sole novi: così si potrebbe titolare l’intervista che Achille Occhetto ha rilasciato a Walter Veltroni e che è stata pubblicata dal Corriere della Sera domenica 19 luglio 2020. Anzi, a pensarci bene, qualcosa di nuovo c’è: l’aspirazione degli ex dirigenti del PCI, PDS, DS e infine PD di riscrivere la storia dell’Italia e del mondo, nonché quella del Partito comunista italiano, avendo come criterio ordinatore il “revisionismo storico” e un robusto anticomunismo (sic!). Infatti, Occhetto, continuamente imbeccato da Veltroni, racconta le sue eroiche gesta, senza farci mancare i tipici aspetti del suo repertorio come le lacrime e la voce incrinata, sposando pienamente la visione ideologica dell’occidente capitalistico, che fortunatamente ha vinto, a suo avviso, lo scontro con il comunismo sovietico, affermando i valori di libertà, democrazia, giustizia e compagnia cantando.
Cominciamo dal titolo. “La svolta del PCI fu dolore e speranza. Ma era mio dovere correre quel rischio”. Ma perché dovere? Il termine dovere richiama l’ambito morale e quello della necessità derivante da principi morali categorici. Ancora: il dovere può scaturire da un ente esterno che viene ipostatizzato e impone, proprio per la sua esistenza e la sua natura, determinate azioni. Nel primo caso, la nostra azione risulterà libera perché ciò che faremo dipenderà da noi; nel secondo caso, potremmo anche compiere un’azione corretta moralmente, ma perderemmo la nostra libertà dato che ciò che mettiamo in atto ci viene “imposto” dall’esterno.
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Moneta creata dal Nulla, Stati indebitati e Mercati con la Mannaia
di Guido Salerno Aletta
Dalla Lotta di Classe al Conflitto tra generazioni
Questo è il paradigma del nuovo conflitto sociale:
a) le Banche centrali creano la moneta dal nulla;
b) di fronte alle crisi ricorrenti, gli Stati si indebitano enormemente per salvare l'intero sistema;
c) i Giovani "pagheranno" il conto del nuovo debito, mentre i loro Padri che sono dei parassiti, beneficiano dell'assistenzialismo pubblico;
d) i Mercati useranno la mannaia per punire gli Stati che si indebitano per fare assistenzialismo, trascurando i Giovani: non sottoscriveranno più i loro titoli di Stato, usando la moneta creata dal nulla.
Le parole di Mario Draghi, che sono state pronunciate all'apertura del Meeting dell'Amicizia, suonano come una vera e propria messa in guardia, se non come una velata minaccia da parte di chi conosce bene chi ha il Potere vero in mano, i Mercati. Sono i Giudici, i Saggi: le Democrazie sono sotto la loro tutela.
Il monito è sostanzialmente questo: dopo la crisi, il livello dei debiti pubblici rimarrà assai elevato. E saranno sottoscritti solo i titoli degli Stati che ne avranno fatto un buon uso di questa spesa finanziata in deficit, con investimenti in infrastrutture, nel capitale umano, e non per fare assistenzialismo.
Ad essere messo sull'avviso, non è solo il Governo guidato da Giuseppe Conte, ma l'intera strategia di politica economica che serve per superare la crisi causata dalla epidemia di Covid-19. Perché con questo virus, ha proseguito Draghi, ci si deve convivere per chissà quanto tempo.
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Test, tamponi e vaccino. Risposte alle 8 domande più ricorrenti
Valentina Bennati interroga Marco Mamone Capria
Visto che i nostri governanti, nazionali e regionali, stanno preannunciando obblighi per la prossima stagione, è bene poter usufruire di maggiori informazioni documentate che permettano di farsi un’idea più chiara su alcuni importanti questioni.
Ho selezionato otto domande, con le relative risposte, dall’ampia e interessante analisi dell’attuale epidemia da parte del Prof. Marco Mamone Capria, Matematico ed Epistemologo presso l’Università di Perugia.
L’analisi è stata pubblicata ieri, 4 luglio, da AURET (Associazione Autismo Ricerca e Terapie). Ho reso il pdf linkabile a fine post così, chi è interessato ad approfondire ulteriormente, può leggerla per intero completa dei necessari riferimenti.
1. È vero che se si è positivi al test per il cov-2, allora si è stati infettati da questo virus?
Risultare positivi a un test per una certa infezione non è lo stesso che essere infetti. Tutto dipende da quanto discriminante sia il test. Un test ha certi parametri che ne definiscono la qualità conoscitiva:
– la proporzione dei positivi tra gli infetti (si dice sensibilità),
– la proporzione di negativi tra i sani (si dice specificità),
– e i valori predittivi, quello positivo, che dice quanto probabile è che se sei positivo tu sia infetto, e quello negativo, che dice quanto probabile è che se sei negativo allora tu sia sano.
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Domenico Losurdo e la comune umanità
Tra categorie del pensiero e conflitto sociale
di Salvatore Favenza
S. G. Azzarà, La comune umanità. Memoria di Hegel, critica del liberalismo e ricostruzione del materialismo storico in Domenico Losurdo, La Scuola di Pitagora, Napoli 2019
La comune umanità. Memoria di Hegel, critica del liberalismo e ricostruzione del materialismo storico in Domenico Losurdo, di Stefano G. Azzarà, precedentemente edito dalle Editions Delga di Parigi nel 2012 ed ora pubblicato da "La Scuola di Pitagora" in edizione italiana riveduta, ampliata ed aggiornata dalle corpose integrazioni di Emiliano Alessandroni, costituisce una privilegiata chiave d’accesso all’itinerario di pensiero di Domenico Losurdo.
I tre capitoli di cui si compone il libro riguardano il confronto storico e filosofico di Losurdo con la storia del liberalismo, con la filosofia classica tedesca e con il materialismo storico.
Secondo le narrazioni oggi in Occidente più gettonate, il liberalismo, nato tra Sei e Settecento presso le più illuminate intellettualità europee, lottò e vinse contro l’assolutismo monarchico facendo acquisire centralità al valore dell'individuo e realizzando lo stato di diritto. Dopodiché, una volta conferita una più o meno solida struttura alla sua propensione democratica, si trovò ad affrontare nemici ancora più temibili. Un parto gemellare di natura totalitaria diede infatti vita a nazismo e comunismo che, affratellati dalla comune natura dispotica, hanno tentato entrambi di contendere al mondo liberale la guida del Novecento. Fortunatamente, tuttavia, il liberalismo vinse anche quest’ultima battaglia e a tutt'oggi si candida a prosperare sull'intero globo, esportando il proprio modello sociale e politico, garanzia di serenità e di pace.
Domenico Losurdo ha mostrato l’inconsistenza di una simile narrazione, opponendo a questa storia sacra (la cui credibilità è stata favorita dalla sconfitta dei tentativi di costruzione del socialismo in Europa orientale) una storia profana, finora abilmente schivata dalla luce dei riflettori.
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In autunno: riprendiamoci la scuola
di CityStrike
Partiamo dalla fine, per essere chiari. Il 24 e 25 settembre sono state indette due giornate di sciopero e mobilitazione dai sindacati di base (USB, Cub, UniCobas e alcune sezioni dei Cobas). Queste due giornate sono state fatte proprie da alcune organizzazioni studentesche e da numerosi collettivi universitari. Riteniamo che quelle due giornate di mobilitazione siano importanti. Cerchiamo di spiegare il perché e, contemporaneamente, il motivo per cui non ci convince affatto la mobilitazione prevista per sabato 26 da alcune associazioni e dai sindacati confederali.
Le false narrazioni
Ragionare in maniera sensata e convincente su ciò che accadrà a settembre nelle scuole e nelle facoltà, in effetti, non è semplice. Pesano, infatti, la cortina di fumo e le false promesse rilasciate a ogni pie sospinto dalla ministra Lucia Azzolina, rilanciate ripetutamente dai media e avallate dai sindacati confederali ed autonomi. Si fa un gran parlare di rientro in sicurezza, di investimenti, di nuovi spazi e assunzioni. Quindi occorre, in primo luogo, cercare di avere un quadro più chiaro.
Ad oggi gli unici provvedimenti in qualche modo certi sono la firma di un protocollo tra il governo e i principali sindacati dove, all’interno di un fiume di parole di cui si fatica a comprendere l’utilità, si fa cenno a una ripartenza in presenza per le scuole dell’infanzia, vengono riportate alcune norme di monitoraggio, viene ribadita la necessità del distanziamento.
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Recovery Fund e l'Imperialismo frugale dell'Unione Europea
di Carla Filosa*
Imperialismo frugale
La semplificazione geniale di Altan, che però richiede sempre capacità critiche, nella vignetta di due signore benvestite a confronto, è forse la spiegazione più evidente e immediata da fornire alle masse sull’uso mistificante del momentaneo significato di “frugale”, di cui si sono auto-fregiati gli stati europei più predatori di questi ultimi tempi. Al raggiro delle parole segue però più rilevante quello del contenuto, relativamente ai 209 miliardi che la bravura e la tenacia di Conte avrebbero strappato all’Europa, cui sarebbe stata chiesta l’inusuale “solidarietà” per la crisi pandemica “in comune”, di cui effettivamente nessun paese dell’Unione è stato economicamente responsabile. Come ormai risulta più chiaro, rispetto alla crisi economica già precedentemente in atto, la crisi sanitaria si è configurata in termini inediti, peraltro inattesa, sebbene già preannunciata da diverse “voci” verosimilmente ben informate. A circa sei mesi dalla sua sconvolgente comparsa, e tuttora innalzando il livello delle difficoltà economiche ormai mondiali nel calo dell’accumulazione di plusvalore, i governi degli stati europei si sono riuniti per affrontare una situazione “comune” all’interno della differenziazione imperialistica che avvicina le prede ai loro razziatori, nella contemporanea gestione di una propaganda per le masse credulone, con narrazioni di umanità fraterna e comprensiva che avrebbe unito un’Europa sempre idealizzata, e perciò mai esistita.
Per chi ancora riconosce nel termine imperialismo il dato di realtà presente, va ricordato che dal punto di vista delle sue precipue condizioni economiche, per quanto riguarda sia l’esportazione dei capitali sia la spartizione del plusvalore da parte dei capitali con base su potenze ex-coloniali e universalmente considerate “civili”, va preso atto che, finché perdura questo regime capitalistico, l’unità europea, sempre auspicata o invocata, è impossibile o può avviarsi prevalentemente verso derive reazionarie.
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Un parlamento “modello Rocco”?
di Ascanio Bernardeschi
Il taglio dei parlamentari è un tassello di un più vasto disegno volto a ridurre gli spazi di resistenza delle classi sfruttate. E noi diciamo No!
Il 20 e 21 settembre si andrà a votare al referendum confermativo dell’ennesima “riforma” costituzionale. Questa volta l’elettorato si deve pronunciare sulla riduzione del numero dei deputati da 630 a 400 e dei senatori da 315 a 200. L’elemento di novità di questo appuntamento è che questa volta si voterà non solo per il referendum, ma anche per il rinnovo dei consigli di sette regioni, dei sindaci e dei consigli di oltre mille comuni e di due senatori in un collegio uninominale della Sardegna e uno del Veneto.
Già questo abbinamento pone dei problemi. Infatti l’importante tema di una riforma costituzionale rischia di essere poco dibattuto nelle realtà dove al centro dell’attenzione saranno i partiti e soprattutto i candidati per le elezioni amministrative e regionali. In periodo di emergenza da coronavirus e con spazi di partecipazione ridotti il rischio è che il popolo italiano giunga a questo appuntamento poco informato.
C’è da considerare inoltre che la percentuale dei votanti al referendum nelle località dove si tengono altri tipi di elezione sarà verosimilmente molto maggiore di quella negli altri territori e quindi che il peso dell’elettorato sarà molto diverso da località a località. A causa di ciò sull’appuntamento elettorale si allunga l’ombra di ricorsi presso l’Alta Corte.
La difficoltà di informare e far ragionare gli elettori si inserirà in un percorso che per i fautori del No sarà tutto in salita. Infatti il taglio dei parlamentari è stato proposto dai partiti populisti cavalcando la stanchezza della gente, il senso comune – purtroppo in buona parte più che comprensibile – che la politica e i partiti sono tutti corrotti, che meno parlamentari mandiamo a Roma e meglio è, che bisogna ridurre il costo della politica in quanto abbiamo sul collo un debito pubblico enorme che mette a repentaglio i diritti sociali: scuola, salute, casa, lavoro, trasporti pubblici.
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«La tecnologia verde non esiste»
Simone Rossi intervista Jeff Gibbs
Planet of the Humans pone domande difficili sul fallimento del movimento ambientalista per fermare il cambiamento climatico e salvare il pianeta. Per cercare una risposta intervistiamo il regista
Rilasciato alla vigilia del 50° anniversario della Giornata della Terra e nel bel mezzo della pandemia globale causata dal Sars-Cov-2, Planet of the Humans ci racconta come il movimento ambientalista ha perso la sua battaglia facendosi convincere che pannelli solari e mulini a vento ci avrebbero salvato e cedendo agli interessi di Wall Street.
Per questi motivi, nessuna sorpresa che il film abbia generato polemiche. È stato criticato come parzialmente obsoleto e fuorviante e alcuni lo hanno accusato di distorcere le energie rinnovabili e di propagandare un “malthusianesimo anti-umano”.
Per fugare ogni dubbio abbiamo deciso di intervistare il regista e sceneggiatore del film, Jeff Gibbs.
Nato a Flint, nel Michigan, Jeff lavora da tempo come collaboratore di Michael Moore. Il primo film a cui ha lavorato è stato “Bowling for Columbine” e ha prodotto scene cult tra cui “la banca che ti dà una pistola”, “cacciatore di cani” e “Michigan Militia”. Dopo il successo di “Bowling for Columbine”, Jeff è diventato co-produttore di “Fahrenheit 9/11”, il documentario campione di incassi di tutti i tempi. Jeff ha anche scritto la colonna sonora originale di entrambi i film. Da “Fahrenheit 9/11”, sebbene si sia preso una pausa occasionale per produrre altri film tra cui il documentario di Dixie Chicks “Shut Up and Sing”, Jeff è stato singolarmente ossessionato dal destino della terra e dell'umanità.
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Domanda. Ciao Jeff. Grazie per averci concesso l’intervista. Il documentario si basa su dati scientifici. Quanto tempo è stato necessario per raccoglierli e quanto sono affidabili?
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