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L’inferno e il paradiso di Giorgio Cremaschi
di Leonardo Mazzei
Emergenza sì, emergenza no. Su MicroMega Giorgio Cremaschi ha detto la sua. Qui diremo invece la nostra.
Cremaschi prova a dare un colpo al cerchio (no alla proroga governativa dello stato d’emergenza) ed uno alla botte, scagliandosi contro i cosiddetti “negazionisti”. Per l’ex sindacalista della Cgil il vero problema sono però questi ultimi, semplicemente da “mandare all’inferno”. Viceversa, con i decisori dello stato d’emergenza si deve certo discutere, ma in maniera amabile e rispettosa, come si conviene a chi è destinato al paradiso.
Le argomentazioni di Cremaschi non mi convincono neanche un po’. Le comprendo e le rispetto, ma fanno acqua da tutte le parti, portando altro fieno in cascina a quel blocco dominante che sicuramente egli crede di combattere.
Per farla breve proverò a sintetizzare in cinque titoli i tragici errori del leader di “Potere al popolo”. Questi titoli sono: negazionismo, libertà e liberismo, emergenza ed emergenzialismo, democrazia e tecnocrazia, lavoro e popolo.
Negazionismo
Questa parola, che il Nostro utilizza a iosa, andrebbe semplicemente abolita. Essa sta infatti a significare l’esistenza di una verità assoluta che non ammette una discussione razionale. Una “verità” che, in maniera assolutamente analoga alle religioni, ha i suoi dogmi, i suoi riti, i sui sacerdoti.
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Il capitalismo trascendentale delle piattaforme
di Antonio Savino
Il capitalismo delle piattaforme1
Dal capitalismo immanente quello delle ciminiere, delle sirene che chiamano al lavoro migliaia di persone, si è passati al capitalismo trascendentale, un capitalismo simil-finanziario, che trae profitto creando centri (monopolisti) di servizi e “miners”, relazioni, collegamenti e estrazione di dati: sono le nuove piattaforme che internet e le nuove tecnologie digitali consentono; il loro core business è tanto la prestazione di un servizio (spesso retribuita, ma non sempre), quanto l’estrazione di valore dalle interazioni sociali che ne derivano.
Le piattaforme fino a ieri erano delle strutture piane e resistenti che servivano come base di appoggio per un trasbordo di merci e rendono possibili dei passaggi. Le recenti piattaforme digitali sono un agglomerato di hardware e software (con uso di intelligenza artificiale e big data) che si collocano in modo tendenzialmente monopolista, tra due entità fisiche come produttori e consumatori (es. Amazon), tra parlanti e riceventi (es. Facebook) o tra macchine e operatori (es. Siemens, GE) che permettono di svolgere determinate operazioni. Sono dispositivi con strutture e norme che regolano flussi, passaggi, spostamenti ed operazioni varie di informazioni e merci.
Fin qui tutto sembra normale, le piattaforme più o meno tecnologiche ci sono sempre state, svolgevano un servizio spesso legale e “utili” (il virgolettato del dubbio) come la grande distribuzione, notai, ecc, altre volte meno legali come i sistemi mafiosi, i quali ponendosi da monopolisti tra produttori e consumatori (nei settori droga, ortofrutta, caporalato, costruzioni, ecc.) traggono profitto dalla transazione.
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La vita agra dell’impresa pubblica
di Lorenzo Cresti e Giacomo Gabbuti
Il Rapporto sulle imprese pubbliche del Forum Disuguaglianze ci ricorda che nella pandemia, oltre ad aver bisogno della sanità, abbiamo necessità di poter mettere bocca sul perché, cosa, come e dove produrre ricchezza
L’evoluzione dei rapporti tra lo stato italiano e le imprese di sua proprietà ricorda un po’ quello di una commedia all’italiana: ricca di colpi di scena, spesso amari, ma con un finale per nulla scontato. A ravvivare una convivenza annoiata e rassegnata è arrivata una pandemia globale, che tra le sue varie conseguenze ha portato il governo ad annunciare la nazionalizzazione di Alitalia. Nonostante tutto, a parte le polemiche tra «liberisti da divano» e rappresentanti di uno stato inevitabilmente più attivo, continuavano a dominare la scena i soliti, inquietanti, piani «tecnici» di ispirazione neoliberale.
A movimentare sul serio la situazione ci ha pensato l’estate. La prima metà di luglio, due eventi – ben distinti per natura ed eco mediatica – ci hanno portato a riflettere sul ruolo che può giocare lo stato nell’economia, dopo anni spesi a discuterne solo le inefficienze, il clientelismo, la corruzione.
Il primo luglio 2020 si è tenuta un’iniziativa di confronto virtuale tra ministero dell’economia e delle finanze e dirigenti di imprese pubbliche sul ruolo che potrebbe avere lo stato nel guidare lo sviluppo del Paese. Il motivo è stato la presentazione del rapporto del Forum Disuguaglianze e Diversità sulle imprese pubbliche. Il Forum – un’alleanza di organizzazioni e ricercatori – ha individuato, sin dalla presentazione nel 2019 del Rapporto Atkinson, proprio nelle aziende di proprietà pubblica una leva importante per qualsiasi cambiamento che parta dall’attivazione di nuovi e più virtuosi processi di sviluppo economico. Mentre il dibattito sul «ritorno dello stato» assume toni grotteschi, una simile iniziativa permette di ragionare in modo meno astratto e più utile di quale stato servirebbe per risolvere i nostri problemi.
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2 + 2 = 5. L’emulazione socialista in URSS. Parte IV
di Paolo Selmi
Qui, qui e qui le parti I, II e III
Cari compagni,
questo lavoro è nato come paragrafo alla parte introduttiva del manuale sulla pianificazione che sto traducendo. Poi, le questioni sollevate man mano che la ricerca proseguiva erano tante e tali... che in questi mesi è diventata una piccola monografia: 150 pagine delle mie, un libro vero e proprio usando un'impaginazione editoriale. Per motivi di dimensione, difficile da gestire anche per software potenti come l'editor di sinistrainrete.info, è stata decisa una suddivisione (del tutto strumentale) in quattro puntate. Lo scopo primario di questo lavoro è stato riproporre e sviluppare alcune questioni su cui e, peggio ancora, di cui oggi nessuno parla quando si parla di socialismo e di storia sovietica. Lo scopo ultimo e, infine, l'auspicio con cui chiudo queste poche righe è che ciascuno di voi, sia singolarmente che come gruppo di lavoro e collettivo di ricerca, tragga da questi materiali, la cui traduzione è inedita nella stragrande maggioranza dei casi, spunto per ulteriori analisi, riflessioni, collegamenti, approfondimenti. Di carne al fuoco ce n'è davvero molta, per cui grazie per l'attenzione, per le osservazioni, per gli spunti che vorrete condividere, ma soprattutto...
Buona lettura!
* * * *
E dopo?
Il quadro era tutt’altro che roseo, alla fine del secondo conflitto mondiale: uno sfacelo economico mai visto nella Storia dell’uomo laddove, in aggiunta a quanto già riportato in questo stesso lavoro1, possiamo aggiungere dati più specifici relativi all’agricoltura, nella convinzione che ripeterli non sarà mai abbastanza per denunciare quanto accaduto:
Il danno, arrecato dagli occupanti fascisti all’agricoltura, fu calcolato in alcune decine di miliardi di rubli (prezzi del 1945-46). Nei territori occupati dai fascisti, prima della guerra si produceva fino al 55% dell’intero raccolto sovietico, di cui il 75% di grano, quasi il 90% di barbabietola da zucchero, il 65% di girasoli, il 45% di patate; inoltre, si produceva il 40% dell’allevamento sovietico, di cui il 65% di carne suina, il 40% di derivati del latte, ecc. Duecentomila fra trattori e macchinari agricoli, ovvero il 30% dell’intero parco macchine agricole sovietico del 1940, erano stati completamente distrutti dagli occupanti. Venticinque milioni di capi in meno rispetto al 1940, e il 40% in meno di aziende di trasformazione alimentare, completavano il quadro.2
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La distruzione del sapere
di Ezio Partesana
Riprendo da Etica e politica questo saggio di Ezio Partesana e aggiungo alcune mie considerazione in appendice. [E. A.]
Si può odiare con tutto il cuore una verità anche quando non c’è nulla da fare. La sentenza di una grave malattia, le distruzioni causate da un terremoto o la somma degli anni vissuti quando si arriva alla fine, non hanno un nemico contro il quale ci si possa scagliare; si bestemmia contro il fato o la vita, ma è un modo di fare, non una risposta. Quel che è accaduto non è colpa di nessuno, non c’è rimedio e si muore comunque.
Qualche volta usciamo da noi stessi e il male subìto si trasforma, si vorrebbe trasformato, in buona azione: In nome del padre o della figlia ci diamo da fare affinché la stessa sorte non tocchi a altri o almeno ci si prepari a renderla più lieve. Non c’è motivo di sorridere di questo conforto, anche la rivolta contro l’inevitabile è un principio di speranza: sotto i terremoti ci sono le case e gli anni non sono tutti uguali, ma non basta.
Il sapere necessario a uscire dal lutto non è disponibile sotto forma di un manuale di istruzioni ma va ottenuto con la forza e le difficoltà appaiono spesso insormontabili, serve tempo. La volontà da sola tiene sveglio l’istinto ma da solo l’istinto può andare in qualunque direzione. Una cattiva notizia segnala chi la riferisce, è vero, ma insieme a lui anche la conoscenza che l’ha prodotta.
Quando si passa sotto silenzio la fragilità dell’esistente, il colpevole è presto individuato, così come la constatazione rende tutti innocenti. In entrambi i casi chi volesse obiettare si troverebbe come Sansone tra le due colonne che lo tengono prigioniero, di fronte a una scelta obbligata tra la capitolazione e la rovina.
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L’età del capitalismo della sorveglianza
di Paolo Pecere*
Tra tecnologia, scienze cognitive e utopia negativa: presente e futuro secondo Shoshana Zuboff
L'espressione “capitalismo della sorveglianza”, coniata da Shoshana Zuboff, condensa efficacemente due concetti: quello di un nuovo capitalismo, alternativo a quello industriale dei secoli scorsi, e quello di un nuovo sistema di potere fondato sul controllo del comportamento individuale. Il sottotitolo del libro di Zuboff insiste su questo epocale significato politico: il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri.
Il capitalismo della sorveglianza, portato in Italia da LUISS University Press, con la traduzione di Paolo Bassotti, è un libro importante e ampio (oltre 600 pagine) che descrive una realtà con cui miliardi di persone hanno a che fare, spesso inconsapevolmente, e introduce conoscenze che dovrebbero far parte dell’istruzione di qualsiasi cittadino. Un’opera in cui è utile, per un primo orientamento, distinguere due aspetti: primo, l’analisi storica, giuridica e economica del nuovo capitalismo sorto all’inizio del millennio e fondato sulle nuove tecnologie digitali; secondo, la descrizione di una nuova forma di potere antidemocratico, basata sul sistematico e occulto condizionamento delle scelte individuali, su cui l’autrice vuole provocare “indignazione”, invocando l’azione politica.
La seconda parte del libro è meno ancorata ai fatti: guardando al futuro delinea un’utopia negativa, una previsione plumbea fondata su alcune assunzioni filosofiche e politiche che si ritrovano anche in altri tentativi recenti di futurologia, come quelli di Yuval Harari. Ma, come cercherò di spiegare più avanti, Zuboff e Harari, pur avendo l’ambizione di “leggere” il futuro nelle tecnologie del presente, trascurano il contributo dell’epistemologia, della filologia, della filosofia, e in genere delle discipline che insegnano a comprendere criticamente i discorsi scientifici e i testi.
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Subprime e Covid 19. Le due grandi crisi dell'economia del debito
di Giordano Sivini
Parte prima
L’asimmetria delle crisi e la centralità dei rendimenti
Nella grande recessione iniziata nel 2007 e in quella attuale del grande lockdown, il mondo si confronta con crisi di portata globale, paradossalmente originate da eventi localizzati.
La grande recessione è stata originata dalla insolvibilità dei mutuatari subprime, che aveva bloccato il flusso di rendimenti dei titoli basati sulla cartolarizzazione dei mutui. Questi titoli costituivano appena il tre per cento del totale delle attività delle banche di Wall Street[1], una nicchia particolarmente speculativa entro una enorme massa costruita sui debiti delle famiglie.
Il grande lockdown è stato invece innescato dal blocco delle attività produttive del mercato di Wuhan, un’area della Cina dove sono localizzati i fornitori di 51 mila imprese attive nel mondo. Si è estesa alle aree contigue, ed ha interrotto le catene mondiali di approvvigionamento just-in-time ben prima che gli Stati, uno dopo l’altro, chiudessero le proprie attività non essenziali. Le imprese e le famiglie si sono trovate in difficoltà nel far fronte alla massa dei debiti in scadenza.
Entrambe le crisi hanno colpito i rendimenti. Nell’economia del debito i rendimenti esprimono la vitalità del rapporto di credito sul quale si erge il sistema dei titoli finanziari. “I titoli - chiarisce un esperto di finanza - sono radicati in uno spazio giuridicamente coerente di diritti, doveri o convenzioni. Esistono dunque in quanto originati dalla realtà che li contiene. Perciò, all’estremo, tutti gli elementi della realtà possono essere introdotti nello spazio teorico e pratico della finanza. L’attività sottostante è ovunque la stessa: quella di uno stock autonomo di ricchezza che mira a generare un flusso di rendimenti” [2].
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Stazione di Bologna: dai depistaggi all’invenzione della Storia
di Dante Barontini
Dopo 40 anni, è necessario provare a dire perché sulla strage della stazione di Bologna, come su tutte le altre stragi “fascio-statuali”, è pressoché impossibile arrivare a una conclusione condivisa e si è tuttora obbligati a fare “controinformazione”, smentendo la pioggia di “ricostruzioni ufficiali”.
I “misteri”, in queste stragi1, non esistono. Ci sono buchi nelle indagini, palesi e spesso scoperti tentativi di depistaggio, interferenze continue praticamente “firmate” da servizi segreti – italiani, americani, israeliani, persino francesi – testimoni che scompaiono o muoiono in circostanze più che dubbie. Ma nulla che sia davvero “inconoscibile”.
Da Piazza Fontana in poi (in realtà si potrebbe risalire a Portella delle Ginestre e ai vari accenni di golpe messi in programma più volte), ci sono state più chiavi di lettura, tutte riconducibili a due campi politici molto chiari. Sul fronte opposto ad entrambi sta la ricerca della verità, storica e politica, tentata quasi in solitaria dal “movimento antagonista” – finché ha avuto forza e capacità di discernimento, sia individuale che collettivo – e da alcuni (pochi) storici o giornalisti.
I due campi principali sono facilmente distinguibili. Quello sedicente “progressista” – capeggiato un tempo dal Pci, poi dalle sue innumerevoli conversioni – ha spesso condotto le indagini attraverso magistrati “di area”, trovando sulla sua strada resistenze e depistaggi messi in atto, oggi diremmo, dal deep state. Ovvero dagli apparati, spionistici e mediatici, che quelle stragi avevano organizzato e poi coperto.
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Interesse nazionale, storia, cultura, identità: la grande sfida di riunire l’Italia
Andrea Muratore intervista Marco Giaconi
L’insistenza di Mark Rutte, leader dei Paesi frugali e dell’Olanda austeritaria, ha fatto venire a galla definitivamente la pericolosità dei “vincoli esterni” politici, culturali e ideologici che nel discorso pubblico italiano sono, purtroppo, estremamente presenti. Con il professor Marco Giaconi cerchiamo oggi di capire come spezzare questi vincoli e riunire, definitivamente, il Paese.
* * * *
Professor Giaconi, per discutere del peso del “vincolo esterno” sull’Italia vorremmo partire dalla recente trattativa sul Recovery Fund europeo: vedendo le accuse lanciate dal premier olandese Mark Rutte al nostro Paese abbiamo finalmente osservato allo specchio l’origine non italiani di anni di svalutazione del nostro Stato in ambito politico e mediatico. Dal mito secondo cui “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” al dualismo tra rigoristi virtuosi e italiani “cicale”, il vincolo esterno ha costruito un forte retroterra narrativo e ideologico. Quali sono gli effetti di questa contaminazione culturale?
Ci si difende al potere, e mi riferisco qui a Mark Rutte e agli altri “frugali”, anche e soprattutto accusando gli altri delle nostre colpe e rendendoli immagini rovesciate delle nostre paure. Noi frugali, italiani spendaccioni o fannulloni. Già Goethe, nel suo “Viaggio in Italia” raccontava che i napoletani non sono affatto pigri, ma casomai caotici. Diventare indebitati come gli italiani, avere una burocrazia o una magistratura come noi, tutte cose che mettono paura e vengono utilizzate come strumenti del potere. E’ il meccanismo del “perturbante” di Freud. Das unheimliche, ciò che non è Patria-Casa e quindi spaventa.
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Negri lettore di Marx. Parte II
di Bollettino Culturale
Cosa fare dalla definizione del soggetto rivoluzionario al di là del lavoro e del potere?
Le basi teoriche di cui parliamo hanno cambiato le concezioni dell'organizzazione e dell'azione politica, del soggetto politico rivoluzionario e del progetto strategico. Dagli anni '70, tuttavia, la questione della definizione del soggetto rivoluzionario è rimasta senza risposta per Negri, fino al recupero del concetto spinoziano di moltitudine. La difesa di un potere costituente autonomo e alternativo come progetto distinto da un'idea di transizione fa emergere precisamente il tema del potere che prende il sopravvento e permea la discussione sullo stigma che porta il termine massa, a cui il concetto di moltitudine servirebbe da contrappunto. La novità della moltitudine sarebbe nel reindirizzamento delle dinamiche dello sfruttamento capitalistico che oggi si rivolgono verso lo sfruttamento della cooperazione. Questa stessa cooperazione sarebbe un fattore favorevole alla creazione di reti di resistenza. Ma, se esaminiamo le tesi di Marx sul lavoro vivo, vediamo che le reti di collaborazione menzionate da Negri, associate a questo concetto, non implicano un potenziale di resistenza. Le forme di lavoro cooperativo restano strettamente legate alle loro forme espropriate. Questo perché "gli individui che costituiscono la classe dirigente (...) dominano anche come pensatori, come produttori di idee, regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo".
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Bill Gates e la nemesi tecno-medica
di Bianca Bonavita
“L’Homo sapiens, che si destò al mito in una tribù e crebbe alla politica come cittadino, viene ora addestrato a essere un detenuto a vita di un mondo industriale. La medicalizzazione porta all’estremo il carattere imperialista della società industriale.”[1]
“Nessuna assistenza dovrà essere imposta a un individuo contro la sua volontà: nessuna persona, senza il suo consenso, potrà essere presa, rinchiusa, ricoverata, curata o comunque molestata in nome della salute.”[2]
Ivan Illich, Nemesi Medica
“Potere vuol dire infliggere dolore e umiliazione.
Potere vuole dire ridurre la mente altrui in pezzi che poi rimetteremo insieme
nella forma che più ci parrà opportuna.
Cominci a intravedere adesso il mondo che stiamo costruendo?”[3]
George Orwell, 1984
Premessa
Denunciare la mistificazione costruita attorno al grande evento spettacolare Covid-19 (che distingueremo nel testo dal virus Sars-CoV-2) e alla forma di governo e di controllo della popolazione che si sta globalmente ridefinendo, non significa difendere la devastante normalità del prima, non significa porsi in una posizione di conservazione di un prima desiderabile da preservare. Così come non significa negare la morte delle persone.
Il virus non ci sembra, come molta della critica radicale vorrebbe, una speciale conseguenza della distruzione prodotta dal capitalismo e dai suoi allevamenti industriali umani e animali. Il nuovo coronavirus non ci sembra affatto un “demone della distruzione totale”, né “la produzione più devastante della devastazione della produzione”.
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Non solo settario
Bordiga lettore innovativo di Marx
di David Broder
Una recensione di The Science and the Passion of Communism: Selected Writings of Amadeo Bordiga (1912-1965), curato da Pietro Basso
Il 27 marzo del 1944, Palmiro Togliatti sbarcò a Napoli dopo diciotto anni trascorsi in esilio. Secondo un suo compagno, Maurizio Valenzi, al momento di incontrare i comunisti partenopei una delle prime domande del segretario del PCI fu: “Ma che cosa fa Bordiga?” Il fondatore del Partito Comunista era stato espulso dal partito clandestino nel 1930, in un momento in cui la sua organizzazione sul territorio italiano era stato pressoché schiacciata dal fascismo; tornando dall’URSS nel 1944 per costruire il suo “partito nuovo,” Togliatti voleva perciò combattere ciò che chiamava i residui di “bordighismo” nella base comunista. E come Togliatti stesso aveva insistito nel 1930, espellere Bordiga dal partito era una cosa; espellere il “bordighismo” tutta un’altra. Parallelamente, di fronte alle espressioni diffuse di “estremismo” e di “settarismo classista” tra la base comunista nelle regioni liberate (e anche all’ascesa di forze dissidenti organizzate in tutta Italia), gli agenti dell’Allied Military Government temevano la potenza sovversiva di uno spettrale Bordiga, sfuggente eppure “very popular amongst masses and especially amongst workmen”.
Che cosa faceva Bordiga, in quei mesi? I compagni di Togliatti risposero seccamente: non faceva quasi nulla, ancora non si era fatto vivo. Il segretario del PCI: “Non è possibile, cercate di capire” (o secondo un’altra versione, in tono più tetro: “Eppure con questo abbiamo un conto aperto e dobbiamo chiuderlo”.) Per lo storico Luigi Cortesi questo episodio evidenzierebbe un aspetto chiave della vicenda storica di Bordiga, che potremmo qualificare come lo scarto tra, da una parte, la presenza duratura fra la base comunista di un insieme di idee tendenzialmente “livorniste” e poco gramsciane, ma anche un po’ generiche (l’opposizione frontale al mondo borghese, la politica classe-contro-classe, l’imminenza della rivoluzione proletaria “come in Russia” ecc.), e, dall’altra, l’attività e i posizionamenti politici concreti del fondatore stesso.
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Parla Leonardo Mazzei del coordinamento nazionale di “Liberiamo l’Italia”
Intervista esclusiva di Marco Giannini
Buongiorno Leonardo, in questa intervista vorrei che spaziasse e non si limitasse allo “stretto necessario”. Sa, quando ascolto i TG ed i Talk Show ripenso alle parole del Nobel economico Stiglitz che, nel saggio “Freefall”, sosteneva che i poteri forti neoliberisti avrebbero fallito, qualora avessero cercato di combinare in Europa ciò che avevano provocato nel sud est asiatico, alla fine degli anni ’90. Io invece trovo che i media siano prodigiosi nel non fare accorgere, ai cittadini dei paesi che in UE soccombono (L’Italia), di essere sfruttati da quelli che della UE approfittano (Germania). A questo scopo hanno inventato il termine imbecille di “sovranisti”.
* * * *
1) Mi scusi la premessa Leonardo, ci parli di Liberiamo l’Italia: che ruolo ha lei all’interno di questa forza politica, quando nasce, quali sono i suoi scopi e la sua collocazione ideologica.
Liberiamo l’Italia (Lit) è un movimento nato con la manifestazione del 12 ottobre 2019, il primo corteo nazionale per l’Italexit. Visto il successo dell’iniziativa, i suoi promotori decisero di avviare il processo costitutivo di un soggetto politico che ne portasse avanti i contenuti. Uscire dall’Unione Europea e dal neoliberismo, riconquistare la sovranità nazionale, applicare la Costituzione del 1948 dando a tutti lavoro e dignità: questi gli obiettivi su cui siamo nati, la cui attualità è perfino superfluo ricordare. Lit ha un coordinamento nazionale di cui faccio parte.
2) Liberiamo l’Italia può trovare un percorso comune con altri soggetti, penso alla neonascente “Italexit” di Gianluigi Paragone e/o a “Vox” di Fusaro?
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La sfida di Gaia
di Alessandro Barile
Bruno Latour, La sfida di Gaia, Meltemi, 2020, pp- 420, € 24,00
Il nuovo ultimo libro di Bruno Latour riprende una serie di conferenze tenute nel 2013 attorno al tema della “religione naturale”. Nonostante gli anni trascorsi, possiamo dire con una buona dose di certezza che i problemi rimangono attuali, e in via di peggioramento. L’azione dell’uomo sulla natura sta cambiando e l’uomo e la natura. Questo il dato assodato. Da qui, però, iniziano le incognite, per nulla confinabili entro il dibattito tra scienziati ecologisti e lobby industriali. Latour prova a ricostruire una sorta di orizzonte di senso dei fatti e della posta in gioco, attraverso l’uso della sua strumentazione dialettica fortemente visionaria, dai tratti profetici a volte utili, altre volte affaticanti. Sono d’altronde i rischi e le virtù delle narrazioni ibride, e questa si colloca volontariamente al confine tra l’antropologia, la filosofia e la sociologia. Il risultato può essere spiazzante, come onestamente segnala nella prefazione Luca Mercalli, stordito – pare – da un linguaggio e da ragionamenti a volte eterei, altre mistici. C’è un fatto che però sembra dar ragione a Latour in questo suo tentativo forse naif: scienza e cultura sono andate separandosi nel corso del secondo Novecento, ma risultano oggi talmente intrecciate tra loro che senza il lavorio epistemologico delle scienze umane non è possibile cogliere l’essenza della nostra società: divisi a forza i loro destini, la scienza si è mutata rapidamente in tecnica (peggio, in tecnologia produttiva), la cultura in una sorta di sociologia dell’inessenziale. Occorre riavvicinare i due capi della scienza, ed è il condivisibile proposito di Latour.
La vicenda del Covid, d’altronde, lo ha dimostrato: ogni discorso anti-scientifico è destinato clamorosamente a contraddirsi; viceversa, ogni aristocrazia, sia essa fondata sulla ricchezza o sulla sapienza scientifica, confligge con la democrazia e con la logica dello sviluppo umano.
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La contraddizione è ciò che muove il mondo
Leo Essen intervista Vladimiro Giacché
Intervista sul suo libro “Hegel. La dialettica” (Diarkos, 2020)
1
Hegel non è un autore facile. Il suo pensiero è sottomesso alla stessa legge di ciò di cui è legge. Tutto ciò imprime al suo sistema una forma piuttosto contorta e difficilmente afferrabile. In più, il tempo è inteso come un fiume che mi trascina, ma sono io il fiume, una tigre che mi sbrana, ma sono io la tigre, un fuoco che mi divora, ma sono io il fuoco (Borges).
Avere ragione di questo processo significa andare fino in fondo, vedere la fine, mettersi alla prova. Ma la prova non è un esperimento, un saggio o una verifica. È piuttosto un errare, costellato di difficoltà e sconfitte.
Come in un romanzo di formazione, la prova è un mettersi in cammino attraverso cui il protagonista della narrazione può, alla fine del tragitto, giungere alla conquista della verità su se stesso e sulla vita.
La sua ricerca su Hegel inizia con «Finalità e soggettività. Forme del finalismo nella Scienza della logica di Hegel»*, e termina con «Hegel. La dialettica». Si tratta di un cammino – e non potrebbe essere altrimenti, visto che qui in causa c’è proprio Hegel – un cammino iniziato con un libro molto tecnico, e chiuso con un libro altrettanto rigoroso, ma accessibile a un pubblico di non addetti ai lavori. Cosa ha determinato questo cambiamento di rotta, questo passaggio a una scrittura apparentemente più semplice e lineare, ma in realtà molto più sorvegliata?
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Capitalismo, razzismo, guerra, e devastazione dell’ambiente
di Angelo Baracca
Il bell’articolo di Bruno Gullì, «Le radici della rivolta attuale: la triplice pandemia di razzismo, Covid-19 e capitalismo dei disastri»[1], discute in termini molto efficaci “il disastroso presente, la vulnerabilità, il futuro soffocato” negli Stati Uniti di oggi, soffocati appunto dalla triplice pandemia di razzismo, Covid-19 e capitalismo dei disastri.
Apprezzo molto, fra le altre cose, la caratterizzazione della figura e del ruolo di Obama rispetto all’amministrazione Bush che lo aveva preceduto, “la continuazione di una storia di disprezzo per la vita”: la cosa che immediatamente mi torna alla mente è dopo la pretestuosa ed efferata guerra all’Iraq del 2003, quando a fronte di mezzo milione di bambini morti (e circa tre volte vittime totali) il suo Segretario di Stato, Madeleine Albright, per la prima volta una donna, interrogata se riteneva che ne fosse valsa la pena rispose con un cinismo rivoltante “we think the price is worth it”.
Proprio questo mi da l’occasione, nel mio giudizio positivo dell’articolo, per fare un appunto critico ma costruttivo, a mio avviso non di poco conto. Le “tre pandemie” discusse da Gullì costituiscono, con le conclusioni che trae, una buona base per inquadrare la situazione interna degli Stati Uniti: ma il paese si caratterizza in modo peculiare come la maggiore potenza militare del pianeta, e da qui trae la sua forza e la sua fisionomia, anche per molti aspetti della sua struttura interna, politica, sociale ed economica. I Democratici, come del resto Gullì argomenta, non hanno mai messo in discussione la politica imperiale di Washington: per le elezioni di novembre i candidati democratici che avrebbero potuto, pur tiepidamente, contrastare questa politica militare sono ormai fuori gioco, ma anche i più radicali non mettevano in discussione il ricorso alla guerra alla base della politica di dominio imperiale degli Stati Uniti.
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Lenin e la dialettica. Teoria e prassi di un metodo rivoluzionario
di Massimo Piermarini
Recensione a Costantino Avanzi, Lenin e la dialettica. Teoria e prassi di un metodo rivoluzionario, Mimesis, Milano-Udine, 2020, ISBN-13: 978-8857563688, € 28
In un corposo volume di oltre 300 pagine, Costantino Avanzi affronta un argomento controcorrente, anacronistico ad opinione di molti, in tempi di post-comunismo e di conclamata egemonia del neoliberismo: il valore della dialettica nel pensiero e nell’opera politica dell’artefice della Rivoluzione socialista d’Ottobre, Vladimir Ilic Ulianov Lenin. L’uscita stessa di questo volume dedicato ad un personaggio chiave della storia del Novecento, il secolo che non finisce, segnala la possibilità di un’articolazione diversa della riflessione sul presente e sulla dimensione storica del suo sviluppo. Dopo i saggi di G.Lukács, più volte richiamato nel testo, e quelli di A. Negri (1973) e quello più recente (2017) di S. Žižek, che si muovono su linee teoriche e un approccio metodologico molto diverso, Avanzi affronta la polpa della filosofia e del metodo rivoluzionario di Lenin: la dialettica. La dialettica si presenta non soltanto come la logica rivoluzionaria del marxismo in quanto materialismo dialettico, essa è la chiave di comprensione degli avvenimenti e della lotta politica e del metodo della prassi rivoluzionaria e viene ricostruita nel volume attraverso un’attenta disamina del suo ruolo nella preparazione e nella realizzazione della Rivoluzione d’ottobre e nei problemi di costruzione del socialismo dopo la rivoluzione. Le avventure della dialettica nella politica leninista suggeriscono dunque un orizzonte di discussione intorno alle dinamiche reali della storia del comunismo. Come segnala E. Alessandroni nell’Introduzione al volume esso si misura sulle contraddizioni reali che il processo rivoluzionario e la costruzione del socialismo produce e sul metodo di trattarle cogliendo le articolazioni reali dei conflitti sociali e la logica nascosta del “determinismo dialettico” delle contraddizioni da parte di Lenin:
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PD e “movimenti”. Per provare ad uscire da un equivoco
di Militant
Nei giorni scorsi abbiamo preso pubblicamente una posizione piuttosto netta sui comportamenti giudiziari dell’enfante prodige della politica cittadina e questo ci ha fatto “guadagnare” qualche attenzione da partedella Digos romana, arricchendo così l’intera vicenda, già piuttosto triste di suo, di tutte quelle sfumature che separano il grottesco dal ridicolo. Ora che la polemica si è un po’ raffreddata, soprattutto sui social, vorremmo però tornare sulla questione per provare a affrontare quello per noi è il vero nodo politico che sottende tutta questa vicenda, ossia il collateralismo al Partito Democratico di alcuni pezzi di quello che una volta avremmo chiamato movimento. Sgomberiamo immediatamente il campo da possibili equivoci, non abbiamo alcuna velleità di tirare fuori scomuniche o giudizi di natura moralistica. Qui non stiamo parlando di “tradimenti”, carrierismi o cose del genere, che pure nelle storie anche piccole della sinistra di movimento non sono mai mancate, quanto piuttosto di scelte politiche che nel corso del tempo immaginiamo siano state attentamente ponderate e che, però, proprio per questo, crediamo vadano criticate con estrema nettezza.
Immaginiamo che in questi anni di continuo arretramento sociale e politico in alcune aree della sinistra antagonista sia progressivamente maturata l’idea che l’unico modo per garantire una qualche efficacia alla propria azione non potesse essere altro che il lavorio ai fianchi del PD e del centrosinistra. Una sorta di lobbing del sociale che facesse perno sulle “affinità elettive” con qualche dirigente particolarmente illuminato, o sensibile su specifici temi, e che ha spinto più di qualcuno a fare direttamente il “salto della quaglia” ed entrare per provare a “cambiare da dentro”, per “spostare l’asse a sinistra”, per “imporre i nostri temi”… Ancora una volta: nessun giudizio morale.
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Un confronto tra marxismo ed MMT
di Bollettino Culturale
La teoria della moneta moderna (MMT) basa il suo sviluppo sullo storico disaccoppiamento del denaro dal gold standard. Dal 1971, con il crollo del sistema di Bretton Woods e l'abbandono del gold standard da parte degli Stati Uniti, il denaro divenne denaro fiat (valuta convertibile solo con sé stessa, senza l’obbligo di essere convertibile in oro) e controllata totalmente dalla banca centrale e dallo Stato.
Raccogliendo le tasse, lo Stato impone la propria valuta sull'economia nel suo insieme. In altre parole, il denaro statale viene riconosciuto e utilizzato da altri agenti economici perché devono pagare le tasse in quella valuta.
Non dovendo sostenere il denaro esistente nell'economia con una certa quantità di oro, lo Stato perde, afferma la MMT, tutte le restrizioni oggettive sulla sua spesa. Emette la moneta e può spendere tutto ciò che vuole nella propria moneta, il che ovviamente non significa che sia sempre consigliabile farlo. In ogni caso, la valuta sarà sempre accettata nel territorio sotto la sovranità dello Stato, poiché altri agenti economici ne hanno bisogno per pagare le tasse. Pertanto, il confine tra politica fiscale e politica monetaria è, secondo la MMT, artificiale.
Né per finanziare né per spendere lo Stato ha bisogno di riscuotere le tasse. Finanzia la sua spesa, è colui che emette la valuta e quindi non può mai esaurirla.
Attraverso la spesa, lo Stato infonde liquidità nell'economia, poiché la spesa pubblica implica un aumento delle riserve nelle banche private. Aumentando o vendendo il debito pubblico, al contrario, preleva denaro da se stesso.
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La droga e la storia
di Afshin Kaveh
“Non è morto ciò che può attendere in eterno, e col volgere di strani eoni anche la morte può morire”
Howard P. Lovecraft
Premessa
La droga è sempre esistita, in quanto intrinsecamente intessuta nella storia spirituale dell'umanità. Il consumo di sostanze oggi medicalmente definite come psicoattive (siano esse sedattivo-euforizzanti, psicostimolanti oppure allucinogene), già da millenni addietro, si è incastrato nelle lunghe trame magico-religiose di intere popolazioni, almeno per quel di cui si ha notizia, ritualizzandone l'uso e mitizzandone il ruolo. Tale constatazione, la quale non si è mai posta come atto di giustificazione all'uso e al ruolo che invece riveste modernamente la droga, si muove attorno a quel dato di fatto per cui l'oggetto dell'analisi, ovvero il suo consumo e l'immaginario attorno allo stesso e non la sostanza o la sua origine materiale in sé, non può essere né sovratemporale (dunque eternamente astorico e in quanto tale onnipresente nelle stesse vesti) né, appunto, un fondamento formalmente e strutturalmente preciso e puntuale della vita sociale di ogni epoca e neanche una invariabile antropologica. Certo, alcune logiche rispetto al consumo di sostanze negli ultimi due secoli, pur mutando innegabilmente vesti, si sono spesso ripetute in maniera piuttosto similare, o quasi. Ma più che di ripetizione, similare o identica che fosse, e quindi di copione recitato piuttosto fedelmente, si può parlare di linearità, intesa come continuità storica dettata semplicemente dal fatto per cui certi modelli economico-sociali (riferendosi agli ultimi due secoli si fa quindi riferimento a quelli capitalistici), tendenzialmente, non sono mai stati superati o rovesciati e, fino a che sarà così le vesti di una cosa al suo interno, in questo caso la droga in quanto merce e il suo ruolo sociale, difficilmente cambieranno.
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Italexit
di Andrea Zhok
In questo periodo nell'area politica che frequento maggiormente c'è grande fermento, volano stracci e qualche coltellata.
Il grande tema è dato dalla comparsa sul terreno di un’aspirante forza politica, guidata dall'ex direttore della Padania e vicedirettore di Libero, sen. Gianluigi Paragone.
Il manifesto politico e scritto da mani capaci, e, per quanto semplicistico, tocca tutti i punti giusti nell'area di riferimento. Tuttavia più del manifesto, il cuore della proposta sta in ciò che viene comunicato dalla scelta stessa del nome: ITALEXIT, l’uscita dell’Italia dall’UE.
La fibrillazione nell'area politica di riferimento (oscillante tra 'sinistra euroscettica' e 'destra sociale') è manifesta. Il senso politico dell’operazione è piuttosto chiaro: esiste una fascia di elettorato rimasto politicamente orfano dopo che nella Lega l'europeismo di Giorgetti ha messo all’angolo l'area Borghi-Bagnai, e dopo che l'esperienza di governo ha mitigato l’euroscetticismo del M5S.
Il progetto di ITALEXIT sta nel chiamare a raccolta quest’area di malcontento in uscita da Lega e M5S, con numeri sufficienti da superare le soglie di sbarramento alle prossime elezioni politiche, portando qualcuno (a partire dal sen. Paragone) in Parlamento.
L'operazione è politicamente legittima e può avere successo.
Intorno a questa operazione, al suo retroterra e ai suoi concreti sbocchi si è acceso un rovente dibattito. Conformemente al modo di porsi del nuovo partito, la discussione si è immediatamente fatta incandescente intorno al tema dell'Italexit, con un ritorno in grande stile delle accuse di "altroeuropeismo".
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Banca Popolare Bari: per ora la solita storia
Le proposte di Rifondazione per una possibile svolta
di Ufficio Credito ed Assicurazioni PRC-SE
Nonostante le perplessità della vigilia, l’assemblea degli spolpatissimi soci della Popolare di Bari ha approvato, con una maggioranza bulgara del 97%, il piano di rilancio della banca proposto dai Commissari straordinari che prevede, innanzi tutto, la sua trasformazione in SpA.
Come noto, il salvataggio è stato possibile grazie ad una ricapitalizzazione pari a circa 1,6 miliardi di euro che saranno sborsati dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (che in sostanza coprirà le perdite pregresse che ammontano a quasi 1,2 miliardi di euro) e da Mediocredito Centrale che con circa 430 milioni di euro otterrà il 97% del capitale della nuova banca.
L’ennesimo intervento del Fitd (che è alimentato dalle contribuzioni di tutte le banche operanti nel nostro paese, quindi da risorse in larga misura private), di gran lunga il più oneroso della sua storia, non deve certo essere scambiato per un atto di generosità verso un concorrente in grave difficoltà. Occorre ricordare infatti che in caso di fallimento della banca, il Fondo avrebbe comunque dovuto intervenire a tutela dei depositanti (sino a 100mila euro) con un esborso decisamente superiore e non facilmente digeribile per il sistema.
Mediocredito Centrale, invece, tramite Invitalia, è partecipato al 100% dal Ministero dell’Economia. Di conseguenza, la nuova Popolare di Bari è ora di proprietà pubblica (o meglio statale).
Naturalmente, rimangono in campo gli strascichi giudiziari della vicenda (fra pochi giorni dovrebbe partire il processo agli Jacobini, padroni incontrastati della banca per quarant’anni e ora accusati di una lunga lista di capi di imputazione) e la rabbia dei risparmiatori “traditi” che in questo caso, salvi gli obbligazionisti, sono i circa 70mila soci restati sostanzialmente con mucchi di carta straccia in mano.
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Il capitalismo della sorveglianza e le briciole digitali
di Daniele Lo Vetere
Una lettura del libro di Shoshana Zuboff, “Il capitalismo della sorveglianza” (Luiss Univ. Press, 2019)
La scoperta e la cattura del «surplus comportamentale»
Il capitalismo della sorveglianza ha poco più di una decina d’anni, ma la sua proliferazione è stata tanto rapida da aver imposto come ineluttabile trasformazione storica un racconto che avrebbe potuto avere un altro esito. Ha anche un padre certificato: Google.
All’inizio c’è un semplice motore di ricerca, i cui sviluppatori, Sergey Brin e Larry Page, sono due fra i molti «tipi svegli incapaci di fare profitti» della Silicon Valley: hanno un ottimo algoritmo, ma non ci guadagnano. Nel 2002 esplode la “bolla del dot.com” e la breve promessa di paradiso della new economy si capovolge in un inferno di fallimenti aziendali. A quel punto la scelta è tra morire o sopravvivere a qualsiasi costo: in soli cinque anni gli introiti di Google crescono del 3.590%. Brin e Page avevano scelto la seconda strada.
Il salto di qualità è consistito nell’associare la pubblicità non alle query, ma agli utenti (targeted advertising), arrivando a quella pratica di pubblicità individualizzata e onnipervasiva cui ormai abbiamo fatto l’abitudine. Ciò che è nuovo non è naturalmente l’idea della pubblicità orientata al consumatore, che è da sempre l’ambizione di ogni pubblicitario, quanto la potenza e l’intrusività degli strumenti a disposizione per la profilazione degli utenti, che è premessa necessaria alla targetizzazione. La pubblicità, dice Zuboff, da arte è diventata scienza.
Questa pratica di profilazione è però molto diversa da come intuitivamente ce la raffiguriamo: agisce sempre a lato e obliquamente, in sottofondo e oltre la superficie delle informazioni esplicitamente cercate e fornite.
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2 + 2 = 5. L’emulazione socialista in URSS. Parte III
di Paolo Selmi
Cari compagni,
questo lavoro è nato come paragrafo alla parte introduttiva del manuale sulla pianificazione che sto traducendo. Poi, le questioni sollevate man mano che la ricerca proseguiva erano tante e tali... che in questi mesi è diventata una piccola monografia: 150 pagine delle mie, un libro vero e proprio usando un'impaginazione editoriale. Per motivi di dimensione, difficile da gestire anche per software potenti come l'editor di sinistrainrete.info, è stata decisa una suddivisione (del tutto strumentale) in quattro puntate. Lo scopo primario di questo lavoro è stato riproporre e sviluppare alcune questioni su cui e, peggio ancora, di cui oggi nessuno parla quando si parla di socialismo e di storia sovietica. Lo scopo ultimo e, infine, l'auspicio con cui chiudo queste poche righe è che ciascuno di voi, sia singolarmente che come gruppo di lavoro e collettivo di ricerca, tragga da questi materiali, la cui traduzione è inedita nella stragrande maggioranza dei casi, spunto per ulteriori analisi, riflessioni, collegamenti, approfondimenti. Di carne al fuoco ce n'è davvero molta, per cui grazie per l'attenzione, per le osservazioni, per gli spunti che vorrete condividere, ma soprattutto...
Buona lettura!
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Entuziazm (Simfonija Donbassa)
Come dicono gli etologi, quanto accaduto sinora costituì l’imprinting, la struttura ideologica che condizionò, nel bene e nel male, con comportamenti a essa del tutto conformi o, all’opposto, del tutto antagonistici, gli anni successivi, per certi versi – come abbiam visto nell’articoletto del giornale di Ferrara, fin dopo l’esperienza sovietica. Preferisco lavorare su tale impronta e il suo lascito, e non su nozioni come “mito fondativo”, perché l’URSS (e l’attuale Federazione Russa, insieme a tutte le ex-Repubbliche dell’Unione, persino quelle governate oggi da neonazisti e neofascisti), ebbe nel corso della sua breve vita almeno un altro battesimo del fuoco: la Grande Guerra Patriottica, col suo tributo di sangue e una vittoria che fu una vittoria di un popolo intero, una vittoria come poche si videro nel corso della storia di quest’essere antropomorfo chiamato uomo.
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Lo spettro dei tre big
Le enormi quantità di denaro nelle loro mani
di Glauco Benigni
Si chiamano Vanguard, BlackRock e State Street Global Advisor, sono i tre maggiori Mutual Funds del mondo. Sono noti anche come "Fondi comuni", ovvero Fondi di investimento, gestiti da esperti professionisti, che raccolgono denaro "fresco" da una sterminata e variegata quantità di investitori e risparmiatori. Con questo "denaro fresco" acquistano titoli nelle diverse borse del pianeta e ridistribuiscono utili (quando va bene) a coloro i quali hanno loro affidato l'eccedenza del proprio capitale e/o i propri risparmi. Gli investitori possono essere di natura commerciale o istituzionale, ma anche semplici privati che accedono ai diversi piani di investimento riconducibili e controllati dai Big 3.
I tre appaiono strettamente interconnessi l'uno con l'altro, grazie a incroci proprietari e legami molto riservati e personali tra i loro rappresentanti al vertice delle operazioni e dei rispettivi Boards.
In sostanza quando si parla di "capitalismo finanziario", di "imperialismo neoliberista" o quando si evoca "la Finanza" tout court, quale bussola per orientare i destini della contemporaneità e del futuro, si parla di o meglio "si evocano" Loro senza menzionarli. Come ogni vero Potere sono già Tabù.
I tre sono al centro di una vasta galassia di sigle, in cui compaiono altri importanti Mutual Funds e soggetti finanziari (tra cui: Fidelity, T-Rowe, Goldman Sachs, J.P. Morgan, Morgan Stanley). Le masse finanziarie da loro gestite agiscono come all'interno di un sistema gravitazionale, provocando attrazioni e repulsioni sull'intera costellazione bancaria e assicurativa. Grazie alle posizioni strategiche nei diversi azionariati, costituite dai loro imponenti investimenti, i Big 3 sono in grado di "condizionare" gli indirizzi di ogni area di attività: produzione, distribuzione di merci e servizi, trasporti, sanità, ricerca, etc.
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