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Il lavoro c'è, se non lo trovi è solo colpa tua
di Eugenio Donnici
Una delle prediche che i giovani si devono sorbire, quando conseguono un diploma o una laurea, è quella che non sono preparati per entrare nel mondo del lavoro - detta brutalmente «Non sanno fare niente!». Si tratta di una critica disarmante, e per certi aspetti pericolosa, poiché butta fango sul sistema educativo in generale e denigra il bagaglio culturale di chi segue i percorsi formativi delle scuole secondarie e quelli universitari.
A nulla valgono tutti in tentativi di stare al passo coi tempi, cioè di praticare e sperimentare forme didattiche laboratoriali. Anzi, più ci si affanna ad adeguarsi al mondo del lavoro e più si percepisce che quel mondo tende a chiudere le porte, rinfacciando a chi bussa di non essere all’altezza del compito che dovrebbe svolgere. Alcune critiche nei confronti dei neolaureati e neodiplomati sono così aspre che sfiorano il ridicolo: questi soggetti non sarebbero in grado di scrivere un curriculum vitae, di sostenere un colloquio di lavoro.
Neolaureati e neodiplomati sono completamente smarriti e disorientati. A nulla valgono le conoscenze e le competenze che hanno sviluppato: per lo più finiscono per essere considerate solo carta straccia.
La frattura che si è aperta tra i sistemi formativi e i relativi mondi del lavoro si è trasformata in una falla o, meglio, è proprio il movimento sottostante al terreno su cui continuiamo a poggiare i piedi che alimenta costantemente quella rottura che noi vediamo in superficie.
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Il neoliberismo non è una teoria economica
Terza e ultima parte*
di Luca Benedini
Con un’appendice filosofica su Covid-19, dialettica e altro
L’euro stesso è stato impostato – e continua ad essere gestito – in una maniera sostanzialmente neoliberista
Al di là di procedure come quelle previste dal Sixpack e dal “fiscal compact”, l’eurozona stessa, per come è stata gestita sino ad ora, è divenuta uno strumento che funziona in pratica ai danni dei lavoratori. Si tratta di una questione di una certa complessità tecnica, ma se descritta con cura non ha niente di incomprensibile, neanche per chi non abbia minimamente fatto studi di economia.
È un meccanismo che opera in parallelo col fatto che le specifiche deregolamentazioni dei mercati previste dal Fondo monetario internazionale (Fmi) nei suoi “piani di aggiustamento strutturale” e più in generale la globalizzazione neoliberista (praticamente priva di regole di tipo sociale, ambientale e giuridico secondo appunto i dettami del neoliberismo) sono diventate un’occasione per scatenare un’estrema concorrenza economica internazionale tra i vari paesi, con un effetto di gran lunga predominante: lo spostamento dei capitali e degli investimenti – e non di rado anche delle attrezzature stesse, attraverso le delocalizzazioni – verso i paesi dove vi sono una minore sindacalizzazione dei lavoratori e soprattutto minori costi di produzione (p.es. per i salari, per le protezione ambientale e per la tassazione) e dove, quindi, si possono ottenere profitti più alti e meno soggetti a contestazioni sociali e politiche. A causa di questo, i paesi con salari più elevati, lavoratori più sindacalizzati, protezioni ambientali più corpose e un fisco meno sensibile agli interessi delle élite economiche sono praticamente destinati a perdere delle attività produttive in modo più o meno costante, a meno che non sappiano offrire grossi vantaggi di altro tipo alle imprese (p.es., un sistema produttivo meglio organizzato, dei lavoratori più efficienti e preparati, pubbliche istituzioni più pronte a collaborare creativamente col settore privato, e così via).
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Quell’inspiegabile euforia sul Recovery fund
di coniarerivolta
La proposta di Recovery Fund, poi Next Generation EU (NGEU), della Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen, dopo quattro giorni di discussione in seno al Consiglio europeo ha trovato il suo sbocco nell’accordo del 21 luglio, firmato dai rappresentanti dei Paesi dell’Unione europea.
Il piatto forte dell’accordo è un piano per la ripresa economica che potrà arrivare fino a 750 miliardi di euro. Una volta raccolte sul mercato, queste risorse saranno erogate ai Paesi dell’Unione nella somma di 390 miliardi sotto forma di contributi a fondo perduto (che, in altri termini, non dovranno quindi essere restituiti direttamente dai Paesi che li otterranno), e sotto forma di prestiti per 360 miliardi.
L’accordo, che si inserisce nel più ampio quadro finanziario pluriennale 2021-2027, è stato esaltato dai media italiani come un grande trionfo per il governo Conte, ma anche come una sorta di “rivoluzione” che segna la nascita di una nuova Unione europea, finalmente più vicina ai cittadini dei suoi Paesi. Un rinsaldamento dell’unione politica, evidenziato, in particolare, dal fatto che l’Unione si indebita ‘in prima persona’.
Come si vedrà, e come, peraltro, era ampiamente prevedibile, la realtà è ben diversa. Da un lato, infatti, i nuovi aiuti europei, soprattutto se considerati al netto dei contributi che i Paesi beneficiari devono, a loro volta, versare, sono poco più di un pannicello caldo. Ben poca roba davanti a quella che si annuncia come la più profonda crisi economica dall’ultimo dopoguerra. Dall’altro, cosa ancor più grave, vengono rafforzati e affinati quei meccanismi di controllo e di imposizione dell’austerità che hanno da sempre caratterizzato, in maniera via via più invasiva, la storia dell’integrazione europea, con un portato di disoccupazione, disagio sociale e precarietà per descrivere il quale non si può far altro che parlare di disastro.
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La possibile soluzione della globalizzazione cinese
di Alessandro Pascale
Quello che segue è il capitolo 15.4 di A. Pascale, Il totalitarismo liberale. Le tecniche imperialiste per l'egemonia culturale, La Città del Sole, Napoli 2018, pp. 438-442. Con il presente scritto continuiamo (per recuperare gli scritti precedenti si veda qui), in anteprima per Marx21.it, la pubblicazione del capitolo finale dell'opera, in cui dopo aver posto le premesse analitiche, si cerca di trarne alcune conclusioni politiche. Il presente scritto tiene conto implicitamente anche delle analisi svolte sulla Cina e sul cosiddetto “terzo mondo” presenti nella Storia del Comunismo
La “questione cinese” assurge oggi alla questione teorica principale che nel suo complesso la società occidentale, compresa buona parte del movimento comunista corrispondente, deve ancora essere affrontare in maniera adeguata. Segnalo anche che nel 2018 è uscita un'opera di Sidoli, Burgio, Leoni, intitolata significativamente Piaccia o no: il Dragone scavalca l'America, in cui si riporta con dati alla mano l'avvenuto sorpasso della Cina sugli USA in campo scientifico ed economico, seppur non ancora sul piano militare. La crisi post-Covid sta accelerando rapidamente il divario tra la Cina e l'imperialismo occidentale, colpito da recessioni apocalittiche. Per il popolo italiano diventa prioritario comprendere che esiste un'alternativa al fallimentare modello capitalista-liberista, e qualunque modello alternativo di transizione si scelga (capitalismo di Stato in una rinnovata “economia mista” in stile “Prima Repubblica”, o come sarebbe più augurabile il socialismo) il progresso e lo sviluppo passano necessariamente dallo sganciamento dalla NATO e dall'UE, sviluppando relazioni con paesi che hanno interesse reale e concreto al benessere dell'intera umanità. Questo è il caso della Cina, con cui l'Italia può costruire una nuova prospettiva di sviluppo aderendo organicamente al progetto della “nuova via della Seta”.
Deve essere chiaro a tutti, in primo luogo ai comunisti, che la Cina non può essere considerata un paese “imperialista” o “capitalista”, bensì un modello “socialista” le cui caratteristiche peculiari (le “caratteristiche cinesi”) affondano pienamente nella tradizione politica e teorica del movimento comunista internazionale, e in primo luogo nella lezione leninista. Non ci si può più permettere di essere ambigui.
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Caratterizzazione generale del modello stalinista
di Bollettino Culturale
Introduzione
L'obiettivo di questo lavoro è studiare la pianificazione economica stalinista in vigore in URSS dalla fine del NEP (Nuova politica economica) e in Europa orientale (ad eccezione della Jugoslavia) dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il metodo utilizzato per questo scopo è la prospezione storica basata sulla letteratura sull'argomento. I risultati ottenuti mostrano che il modello stalinista deriva dalle condizioni post-rivoluzionarie dell'URSS, essendo contraddistinto dalla centralizzazione delle principali decisioni e risorse economiche del paese al fine di superare il ritardo nello sviluppo delle forze produttive. Le conclusioni che abbiamo raggiunto rivelano che questo modello era funzionale come strategia per superare il sottosviluppo, ma la sua funzionalità si è esaurita non appena è stato necessario un cambiamento nel modello di crescita economica, dalla crescita estensiva alla crescita intensiva.
Per raggiungere il suo obiettivo, questo lavoro è diviso in sezioni. La prima riguarda la giustificazione teorica della necessità di una pianificazione economica nell'ambito del socialismo. La seconda presenta lo sfondo storico che ha permesso l'emergere di un tale modello. La terza presenta le principali caratteristiche del modello. La quarta mostra come il modello ha funzionato in pratica e l'ultima porta alcune conclusioni al lettore.
La necessità di un'economia pianificata sotto socialismo
La transizione al socialismo è una questione alquanto controversa. Karl Marx una volta disse: "Non ho mai costruito un "sistema socialista”". Mentre sfuggiva al metodo di Marx di elaborare schemi idealizzati sulle società future, nei suoi scritti rese poco esplicito come sarebbe stata la costruzione della nuova socialità socialista, aprendo la possibilità a diverse interpretazioni di emergere in questo vuoto.
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L’accordo europeo per il Recovery Fund
Paesi “frugali”, vantaggi per l’Italia e fake news
di Andrea Fumagalli
1. Si discute in Europa di Recovery Fund come possibile strumento per fronteggiare la grave crisi economica e sociale avviata dall’emergenza Covid-19 e uno dei motivi del contendere è la riluttanza dei cosiddetti paesi “frugali” a concedere prestiti a fondo perduto ad alcuni paesi mediterranei, considerati troppo spendaccioni. L’Italia guida la classifica di questi paesi, da mettere “sotto osservazione” secondo quanto dichiarato più volte dal premier olandese Rutte e dal premier austriaco Kurz.
Con l’accordo del 21 luglio viene definito, dopo un serrato confronto, il programma che segna la nuova politica fiscale europea, con 750 miliardi di fondi, ma con una riduzione dei sussidi a fondo perduto: saranno 390 i miliardi anziché 500, il resto in prestiti. L’accordo prevede anche una riduzione del bilancio dell’Unione per il 2021-2027 che viene rifinanziato per 1.074 miliardi: una cifra contenuta rispetto al budget 2014-2020 e alle proposte che erano in discussione prima della pandemia.
Per quanto riguarda l’Italia, grazie ai nuovi criteri di allocazione delle risorse, al nostro Paese spetterà un ammontare di fondi superiore a quello previsto a fine maggio: 209 miliardi di euro, circa 82 di sussidi a fondo perduto e 127 di prestiti (rispetto ai circa 90 inizialmente previsti). Il piano di spesa prevede l’impegno del 70% delle risorse nel biennio 2021-2022 e il restante 30% entro la fine del 2023. I prestiti dovranno essere rimborsati un anno prima rispetto alla bozza della Commissione, tra il 2027 e il 2058.
Il rapporto sussidi / prestiti si riduce allo 1,1[1]. Per l’Italia, il rapporto sovvenzioni/prestiti si riduce notevolmente rispetto alla media europea arrivando a 0,64, a riprova di come il nostro paese, considerato meno affidabile, si trovi già in una situazione penalizzata.
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Il neoliberismo sta uccidendo la Terra: cambiamo l’economia o perdiamo tutto
di Lelio Demichelis
La pandemia doveva essere occasione per comprendere l’importanza di una “riconversione ecologica e sociale” del sistema tecnico ed economico. Ma il mondo spinge per ripartire come prima. Senza una riflessione profonda sulle inefficienze e le irrazionalità strutturali dell’attuale capitalismo
Stiamo forse perdendo la nostra ultima grande occasione per uscire non solo dalla pandemia, ma dalla ben più grave e drammatica crisi ambientale (che stiamo dimenticando, ma che è sempre lì, attorno e davanti a noi)? Davvero possiamo dire che la pandemia è stata un “inciampo della storia”, facendo come Benedetto Croce che diceva: “Heri dicebamus“, così salutando la fine del fascismo?
“Ieri dicevamo” voleva significare, per il filosofo, che il discorso collettivo, politico e sociale andava ripreso esattamente dal punto dove lo aveva interrotto la “parentesi” mussoliniana, dimenticando che il fascismo non era stata una “parentesi”, ma qualcosa di assai più profondo (Piero Gobetti aveva scritto, vent’anni prima, che era “l’autobiografia della nazione”; oggi possiamo anche dire che è l’autobiografia non solo dell’Italia). Davvero oggi possiamo riprendere il discorso dell’economia e della tecnica esattamente dal punto dove lo ha interrotto il coronavirus?
Invece di una continuità, ci servirebbe una discontinuità con il passato. La pandemia – lo abbiamo scritto più volte anche su queste “pagine” – poteva (anzi: doveva) essere l’occasione per ripensare profondamente e radicalmente il nostro sistema produttivo e consumistico che dura ormai da tre secoli, che sembra sempre diverso ma che è sempre uguale a se stesso, che è capace di trasformarsi incessantemente trasformando incessantemente uomini e società (purché non lo si metta in discussione), ma che è incapace di uscire dalle proprie contraddizioni. Che non risolveremo certo con un “heri dicebamus”.
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Recovery Fund, ma quale svolta storica?
Alba Vastano intervista Vladimiro Giacchè
“I molti inni che sentiamo in favore dell’accordo sul Recovery Fund sono in fondo sospiri di sollievo perché a questo giro quella crisi è stata evitata. Ma le caratteristiche stesse di questo accordo, e l’insensata decisione di non abolire bensì unicamente a sospendere i trattati prociclici ed economicamente depressivi posti in essere durante la crisi precedente (a cominciare dal fiscal compact), sono la migliore garanzia che presto o tardi si tornerà a ballare”
Raggiunto, dopo quattro giorni di lavori in Consiglio europeo, l’accordo sul Recovery Fund. Di cosa si tratta e, in realtà, cosa si è raggiunto e a cosa si allude quando si parla di successo e volta storica? Ѐ davvero la panacea per risolvere i problemi legati alla più grave crisi economica dal dopoguerra, come fosse un novello piano Marshall? A mal pensare in tal caso non si fa peccato, perché le tenaglie di nuovi tagli per le riforme che si dovranno mettere in atto con il Recovery Plan sono una realtà legata alle condizionalità per ottenere i fondi. Inoltre è già appurato che la maggior parte dei fondi saranno a debito e che il futuro dell’economia e dei rapporti con l’Ue, non sostenuti dal principio di solidarietà fra gli Stati membri, non saranno un pranzo di gala. Su queste tematiche risponde, nell’intervista a seguire, il professor Vladimiro Giacchè, illustre economista, saggista e filosofo. Presidente del Centro Europa ricerche a Roma. Autore di molti saggi illuminanti sugli intricati snodi irrisolvibili e irriformabili dell’Ue e sulla gabbia, in cui siamo reclusi, dei Trattati che hanno smantellato le Costituzioni e si sostanziano a favore delle politiche neoliberiste in atto.
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D: Recovery Fund : si tratta di sovvenzioni a fondo perduto ma soprattutto di debito, quindi quali le differenze con il Mes che potrebbe anche essere implementato a seguire?
R: La differenza principale consiste nel fatto che non tutti i fondi del Recovery Fund sono nuovo debito. Il principale tratto in comune è la presenza di condizionalità attivabili. E, più in particolare, quella, pericolosissima, che lega – almeno potenzialmente – l’utilizzo di questi fondi all’ossequio alle manovre di “rientro dal debito” e simili “raccomandate” dalla Commissione europea. Chiunque critichi questo aspetto ha perfettamente ragione.
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24 Luglio Il capitale, l'insicurezza e la ragione liberale
Angelo De Sio intervista Andrea Zhok
Andrea Zhok è professore di Filosofia Morale, presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano. Il suo ultimo lavoro, Critica della ragione liberale, pubblicato recentemente per i tipi di Meltemi, rappresenta un’ulteriore tappa, se non quella decisiva, di un percorso teorico unitario, di cui si possono rintracciare le direttive nei lavori precedenti. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il concetto di valore: dall’etica all’economia (Mimesis, 2002), Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo (Jaca Book, 2006), Libertà e natura. Fenomenologia e ontologia dell’azione (Mimesis, 2017), Identità della persona e senso dell’esistenza (Meltemi, 2018), e il pregiatissimo lavoro monografico L’etica del metodo. Saggio su Ludwig Wittgenstein (Mimesis 2001).
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Professor Zhok, la ringraziamo per aver accettato la nostra intervista. Prima di entrare nello specifico di questa conversazione, vorrei chiederle, che ruolo ha, oggi, la filosofia, e soprattutto in che modo l’attività filosofica è percepita dalla contemporaneità?
L’attività filosofica è percepita oggi in maniera piuttosto confusa e distorta. Non che si tratti di qualcosa di inedito. La filosofia è una “disciplina” intrinsecamente elitaria (come tutto ciò che richiede lungo studio), ma è spesso percepita come una mera variante dotta dell’opinionismo del senso comune. La difficoltà specifica dell’esercizio filosofico è per certi versi l’inverso di quanto accade in altri campi. Un filosofo non può essere semplicemente lo specialista di un campo.
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Autostrade: cambiare poco per non cambiare nulla
di coniarerivolta
Si è molto discusso, sin dai giorni immediatamente successivi al disastro del Ponte Morandi di Genova, delle responsabilità di Aspi (Autostrade per l’Italia) in qualità di concessionaria. Aspi è una società per azioni, posseduta, in gran parte, dalla famiglia Benetton, che gestisce in concessione, per l’appunto, molte delle autostrade italiane, direttamente o tramite società controllate.
Con una concessione, lo Stato (o, in generale, una pubblica amministrazione) affida la gestione (e, se necessario, anche la costruzione) di una infrastruttura a una società privata. Quest’ultima, in cambio dei proventi derivanti dalla gestione (nel nostro caso soprattutto i pedaggi autostradali), si impegna a far funzionare tale infrastruttura secondo logiche e regole stabilite dalle leggi e dagli atti di concessione. Generalmente, la società concessionaria è anche responsabile della manutenzione dell’opera.
Aspi, dunque, gestiva (e ancora gestisce) quel tratto di A10 che comprendeva il Ponte Morandi, in parte disastrosamente crollato il 14 agosto del 2018, con 43 morti e oltre 500 sfollati.
Sin da subito, dicevamo, il Movimento 5 Stelle, all’epoca al governo con la Lega, dichiarò di voler ritirare le concessioni autostradali ai Benetton. Il 24 maggio ancora lo ribadiva, in maniera esplicita, il viceministro alle Infrastrutture Cancelleri. Nel Governo, però, non c’era accordo, perché i principali alleati del M5S, ovvero il PD e Italia Viva, si dicevano contrari al ritiro delle concessioni. Ciò anche in virtù del fatto che Aspi minacciava cause che avrebbero potuto comportare, per lo Stato, esborsi a nove zeri.
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2 + 2 = 5. L’emulazione socialista in URSS. Parte II
di Paolo Selmi
Qui la Parte I
Cari compagni,
questo lavoro è nato come paragrafo alla parte introduttiva del manuale sulla pianificazione che sto traducendo. Poi, le questioni sollevate man mano che la ricerca proseguiva erano tante e tali... che in questi mesi è diventata una piccola monografia: 150 pagine delle mie, un libro vero e proprio usando un'impaginazione editoriale. Per motivi di dimensione, difficile da gestire anche per software potenti come l'editor di sinistrainrete.info, è stata decisa una suddivisione (del tutto strumentale) in quattro puntate. Lo scopo primario di questo lavoro è stato riproporre e sviluppare alcune questioni su cui e, peggio ancora, di cui oggi nessuno parla quando si parla di socialismo e di storia sovietica. Lo scopo ultimo e, infine, l'auspicio con cui chiudo queste poche righe è che ciascuno di voi, sia singolarmente che come gruppo di lavoro e collettivo di ricerca, tragga da questi materiali, la cui traduzione è inedita nella stragrande maggioranza dei casi, spunto per ulteriori analisi, riflessioni, collegamenti, approfondimenti. Di carne al fuoco ce n'è davvero molta, per cui grazie per l'attenzione, per le osservazioni, per gli spunti che vorrete condividere, ma soprattutto...
Buona lettura!
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Il primo piano quinquennale
Qualche anno più tardi, per la precisione nel 1926, accadde un altro fatto nuovo, a proposito di “enorme laboratorio a cielo aperto”, destinato non solo a essere determinante negli anni prossimi futuri, ma a modificare, per il mezzo secolo successivo e fino alla fine dell’URSS, l’idea stessa di emulazione socialista: nascevano le brigate d’assalto (ударные бригады) e, conseguentemente, coloro che ne facevano parte, ovvero gli assaltatori (udarniki ударники).
Il fenomeno è da inserirsi nel contesto di una rinnovata iniziativa da parte delle leve operaie più giovani, spesso komsomol’cy. Cominciarono i giovani assunti presso la stazione di manutenzione della linea ferroviaria Mosca-Kazan, dal giugno all’agosto del 1926, e la produttività della loro brigata fu maggiore del 25% rispetto alla media1. Seguì Leningrado, dove una brigata d’assalto fu costituita nella fabbrica di materie plastiche Krasnyj Treugol’nik, a opera di otto operaie, la cui squadra riuscì a passare da 17 a 28 calosce per operaia al giorno2. E così, gradualmente, nel giro di due anni anni questo fenomeno si diffuse un po’ a macchia di leopardo lungo l’area di tutta l’Unione.
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Quel ‘vilain’ di Friedrich Engels
di Eros Barone
«Il pezzo del cattivo E[ngels] che ha corrotto il buon M[arx] dal 1844 si è alternato innumerevoli volte con l’altro di Ahriman-M[arx], che ha allontanato Ormuzd-E[ngels] dalla strada della virtù».
Lettera di Engels a Eduard Bernstein, del 23 aprile 1883.
1. “Marx sì, Engels no”: le idiosincrasie del revisionismo
Chiunque esplori la letteratura marxista dei duecento anni successivi alla nascita di Friedrich Engels non può non restare colpito dalla presenza, pressoché ininterrotta e più o meno accentuata secondo i periodi e le aree politico-culturali, di una sindrome che può essere qualificata con il termine di antiengelsismo. Il presente articolo si propone di individuare le molteplici forme sotto cui si è manifestato il rifiuto (parziale o totale) nei confronti della impostazione del materialismo storico e dialettico, che ha caratterizzato, sempre con il pieno e a volte entusiastico consenso di Marx, il lavoro teorico di Engels.
Il primo elemento da valutare è che la causa principale dell’antiengelsismo fa leva sulla presunta incompatibilità del marxismo-leninismo rispetto agli sviluppi della scienza e, attraverso la mediazione dello ‘stalinismo’, fa risalire tale incompatibilità sino ad Engels. Per demistificare questo tipo di antiengelsismo è sufficiente mostrare l’impossibilità di separare il pensiero di Marx da quello di Engels. A questo riguardo, è anche opportuno porre rimedio ad una certa ingiustizia storica per quanto concerne la parte di Engels nella classica diade Marx-Engels. In effetti, a forza di porre, per così dire, ‘a priori’ una sorta di unità indifferenziata tra i due fondatori del socialismo scientifico, si è finito col mettere in ombra, dal punto di vista filosofico, la parte di Engels (nel mentre è ormai pienamente consacrato dalla storia del movimento operaio internazionale il suo enorme apporto politico e ideologico, oggetto peraltro di numerosi studi).
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Marxismo senza socialismo, socialismo senza marxismo
di Greg Godels
Negli Stati Uniti è appena iniziata una crisi inedita e multiforme, e sarebbe lecito attendersi che i nostri acuti pensatori cogliessero l'occasione per offrire risposte coraggiose e originali. Di fronte alla reazione popolare di rifiuto del razzismo, all'infuriare di un virus che semina morte, alla catastrofe del sistema bipartitico e a quella che è soltato la prima ondata di un disastro economico senza precedenti, saremmo indotti a sperare nella formulazione di soluzioni radicali, in grado di rispondere a sfide altrettanto radicali.
Al contrario, molti dei più influenti pensatori della sinistra statunitense ci stanno propinando del tè annacquato - un'improbabile serie di risposte tiepide, trite e scontate. Dopo le micidiali purghe anticomuniste attuate negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, i movimenti dei lavoratori, per la pace, per l'eguaglianza razziale e delle donne e per la giustizia economica sono stati incatenati a forza alle ideologie anarchica, liberale e socialdemocratica. Di conseguenza, il «marxismo» anticomunista occidentale può entrare nel dibattito soltanto se depurato da qualsiasi aspirazione al socialismo. E di socialismo si può discutere soltanto prescindendo dalle idee fondamentali di Marx e Lenin.
Il «marxista» forse più noto negli Stati Uniti è il professor Richard D. Wolff. Nel corso della sua carriera ha contribuito attivamente a far conoscere Marx e il marxismo. È il punto di riferimento scontato a cui si rivolgono i media quando sono in cerca di un «marxista» accessibile ed eloquente. Purtroppo, non sempre notorietà e accessibilità costituiscono una garanzia di chiarezza o di una visione coraggiosa.
Il professor Wolff ravvisa giustamente nel momento attuale - questa inedita combinazione di disastri biologici, economici, sociali e politici - un'occasione irripetibile di cambiamento. In un recente articolo (How Workers Can Win the Class War Waged Against Them, Counterpunch, 19-6-2020), Wolff offre una breve ma attendibile ricapitolazione degli eventi essenziali che hanno condotto al momento attuale, sottolineando il ruolo fondamentale della classe operaia per il suo superamento.
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Come il Mes. Anche il Recovery fund ha le condizionalità
di Alessandro Somma
Fake news
A prescindere da come si valuti la reazione dell’Europa all’emergenza sanitaria e alla relativa crisi economica, la conferma della sua irrimediabile inadeguatezza o il segno di un nuovo inizio, occorre riconoscere che le iniziative intraprese sono circondate da una vera e propria coltre di notizie false.
Non corrispondono al vero i numeri che descrivono l’entità dell’assistenza finanziaria, perché si presentano come direttamente stanziate dall’Europa cifre che saranno eventualmente mobilitate dai fondi messi a disposizione. Esemplare quanto detto dalla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, che ha parlato di uno sforzo complessivo di 2400 miliardi per contrastare la crisi: una dichiarazione cui ha reagito duramente il Parlamento europeo, che ha messo “in guardia la Commissione contro il ricorso a sortilegi finanziari e a dubbi moltiplicatori per pubblicizzare cifre ambiziose”[1].
E che dire del dibattito surreale sul cosiddetto Mes sanitario, che si ritiene possa essere attivato a condizionalità leggere: il solo “impegno a utilizzare questa linea di credito per sostenere il finanziamento nazionale dei costi diretti e indiretti per la sanità, le cure e la prevenzione”[2]. Certo, questa possibilità è stata confermata in una lettera del Vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis e dal Commissario per l’economia Paolo Gentiloni[3]. E tuttavia questa lettera indica un impegno politico, e in nessun caso può prevalere su quello che dicono le regole giuridiche a proposito di Mes. I Trattati europei stabiliscono che esso fornisce assistenza finanziaria solo se “soggetta a una rigorosa condizionalità” (art. 136 Tfue), e lo stesso precisa il Trattato istitutivo del Mes, aggiungendo che le condizionalità “possono spaziare da un programma di correzioni macroeconomiche al rispetto costante di condizioni di ammissibilità predefinite” (art. 12).
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Il Gemeinwesen è sempre rimasto qui con noi
Un confronto con le idee di Jacques Camatte
di Peter Harrison
«Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato.»
Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici, 1844.
Gli scritti di Jacques Camatte, regolarmente aggiornati, si possono trovare sul sito Invariance. Nato nel 1935, nel corso degli anni '50 e '60 è stato un importante teorico marxista radicale nell'ambito della sinistra comunista europea. Tuttavia, gli eventi del '68, in particolare in Francia, hanno fatto sì che si allentassero gradualmente quelli che erano i suoi rapporti con la sinistra comunista. Si era reso conto che l'umanità ora si trovava in un'impasse. Da parte del proletariato, non ci sarebbe stato alcun rovesciamento della borghesia, dal momento che tutta l'umanità era stata oramai «addomesticata» dal capitale. Ragion per cui, d'allora in poi qualsiasi rivolta organizzata contro il capitale avrebbe solo favorito ulteriormente il suo sviluppo. La sua tesi è quella secondo cui, anziché combattere il capitale (una strategia che, se «avesse successo», ci restituirebbe il capitale in una sua forma ancora più forte), dobbiamo, in qualche modo, abbandonarlo. Prendere congedo da questo mondo capitalista implica la ricomposizione dei legami con il mondo naturale... e non significa andare in guerra contro il capitale per spodestarlo.
L'abbandono di «questo mondo» (Questo mondo che bisogna lasciare) e di tutto ciò che esso rappresenta, inclusa l'umana inimicizia per tutte le cose (gli altri animali, le altre cose, gli altri esseri umani) - qualcosa che è diventato parte integrante della moderna psiche umana e che ci costringe a creare in continuazione delle situazioni di «battaglia» , o di discontinuità - darà l'avvio, egli sostiene, ad un processo che condurrà alla formazione di una comunità autenticamente umana, che sarà in continuità con la natura e con sé stessa.
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Il ‘vincolo esterno’ e l’adesione dell’Italia all’Unione Economica e Monetaria
di Sandro Arcais
In questi giorni di offensiva per ottenere la richiesta del MES da parte dell’Italia e di trattative in cui le nazioni della disUnione europea si confrontano su come affrontare la crisi economica conseguente al covid-19 potenziato da più di 10 anni di austerità, è bene tenere a mente la posizione strutturalmente debole dell’Italia. Tale debolezza nasce dalla scelta di parte della classe politica e praticamente della totalità del capitalismo italiano di non prendersi la responsabilità diretta di governare questo paese, ma di governarlo attraverso il ‘vincolo esterno’. Più loro diventano minoritari nel paese, più forte deve essere tale vincolo. Per loro è una questione di sopravvivenza. Ecco perché sono così pericolosi per il Paese.
L’articolo che segue presenta, commenta e integra uno studio sulla teorizzazione del ‘vincolo esterno’ e sul suo uso da parte di una ristretta tecnocrazia italiana per legare l’Italia all’Unione economica e monetaria europea, disfarsi del ceto politico della Prima Repubblica e sottomettere il ceto politico della seconda alle regole dell’Ue e dei mercati (il ‘pilota automatico’).
Se non indicato altrimenti, tutte le citazioni sono tratte dallo studio stesso.
Buona lettura
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Kenneth Dyson e Kevin Featherstone sono due studiosi inglesi. Il primo lavora presso l’Università di Cardiff. I suoi interessi si situano «nel punto di intersezione tra integrazione europea, economia politica comparata e storica e studi tedeschi». Il secondo opera attualmente presso la London School of Economics and Social Science. Il suo campo di ricerca ruota attorno «la politica comparata, la politica pubblica e l’economia politica.
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«Le Brigate rosse furono le prime a parlare di globalizzazione»
Paolo Persichetti intervista Matteo Antonio Albanese
Anteprima – E’ in uscita nelle librerie Tondini di ferro e bossoli di piombo. Una storia sociale delle Brigate rosse, di Matteo Antonio Albanese, Pacini editore. Il volume, che si ferma al 1974, propone alcune importanti scoperte documentali e delle nuove proposte interpretative che faranno discutere. Ne ho parlato con l’autore.
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Alcuni anni fa il sociologo Pio Marconi scrisse che le Brigate rosse, attraverso la categoria di Stato imperialista delle multinazionali, avevano individuato con largo anticipo la fase di internazionalizzazione del modo di produzione e del mercato capitalistico, successivamente definito “globalizzazione”. Nel tuo lavoro aggiungi un fatto nuovo: sostieni che le Brigate rosse furono in assoluto le prime ad introdurre e descrivere il fenomeno della globalizzazione del sistema capitalistico. Puoi spiegare come sei giunto a questa scoperta?
Lessi alcuni dei lavori di Pio Marconi mentre preparavo il mio progetto di ricerca per l’ammissione al dottorato. Mi ricordo che in quei mesi avevo cominciato a leggere con un poco di attenzione le varie pubblicazioni, scientifiche e non, sul fenomeno brigatista. Vivendo, allora, a Milano mi sembrò naturale cominciare un giro dei vari luoghi della città in cui quella memoria era stata in qualche modo conservata.
La libreria Calusca e l’archivio Primo Moroni sono stati passaggi importanti per cominciare ad inquadrare il fenomeno. Nello specifico, però, fu una bancarella di libri alla festa de l’Unità il luogo dove trovai, ed acquistai, un paio di numeri di Sinistra Proletaria.
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Il personale non è il politico
di Giulio Sapori
Note a Quanto lucente la tua inesistenza. L’Ottobre, il Sessantotto e il socialismo che viene
Nel suo ultimo libro Quanto lucente la tua inesistenza. L’Ottobre, il Sessantotto e il socialismo che viene (Jaca Book, 2018), Marco Maurizi compie una serie di riflessioni che - aiutandosi con le analisi di Marx, Rosa Luxemburg, Marcuse, Adorno e altri - cercano di ripensare criticamente l’esperienza ideale e storica del marxismo e del socialismo, per provare a ridefinirne, nel presente, la sagoma. Il socialismo non è infatti qualcosa che è stato realizzato nel passato, quanto piuttosto una “lucente inesistenza”, possibilità di una società altra dal dominio capitalistico.
In questo scritto cercherò di evidenziare, in modo schematico, una serie di punti che ritengo importanti per la riflessione politica presente:
1) Il presente. Il panorama sociale e politico che ci troviamo di fronte è segnato da un lato dal prevalere globale del liberismo, come progetto politico e filosofico che lega insieme il determinismo del mercato alle libertà individuali; dall’altro da un sostanziale “arretramento della lotta al capitale” (p.19). Questo panorama politico prende una forma definita nel corso dagli anni Ottanta, momento in cui si afferma in modo netto la controrivoluzione liberale, a detrimento delle classi subalterne. La nuova fase, caratterizzata da un modello tecnocratico, quindi a-democratico, di governo non è semplicemente un “balzo indietro” che elimina le conquiste sociali della fase fordista, poiché è animata da un “nuovo spirito” che incide sulla composizione delle lotte sociali. Il capitalismo si fa più consumista, libertario, antiautoritario, ‘ribelle’ mentre il blocco antagonista è investito da due processi: di conversione (da antagonisti a neoliberali) e di frammentazione.
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2 + 2 = 5. L’emulazione socialista in URSS. Parte I
di Paolo Selmi
Cari compagni,
questo lavoro è nato come paragrafo alla parte introduttiva del manuale sulla pianificazione che sto traducendo. Poi, le questioni sollevate man mano che la ricerca proseguiva erano tante e tali... che in questi mesi è diventata una piccola monografia: 150 pagine delle mie, un libro vero e proprio usando un'impaginazione editoriale. Per motivi di dimensione, difficile da gestire anche per software potenti come l'editor di sinistrainrete.info, è stata decisa una suddivisione (del tutto strumentale) in quattro puntate. Lo scopo primario di questo lavoro è stato riproporre e sviluppare alcune questioni su cui e, peggio ancora, di cui oggi nessuno parla quando si parla di socialismo e di storia sovietica. Lo scopo ultimo e, infine, l'auspicio con cui chiudo queste poche righe è che ciascuno di voi, sia singolarmente che come gruppo di lavoro e collettivo di ricerca, tragga da questi materiali, la cui traduzione è inedita nella stragrande maggioranza dei casi, spunto per ulteriori analisi, riflessioni, collegamenti, approfondimenti. Di carne al fuoco ce n'è davvero molta, per cui grazie per l'attenzione, per le osservazioni, per gli spunti che vorrete condividere, ma soprattutto...
Buona lettura!
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Alcune domande
2+2=5: nonostante al di qua della cortina di ferro il termine “emulazione socialista” (социалистическое соревнование)fu spesso accompagnato da scherno e pernacchie di sottofondo, insieme ad accuse affatto velate di cottimismo e crumiraggio, si tratta, di una delle manifestazioni storiche, almeno nelle intenzioni di chi le promosse, ma a ben vedere non solo in “pensieri e parole”, di quanto più prossimo a quel “movimento verso l’alto” oggetto di analisi preliminare in questo capitolo. Guardiamola, pertanto, un po’ più da vicino. Il manifesto riprodotto qui sotto, risalente agli anni Trenta del secolo scorso intitolato L’aritmetica del contropiano produttivo e finanziario (Арифметика встерчного промфинплана) ci fornisce una buona base di partenza.
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Marx revival
di Antonino Morreale
Pubblicato a fine 2019 da Donzelli, Marx Revival, raccolta di “Concetti essenziali e nuove letture” a cura di Marcello Musto, è già uscito in inglese a giugno 2020; e per il 2021 sono previste le pubblicazioni in cinese, tedesco, giapponese, coreano e portoghese. Con le sue 469 pagine può incutere qualche preoccupazione; e si rivela invece, scorrendo l’indice, ventaglio amplissimo e godibile di temi e di punti di vista.
I titoli dei saggi – li cito tutti per dare un’idea compiuta – rivelano l’ottica non banale secondo cui la raccolta è costruita: Capitalismo, Comunismo, Democrazia, Proletariato, Lotta di classe, Organizzazione politica, Rivoluzione, Lavoro, Capitale e temporalità, Ecologia, Eguaglianza di genere, Nazionalismo e questione etnica, Migrazioni, Colonialismo, Stato, Globalizzazione, Guerra e relazioni internazionali, Religione, Educazione, Arte, Tecnologia e scienze, Marxismi.
È evidente che in questo volume non è Marx a interrogare il presente, ma sono piuttosto i temi dell’attualità a interrogare Marx, ottenendo risposte più o meno convincenti, più o meno strutturate, ma sempre stimolanti; senza forzature per trovare in Marx quel che non c’è.
Per il lettore italiano, che viene da una tradizione di studi e di elaborazioni teoriche di alto livello, ma anche molto diversa da questa, è un’occasione importante, che speriamo voglia cogliere.
Cominciamo dagli autori dei 22 saggi. Pochi gli studiosi già da noi conosciuti. Infatti dei 19 non italiani, solo cinque hanno opere già tradotte (Achkar, Antunes, Löwy, van der Linden, Wallerstein. Quest’ultimo, appena scomparso, già molto noto fin dagli anni Settanta, però solo come storico, per opere fondamentali).
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Recovery Fund: un sommario di tutti i veri dati
di Guido Da Landriano
Vi presentiamo una serie di immagini e tabelle nelle quali sono spiegati tutti i veri dati, quelli basati sui documenti ufficiali e su stime super partes, non sulle voci messe in giro da Casalino o su numeri di provenienza, diciamo così, spuria.
Se volete potete salvarvi questi dati o salvare la URL della pagina, e divertirvi a confrontarli con le gentili e soavi amenità che sentite in TV.
Buona Lettura.
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La direzione dello sguardo
di Alessandro Visalli
Viviamo tempi davvero confusi. Potrei caratterizzarli come il tempo della estenuazione di una estenuazione. Il senso della critica ha perso da lunghi decenni il solido ancoraggio nelle dure condizioni materiali che il socialismo aveva inteso dargli, per tradursi in una postura che cresce nel vuoto di progetto. Questo slittamento non era avvenuto tanto per effetto di un superamento effettivo, totale, della durezza del vivere, quanto per un estenuarsi della fiducia sotto i colpi delle sconfitte.
Sconfitte, non fallimenti.
La durezza del vivere è sempre rimasta con noi. Ma è stata nascosta sotto il velo della nebbiolina sottile che la cultura cosiddetta “postmoderna” ha lentamente alzato da terra. La perdita di riferimento ha spostato tutta l’attenzione sul medium e del significato sul significante.
Da qualche anno, però, anche questa estenuazione sta giungendo al suo, proprio, esaurirsi. Questa singolare condizione nasce dal tornare in primo piano della durezza in forme non aggirabili. Un urlo che, alla fine, finisce per essere più forte delle nebbie.
Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti (da qui a volte M&C) hanno fatto l’importante sforzo di rispondere con un densissimo e a tratti molto chiaro testo[i] al dibattito che era scaturito dal loro primo articolo[ii]. Per la verità la replica è molto più larga, e si riferisce contemporaneamente alle obiezioni di Fabrizio Marchi[iii], su L’interferenza, e di Alessandro Visalli (ovvero di chi scrive)[iv], e quelle di Moreno Pasquinelli[v], su Sollevazione. Seguiranno sia la seconda parte del pezzo di Pasquinelli[vi] e la replica di Alessandro Visalli[vii].
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Stati Uniti: a che punto è il movimento contro la violenza della polizia e il razzismo sistemico?
Riceviamo e molto volentieri pubblichiamo queste note sul momento attuale del grande movimento di lotta nato negli Stati Uniti dopo l’uccisione di George Floyd per mano della polizia di Minneapolis. Non sono, però, un semplice aggiornamento. Sono un primo, provvisorio bilancio di esso (provvisorio perché il movimento è tuttora vivo). E hanno il merito di cogliere la sua straordinaria importanza nella vicenda della lotta di classe statunitense e mondiale.
Gli Stati Uniti sono da quasi un secolo il paese-guida del capitalismo mondiale, la mostruosa idrovora che ha aspirato oceani di plusvalore, di rendita e di diritti dai quattro angoli della terra, e hanno potuto a lungo nutrire buona parte della loro popolazione di sfruttati con qualcosa in più di semplici ‘briciole’ materiali e ideologiche (l’ideologia della unicità e superiorità yankee). Ma questa Amerika ora finalmente traballa per effetto di continue scosse sismiche e si avvicina inesorabilmente al suo crack.
Altro che fine della storia! La storia, e cioè la storia della rivoluzione sociale anti-capitalista, si sta riaprendo alla grande, nel cuore stesso della “Bestia”. E si vedrà chiaro domani che il primo squillo di riscossa è partito dai “negri” supersfruttati dall’imperialismo europeo e italiano: i rivoltosi arabi e “islamici” del 2011-2012 e del 2018-2020, i nostri fratelli di classe medio-orientali brown…
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Nelle giornate di luglio il movimento generalizzato contro la violenza della polizia e il razzismo sistemico ha perso di intensità. È trascorso più di un mese e mezzo da quando questo movimento di massa è esploso spontaneamente in seguito all’assassinio di George Floyd il 25 maggio 2020.
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Hong Kong,"due sistemi", una guerra incombente?
di Claudia Pozzana, Alessandro Russo
Del movimento di Hong Kong del 2019 sembrano svanite le tracce. Oggi sono molto più in primo piano alcuni isolotti sabbiosi del Mar cinese meridionale, oggetto di contese territoriali che suonano come sinistri segnali di intenzioni belliche. Un movimento così imponente, però, non va lasciato nell’oblio, perché quando le masse entrano sulla scena politica c’è sempre da trarne qualche lezione.
Abbiamo fatto tre viaggi di inchiesta in Cina tra il 2017 e 2019, incontrando vecchi e nuovi amici, con i quali abbiamo condiviso ragionamenti e interrogativi. Le note che seguono sono una prima sintesi di alcuni dei temi che ci hanno fatto più riflettere.
I “due sistemi”
Il governo cinese si ostina a dichiarare che la nuova legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong è la massima realizzazione della formula “un paese, due sistemi”. Non ci sono forse tutte le evidenze che, al contrario, come dicevano alcuni slogan polemici del movimento nei mesi scorsi, essa equivalga a “un paese, un sistema”, vale a dire ad applicare a Hong Kong il sistema della RPC?
Le dichiarazioni del governo cinese non vanno però trattate solo come vuota retorica. In effetti, la Cina è già un paese con “due sistemi di autorità”, nel senso elementare del potere di conseguire obbedienza al comando. Da quattro decenni, dalle “riforme” di Deng in poi, la Cina è governata dal peculiare equilibrio tra due sistemi generali di comando: quello del capitalismo e quello del PCC. Essi si intrecciano e si alimentano reciprocamente, ma svolgono altresì due funzioni distinte. Uno prescrive, l’altro proibisce, uno impone cosa fare, l’altro cosa non fare.
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Critica, totalità, mediazione
Note sulla lezione di Fortini
di Cristina Corradi
«L’ospite ingrato» ha promosso una riflessione sui concetti di critica e totalità e sul nesso fra la critica della cultura e un’idea non specialistica di sapere. In questo contributo vorrei discutere le tesi espresse da Andrea Cavazzini, dialogare con gli interventi di Roberto Fineschi, Luca Mozzachiodi e Marco Gatto, e trarre infine qualche indicazione dalla lezione di Fortini.
Nell’intervento che ha dato avvio alla discussione, il 9 marzo scorso, Cavazzini afferma che i limiti attuali dell’opposizione ai rapporti capitalistici non dipendono dall’abbandono della dialettica, che è piuttosto il riflesso della dissoluzione dell’ultimo tentativo storico di fuoriuscita dal capitalismo e della crisi di una soggettività potenzialmente totalizzatrice. Ricorda che, negli anni ’70, il passaggio di egemonia dalla dialettica marxista al pensiero della differenza e dell’immanenza non avvenne solo nella sfera della produzione intellettuale, ma trovò corrispondenza nella coscienza spontanea di militanti dell’estrema sinistra. Conclude, con un accenno a Fortini, invitando a fare riferimento a saperi storici, non specialistici, sedimentati nella società e a considerare strategica la ricerca di figure del non-identico, capaci di anticipare qualche forma di totalità.1
Io credo, invece, che nel contesto attuale di iperculturalismo, complessità passivizzante, pluralismo linguistico privo di scelte e di conseguenze, descritto da Luca Mozzachiodi, l’uso di categorie dialettiche e il riferimento alla tradizione marxista siano necessari per arginare la deriva dissipante dei mille piani critici, per ristabilire un ordine logico e storico con il quale filtrare e ricomporre frammenti, e per recuperare un centro da cui stringere nessi e articolare mediazioni tra critica della cultura e critica del capitalismo finanziario.2
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