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Stati Uniti, la crisi è epocale
di Bruno Cartosio
Le comunità nere si sono ribellate spesso, dagli anni Sessanta fino a tutto il nuovo millennio, fino a ora. Ma questa volta è diverso, la sollevazione non è mai stata così generale, così duratura, così politicamente forte e propositiva
Contingenze e persistenze. Tra le prime, la peggiore delle pandemie, in coincidenza con la peggiore amministrazione presidenziale delle ultime generazioni. Tra le seconde, mezzo secolo di economia politica poco meno che criminale e di dominio da parte di un piccolo ceto di plutocrati. Al fondo, una crisi sociale, in cui la continuità plurisecolare del razzismo contro gli afroamericani ha fatto corto circuito con i processi pluridecennali della sottrazione di reddito, servizi, dignità a danno degli strati medio-bassi e poveri della popolazione. I fatti delle cronache di queste ultime settimane negli Stati Uniti sono stati ambivalenti: terribili per i reiterati omicidi polizieschi di cittadini afroamericani e straordinari per l’immediatezza della risposta nera e le grandi manifestazioni di solidarietà interrazziale, intergenerazionale, intersezionale (e internazionale) che l’hanno accompagnata finora. Il movimento afroamericano è diventato una sollevazione generale contro il razzismo, l’ingiustizia sociale, Trump. Sottraiamo dunque la cronaca dalle considerazioni che seguono per cercare di fornire qualche elemento che ne spieghi le radici e le ragioni.
Supponiamo di prendere l’ormai famoso, apodittico giudizio espresso una decina d’anni fa dal finanziere Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi del mondo: la mia classe ha fatto la lotta di classe e l’ha vinta. Le pezze d’appoggio sono tutte implicite. Nella lingua del vincitore sono date per acquisite, note, tanto evidenti da rendere indiscutibile quel giudizio. Anche gli sconfitti potrebbero essere altrettanto sintetici. Le prove materiali della sconfitta operaia al termine di un secolo di lotta di classe sono altrettanto note, sono le stesse. Sono sotto gli occhi di tutti, stanno nella distruzione delle grandi città industriali cresciute con la seconda rivoluzione industriale, nella disgregazione delle comunità di lavoratori che le hanno abitate e rese grandi, nell’approfondimento drammatico delle disuguaglianze sociali.
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“La disinformazione felice”
di Carlo Magnani
Una interpretazione culturale delle fake news a proposito di un libro di Fabio Paglieri
“Cercava la verità e quando la trovò ci rimase male, era orribile, deserta, ci faceva freddo”. (E. Flaiano)
1. Fake news e voti poco graditi
Il dibattito pubblico ha da tempo individuato nelle fake news circolanti sulla Rete un facile bersaglio attorno al quale consolidare un pensiero conformistico e sostanzialmente ricco di banalità. Il mainstream giornalistico e politico è mobilitato più o meno dal 2016 contro la disinformazione che caratterizzerebbe la comunicazione online. L’Unione europea, tramite la Commissione, ha istituito una task force di esperti che di concerto con le grandi piattaforme digitali, mediante l’adozione di protocolli che assegnano rilevanti funzioni proprio ai grandi operatori del web, mira ad azioni di monitoraggio e di controllo dei contenuti che vengono diffusi dagli utenti. Francia e Germania hanno approvato leggi che disciplinano, rispettivamente, la comunicazione politica online durante le campagne elettorali e la rimozione immediata di contenuti dalla Rete qualora siano valutati illeciti. Attualmente nel Parlamento italiano riposano quattro disegni di legge di iniziativa parlamentare che mirano ad istituire, con varie articolazioni, una Commissione parlamentare sulla informazione tramite Internet. E si potrebbe continuare.
A volere leggere in chiave squisitamente politica l’allarme generale sulle fake news, si potrebbe notare che nel 2016 si verificano tre eventi elettorali che rovesciano tanto le previsioni quanto le aspettative delle élite economico-politico dominanti: il referendum Brexit, l’elezione di Trump e infine il referendum costituzionale italiano. Lo sconcerto planetario degli sconfitti è tale che subito parte la caccia alle streghe: i terribili hacker russi in primo luogo, poi i vari untorelli del web che avrebbero traviato intere popolazioni, le quali solo due anni prima erano invece un esempio specchiato di saggezza (come ad esempio il corpo elettorale nostrano delle europee del 2014).
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Controcondotte moltitudinarie, ripoliticizzazione e tumulti
di Augusto Illuminati
Contropotere si dice in moti modi, pollakôs légetai. Di almeno uno di questi significati – una fase transitoria ma non istantanea in cui ci fronteggiano due poteri in conflitto e quasi in equilibrio, insomma un dualismo di potere – oggi non abbiamo traccia. All’interno di un esteso ciclo mondiale di lotte abbiamo piuttosto passaggi di contropotere locale, vigenza di controcondotte (per usare un termine più modesto) che si addensano in costellazioni di resistenza e pratiche alternative, prove di contro-egemonia. Possiamo inoltre chiamare controcondotte le forme di vita che si sganciano e fanno attrito rispetto ai modelli imposti dal mercato e dallo stato. Il contropotere si presenta oggi come un qualcosa di plurale, disseminato e virtuale, una potenza non compiutamente realizzata e forse destinata all’incompiutezza che è propria di ogni dúnamis nel passaggio all’atto.
Detto in termini machiavelliani: l’umore del popolo di non essere comandato né oppresso, che incessantemente lo contrappone ai potenti che vogliono comandarlo e opprimerlo, è umore di contropotere. Però, intendiamoci, il popolo o la moltitudine (quale che ne sia il contenuto) non è un soggetto come essenza unificata e unificante e “non è” (ovvero non si identifica) con quell’umore ribelle, ma “lo ha” come un oggetto esterno sia pure affine, se non altro per la posizione occupata dal popolo.
Se x è y, il predicato inerisce al soggetto e ne definisce almeno in parte l’essenza: il ghiaccio è freddo oppure solido. Se x ha y, se Carlo ha un corpo, l’oggetto non concorre a stabilire l’essenza del soggetto, che è più complesso e sussiste anche in caso di mutilazione. Fra i due termini c’è distacco, possibilità di uso o di non uso, e soprattutto di usi diversi. Avere la parola non è prendere la parola o dare la parola.
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La “valle della gomma”, o l’inferno lombardo
di Redazione Contropiano
Quando si dice che “solo le imprese creano lavoro”.
Quando gli industriali assicurano che nei loro stabilimenti è assicurata “la tutela della salute”.
Quando ti dicono che la prima cosa da fare è “sostenere le imprese”…
In questo e altri mille casi del bombardamento mediatico quotidiano bisogna leggere inchieste come questa, condividerle, diffonderle, seminare schifo, sconcerto, destabilizzare le coscienze avvelenate dalla “narrazione” mainstream.
C’è tutto quel che serve per conoscere il mondo produttivo dei contoterzisti, che vivono spremendo schiavi e si considerano “l’élite del Paese”, gli “unici che sanno quel che bisogna fare per modernizzare”.
Questo tipo di imprese sono la “base elettorale” di Assolombarda e di Confindustria, quelle che hanno scelto – su spinta dei big locali come Tenaris e Brembo (la famiglia Rocca e Bombassei) – il nuovo presidente Carlo Bonomi. Quello che un giorno sì e l’altro pure tempesta da ogni media sulla necessità di abolire qualsiasi vincolo (normativo, regolamentare, contrattuale, fiscale, ecc) al libero strapotere dell’impresa.
Quello che auspica l’eliminazione del potere legislativo (proprio del Parlamento e, al limite, del governo, che già sarebbe una forzatura anti-democratica) a favore di una “contrattazione pubblico-privato” per arrivare a definire le leggi (per loro natura erga omnes, e quindi di interesse generale, non particolare).
Questo inferno sulla terra è stato attraversato da due ottimi “investigatori”, che hanno poi pubblicato il proprio lavoro su Gli stati generali (niente a che vedere con l’iniziativa di Giuseppe Conte, ovviamente).
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Il difficile "socialismo" e le sue inaspettate ricomparse
di Mario Reale
Nancy Fraser: Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo, Castelvecchi, 2020
1) Lo squillante inizio del contributo di Nancy Fraser suona: «‘Socialism’ is back». L’affermazione, pur rivendicata con orgoglio, è subito sottoposta a una radicale e straniante domanda: che vuol dire esattamente oggi «socialismo»? Si può lottare per qualcosa il cui significato è ancora indefinito? Giusto partire da ciò che c’è (o sembra esserci), dopo decenni in cui sembrava impronunciabile persino la parola «capitalismo»; ma la realtà sembra sfuggirci di mano non appena ci poniamo questa domanda, quasi si trattasse di un fenomeno presente, e tuttavia acefalo, privo ancora di un volto sicuro. L’unico modo in cui si può sciogliere questa difficoltà, come per un verso fa la stessa Fraser, consiste nel riconoscere che i tradizionali contenuti assegnati alla parola – poniamo il controllo pubblico (o, persino, statuale) di tutti i mezzi di produzione, l’estinzione dello Stato, ecc. – sono ormai insufficienti e a volte improbabili, di fronte alle novità che il capitalismo nel frattempo ha saputo mettere in campo. Sovraccarichi di anni e un po’ ingenui o polverosi, essi infatti oscurano, anziché illuminare, l’azione pratica dei socialisti: rimane sempre una «mala contentezza» rispetto a qualcosa che potrebbe pur sempre rappresentare una tradizione da consegnare ormai ai secoli XIX e XX. Di qui il senso di avere a che fare con mete che, se pur oggi sembrano muoversi nella direzione giusta e ci fanno vincere, domani potrebbero segnare il terreno delle nostre sconfitte. Lo stesso caso del «socialismo» in Cina, un tema da esaminare con cura, comprova, mentre se ne distanzia, il nostro assunto.
2) Da dove si comincerà per determinare meglio una parola-concetto così sfuggente come quella di «socialismo»? La via maestra sembrerebbe quella di ripercorrerne i sensi filologico-storici, magari risalendo al Manifesto del partito comunista.
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Nuova Direzione?
di Moreno Pasquinelli
I parte
«Colui che attende una rivoluzione sociale “pura”, non la vedrà mai. Egli è un rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione. […] La rivoluzione socialista in Europa non può essere nient’altro che l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti i malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi pareciperanno inevitabilmente – senza una tale partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna rivoluzione – e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori». V. I. Lenin
Nuova Direzione è un’associazione politica verso la quale sentiamo forti affinità ideali e programmatiche, e verso i cui compagni nutriamo sincera stima. Al suo interno è in corso un dibattito che, al netto di certi arzigogoli teorici, solleva la questione se sia ancora possibile una fuoriuscita dal capitalismo e, se sì, con quali forze e per quali vie è possibile attuarla.
Prendiamo spunto dall’intervento di Diego Melegari e Faabrizio Capoccetti — I “bottegai”, l’ultimo argine? Spunti per una politica oltre purismo e subalternità – e della risposta di Alessandro Visalli – Delle contraddizioni in seno al popolo: Stato e potere.
Due interventi ad alta densità teorica, forse anche troppo, la qual cosa mette in bella mostra quello che a noi pare un brutto difetto di Nuova Direzione, l’intellettualismo. Entrambi risultano inaccessibili, non diciamo al largo pubblico, ma anche a militanti che non abbiano avuto il privilegio di aver studiato e digerito il complicato e spesso cervellotico dibattito teorico politico che, dopo il crollo del movimento comunista internazionale, ha coinvolto l’intellighentia marxista internazionale. Tuttavia, posta la preliminare opera di decriptazione, i due contributi sono degni di attenzione poiché, oltre a tirare in ballo dirimenti questioni strategiche e tattiche, ci fanno vedere la possibile linea di frattura dell’associazione.
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Il capitalismo alla rovescia di Pietro Ichino
di coniarerivolta
Raramente la stampa quotidiana offre spunti di respiro così ampio da riuscire a rappresentare una visione complessiva del mondo in poche righe. L’intervista rilasciata da Pietro Ichino al quotidiano Libero pochi giorni fa ha questo grande merito. Tuttavia il vero e impareggiabile merito di Ichino in questa e in altre esternazioni è quello di fornire una versione pura e senza fronzoli dell’ideologia liberista, aiutando così il lettore a comprendere quale sia l’obiettivo ultimo di società immaginato dai protagonisti della lotta martellante condotta contro i lavoratori da parte di chi ne vuole l’eterno sfruttamento e da parte di chi, consapevolmente o meno, di questo eterno sfruttamento costruisce le impalcature, attraverso presunte giustificazioni teoriche.
L’intervista è un botta e risposta veloce su temi ampi, tutti incentrati sulla crisi economica attuale e sulle misure adottate dal Governo italiano per farvi fronte.
Al margine di aspetti di minore importanza, sono almeno cinque i temi economici cruciali affrontati da Ichino (e altrettante le relative soluzioni prospettate, che costituiscono l’armamentario classico del liberismo oltranzista): 1) la libertà di licenziamento vista come volano per l’occupazione; 2) la causa della disoccupazione rintracciata nella formazione inadeguata dei lavoratori; 3) la convinzione che lo Stato debba ritrarsi dall’economia e non sia capace di “fare l’imprenditore”; 4) l’idea che il sindacato debba integrarsi nell’impresa condividendone i destini; 5) Il mito del lavoro agile a distanza come elemento di trasformazione della natura dei rapporti di lavoro dipendenti. Per non citare altre postille qua e là gettate al vento nell’intervista senza nemmeno la fatica di un’argomentazione minima: inevitabilità di una nuova riforma pensionistica restrittiva; reddito di cittadinanza come disincentivo al lavoro; le tasse come nemico dell’economia; i pubblici dipendenti visti pregiudizialmente come scansafatiche.
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Mentre le stelle (russe e cinesi) stanno a guardare...
di Fulvio Grimaldi
Il sultano Erdogan si riprende ciò che gli arabi gli avevano tolto... e, grazie a Giulio Regeni e ai suoi sponsor, anche di più
“Viva gli sciagurati (per lo sciagurato OMS) napoletani” (Anonimo fiorentino)
Le squadre in partita
Da una parte il subimpero del sultano ottomano neo-islamista, padrino di tutto il terroristame che imperversa in Medioriente e Africa, con alle spalle l’impero tenuto in piedi dal Deep State statunitense con il corredo dei “progressisti” imperiali di Soros, di nascosto Israele e, ultimo arrivato, paradossalmente, l’Iran del “moderato” Rouhani, suo rivale in Siria e Iraq.
Dall’altra l’Egitto, maggiore potenza araba, Arabia Saudita, Emirati, il pezzo più significativo del mondo arabo, Bengasi e gran parte della Libia liberata dai jihadisti, la Russia che traccheggia, la Cina che simpatizza da molto lontano. Queste le forze che si fronteggiano oggi nella regione. Il che è individuabile al semplice osservare le mosse dei due opposti schieramenti, ma mistificato e reso ingarbugliato dai servizi mediatici offerti ai soliti attori preferiti.
Regeni, la leva con cui sollevare il Medioriente
Si pensi al “manifesto”, arrivato a sostenere lo psicopatico guerrafondaio Bolton contro Trump, e al suo internazionalista “de sinistra” Alberto Negri. Antiamericano da vetrina, ma anche, all’uopo, antisaudita; detesta i turchi in quanto sterminatori di curdi (dichiarati “vincitori dell’Isis” al posto dei siriani, ed effettivi ascari antisiriani degli USA)), ma oggi come oggi, detesta di più al Sisi, da amico dei russi capovolto in “cocco di Trump”. Il suo condirettore, Tommaso Di Francesco, autonominatosi, nelle more dei giudici di Roma e del Cairo, PM, giudice e, domani, boia del presidente egiziano, dichiara Giulio Regeni “barbaramente fatto uccidere dai suoi servizi segreti”.
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Comunisti e sinistra di classe. Che fine hanno fatto in tempi di pandemia?
di Redazione
La redazione di ‘Ragioni e Conflitti’ ha posto quattro interrogativi all’attenzione di Alessio Arena (Fronte Popolare), Franco Bartolomei (Risorgimento Socialista), Adriana Bernardeschi (La Città Futura), Mauro Casadio (Rete dei Comunisti), Giorgio Cremaschi (Potere al Popolo), Marco Pondrelli (Marx21), Marco Rizzo (Partito Comunista), Mauro Alboresi (Partito Comunista Italiano). Segnaliamo che il segretario del Partito della Rifondazione Comunista, benché da noi sollecitato a partecipare al presente forum, ha ritenuto di non fornire alcun concreto riscontro alla nostra richiesta: un vero peccato, un’occasione di confronto mancata. Ecco di seguito gli interrogativi con le relative risposte, la cui lunghezza varia entro lo spazio di una pagina word ciascuna, come raccomandato dalla redazione.
* * * *
1. Pur in un dramma per molti versi imprevedibile, l’emergenza pandemica dovrebbe aver dato a molti la possibilità di vedere che il re è nudo. Da una parte, un Paese come la Cina che addirittura offre materialmente aiuto al più potente Paese capitalistico; dall’altra parte, milioni di disoccupati privi di assistenza sanitaria e una società impegnata a tagliare o privatizzare servizi pubblici essenziali, quindi sciaguratamente inadeguata per rispondere a impellenti esigenze di sicurezza collettiva. Non pensi che ciò offra importanti spunti per una battaglia ideologica, essendo l’occasione per far riflettere sulle caratteristiche e le storture di una determinata organizzazione sociale?
ALESSIO ARENA. L’emergenza sanitaria ha reso evidenti diversi punti di collasso del modello di sviluppo attualmente prevalente nel mondo. Negli Stati Uniti, da sempre in prima linea nell’applicazione ortodossa del modello capitalista, il dramma umano è incalcolabile, così come lo è il contraccolpo economico.
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A proposito di Smith, Ricardo, Marx e anche Sraffa
Commento pirotecnico al libro di Riccardo Bellofiore
di Giorgio Gattei
1. Ho religiosamente compitato la collazione (rimaneggiata) di scritti che Riccardo Bellofiore ha testé dato alle stampe (R. Bellofiore, Smith Ricardo Marx Sraffa. Il lavoro nella riflessione economico-politica, Rosenberg & Sellier, Torino, 2020) e qui mi provo a recensirla. Per me è stato come compiere un viaggio a ritroso nella mia stessa vicenda intellettuale davanti alla evidenza di un identico sentire (Riccardo, come al solito, non concorderà, ma a me non importa affatto se lui non percepisce, perché io invece sì). E dire che non ci siamo mai frequentati veramente (lui a Torino e a Bergamo, io stabilmente a Bologna), sebbene entrambi avessimo da sempre condiviso l’idea generale che non c’è modo di capire l’economia politica se non se ne ripassa la storia. È stata questa la grande lezione che ha dato ad entrambi Claudio Napoleoni in quelle Considerazioni sulla storia del pensiero economico, dapprima uscite sulla “Rivista trimestrale” e poi raccolte nel 1970 sotto il titolo di Smith Ricardo Marx, che hanno segnato una intera generazione di giovanotti, allora aggressivi e irriverenti, che ambivano a farsi economisti. Poi tanti di loro si sono persi anche solo per «tirare quattro paghe per il lesso» (Giosuè Carducci, Davanti San Guido), ma non Riccardo che ha proprio voluto intitolare questa sua ultima pubblicazione a Smith Ricardo Marx+ Sraffa dove il quarto nome, che nel titolo di Napoleoni non c’era, non è affatto peregrino se proprio Napoleoni è stato il miglior divulgatore in Italia dell’unico libro di alta teoria che sia uscito nella seconda metà del Novecento: quella mitica Produzione di merci a mezzo di merci, per l’appunto, di Piero Sraffa.
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Theodor W. Adorno: «Aspetti del nuovo radicalismo di destra»
di Donato Salzarulo
1.-Un dono giusto al momento giusto
Per il mio compleanno Elisa, la nipote dott.ssa in filosofia, mi ha regalato un libretto di Theodor W. Adorno. Titolo: «Aspetti del nuovo radicalismo di destra» (Marsilio, 2020, pp.90).
Il dono è capitato a fagiolo, proprio nei giorni in cui l’amico Ennio, da tenace polemista, mi ha coinvolto nel dibattito seguito al deplorevole episodio della signora, vicesindaco colognese, col volto coperto da una mascherina nera e la scritta mussoliniana “Boia chi molla!”.
Nessuno, tra coloro che hanno stigmatizzato il gesto, singolo o forza politica, ha pensato ad un’imminente marcia su Roma; innegabile, però, che la pagliacciata fascista si colloca in un contesto sociale e culturale in cui il radicalismo di destra marcia quotidianamente nelle coscienze degli italiani. Infatti, stando ai sondaggi di Pagnoncelli, a fine maggio 2020, Fratelli d’Italia si vede attribuire il 16,2% dei voti e la Lega il 24,3%. Totale: 40,5%. Mica male.
Allora mi sono immerso volentieri tra le pagine del libretto a caccia di spunti per comprendere, pur con tutte le differenze del caso, la nostra situazione.
2.-Il testo è la registrazione di una conferenza
Il testo è la registrazione di una conferenza che l’illustre esponente della Scuola di Francoforte tenne il 6 aprile 1967 all’Unione degli studenti socialisti dell’Austria. Pensieri, quindi, che risalgono a più di mezzo secolo fa, in un contesto politico e sociale molto diverso da quello odierno, alla vigilia del Sessantotto. Adorno ha visto nascere nel 1964 il Partito nazionaldemocratico di Germania ed ha assistito a dei successi iniziali in alcuni parlamenti regionali e alle elezioni federali del 1965.
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Nichilismi
di Salvatore Bravo
Derealizzare l’io
Ci siamo condannati a vivere in un mondo alogico ed irrazionale. Si susseguono messaggi contradditori, governano le potenze del dicitur, dinanzi alle quali si resta inermi, senza categorie per filtrare e selezionare i flussi di informazioni ed immagini. La menzogna assomiglia alla verità, l’una è simile all’altra, in un tale contesto il soggetto ricade su se stesso, non crede nel logos, nella possibilità di discernere la verità dalla sua copia, il bene dal male. Il caos regna, l’effetto immediato e duraturo è la sfiducia nell’umano e nelle sue istituzioni. Vivere in un universo storico alogico forma creature irrazionali che convertono la sfiducia nella ragione in adorazione idolatrica per la nuda vita, per la sola biologia pulsionale, la quale diviene la misura del vivere. Vi è dunque un’assenza metafisica, pertanto non vi è dialettica, non vi è tensione tra il polo della verità e del nichilismo, ma si confrontano nichilismi differenti che si autorappresentano come verità. Si derealizza il reale, si incide sul principio di realtà per sostituirlo con il principio non di piacere, affinché esso vi sia, è necessario avere contezza della pluralità delle emozioni e delle percezioni del reale. Il piacere, invece, è pulsione unica speculare all’irrazionale vigente. “Piacere” non per tutti, vi è l’aspirazione utopica ed infantile ad esso, raggiungibile solo per pochi, ma i più vivono guardando il mondo dei vip, i loro eccessi, partecipano alle loro tristezze in assenza di vita propria. La nuda vita devitalizza, derealizza, assottiglia la percezione del proprio “io” fino a renderlo evanescente, nullo, per cui il soggetto deve compensare il vuoto spiando la vita degli altri, vivendo di luce riflessa del nuovo olimpo mondano dei vip. L’io minimo è il vero fine del sistema capitale all’apice della sua estensione ed intensità.
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L’ascesa del femminismo neoliberista
di Catherine Rottenberg
Proponiamo un estratto dal libro L’ascesa del femminismo neoliberista di Catherine Rottenberg appena uscito per ombre corte, con la traduzione di Federica Martellino e una prefazione di Brunella Casalini. In questo saggio l’autrice sostiene che il femminismo neoliberista legittima lo sfruttamento della stragrande maggioranza delle donne mentre disarticola qualsiasi tipo di critica strutturale. Non sorprende, quindi, che questo nuovo discorso femminista converga con le forze conservatrici che, in nome della parità di genere e dei diritti delle donne, promuovono programmi razzisti e anti-immigrazione o giustificano gli interventi nei paesi a maggioranza musulmana. Rottenberg conclude quindi sollevando domande urgenti su come riorientare e rivendicare con successo il femminismo come movimento per la giustizia sociale.
* * * *
Secondo molti progressisti americani, la campagna presidenziale di Hillary Clinton del 2016 e il forte sostegno che ha ricevuto dalle organizzazioni femministe, avrebbero segnato uno dei momenti clou della rinascita di un’agenda femminista negli Stati Uniti. Nei giorni precedenti alle elezioni vi era un’aspettativa sempre più intensa e quasi palpabile, tra un vastissimo numero di persone, circa la possibilità di inaugurare una nuova era in cui, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, a capo della nazione più potente del mondo, ci sarebbe stata una donna. Di conseguenza, al risveglio dell’inaspettata – e per molti scioccante – disfatta di Clinton, si è rivelato molto più difficile valutare la portata del fatto che una donna si stesse candidando alla presidenza sostenuta da un partito a favore delle donne e identificato come “femminista”.
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Microstoria delle odierne schiavitù e appunti strategici per le nuove lotte sociali
di Andrea Muni
Grazie Marc Bloch. Un’antica tappa della storia della schiavitù
Un giorno a Bologna qualche anno fa ho comprato un po’ per caso un libro di Marc Bloch, di cui avevo già amato La società feudale e molti altri scritti. Il libro si intitola Lavoro e tecnica nel Medioevo (Laterza, 2009). Da quel giorno non riesco più a smettere di rileggere un breve testo che vi è contenuto: è diventata una piccola, deliziosa ossessione. Bloch tratta in questo rapido intervento una questione che per gli storici veri, e ancor di più per un mostro sacro com’era lui, è un oggetto di studio quasi scontato. Una questione che, non di meno, per i non specialisti e per i dilettanti di storia (come me), può risultare addirittura stupefacente.
In questo saggetto Bloch propone la sua idea a proposito della fine della schiavitù antica. Ossia di quella particolare forma giuridica che, dai tempi dei Greci e per tutto l’Impero Romano (per limitarci alla storia della nostra cultura), permetteva nell’antichità di considerare milioni di uomini – si dice la maggior parte degli esseri umani – come oggetti, proprietà privata di un padrone, alla stregua di beni mobili e immobili. Certamente anche il mondo greco-romano ha conosciuto col tempo delle limitazioni rispetto a questo istituto, ma del tutto diverse da quelle che potremmo immaginare. Inoltre, anche nell’antichità gli schiavi potevano riscattarsi, e spesso a essi veniva delegata l’intera gestione di commerci e manifatture. Immortale a questo proposito è il liberto Trimalcione ridicolizzato nel Satiricon di Petronio.
Bloch si interroga però sulle ragioni “strutturali” per cui un istituto giuridico millenario come la schiavitù antica, in un lasso di tempo tutto sommato breve, ossia tre quattro secoli, abbia potuto rapidamente scomparire (o per lo meno attenurasi enormemente) in Europa Occidentale.
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Alle radici dell’aumento della brutalità razzista delle polizie
di Salvatore Palidda
Da oltre due decenni si assiste a una continua riproduzione di violenze razziste e persino assassinii da parte di agenti delle polizie[i]. Non è casuale che questi fatti siano particolarmente frequenti negli Stati Uniti ma anche nelle banlieues francesi, in Inghilterra e sebbene con meno frequenza anche in Italia, Spagna, Belgio e laddove la presenza di neri, ispanici, nordafricani e immigrati di diverse origini si configura come oggetto di violenza del dominio liberista neocoloniale.
Questa escalation delle violenze poliziesche è la conseguenza di un processo di militarizzazione della polizia statunitense che comincia come reazione ai movimenti per i diritti civili, poi, ancora di più nella strategia di counterinsurgency sviluppata negli anni 60 e 70 perneutralizzare il Black Power movement e continua con la Revolution in Military Affairs (RMA) lanciata nel periodo di Reagan[ii]. Questa “rivoluzione” è la traduzione di quella liberista che ha instaurato la conversione militare del poliziesco e quella poliziesca del militare, il continuum fra le guerre permanenti su scala mondiale e la guerra sicuritaria all’interno di ogni paese. Da allora c’è stata una gigantesca recrudescenza dell’azione repressiva delle polizie con modalità da guerra contro immigrati, marginali, manifestanti e in generale oppositori al trionfo liberista (da Seattle al G8 di Genova e poi ancora sino alle mobilitazioni contro i summit del G7 o G20 così come contro le grandi opere vedi in Italia casi TAV, TAP ecc.).
Alcuni osservatori e ricercatori hanno provato a spiegare la recrudescenza di violenze razziste negli Stati Uniti con la deriva che ha caratterizzato la cosiddetta guerra allo spaccio di droghe (tesi in parte alimentata anche da alcune serie tv fra le quali The Wire[iii]).
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Un “capro espiatorio” per il Covid-19
di Uber Serra, con Giorgio Gattei
Quando una comunità viene minacciata nella sua stessa sopravvivenza fisica da lotte intestine, ma anche da guerre o da calamità naturali, ha tre modalità possibili di tenuta:
1) sottomettersi alla volontà di un Tiranno (il “Leviatano”) – e questo è Hobbes;
2) aderire di comune accordo ad un Contratto (la “Volontà generale”) – e questo è Rousseau;
3) scatenare la violenza contro una Vittima (il “Capro espiatorio”) – e questo è Girard.
* * * *
Uber Serra
Insegna René Girard (qui si rinvia a Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo del 1978, ma c’è anche La violenza e il sacro del 1972 e Il capro espiatorio del 1982) che tutto ciò che chiamiamo “cultura” trae origine, e quindi può essere spiegato, dal concetto di desiderio mimetico, nel senso che tutti gli uomini per loro natura tendono a desiderare le medesime cose. Si tratta di una vera e propria legge universale del comportamento umano, una invariante culturale in base alla quale, siccome viviamo in un ambiente di penuria, ciascuno di noi desidera egoisticamente e realisticamente ciò che l’altro possiede, così da imitarci l’un l’altro nel medesimo desiderio di appropriazione (“appropriazione mimetica”): «se un individuo vede uno dei suoi congeneri tendere la mano verso un oggetto, è subito tentato di imitarne il gesto».
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La norma invisibile
di Il Pedante
Nel merito della proclamata epidemia di questi mesi sono state spese parole autorevoli ma finora poco o per nulla definitive, sempre atteso che possa darsi un «definitivo» nelle cose della scienza. In quanto al metodo è stato invece più facile identificarvi l'ultima metamorfosi di una crisi ininterrotta che da almeno vent'anni reclama deroghe ai precedenti etici e giuridici per risolvere emergenze ogni volta inaffrontabili con gli strumenti del prima. Se tentassimo una tassonomia delle eccezioni condensatesi in questo breve periodo, quella attuale ricadrebbe nella fattispecie dell'attacco terroristico. Non tanto per il terrore che integra già la fenomenologia dell'emergenza, quanto più per i prodotti propri del collegato momento riformante: instillare la paura del prossimo come latore di rischi invisibili e mortali → rinforzare i dispositivi di sorveglianza → limitare le libertà che attengono alla sfera fisica.
Le misure straordinarie di volta in volta adottate nell'evo della crisi perpetua lasciano sempre un sedimento irreversibile nella legge e nella percezione di ciò che è ordinario. E in questo loro spingere ogni volta più in alto la piattaforma su cui si innesteranno le eccezioni successive, in questo qualificarsi non già degli eventi, ma delle reazioni agli eventi come incrementalmente «senza eguali», anche nella loro versione sinora ultima non sfuggono alla regola di ogni ultima versione, di superare cioè le applicazioni pregresse in ogni dimensione possibile.
Il primo prodotto in elenco si specchia oggi, direi in maniera radicale, nel dispositivo del «distanziamento sociale» che fa della negazione della prossimità e del suo comandamento (Mt 22,39) una norma generale.
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In che scuola vogliamo tornare?
di Girolamo De Michele
In autunno, sul banco delle novità della biblioteca del liceo in cui insegno, c'era un libro adesso famosissimo, Spillover di David Quammen. L'ho tenuto in mano a lungo, sfogliandolo e leggiucchiandolo; l'amico bibliotecario mi ha chiesto se volevo prenderlo in prestito (mi conosce, e sa che di solito se tengo in mano un libro per un tot poi me lo porto a casa); ci ho pensato su, e poi gli ho risposto: magari in estate, adesso non ho il tempo di leggerlo. E poi, mi sono anche detto: una volta letto, dove trovo il modo di parlarne in classe, io che insegno storia e filosofia? Fatto è che il tempo di leggerlo (è un librone, anche se divulgativo), fra lezioni da preparare, compiti da correggere, e un mare di impegni burocratici da sbrigare, forse non lo avevano neanche le/i collegh@ di scienze.
Poi è arrivata la pandemia, il manifesto ha intervistato Quammen, e di colpo tutto il mondo dell'informazione ha "scoperto" Spillover: e a me è rimasto l'amaro in bocca per non averlo letto e non averne parlato, che sarebbe stato utile, eccome. Potrebbero obiettarmi: ma se l'aggiornamento è un obbligo, leggere un libro per farne argomento didattico non è ottemperare a un obbligo di servizio? La risposta è: no, non lo è. Se leggo un libro e imparo qualcosa, non è riconosciuto come aggiornamento. Se invece (com'è accaduto) c'è una "giornata di studio" nella quale la star dell'evento è una funzionaria del ministero la cui unica referenza è stata per anni l'aver co-firmato (ma col proprio cognome in piccolo) un libro assieme all'ex ministro Berlinguer – ma che, a dispetto di ciò, ha incarichi su incarichi: beh, quello sarebbe aggiornamento. Perché, un po' come le banane, quel convegno aveva il bollino: quello della piattaforma SOFIA. Per la cronaca: non ci sono andato (e questo mi ha causato qualche problema).
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Piano Colao: Confindustria detta, i tecnici scrivono
di coniarerivolta
Alla fine la montagna ha partorito un topolino: il “comitato di esperti in materia economica e sociale” presieduto da Vittorio Colao, già amministratore delegato di Vodafone, ha consegnato al governo il Piano di rilancio deputato a dettare la linea sull’uscita dalla crisi. Certo, le reazioni del mondo politico non sono state quelle attese. I partiti che compongono la maggioranza di Governo – con l’eccezione di Italia Viva – hanno reagito con freddezza al Piano Colao, il cui destino è a questo punto incerto. Sarà davvero la base di partenza su ci si articolerà il piano di ‘riforme’ da presentare all’Europa per avere accesso al già famoso Recovery fund (ora Next Generation EU)? Oppure finirà riposto e dimenticato in un cassetto?
La risposta è ancora incerta, ma non per questo è meno importante analizzarne il contenuto. D’altronde, l’entusiasmo scatenato in Salvini e nella Lega, fino alle bizzarre esternazioni della macchietta Bagnai (maestra, maestra, mi hanno copiato il piano!!!), fornisce un’utile indicazione di quanto le linee guida contenute nel Piano Colao siano in linea con i desiderata del padronato del nostro Paese. Proviamo, quindi, ad andare al di là del circo quotidiano offerto dalla politica nostrana, per analizzare l’impianto generale ed alcune delle misure cruciali contenute in questo catalogo degli orrori.
Si parte a bomba. La prima proposta (1.i) è lo scudo penale a favore delle imprese in caso di contagio Covid dei propri dipendenti: detta così sembrerebbe già sufficiente per chiudere tutto e dare fuoco al malloppo. Lo scudo esclude la responsabilità penale per quelle aziende che, nominalmente, rispettano e hanno rispettato le norme in materia di sicurezza, pattuite tra parti sociali.
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Come prima… peggio di prima
di Alessandra Ciattini
La crisi sanitaria ed economica disvela scenari catastrofici in contrasto con la fiducia che ci vogliono inoculare. Forse il disvelamento alimenterà la forza consapevole di opporsi in quelli che sono stati spinti al basso della piramide sociale
Nel 1917 qualcuno scriveva La catastrofe imminente…, ma forse l’espressione poteva ben riferirsi a quel momento storico, ora che stiamo per uscire dalla pandemia, nonostante la situazione critica di Paesi come gli Stati Uniti e il Brasile, e possiamo forse sentirci più tranquilli; ma le cose stanno veramente così? In effetti, almeno qui nel Lazio dove scrivo, la gente si muove tranquilla ed ha ricominciato il consueto consumismo, magari più attento.
Analizzerò brevemente alcuni aspetti delle ipotetiche conseguenze della pandemia che si è rovesciata sui paesi capitalistici avanzati e che per questo è stata sempre sulla cresta dell’onda, nonostante la persistenza di epidemie “minori” (per la nostra ottica) in altri continenti.
Qualcuno si ricorderà che la cosa è iniziata con accuse reciproche da parte di Cina e Stati Uniti a proposito della diffusione del virus, della mancanza di tempestività etc., tanto che l’Organizzazione mondiale della sanità ha dato vita ad un’indagine “indipendente” sulle cause, sulle misure adottate, sulla diffusione delle informazioni.
Nel retroscena è stata collocata l’ipotesi dell’arma biologica, anche se questo non ci deve far dimenticare che le grandi potenze hanno numerosi laboratori proprio per produrre questo genere di agenti patogeni subdoli e sostanzialmente a buon mercato.
Ovviamente non si fa più menzione del fatto che è proprio la struttura dell’industria agroalimentare e dell’allevamento, connessa alla devastazione della natura, alle rapide forme di inurbamento e di inquinamento, che sta proprio alla base del famoso “salto di specie” attraverso cui un virus, ubicato in un corpo animale, si trasforma ed attacca l’uomo, dando luogo ai fenomeni pandemici a causa degli altri aspetti della globalizzazione (rapidità di spostamenti): non se ne fa menzione, appunto, proprio perché si sarebbe messa in crisi la struttura capitalistica stessa.
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Sulla differenza tra sommossa e insurrezione
di Bruno Astarian e Robert Ferro
Estratti da Le ménage à trois de la lutte des classes. Classe moyenne salariée, prolétariat et capital, Éd. de l’Asymétrie, Toulouse 2019, pp. 293-299
A margine del movimento partito da Minneapolis in seguito all'uccisione di George Floyd, ed estesosi ad un gran numero di città statunitensi e non, pubblichiamo alcuni estratti di Le Ménage à trois de la lutte des classes, uscito in Francia nel dicembre 2019, e in fase di traduzione in italiano. Non è che un piccolo contributo alla messa a fuoco del proteiforme movimento ancora in corso. Avremo modo di riparlarne in maniera più circostanziata prossimamente. Nel frattempo, per chi volesse procurarsi il volume di cui sopra, segnaliamo che è possibile ordinarlo sul sito della casa editrice: https://editionsasymetrie.org/ouvrage/le-menage-a-trois-de-la-lutte-des-classes/.
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Negli ambienti attivisti, e anche in quelli comunizzatori, la sommossa è stata spesso caricata di un significato immediatamente sovversivo o rivoluzionario. Ora, nel corso degli ultimi decenni, la sommossa si è banalizzata, senza mai trasformarsi in un’insurrezione propriamente detta (ritorneremo su questa terminologia). Inoltre, nel corso delle nostre ricerche, ci è parso chiaro che anche la classe media salariata (CMS) possa dare vita a delle sommosse (Venezuela 2014, Algeria da diversi anni ormai, etc.). Conviene dunque, a nostro avviso, rimuovere questa ambiguità attraverso una definizione più stretta della sommossa, distinguendola dall’insurrezione. Ecco un primo approccio, che si tratterà poi di precisare:
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il termine sommossa [émeute, NdT] verrà riservato a delle sollevazioni più limitate, in particolare perché non coinvolgono il processo di lavoro generale, e non comportano quindi alcuna possibilità di superamento. La sommossa attacca, distrugge, saccheggia la proprietà solo nella sfera della realizzazione, e si interessa unicamente alle merci della sezione II della produzione sociale (mezzi di sussistenza).
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Sulla stagnazione e la crisi del 2007
di Bollettino Culturale
Diversi punti di vista sulla stagnazione
La scuola stagnazionista della Monthly Review, ora proseguita con il contributo di Fred Magdoff e John Bellamy Foster, fa riferimento alle analisi suggerite da Paul Baran e Paul Sweezy negli anni '60. È proprio a loro che Foster e Magdoff si rivolgono per spiegare la simbiosi tra stagnazione e finanziarizzazione dell'economia, il punto focale delle loro analisi sulla crisi del 2007. In Sweezy la tendenza al sottoconsumo e, quindi, alla stagnazione come "la norma verso cui tende la produzione capitalista" derivava dal presupposto che gli investimenti e il consumo capitalistici sarebbero cresciuti in proporzione al reddito e che, pertanto, la quota dei salari avrebbe dovuto diminuire.
Poiché ha anche ipotizzato che la percentuale del consumo capitalista in termini di reddito sarebbe diminuita, Sweezy ha dedotto un aumento della percentuale di investimenti in reddito. Supponendo che la produzione di mezzi di consumo fosse proporzionale alla crescita degli investimenti, Sweezy dedusse che l'offerta di mezzi di consumo sarebbe cresciuta prima della domanda di mezzi di consumo, causando un eccesso cronico di capacità. Questa è la teoria del sottoconsumo e della stagnazione di Sweezy. L'errore teorico, come sottolineato da Shaikh, consiste nel considerare il dipartimento I come un input del dipartimento II e, pertanto, l'economia capitalista punta alla produzione di beni di consumo.
Per Baran e Sweezy la tendenza della moderna economia capitalistica alla stagnazione è legata all'emergere di monopoli e oligopoli. Nel loro libro del 1968, Monopoly Capital, Sweezy e Baran sostengono che gli oligopoli hanno vietato la concorrenza sui prezzi. Di conseguenza, la teoria generale dei prezzi appropriata per questa economia divenne "la teoria tradizionale dei prezzi del monopolio classico e neoclassico", ora elevata al livello di un caso generale e non più speciale.
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Germania 1918 e Italia 1945: due rivoluzioni interrotte
di Eros Barone
Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose.
Giambattista Vico, La scienza nuova, Degnità XIVª.
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La democrazia borghese contro la rivoluzione socialista: il caso tedesco
La nazione europea in cui le crisi e i conflitti del primo dopoguerra si manifestarono nella forma più netta e, nel contempo, più drammatica fu senza dubbio la Germania. In questo paese la sconfitta militare aveva determinato la disgregazione dell’impero guglielmino e posto la necessità di una profonda trasformazione dello Stato. In quello che, a partire dall’età bismarckiana, si presentava come un regime semi-assolutista e semi-parlamentare, l’impero si era basato su una compenetrazione talmente stretta fra l’imperatore e l’esercito che l’intero sistema politico e sociale finiva con l’articolarsi intorno all’autorità del sovrano e alla possente struttura dell’esercito, nel mentre il parlamento era ridotto a svolgere un ruolo decisamente subalterno.
Quando le ostilità cessarono, nel breve giro di due settimane questi pilastri crollarono.
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Il razzismo nell’uomo capitalistico occidentale
di Michele Castaldo
All’indomani delle mobilitazioni per la morte di George Floyd negli Stai Uniti, del funerale in pompa magna, degli inni di rito, delle migliaia di arresti e di centinaia di feriti, tentiamo un minimo bilancio e una breve riflessione sulla questione del razzismo.
Che ancora ai giorni nostri si possa uccidere un uomo, per un presunto biglietto di venti dollari falso, mentre grida al poliziotto bianco, che gli comprime il ginocchio sulla carotide di non riuscire a respirare, appare ai più qualcosa fuori dal mondo, del mondo civile s’intende, il mondo occidentale, civile per eccellenza, come i popoli d’Europa, i primi “civili” e civilizzatori della storia moderna. Dunque negli Usa accadono tuttora fatti esecrabili, di chiaro stampo razzista, un marchio di fabbrica moderno che rimuove le delicatezze dei rapporti degli europei del passato, oltre che del presente, nei confronti del resto del mondo. Se poi accadono sotto la presidenza di un fenomeno da baraccone come il rozzo Trump, beh tutto si spiega. Come dire? Questi americani non riescono proprio a superare un certo stadio di primitivismo nei confronti degli uomini di colore.
Per non appesantire la lettura di queste poche note raccontiamo un piccolo episodio capitato in una scuola elementare di Roma, dove una bidella che lavorava in un liceo, viene invitata a recarsi presso l’istituto dove la figlia di 9 anni frequentava la quarta classe e aveva dato della «sporca negra» a una bambina di colore sua coetanea nella stessa classe, che invece di piangere l’aveva strattonata e tirandola per i capelli l’aveva sbattuta a terra. La bidella si precipita all’istituto e cerca di spiegare alla propria figliola che non bisogna essere razzisti e indicando la bambina di colore dice: «vedi lei ha due mani, due piedi, due braccia, due gambe e una testa, proprio come te. E’ colpa sua se è nera?».
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Covid-19: «rivelazioni» e conferme di giugno
di Marinella Correggia
Intorno al Covid-19 si susseguono da mesi colpi di scena, rivelazioni e successive rettifiche. Grande è la confusione sotto il cielo. Ma non siamo ai tempi di Mao e quindi la situazione non è affatto eccellente. Cerchiamo di collegare alcuni puntini
1. Oms: «Il contagio da parte di asintomatici è molto raro»…anzi «non sappiamo». Maria Van Kerkhove, direttrice del team tecnico dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per la risposta al coronavirus (1), lunedì 8 giugno osa affermare: «Ci sono casi di persone infettate che sono asintomatiche, ma i paesi che stanno monitorando in modo dettagliato i contatti non stanno trovando da questi casi una trasmissione secondaria». Gli «esperti di salute pubblica» insorgono, capitanati dall’Harvard Global Health Institute. E così l’Oms aggiusta il tiro il giorno dopo: «La maggioranza dei casi di trasmissione che conosciamo si verifica, con le droplets, da parte di chi ha sintomi. Ma ci sono persone che non sviluppano sintomi, e non abbiamo ancora risposta sulla questione di quanti infettati non abbiano sintomi». Alcune ricerche stimano la probabilità di infezioni da asintomatici (e più spesso pre-sintomatici) con modelli probabilistici, senza documentare direttamente la trasmissione. Comunque la frase rivelatrice dell’esperta dell’Oms è: «Per ogni risposta che troviamo alle domande, ne sorgono altre dieci». La risposta è sempre: dipende (dalle circostanze): un luogo chiuso affollato e in una zona ad alta carica virale è un caso specifico, non generalizzabile (vedi ai punti 10 e 12).
E a proposito dei modelli probabilistici..
2. «Falliti i modelli epidemiologici, meglio non usarli più nelle decisioni politiche». Il virologo Guido Silvestri, ribadendo – sulla sua rubrica social Pillole di ottimismo – quanto aveva già affermato circa il fallimento dei modelli matematici nel prevedere l’andamento reale dell’epidemia, spiega (2):
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