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La crisi Europea
di Sam Fleming, Jim Brunden, Michael Peel
“Sotto la crisi cui è in preda il mondo si possono scoprire gli indizi di una logica all’opera e questo ci permette di conservare fiducia nello sviluppo futuro”
Figure dell’immanenza. Una lettura filosofica del I Ching, François Jullien
Pubblichiamo la traduzione dell’articolo: Crisi in Europa: l’audace offerta di von der Leyen per nuovi poteri, apparso nella sezione “the Big Read” del prestigioso quotidiano economico finanziario britannico “Financial Times”.
Si tratta di un articolo, scritto a “sei mani” dai tre corrispondenti del giornale a Bruxelles, che ricostruisce l’attuale dibattito nei centri decisionali dell’Unione Europea rispetto alla politica economica da adottare.
Un momento topico, quello che sta attraversando l’UE, che rischia di mettere in discussione le sue aspirazioni, o come si esprime un anonimo funzionario intervistato dai giornalisti: “una questione di sopravvivenza per il mercato interno e il progetto europeo”.
Il contributo fa emergere tra le righe lo stile di lavoro della presidente della Commissione Europea, mostrandoci quale sia il reale processo decisionale nelle “stanze dei bottoni” a Bruxelles. In un passaggio preceduto da ciò che i latini avrebbero definito captatio benevolentiae – “procurarsi la simpatia” – i giornalisti ci informano che:
“Tuttavia, questa attenzione ai dettagli è stata affiancata da ciò che alcuni critici vedono come una mancanza di coordinamento politico ai vertici della commissione e una dipendenza eccessiva da un piccolo gruppo di consulenti di fiducia – alcuni dei quali sono venuti con lei da Berlino – per condurre un gruppo amministrativo di 32.000 membri.”
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La necessaria ambizione. Osservazioni su Stato, egemonia e organizzazione
di Rolando Vitali
“…quando tutto sembra perduto bisogna mettersi tranquillamente all’opera ricominciando dall’inizio.” Antonio Gramsci
“La Germania […] non potrà abbattere le proprie barriere senza abbattere le barriere generali del presente politico. Non la rivoluzione radicale è per la Germania un sogno utopistico, non la universale emancipazione umana, ma piuttosto la rivoluzione parziale, la rivoluzione soltanto politica, la rivoluzione che lascia in piedi i pilastri della casa.” Karl Marx
Per affrontare la difficile costruzione di una prospettiva socialista e democratica davanti al disastro ambientale, sociale e politico del capitalismo contemporaneo è necessario intraprendere un serio e lungo lavoro di chiarificazione, iniziando da alcuni snodi fondamentali: in questa situazione di crisi e di confusione, la mancanza di chiarezza sui punti di partenza può infatti facilmente portare all’impotenza e alla subalternità. Ma questa fase può anche permetterci di chiarire meglio quali siano i punti necessari da cui partire.
La crisi iniziata nel 2008 e l’attuale epidemia da Covid-19 hanno reso definitivamente evidente l’inadeguatezza del concetto di “globalizzazione” proprio dalle ipotesi altermondialiste e liberali : l’ideale di uno spazio globale di integrazione tra diritti, democrazia e sviluppo economico si scontra con la realtà di un campo instabile e conflittuale, dominato dai capitali internazionali e reso geopoliticamente coeso anzitutto dall’egemonia militare statunitense[1]. In questo contesto, ogni ipotesi di piegare le vigenti istituzioni internazionali in senso democratico e solidale appare del tutto velleitaria e subalterna: queste istituzioni, infatti, dimostrano tanta capacità di indirizzo quanta è quella delle nazioni che se ne servono per portare avanti la propria agenda. Né è di più né di meno.
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Il dilemma del debito
di Michael Roberts
Molte volte, ho accennato su questo blog a come l'aumento del debito globale riduca la capacità delle economie capitalistiche ad evitare collassi e a trovare un modo rapido per poter recuperare . Come ha spiegato Marx, il credito è una componente necessaria per oliare le ruote dell'accumulazione capitalistica, rendendo possibile il finanziamento relativo a progetti più ambiziosi e più ampi, nel momento in cui solo i profitti riciclati non sono più sufficienti; e a fare circolare il capitale in maniera più efficiente per gli investimenti e la produzione. Ma il credito diventa debito, e per quanto esso aiuti ad espandere l'accumulazione di capitale, se i profitti non si materializzano in una maniera che sia sufficiente a soddisfare quel debito (vale a dire, a ripagarlo insieme agli interessi per i finanziatori) ecco che allora il debito diventa un fardello che comincia a rosicchiare i profitti e la capacità di espandersi del capitale).
Per il resto, sono due le cose che accadono: per far fronte a quelli che sono gli obblighi per il debito esistente, le imprese più deboli sono costrette a chiedere più prestiti per coprire i servizi del debito, di modo che così il debito si impenna a dismisura. Inoltre, il ritorno per quello che è il rischio sul prestito per i creditori, ora può sembrare ancora più elevato, rispetto all'investimento in capitale produttivo, soprattutto se il beneficiario è il governo, un debitore molto più sicuro. In questo modo, la speculazione sulle attività finanziarie, fatta sotto forma di obbligazioni e di altri strumenti di debito, aumenta. Ma se c'è una crisi nella produzione e negli investimenti, questa forse è in parte causata dagli eccessivi costi dei servizi di debito, ed ecco che allora la capacità delle imprese capitaliste di riprendersi, e di dare inizio ad un nuovo boom, viene indebolita dall'onere del debito.
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Capitalismo finanziario
di Salvatore Bravo
Capitalismo astratto
Il terzo libro del Capitale di Marx pubblicato da Engels nel 1894 è sostanziale per comprendere dinamica ed effetti dei processi di capitalizzazione. L’analisi di Marx svela e rivela il fondamento veritativo del capitalismo finanziario. L’accumulo si struttura in assenza del capitale materiale, il quale è solo titolo di credito. Il capitale d’interessi si moltiplica in modo geometrico autoproducendosi, nuova divinità terrena che si autocrea e si autopone dal nulla, pertanto è ontologicamente ostile alla vita ed al lavoro. Divora i debitori, le loro vite e le muta in “interessi” con cui accumulare capitali, la cui genesi non è il lavoro, ma il tasso d’interesse. I debitori hanno perso il controllo del loro debito, sono oggetto di processi finanziari. La vendita dei titoli di credito è percepita dai capitalisti della finanza solo come fonte di investimento ed accumulo. Le vite dei debitori scompaiono dietro i titoli di credito, per lasciare al loro posto solo il calcolo degli interessi. Ogni debitore è così solo un numero, una data in scadenza, un nemico da cui astrarre la linfa vitale che tiene in vita il capitalismo finanziario. L’essere umano è trasformato in fonte per l’accumulo. Al capitalista non giunge nulla della sua sofferenza e della quotidiana tragedia per sopravvivere. Il debitore, in questo gioco, è sospinto nel suo olocausto, poiché se non sta al gioco del grande capitale è sospinto ulteriormente ai margini del sociale, è il paria da cui tutti fuggono. La violenza del capitalismo finanziario agisce secondo diverse direttive: dall’alto esige il pagamento con gli interessi in date non contrattabili, ma vi è, anche, la violenza orizzontale che fortifica l’automatismo finanziario. Il debitore subisce i sospetti del suo contesto di relazionale, lo si fugge e disprezza, poiché la religione del capitale non perdona gli sconfitti.
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Necessità e urgenza di una critica politica della scienza medica
di Silvio D’Urso
Ospitiamo con interesse questo testo di Silvio D’Urso, con la collaborazione di Marco Piccininni, che sottolinea la necessità di un'indagine sulla scienza medica, evidenziando come dietro l'ideologia della presunta "oggettività" di essa, vi siano in realtà interessi di classe contrapposti. Buona lettura!
Le nuove norme inerenti la riapertura delle attività commerciali, di cui Conte ha parlato nelle sue ultime conferenze stampa, sanno di Fase 2 che precipitosamente si trasforma in Fase 3 e di un’ostinata volontà di tornare - a tutti i costi - alla vita “di prima”. Conte ci assicura che questa decisione è stata presa sulla base di un “rischio calcolato” in maniera scientifica, ma chiaramente in questo calcolo la tutela di un sistema economico iniquo e criminale, ha giocato un ruolo fondamentale. Le decisioni sulle nostre vite vengono elaborate e prese nel campo del dibattito scientifico e medico, lontane da noi e dalla nostra comprensione, sacrificando la salute sull’altare del profitto. Questo momento storico lancia una sfida precisa ai comunisti: elaborare una critica politica della scienza medica che sia rigorosa e all’altezza della fase.
Noi comunisti sappiamo bene che, se vengono chiesti dei sacrifici, questi non vengono chiesti nell’interesse di tutti, ma avendo a cuore la salvaguardia di un sistema politico ed economico ormai al collasso. Questa nostra consapevolezza, però, confligge con l’apparente univocità del discorso scientifico che viene impiegato per legittimare eventuali modi di gestione dell’emergenza. Nei proclami di questo o quell’esperto non si fa menzione di alcun interesse di classe, si parla solo di ciò che va fatto per il bene di tutti. Ebbene, se non possiamo accettare acriticamente una presunta neutralità del punto di vista scientifico, non possiamo nemmeno opporci ad esso con uno scetticismo incondizionato e settario.
L’autorità degli esperti non deriva, infatti, dalla loro personalità o da un grande carisma, né si può vedere nella scienza una pura espressione della soggettività o un semplice prodotto dell’ideologia dominante.
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La Corte costituzionale tedesca spinge l’Italia tra le braccia del Mes
di Alessandro Somma
Uso e abuso della politica monetaria europea
Le misure di politica monetaria hanno sempre effetti di politica economica: la prima è una irrinunciabile componente della seconda. Proprio per questo l’Unione europea, competente in via esclusiva a dettare la politica monetaria, è riuscita ad imporre agli Stati membri scelte concernenti la politica economica, che pure è formalmente di loro esclusiva competenza. Determina cioè effetti in linea con l’approccio neoliberale alla spesa pubblica nel momento in cui stabilisce il costo e la disponibilità del denaro per promuovere la stabilità dei prezzi, e dunque per tenere bassa l’inflazione. Impedendo così di perseguire finalità contrastanti, come in particolare la piena occupazione, anche quando questa figura tra gli obiettivi di politica economica contemplati dalle Carte fondamentali nazionali: come affermato ad esempio nella Costituzione italiana (art. 4).
Se così stanno le cose, la recente sentenza della Corte costituzionale tedesca sul Quantitative easing, quello varato dalla Banca centrale europea sotto la Presidenza Draghi, non dice certo nulla di nuovo. Afferma che la misura, formalmente adottata per favorire il raggiungimento di un tasso di inflazione funzionale a ottenere la stabilità dei prezzi, produce effetti di politica economica. E non potrebbe essere altrimenti: l’acquisto di titoli sul mercato secondario inevitabilmente «migliora le condizioni di rifinanziamento degli Stati membri perché questi possono ottenere credito nel mercato finanziario a condizioni decisamente migliori», e questo «indubbiamente sgrava» il loro bilancio e aumenta gli spazi di manovra fiscale (sentenza del 5 maggio 2020).
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Bergamo: riflessioni dal centro della tempesta perfetta
di Marco Noris*
Nel balletto delle cifre sapremo mai il reale numero dei morti causati dal Covid-19? Difficile da stabilire. Possiamo, però dare qualche dato relativo, cercare di paragonare le situazioni. L’Italia appare la nazione al mondo più colpita dal virus, la Lombardia che conta circa 1/6 della popolazione del Paese detiene il triste primato del numero dei morti: più o meno la metà di tutti i morti d’Italia. All’interno di questa regione, la provincia di Bergamo detiene il record di decessi, circa la metà di tutti i decessi regionali per Covid-19. Insomma, la Bergamasca, una provincia di circa 1.100.000 abitanti, ha pressappoco gli stessi morti della Germania che di abitanti ne ha oltre 83.000.000. Non esistono particolari predisposizioni al contagio da parte dei Bergamaschi rispetto al resto del mondo, né le caratteristiche genetiche dei Bergamaschi sono poi così diverse rispetto a quelle degli altri abitanti del Paese o dell’Europa. Quindi le spiegazioni dovranno essere ricercate altrove e forse varrebbe la pena iniziare a fare almeno alcune congetture. Questa ricerca, ovviamente, non può essere esaustiva, sarà lunga e laboriosa né si potrà ridurre alla ricerca di una sola causa: sicuramente per la Bergamasca hanno influito diversi fattori ma sarà altresì importante capire se e come questi diversi fattori siano indipendenti tra loro e la loro contemporanea concomitanza sia il frutto del fato, oppure, come vuole la probabilità, tali fattori non siano tra di loro concatenati e interdipendenti.
Per cercare di orientarsi nel dedalo delle congetture e della notizie è bene fare ordine e procedere per punti.
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Decreto Rilancio: tante tutele… per i profitti
di coniarerivolta
Non è semplice giudicare il Decreto Rilancio, soprattutto a causa della natura eccezionale delle circostanze cui è chiamato a rispondere. Eppure, è assolutamente necessario cercare di sviluppare un’analisi autonoma di questa misura, che dice moltissimo sul futuro governo della crisi.
Partiamo dal principio. Il Decreto Rilancio comporta un indebitamento netto aggiuntivo rispetto al quadro preesistente che ammonta a 55 miliardi di euro. Le dimensioni del deficit aggiuntivo – un altro modo per definire l’indebitamento netto – risultano significative, soprattutto perché i 55 miliardi vanno a sommarsi ai 20 già previsti nel Decreto Cura Italia e, naturalmente, all’indebitamento netto programmatico, che era stato stimato nella Nota di Aggiornamento al DEF (NADEF) intorno ai 40 miliardi di euro per il 2020. Insomma, il disavanzo di bilancio complessivo per il 2020 è considerevole e stimato al 10,4% del PIL dai più recenti indicatori di finanza pubblica elaborati dal MEF, al netto di ipotetici nuovi interventi del Governo.
Depurando il disavanzo di bilancio dalla spesa per interessi (circa 60 miliardi, il 3,7% del PIL) – che sappiamo avere un effetto macroeconomico trascurabile – otteniamo un disavanzo primario pari al 6,8% del PIL. Siamo di fronte a uno stimolo fiscale netto di circa 110 miliardi di euro e, nonostante uno stimolo di tale portata non si verificasse da decenni, questo è ancora insufficiente vista l’enorme caduta della produzione, che l’Istat ha stimato al 29% nel mese di marzo.
C’è voluta una pandemia globale per costringere la classe dirigente di questo Paese a ricorrere a politiche fiscali espansive, possibili, peraltro, solo finché permane la ‘sospensione’ delle regole europee di Maastricht e del Fiscal Compact.
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L’ultimo uomo
di Mauro Pasquinelli
Genesi e finalità della pandemia
Non e’ scopo di questa riflessione stabilire se la pandemia sia stata artificialmente creata dai nuovi padroni del mondo, o emerga spontaneamente dal caos della devastazione criminale della natura. Sia come sia l’imputato numero uno e’ il capitalismo, vuoi nella forma neo-liberista occidentale, vuoi in quella statalista cinese. Sia come sia la Pandemia e’ la nuova tecnica “miracolosa” per far si che il servo interiorizzi i comandi del Signore.
Se anche fosse, ma nessuno puo’ dirlo con certezza, che il virus sia stato modificato in un settore del laboratorio OMS di stanza a Wuhan, controllato da Inglesi e Americani, resta il fatto che la Cina e’ reticente e quindi complice, correa nel crimine.
La complicita’ tra neoliberisti e statalisti si realizza ugualmente se ipotizziamo, che la pandemia sia una falsa pandemia, utile ad entrambi i capitalismi per perfezionare e collaudare nuovi dispositivi di disciplinamento sociale. Ma lo e’ anche se ipotizziamo, al contrario, che il virus sia realmente presente, devastante ed espressione, come affermano i piu’ attenti ecologisti, del Global Warming, della deforestazione che restringe gli spazi di molti animali portatori del virus, e che annulla il naturale distanziamento tra loro e l’uomo.
In ogni caso e detto in termini marxiani, la pandemia pone sul banco degli imputati tout court il modo di produzione capitalistico, cioe’ un modello economico e sociale predatorio ed invasivo, nemico della salute pubblica, giunto per auto-combustione alla sua fase terminale e suicidaria.
Ci sono due laboratori dove si puo’ analizzare la pandemia, quello medico e quello politico sociale. Non essendo virologo posso solo inoltrarmi nel secondo campo.
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1918 + 1929 = 2020? Senza mappa in terre economiche sconosciute
di José A. Tapia*
Una crisi economica senza precedenti è ora iniziata. Il 23 aprile è stato comunicato che nel corso delle ultime cinque settimane, oltre 26 milioni di persone avevano presentato domande di disoccupazione negli Stati Uniti. Questi 26 milioni facevano parte dei 159 milioni di americani che erano stati impiegati a febbraio, poco prima che le politiche per mitigare l'epidemia di coronavirus avessero fermato l'economia domestica. Picchi simili di disoccupazione si verificano sostanzialmente in ogni paese del mondo.
Naturalmente, ora tutti "sanno" che la causa di questa crisi economica mondiale è la pandemia di COVID-19, e sarà difficile discuterne, allo stesso modo è difficile argomentare con l'idea che l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando nel giugno 1914 fu la causa della prima guerra mondiale, o gli embargo dell'OPEC furono la causa della crisi economica globale della metà degli anni '70, o la mancanza di regolamentazione e le frodi nei mercati finanziari furono la causa della Grande Recessione. L'idea che la nostra economia sia intrinsecamente stabile e che solo eventi esterni la spingano verso l'instabilità e la crisi è il principio guida dell'economia tradizionale ed è anche molto radicata nella psiche comune dei nostri tempi. Ma i fatti forniscono una prova evidente che è il contrario: la nostra economia è intrinsecamente instabile e tende a destabilizzarsi abbastanza frequentemente, circa una volta al decennio nei tempi moderni, con o senza innescare eventi come pandemie, "shock" nei mercati petroliferi o " frode "di banche e operatori finanziari.
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«È giunta l’ora di invocare il diritto di resistenza»
Roberto Ciccarelli intervista Sergio Bologna
Cinquant'anni dallo Statuto dei lavoratori, una storia del lungo Sessantotto italiano che inizia nel 1960, dura fino al 1985, e ha cambiato profondamente tutta la società. Parla lo storico del movimento operaio Sergio Bologna: «Nel 1970 quello Statuto fu una conquista democratica, anche se la prassi operaia era più avanti. A chi vuole scrivere oggi statuti dei lavori rispondo che prima bisogna cambiare prima i rapporti di forza tra capitale e forza lavoro. Dopo potremo adottare nuove leggi. Esiste già la Costituzione, basta per tutelare il lavoro. Iniziamo a parlare di conflitto e dal suo primo movimento: la resistenza»
* * * *
Il modo più proficuo per cogliere il significato dell’avanzata impetuosa della classe operaia, e la sua sconfitta, tra il 1960 e il 1985, è quello di mettersi nei panni di un giovane oggi alle prese con la precarietà. A Sergio Bologna, storico del movimento operaio e tra i fondatori della rivista Primo Maggio, potrebbe domandare dove sono finite le conquiste costate tanti sacrifici? Dove sono finiti tutti i diritti?
“Certo – risponde Sergio Bologna – parlando di quel periodo così lontano, ti viene la curiosità di sapere che percezione ha oggi un giovane lavoratore dei suoi diritti. È consapevole di avere dei diritti, sa cosa vuol dire difendere un diritto sul luogo di lavoro? Lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori del maggio 1970 è stato un importante gesto di civiltà, il riconoscimento e la tutela dei diritti sindacali un passo avanti del sistema democratico. Eppure moltissimi quadri sindacali e le stesse correnti politiche a noi più vicine lo consideravano già vecchio, già superato.
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Pandèmoni, pandementi e ciò che si deve fare
di Nico Maccentelli
1. Cosa non ha funzionato?
In questi ultimi tre mesi la vita di gran parte della popolazione mondiale è stata letteralmente stravolta dall’irruzione della pandemia da Covid-19. Tra proibizioni, quarantene, forme di controllo sociale iper-tecnologiche, bastonate, a seconda del paese, questa nuova realtà è subentrata a quella precedente all’improvviso creando panico sociale. Al tempo stesso le autorità e i media hanno cercato di spacciare i provvedimenti presi come inevitabili e i migliori possibili. Ma in realtà, se solo ci soffermiamo sulle modalità con cui per esempio il nostro governo ha affrontato questa pandemia, dobbiamo renderci conto che quello che è stato fatto sui cittadini italiani è un vero e proprio TSO di massa, con controlli polizieschi ossessivi, divieti di spostamento, sanzioni ad cazzum, a seconda dei tiramenti dei tutori dell’ordine che incontravi.
Prendiamo allora il Giappone, paese con una cultura della gerarchia piuttosto spiccata. Lì le cose stanno andando diversamente: ai cittadini nipponici è stato indicato, non ordinato, di evitare assembramenti e di uscire di casa il meno possibile e con attenzione. Trattando la gente come cittadini appunto, non come dei bambini imbecilli da criminalizzare. Sulle singole situazioni la polizia è intervenuta informando e invitando a evitare comportamenti rischiosi. Questo fa uno stato civile. Ma l’Italia abbiamo visto civile non è. E si è posta come la capofila di un “sorvegliare e punire” nel mondo occidentale, il laboratorio sociale di un vero e proprio stravolgimento antropologico del tessuto delle ordinarie relazioni sociali e interpersonali.
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Economia e situazione dell’Unione Europea
di Marco Zuccaro
La crisi attuale, nata come emergenza sanitaria, avrà effetti devastanti sul piano economico e sociale, investendo la costruzione stessa della UE. Per capire cosa ci prospetta il futuro, occorre prendere in considerazione delle visioni alternative rispetto ai luoghi comuni del nostro tempo.
La MMT, spesso bollata come pseudo-scienza, è invece stata recentemente nominata nientemeno che da Mario Draghi come una nuova concezione da discutere in seno alla BCE. Perciò è possibile iniziare a ripensare alcuni concetti-guida sotto la sua prospettiva.
Per spiegare in modo semplice i principi esposti da teorie come la MMT o il Circuitismo occorre che tutti i cittadini, anche quelli che non si sono mai interessati all’economia, prendano piena consapevolezza di che cosa sia il “debito pubblico”, giacché tale argomento è stato l’assoluto protagonista della narrazione politica e giornalistica degli ultimi decenni: una vera costante, che ha finito col confondere molti.
Anzitutto va chiarito che il debito pubblico non è il debito dei cittadini, perciò ogniqualvolta ci si ritrovi a leggere che esso “pesi sulle spalle” dei cittadini (o delle generazioni future), quasi fosse un debito pro capite, si rammenti che cittadini e famiglie che acquistano titoli di debito pubblico non contraggono alcun debito privato, anzi, è vero l’opposto: divengono creditori verso lo Stato. Si potrebbe giustamente dire che al debito dello Stato corrisponda un credito di famiglie, banche, aziende, investitori e così via.
Ci si potrebbe chiedere quale sia la funzione del debito; ebbene, per rispondere a questa domanda ci si dovrebbe interrogare sulla provenienza della moneta e sul funzionamento del sistema economico tutto.
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Gli Scritti etno-antropologici di Marx ed Engels
di Ferdinando Vidoni, Stefano Bracaletti
Presentazione dei curatori
Il presente volume delle Opere complete di Marx ed Engels[1] intende anzitutto fornire la traduzione completa dei cosiddetti «Quaderni di etnologia» marxiani, forse più compiutamente denominabili come «Quaderni etno-antropologici». Negli ultimi anni della sua vita, dal 1879 al 1882, Marx allargò infatti i suoi interessi anche alle nuove scienze umane dell’etnologia e di quella che oggi si usa chiamare antropologia culturale o sociale, che si andavano rapidamente sviluppando su uno sfondo evoluzionistico e che offrivano preziosi elementi di collegamento e confronto con il suo «materialismo storico». Compilò così corposi quaderni di Exzerpte o estratti con citazioni, riassunti, commenti da opere soprattutto di Lewis H. Morgan, John Phear, Henry S. Maine, John Lubbock.
L’insieme di questi materiali di studio marxiani (conservati all’Istituto Internazionale di Scienze Sociali di Amsterdam, Quaderni B 156 e B 150), redatti parte in inglese e parte in tedesco e con molte abbreviazioni, rimase sconosciuto al pubblico fino all’edizione dell’americano Lawrence Krader del 1972 (ed. Van Gorcum, Assen) e a quella, interamente in tedesco e con le abbreviazioni sciolte, del 1976 (curata dallo stesso Krader e con «traduzioni» di Angelika Schweikhart per l’editore Suhrkamp di Frankfurt a.M.). Quest’ultima edizione, più leggibile e pur sempre fedele, viene seguita essenzialmente in questa edizione italiana. Una versione spagnola condotta su quella iniziale di Krader è stata pubblicata da José Maria Ripalda per gli editori associati Siglo XXI e Pablo Iglesias di Madrid nel 1988. Delle parti relative a Morgan e a Maine è uscita anche una versione italiana a cura di Politta Foraboschi per le Edizioni Unicopli, Milano 2008.
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Il neoliberismo non è una teoria economica
Seconda parte* (Qui la prima parte)
di Luca Benedini
Le specifiche e colossali contraddizioni interne dell’austerità predicata dai vertici di Fmi e UE
Sulla mancanza di effettive giustificazioni economiche nei meccanismi di austerità antipopolare previsti da organismi come il Fondo monetario internazionale (Fmi) o l’UE vi è una letteratura ormai vastissima, data la sostanziale assenza di concreti riscontri storici all’ideologia neoliberista secondo cui affidarsi al neoliberismo – rinunciando in gran parte o addirittura del tutto ai vari tipi di intervento pubblico indirizzati a ovviare ai “fallimenti del mercato” – dovrebbe provocare vantaggi economici a tutte le classi sociali e a tutti i ceti.
Se vi è stato qualche momento e luogo in cui il passaggio al neoliberismo ha apportato vantaggi economici un po’ all’intera società, è stato semplicemente perché in quel luogo l’approccio politico-economico precedentemente dominante era divenuto così corrotto, incompetente e/o burocratizzato da causare gravi danni al fluire di tutta l’economia locale. Non è stato il neoliberismo quindi ad apportare quei vantaggi, ma semplicemente l’aver ridotto il peso e la portata di quei fenomeni di corruzione, di incompetenza e/o di eccessiva e inutile burocrazia. Quei vantaggi ci sarebbero stati – e pressoché certamente in una maniera nettamente più equilibrata tra i vari ceti sociali – anche con un approccio keynesiano lucido, onesto e capace di effettiva pragmaticità (che era appunto l’approccio rivendicato dallo stesso Keynes, il quale detestava sia quei fenomeni sia altre forme di allontanamento dalla pragmaticità produttiva come l’espandersi delle speculazioni finanziarie e l’insistere in economia su dei concetti ideologici senza mettersi profondamente a confronto con la concreta vita economico-produttiva del luogo).
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Decreto Rilancio. Ecco le occasioni perse
di Nuova Direzione
55 miliardi, dicono. Poco meno del cumulo del costo degli interessi sul debito pubblico e circa la somma che si spende ogni anno per l’istruzione. Questo è l’importo totale del Decreto con il quale il governo Conte intende tamponare la caduta a picco del sistema economico italiano. Stime di Bankitalia danno il Pil italiano, 1.750 miliardi, in caduta del 5% nel primo trimestre e previsioni ottimiste lo danno al -9% entro la fine dell’anno. Si perderebbe valore aggiunto per 150 miliardi, almeno. Dentro questo arretramento la parte maggiore la dovrebbe fare la produzione industriale, della quale potremmo perderne un quarto, e l’export. In misura minore caleranno i consumi delle famiglie e l’occupazione. La dinamica dei prezzi dovrebbe essere debole sui prodotti energetici ed il prezzo dei servizi, con riduzione del reddito dei relativi lavoratori, in particolare autonomi, ma vedere una certa inflazione dei prezzi alimentari, con danno per i ceti più deboli.
In queste condizioni, come sta accadendo un poco in tutto l’occidente, la nostra società si sta violentemente divaricando su molteplici linee di frattura:
In primo luogo, tra coloro che sono connessi con le catene del valore in qualche modo, sia pure a diverso livello di centralità e valore aggiunto, e coloro che ne vivono al margine, impiegati in una insalata di lavoretti, di occasioni, espedienti, variamente visibili e variamente sommersi. I primi, i visibili, sono circa 25 milioni, solo 4 impegnati in attività manifatturiere e gli altri nel vastissimo e complesso mondo dei ‘servizi’. Qui si va dai 6 milioni di persone del commercio, i 5 milioni della Pubblica Amministrazione i 2,5 dei servizi di intrattenimento e 3,2 di attività professionali. I secondi sono stimati in circa 4 milioni di persone. Poi abbiamo i disoccupati effettivi, che dovrebbero essere 6 milioni.
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Il sistema-mondo, il neoliberismo e il malsviluppo alla luce della pandemia
di Giorgio Riolo
Il Covid-19 come catalizzatore-rivelatore di come funziona il mondo. Alcune considerazioni e alcune alternative
La solidarietà è la cura. La giustizia sociale è il vaccino.
Transnational Institute
1. Alcune premesse metodologiche
Molti contributi, analisi e proposte, attorno alla pandemia e alla crisi in atto si sono prodotti nel mondo. Il pensiero nella sinistra mondiale è stato ed è ricco, fecondo di proposte. Ha delineato scenari, prospettive e alternative. La presente svolta storica avrà conseguenze di enorme portata.
La dialettica è materia scolastica, filosofica propriamente. L’attuale preoccupante passaggio storico mostra in modo perfetto cos’è questa cosa. Così ostica per l’intelletto comune, per il normale pensiero della vita quotidiana.
La deforestazione, la manomissione e la manipolazione di ecosistemi delicati e gli enormi allevamenti intensivi di animali per l’alimentazione umana (suini, polli, bovini ecc.) sono all’origine del sorgere e del mutare di virus patogeni nuovi per gli esseri umani. Come è avvenuto nel recente passato per lo Hiv, Ebola, l’influenza suina, l’influenza aviaria, la Sars e la Mers. La recente pandemia Covid-19 da Sars-CoV-2 rientra in questa fenomenologia.
Fenomeni della ecopredazione ai fini dell’accumulazione e del profitto sfociano processualmente in un fenomeno sanitario esplosivo. La pandemia non è destino cinico e baro. Era annunciata. È il risultato della logica perversa del sistema.
La sua enorme diffusione su scala mondiale, la mortalità indotta, l’enorme impatto sui vari sistemi sanitari, esistenti o non esistenti, come in molte aree del Sud del mondo, le gravi conseguenze economiche e sociali in corso, la messa in discussione degli assetti democratici e politici e della convivenza umana costituiscono un fenomeno inedito rispetto alle precedenti crisi sanitarie e alle precedenti crisi economiche.
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Appunti su “la Distruzione della Ragione”, di György Lukács
di Vox Populi
Una lettura significativa degli ultimi tempi è stata “La distruzione della ragione”, pubblicata nel 1954 e scritta da György Lukács.
In questo libro, l’autore sostiene che le filosofie irrazionalistiche sono una parte molto importante (seppur non l’unica) del fondamento ideologico delle politiche reazionarie. Nel seguente articolo proveremo a riassumere quanto osservato dall’autore, espandendo poi il discorso al fine di trarre qualche conclusione iniziale, che ci sarà estremamente utile per il futuro.
Introduzione e breve riassunto
Il libro è stato completato nel 1954, durante il primo periodo “caldo” della Guerra Fredda. In questo periodo, Lukács era un intellettuale emarginato e dissidente a causa del suo forte marxismo hegeliano, contrapposto al “piatto” ed economicistico “marxismo” staliniano. Egli, come altri intellettuali del tempo (ad esempio Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, Hannah Arendt) dovette rendere conto di come fosse stata possibile la barbarie nazista. Allora la sua ricerca si orientò verso il fondamento ideologico-filosofico del nazismo: l’irrazionalità.
I pensatori affrontati sono soprattutto tedeschi per motivi storici e sociali, ma l’autore fa notare a più riprese come il movimento irrazionalistico (ad esempio quello della “filosofia della vita” di Bergson, Dilthey e James) assuma portata internazionale, riflettendo una vera e propria epoca storica che coincise con le difficoltà di accumulazione del capitale, poco prima del suo “scatenamento imperialistico” nella Prima Guerra Mondiale e successiva “ricaduta” della Seconda Guerra Mondiale.
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Cambio di stagione
di Lanfranco Binni
Una diagnosi sbagliata?
Mi ha colpito molto un articolo, breve e clamoroso, pubblicato dalla microbiologa e virologa Maria Rita Gismondo, una voce fuori dal coro, nella sua rubrica “Antivirus” su «il Fatto Quotidiano» del 3 maggio, e ancora di più mi ha colpito il silenzio che gli è stato riservato dai competenti tecnico-scientifici della medicina di potere e dai media. Riporto integralmente il testo:
Questo virus non finisce di stupirci. Per due mesi abbiamo rincorso i posti letto in rianimazione, abbiamo parlato di polmonite interstiziale: oggi le autopsie ci fanno scoprire ben altro. Al Sacco di Milano e al Papa Giovanni XXIII di Bergamo ne sono state eseguite 70. È venuto fuori che la polmonite è un sintomo successivo, e forse anche meno grave, di quello che il virus provoca nel nostro organismo. Questa ipotesi era già stata avanzata dal dottor Palma, cardiologo di Salerno, tra le critiche dei soliti soloni mediatici: SarsCoV2 colpisce soprattutto i vasi sanguigni, impedendo il regolare afflusso del sangue, con formazione di trombi. La polmonite ne è una delle conseguenze. Nella terapia di questi pazienti, ci siamo quindi focalizzati su uno e forse non il principale meccanismo patogeno del virus. I pazienti deceduti, al netto di altre patologie pregresse, avrebbero sofferto le conseguenze delle prime diagnosi sbagliate. Covid19 è una malattia vascolare sistemica. I polmoni non possono ventilare, malgrado l’insufflazione forzata di ossigeno, perché non vi arriva sangue. Addirittura i respiratori avrebbero peggiorato l’esito della malattia. L’ipotesi italiana è oggi confermata anche dagli Usa. Questa nuova conoscenza porta a una vera rivoluzione. La prima osservazione per fare diagnosi è quindi il livello di infiammazione. E i farmaci con cui intervenire immediatamente sono quelli che possono prevenire o curare infiammazione e formazione di trombi. Tutti farmaci già in uso e a basso costo. Chiuderemo definitivamente le terapie intensive Covid19?
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Hans-Werner Sinn, “La costituzione tedesca e la sovranità europea”. Cronache del crollo
di Alessandro Visalli
Avevo chiuso l’ultimo post[1] individuando come via di uscita dalla ordalia[2] chiamata dalla Germania un’uscita unilaterale della stessa, o la resa latina (con conseguente aggressione finale dei mercati ai più deboli). Certo ci sono anche una serie di possibilità di mezzo e di rinvii, ma rimandano solo l’inevitabile definizione della battaglia finale per l’Europa che è stata avviata.
Per rendere più chiaro il terreno di gioco e le poste designate interviene una delle voci più autorevoli della destra economica tedesca, ovvero Hans-Werner Sinn. In un breve articolo[3] su “Project Syndacate” diffida la Commissione dall’avanzare una procedura di infrazione verso la Germania, conferma la natura eminentemente politico-istituzionale dello scontro, e indica quale unica via di uscita la creazione di un’unione politica realmente indipendente, nella quale si parta dalla protezione militare e nucleare autoctona. Ovvero propone uno scambio di unione fiscale verso condivisione della capacità nucleare, e dei relativi eserciti, alla Francia.
Bisognerà richiamare un lontano antefatto. Quando terminò la Seconda guerra mondiale la Germania era distrutta fisicamente, umiliata moralmente, ed occupata militarmente da tutte le potenze alleate. Si avviò un lungo gioco egemonico e di confronto militare nel quale, fino al crollo sovietico, la posta principale era il controllo dell’Europa, per impedire che potesse passare nel campo avverso. Cruciale in questo gioco è sempre stato il controllo delle due potenze sconfitte, sia militarmente sia ideologicamente. Ovvero di Germania e Italia. Ma, ovviamente, soprattutto della prima. Non è affatto un caso che la “guerra fredda” abbia coinciso con la pace europea e con l’occupazione militare perdurante dei paesi di cui sopra citati. Ci sono alcuni corollari: l’Europa non è più da considerare il centro del mondo, dopo il “suicidio” determinato dalle due grandi guerre questo si è spostato fuori (inizialmente Usa e Urss, ed ora Usa e Cina, con la Russia a fare da terzo ballerino).
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Appunti di una lezione mai svolta
di Davide Romano
Sí vedrem chiaro poi come sovente per le cose dubbiose altri s’avanza, et come spesso indarno si sospira.
(Francesco Petrarca, Canzoniere, sonetto XXXII)
Cari ragazzi,
nel mese di marzo alcuni di voi hanno svolto un tema sul modo in cui la malattia nota come COVID-19 è entrata nella vostra vita. La traccia si concludeva con un’accorata lettera pubblicata a marzo su «Famiglia Cristiana» e presto diventata – conformemente allo spirito dei nostri tempi – virale. Pungolato dalle parole dell’autore, lo psicoterapeuta Alberto Pellai, in quei giorni ho cominciato anch’io a mettere per iscritto alcuni pensieri che andavo rimuginando sin dall’inizio della chiusura scolastica e che avrei voluto condividere con voi; mi ero però imposto il silenzio e una pausa di studio, anche per evitare di turbare la sensibilità di qualcuno nel clima apparentemente edificante di allora. L’evolversi degli eventi proprio nella direzione da me paventata mi ha indotto infine a rompere gli indugi e a completare le mie considerazioni, pur nella consapevolezza che, per vari motivi, non potrò inviarvele o esporvele personalmente. Quando un giorno vi giungeranno forse per via indiretta, vi sorprenderà vedermi esprimere in maniera tanto esplicita, come non era mai successo in precedenza. A scuola mi sono sempre limitato a suggerirvi ogni tanto fugaci spunti provocatori e velate allusioni a idee e argomenti controversi, ma il tempo della prudenza e del temporeggiamento è ormai passato da un pezzo: è giunto il momento di cominciare a parlare senza infingimenti, chiamando, con Giordano Bruno, “la verità per verità […], le imposture per imposture, gl’inganni per inganni”1, e dicendo liberamente – mi scuserete l’espressione, che cito dal letterato del Cinquecento Pietro Aretino – “pane al pane, e cazzo al cazzo”2. Se quello che scriverò vi sembrerà deludente, scriteriato, poco comprensibile o semplicemente noioso, siate indulgenti: potrete pensare che in fondo è opera di un povero “cervel pazzo”.
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L’insostenibile pesantezza della didattica a distanza
Per una scuola libera e viva (dentro e fuori le mura)
di Giovanni Carosotti, Rossella Latempa, Renata Puleo, Andrea Cerroni, Gianni Vacchelli, Ivan Cervesato, Vittorio Perego
Con interventi di Umberto Curi, Fiorella Farinelli, Mirco Pieralisi. Walter Lapini, Maria Chiara Acciarini, Alba Sasso, Giuseppe Caliceti, Teodoro Margarita, Giovanni Carosotti, Rossella Latempa, Renata Puleo, Andrea Cerroni, Gianni Vacchelli, Ivan Cervesato, Vittorio Perego, Stefano Bertoldi, Anna Polo, Nicola Giua; (i siti da cui sono ripresi sono in calce a ogni articolo); le vignette sono di Lopez, Quino e Schulz
Premessa
Lungi dall’essere un’opportunità per cambiare paradigma, come alcuni sembrano suggerire, la Didattica a Distanza è solo la risposta immediata, necessaria e temporanea, ad una crisi sanitaria senza precedenti.
Non una scelta, ma uno sforzo collettivo; non un destino, ma una didattica dell’emergenza, generosamente disomogenea, a tratti improvvisata agli inizi, progressivamente più condivisa e organizzata col trascorrere delle settimane.
Una manifestazione di deontologia professionale, nel rispetto del compito educativo che la nostra Costituzione attribuisce agli insegnanti e, con modalità e profili diversi, alle figure genitoriali, all’intero corpo sociale. Una garanzia per il diritto-dovere all’istruzione, la cui tutela è ancor più necessaria – oggi – a scuola sospesa, costretta al solo spazio virtuale. Anche perché la tecnologia è una “cultura”, che non è in alcun modo neutra, ma che nasce situata e “situa” chi la usa. Come dimenticare poi lo stretto e ormai soffocante legame tra tecnologia ed economicizzazione/aziendalizzazione della scuola, nel regno della quantificazione e della misurabilità?
Nell’ipotesi di un ritorno nelle classi controllato, da parte di circa 8 milioni di studenti e quasi un milione di insegnanti, e nell’attesa di condividere, non appena possibile, luoghi e spazi fisici in presenza, pensiamo valga la pena sottolineare alcuni aspetti che fanno sì che la scuola possa essere ancora libera, viva e significativa: dentro e fuori le mura.
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È di nuovo Primo Maggio
Andrea Bottalico e Francesco Massimo
Un nuovo progetto raccoglie l'eredità della più longeva delle riviste operaiste. E rilancia gli assi principali: l’inchiesta storica e militante assieme all’attenzione alle trasformazioni del lavoro e alle nuove figure sociali che le accompagnano
La rivista Primo Maggio (1973-1989), fondata e animata da Sergio Bologna, Cesare Bermani, Bruno Cartosio, Primo Moroni e altri fu di gran lunga la più longeva delle riviste «operaiste» (Quaderni Rossi pubblicò dal 1961 al 1965; Classe Operaia dal 1964 al 1967; Contropiano dal 1968 al 1971; Rosso dal 1973 al 1979). Questa longevità la rende una rivista meno legata alle contingenze politiche come potevano essere le altre – esposte ai capricci dei rapidi e imprevedibili avvicendamenti storici e di fase – e con un respiro di analisi più profondo. La sua longevità le permise di attraversare due decenni di segno opposto: prima quello dell’ascesa vorticosa e poi quello del lento declino del movimento operaio. E forse questa capacità di resistere, raccogliere energie e produrre analisi anche procedendo contro – ma in molti casi anticipando: si pensi alle intuizioni sulla crescente importanza della logistica così come del lavoro autonomo – il corso della storia rende quell’esperienza particolarmente affascinante e utile per il presente.
Negli scorsi due anni un gruppo di militanti e intellettuali – in buona parte ricercatori/trici precari/e – di diverse generazioni ha fondato il collettivo Officina Primo Maggio con l’obiettivo di recuperare e rivisitare l’esperienza dell’omonima rivista degli anni Settanta e Ottanta: in particolare la centralità del metodo dell’inchiesta – storica e militante – l’attenzione alle trasformazioni del lavoro e alle nuove figure sociali che le accompagnano. Ne avevamo parlato su Jacobin Italia con Sergio Bologna nello scorso gennaio. In quell’intervista Bologna ha insistito su un punto centrale del metodo della vecchia e nuova Primo Maggio:
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L’attualità del socialismo: Un problema storico-teorico
di Pasquale Serra
La struttura di classe della società italiana che la quarantena ha oggi evidenziato in tutta la sua virulenza e drammaticità, non nasce, ovviamente, con la quarantena stessa, perché essa era già squadernata, e pienamente visibile, sin dalla metà degli anni Ottanta del Novecento, se non da ancora molto prima. Così come, d’altronde, erano squadernati, e pienamente visibili, alcuni mutamenti radicali (dei veri e propri rovesciamenti) avvenuti, all’interno di essa, nei riferimenti sociali di destra e sinistra. Lo segnalava già Franco De Felice nella sua ultima, grande, opera, pubblicata nel 1996 per la Storia d’Italia Einaudi, nella quale, ragionando in maniera lucida e spregiudicata sulla nuova composizione sociale italiana, aveva sostenuto che nel blocco più protetto del nuovo quadro della competizione internazionale, c’è molto più la sinistra che la destra, la quale tende, invece, a rappresentare i settori più colpiti[1]. Si tratta di una situazione, questa, particolarmente anomala, perché è una situazione che capovolge i tradizionali riferimenti sociali di destra e sinistra (all’interno della quale, come diceva molto bene Mario Tronti, troppo spesso «vediamo una destra di popolo che avanza in Europa e in Occidente»), assegnando, ormai quasi stabilmente, i salotti alla sinistra e le periferie alla destra. Ma fino a quando, si chiedeva ancora Tronti, potrà durare una situazione come questa?[2]. E questa domanda, posta da Tronti, che individuava con precisione il rovesciamento avvenuto intorno ai rapporti tra classi sociali e ideologie politiche, risuona ancora di più oggi, come un pericolo, in tutta la sua virulenza e drammaticità, perché come ha scritto di recente Dider Eriban, un importante sociologo francese, «la quarantena evidenzia la struttura di classe della società», non solo nel mondo del lavoro, come è evidente, ma soprattutto fuori di esso, dove ci sono quelli che hanno perso tutto, e che «non hanno più niente».
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Instaurazione del rischio di estinzione
di Jacques Camatte
In un primo approccio, l’importanza eccezionale accordata agli effetti patologici legati all’infezione da coronavirus sembrerebbe un buon modo per mascherare il fenomeno essenziale in atto: la distruzione della natura e la rimessa in discussione del processo di vita organica sulla Terra. Si tratta della scomparsa di migliaia di specie e del blocco di tale processo in atto da quasi quattro miliardi di anni, che conducono ad un’immensa estinzione. Ora la Terra è un corpo celeste eccezionale e nessun altro somigliante è stato scoperto a migliaia di anni luce. Come può la specie escamotare* un tale evento, se non a causa della sua follia, rinchiudimento in un divenire, un’erranza, che la fa incapace d’immaginare qualcosa di diverso, in particolare una via d’uscita. Essa si preoccupa solo di se stessa, ignorando che ciò che subisce è una conseguenza della sua dinamica di separazione dalla natura e della sua inimicizia,1 sia interspecifica, che infraspecifica.
Tale dinamica di mascheramento è vera, evidente, ma questa affermazione non implica una sottovalutazione del fenomeno che stiamo subendo. È ciò su cui vogliamo insistere e non intendiamo separare i due fenomeni, ma al contrario integrare ciò che riguarda la specie nel divenire della totalità del fenomeno vivente.
Il carattere più importante di questa pandemia è il suo contagio fortissimo a causa del virus stesso ma soprattutto a causa della sovrappopolazione e della distruzione della natura che riduce il numero delle specie possibili ospiti. Essa è vissuta come una terribile minaccia.
Ora, in diversi momenti del loro processo di vita uomini e donne si trovano, consciamente o inconsciamente, in presenza della minaccia che in certi casi può manifestarsi come una minaccia ben determinata.
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