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Idee e proposte per affrontare la prossima crisi economica
di Emiliano Gentili
Una lunga riflessione sulla fase attuale di crisi vista nella prospettiva dei comunisti
Premessa
Ad avermi spinto a scrivere questo articolo è stata senz’altro la voglia di veder tornare i comunisti nuovamente competitivi nell’arena politica. Lontano dall’idea di redigere un improbabile “ricettacolo” politico, ho cercato – ed è questa la prima caratteristica di queste pagine – di stimolare il lettore comunista ad un’auto-riflessione sulle modalità della propria personale attività di militanza, e del contesto nel quale essa è inserita. Una delle ragioni della vastità degli argomenti trattati, così come della grande varietà degli input forniti nonché del modo disorganico con cui vengono forniti, sta proprio nel carattere pedagogico di questo lavoro, che lascia ai lettori parte della responsabilità di collegare dati e riferimenti e trarne indicazioni utili, semplici idee, ma anche riflessioni autonome. Partendo da una descrizione critica della situazione politica ed economica attuale (La situazione attuale, La gestione capitalista della crisi) si passa a considerare l’odierno attivismo comunista, mostrando alcune ragioni delle nostre difficoltà politiche e tentando di individuare problematiche e insufficienze da risolvere (L’atteggiamento dei comunisti oggi). Nell’ultima sezione (Proposte pratiche), analizzando le recenti innovazioni tecnologiche del sistema produttivo e i mutamenti organizzativi che queste stanno generando al suo interno, si individuano nella “rete delle competenze” e nell’accorciamento della filiera produttiva due elementi fondamentali per riflettere in maniera innovativa su come articolare le future lotte politiche. Se questo, in breve, è lo scheletro di questo lavoro, il suo obiettivo dichiarato (nel finale) è quello di stimolare ulteriori contributi da parte di altri militanti.
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Industria 4.0 e lavoro operaio
di Matteo Gaddi
1. Le parole
Il termine Industria 4.0 è stato coniato in Germania e indica sia un insieme di tecnologie applicate alla produzione industriale per aumentare la produttività, sia una precisa strategia politica del governo tedesco per mantenere e rafforzare la competitività del proprio sistema manifatturiero.
Il progetto di Industria 4.0 si è rapidamente diffuso, diventando in breve tempo un programma di politica industriale per tutti i governi europei. In effetti si tratta di una strategia per la trasformazione del settore manifatturiero, che utilizza un insieme di tecnologie in grado di modificare i processi di produzione, in particolare grazie a strumenti di comunicazione, connettività, raccolta ed elaborazione dati. Indubbiamente anche la robotica e l’automazione di nuova generazione possono essere considerate parte di Industria 4.0, ma i fenomeni di automazione, anche spinta, dei processi produttivi, sono conosciuti e praticati da decenni. La vera novità della trasformazione in corso è la connettività come portato delle Information and Communication Technologies (ICT): se strumenti di lavoro, impianti, stabilimenti e prodotti sono connessi, allora possono comunicare direttamente tra loro e con sistemi centralizzati (questo è il punto fondamentale!) di raccolta ed elaborazione dati, a una velocità tale da poterlo fare in continuo e in tempo reale.
In questo modo i processi produttivi diventano interamente computer-driven.
L’aumento della computerizzazione dei sistemi manifatturieri e l’utilizzo delle tecnologie di rete e ICT consente infatti di integrare tutte le parti del sistema in un network informativo.
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Usa, un virus di classe per la guerra civile
Italia: virus morto o virus vivo?
di Fulvio Grimaldi
Medicina agli ordini, o Medicina libera
Si parva licet componere magnis (se ci è permesso di confrontare il piccolo con il grande), la bomba che ha messo in crisi l’assetto viraldispotico e tecnoscientifico del nostro paese si potrebbe definire la sineddoche della sollevazione popolare che sta mettendo a ferro e fuoco almeno 40 dei 50 Stati della Federazione nordamericana. Quanto alla bomba, se è perfettamente adeguato dare del “bomba” al generale Pappalardo, bravo a trasformare in oro di visibilità la paglia coltivata nei cervelli di un po’ di arrabbiati, i suoi gilet arancioni non sono che il mortaretto che deve distrarre dal grosso botto con cui altri hanno scardinato il castello di carte false su cui da quattro mesi si erge il coronavirus.
Prima di addentrarci alle fiamme che bruciano quanto resta del più potente e violento paese del mondo, lasciatemi dire di questo ordigno finito tra i piedi dei congiurati col coltello ficcato nella schiena del popolo italiano. Tutto stava precedendo serenamente verso l’annunciata (e perciò programmata) seconda ondata della pandemia, vuoi a fine giugno, vuoi a ottobre, quando uno, che ai colleghi virologi da salotto tv e da comitato tecnico-scientifico, sta come l’Apollo del Belvedere sta ai finti Modigliani pescati a Livorno, decideva di dire basta! Il virus è morto, il virus non c’è più, lo spettacolo è finito, buonanotte ai musicanti.
Alberto Zangrillo, primario di terapia intensiva del S. Raffaele, sarà il medico di Berlusconi ma è anche il primatista italiano di studi epidemiologici pubblicati nelle più autorevoli riviste mediche del mondo.
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“Le potenze del capitalismo politico”: economia e sicurezza nazionale nella sfida Usa-Cina
Andrea Muratore intervista Alessandro Aresu
L’Osservatorio Globalizzazione torna a conversare con Alessandro Aresu, analista di “Limes” e saggista, confrontandosi con lui sulla sua più recente pubblicazione, “Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina”, edito da “La Nave di Teseo” e incentrato sullo studio delle dinamiche cruciali per la determinazione dei rapporti di forza nell’era contemporanea. Tra rivalità tecnologica, uso “geopolitico” del diritto, corsa agli investimenti e sfida commerciale Washington e Pechino sono ora le uniche potenze in grado di governare gli strumenti del “capitalismo politico”, che incardina le priorità dell’economia nell’agenda della sicurezza nazionale delle due grandi potenze.
* * * *
Nel suo saggio lei definisce il capitalismo politico “la compenetrazione di economia e politica in un tutt’uno organico” in cui, inevitabilmente, sono le priorità e i ritmi della seconda a dettare i tempi. Stati Uniti e Cina sono i due attori che hanno la capacità di portare avanti un vero e proprio capitalismo politico: come si somigliano e come divergono, nei sommi capi, i loro approcci?
In Cina esiste il Partito Comunista, negli Stati Uniti c’è l’apparato militare e di sicurezza. Nel primo caso il “titolare” del capitalismo politico è un soggetto di 90 milioni di membri, che influenza in modo decisivo tutta la società. Nel secondo caso, non siamo in un sistema autoritario perché ci sono libertà politiche, ma alcune decisioni cruciali sono comunque prese dall’apparato militare, generando un allargamento del dominio della sicurezza nazionale rispetto al funzionamento dei mercati. Un’altra formula del “tutt’uno organico” si ha nelle modalità di controllo e nella pervasività di talune aziende digitali nelle nostre vite, di cui si potrebbe parlare a lungo.
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Il ritorno della Tragedia
di Jacopo Simonetta
L’idea di un ritorno della Tragedia nelle nostre vite è dell’amico Nicolò Bellanca. Un testo molto simile a questo è stato pubblicato su “Effetto Cassandra” il 13/03/2020 col titolo: Il ritorno del Fato. Cosa fare quando nessuna scelta è soddisfacente?
Si chiana “triage”. E’ ciò che viene fatto nei reparti di emergenza quando l’afflusso dei malati o dei feriti supera le capacità ricettive della struttura. I medici decidono allora chi soccorrere prima e chi dopo, se sarà ancora vivo. Ho sempre pensato che sia la cosa più brutta che possa capitare di fare ad un dottore, ma accade e i medici, come gli altri professionisti dell’emergenza (pompieri, militari, poliziotti, ecc.), sono almeno in parte preparati ad affrontare queste situazioni.
Noi gente normale no, ma non per questo possiamo esimerci dal fare delle scelte quando anche non-scegliere avrà comunque delle conseguenze.
Sta infatti svanendo la straordinaria bolla di pace e benessere che ha avvolto l’occidente per 70 anni, rendendoci completamente impreparati ad affrontare il concetto stesso di “tragedia”.
Non mi riferisco qui alle crisi di isterismo collettivo che ci travolgono ad ogni minima difficoltà, bensì all’incapacità di sostenere il peso della responsabilità di scelte che, qualunque cosa si decida di fare o di non fare, provocheranno gravi danni e sofferenze. Al di fuori della nostra fatiscente bolla, questo tipo di situazioni è invece frequente ed è stato magistralmente illustrato in molti capolavori della filosofia e della letteratura antica.
E’ la dinamica del Fato: gli uomini non sono semplicemente trascinati da un “destino beffardo”; al contrario sono chiamati a fare delle scelte le cui conseguenze saranno però ineluttabili, tanto che neppure Zeus le potrà modificare.
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Gli effetti perversi della moderazione salariale e la proposta di Stato innovatore di prima istanza
di Guglielmo Forges Davanzati
Stesura provvisoria – febbraio 2019
1 - Introduzione
Le politiche economiche messe in atto in Italia negli ultimi anni, in piena coerenza con quanto suggerito dalla commissione europea e con quanto realizzato in altri Paesi europei, si fondano essenzialmente su due assi: consolidamento fiscale e riforme strutturali. Il consolidamento fiscale viene raggiunto attraverso compressioni di spesa pubblica e aumento dell’onere fiscale, con riduzione, in particolare, della spesa sociale e per servizi di welfare e con aumento della tassazione – peraltro sempre meno progressiva – soprattutto a danno dei lavoratori. Le c.d. riforme strutturali riguardano i processi di privatizzazione e liberalizzazione e, soprattutto, ulteriori misure di precarizzazione del lavoro.
L’obiettivo di questa nota è (i) dar conto del fallimento di queste misure in relazione all’obiettivo dichiarato di generare ripresa della crescita economica e aumento del tasso di occupazione; (ii) articolare la proposta di un maggior intervento pubblico finalizzato a far diventare lo Stato occupatore e innovatore di prima istanza. Si tratta di una proposta tratta dalla tradizione teorica postkeynesiana (Minsky, in particolare) e ripresa nei tempi più recenti dagli studiosi della modernmoney theory. Su quest’ultimo aspetto, verrà articolata una critica ‘simpatetica’, basata sulla convinzione in base alla quale lo Stato, in un assetto capitalistico, non è un attore ‘neutrale’ rispetto ai rapporti di forza esistenti e verificati nel mercato del lavoro. Tutt’altro. Le politiche economiche risentono profondamente del conflitto capitale-lavoro (incluse le rendite finanziarie) e dei conflitti intercapitalistici. In tal senso, la proposta in oggetto, più che essere criticata sul piano ‘tecnico’ (possibili effetti inflazionistici, eventuale aumento del debito pubblico), dovrebbe tener conto della natura intrinsecamente di classe delle scelte di politica economica.
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Isaak Rubin: la teoria del feticismo e le sue connessioni con la reificazione
di Bollettino Culturale
L'opus magnum di Isaak Illich Rubin fu originariamente pubblicata nel 1923. Il libro è intitolato “Saggi sulla teoria del valore di Marx”. Il lavoro di Rubin subì per quasi mezzo secolo una sorta di ostracismo. Solo negli anni '70, con la traduzione inglese di Fredy Perlman e Milos Samardzija, il cosiddetto "mondo occidentale" ha avuto accesso a questo lavoro fondamentale. Quei privilegiati che avevano avuto accesso al libro prima degli anni '70, come Roman Rosdolsky, riconoscono la sua "densità" e rilevanza per il rilancio del marxismo e le epurazioni dalla visione grezza e rudimentale delle tesi scolastiche postulate dal marxismo volgare, in particolare sull'approccio marxiano riguardante il problema del valore e la tematica del feticismo delle merci.
La teoria del valore marxista di Isaak Rubin è il tentativo più riuscito di differenziare il problema marxista dal valore da quello proposto dagli economisti classici. A differenza dei classici, Marx non assume il valore come l'essenza della naturalezza della società, ma come espressione di una società in cui l'individuo esiste solo come produttore di valore di scambio, il che implica l'assoluta negazione della sua esistenza naturale. Pertanto, la produzione di valore di scambio include già la coercizione dell'individuo.
Il lavoro di Rubin rimane attuale, come punto di partenza, per un'efficace comprensione della questione del valore, nonché delle connessioni tra la teoria del feticismo e il processo di reificazione. Come Lukács e Korsch, anche Rubin ha sollevato l'asticella delle discussioni all'interno della tradizione marxista. La rilevanza di questo lavoro è innegabile. Pertanto, negli anni '20 significava un originale tentativo di interpretare il lavoro marxiano.
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Il welfare nella pandemia e dopo la pandemia
di Paolo Borioni
Se vi è una chiara e durevole eredità nel contagio pandemico è la rinnovata dimostrazione di quanto il welfare, la sicurezza, la condivisione dei rischi e il rilancio economico siano interconnessi. Una pandemia simile, che ha condotto già alla stasi l’economia mondiale per un anno intero, rischia di avere conseguenze di lungo periodo nel senso di livelli di crescita nulli o irrilevanti. La realtà che, senza mutamenti drastici, potrà proporsi è l’effetto combinato di un passato a bassa crescita, dello shock da virus, del sempre possibile ritorno del contagio e del protrarsi, per quanto sempre più ridotto, delle misure anti-virus.
A questo va aggiunto che, dopo il momento, ancora lontano, in cui il contagio potrà dirsi scongiurato, attendono i medesimi assetti sociali prodotti dall’economia di questi decenni: ceti dipendenti e medi con capacità di spesa e sicurezze vilipese. Ciò perché, nel momento in cui ufficialmente scatterà il dopo-pandemia, ci attenderà pur sempre una globalizzazione concentrata sul motore dell’apertura dei mercati, ma dimentica dell’altro motore ancora più fondamentale costituito dalla somma delle domande interne. In aggiunta, va scongiurato che lo sviluppo, dopo il Covid, dimentichi l’altra e maggiore sfida, che è quella climatica e ambientale. Ad esempio, l’ansia potrebbe condurre verso una disastrosa esplosione del trasporto privato.
Per nuova egemonia del welfare va dunque inteso non solo il grande potenziamento, come diremo ampiamente, di una sanità che sconfigge le ansie, ma anche la scelta strategica più generale per il consumo pubblico, senza escludere i trasporti.
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La questione comunista
Per un dibattito sull’organizzazione di classe del proletariato
di Vittorio Gioiello
Scopo di queste note è tornare a definire i termini di una rivoluzione democratica che riproponga obiettivi e strumenti di una lotta sociale e politica coerente con una strategia di attacco ad un capitalismo, che ripropone sempre e comunque una dittatura di classe, avvalendosi anche di più “moderne” manifestazioni del rapporto tra capitale finanziario e capitale industriale per proseguire il suo dominio sociale.
Vale la pena accompagnare l’indagine sui punti di forza essenziali e irrinunciabili, perché si possa parlare con un minimo di attendibilità di lotta ideale e politica, affinché il movimento democratico, come portatore dei valori della classe degli sfruttati ed alienati, possa attestarsi non già semplicisticamente e subalternamene nell’agone politico-istituzionale, ma, al contrario, proporsi come portatore di una interpretazione di esigenze storiche profonde di rivoluzione culturale e sociale, facendole valere come leva antagonistica non alle forze di “governo” della società capitalistica, ma all’insieme della struttura del capitalismo e dei suoi rapporti con le istituzioni.
Ciò comporta la ripresa di una discussione che, in modo non separato ma strettamente interdipendente, conduca l’analisi critica dell’attuale fase cosiddetta “postmoderna”, “postfordista” e “postindustriale” – con tutti i suoi specifici contenuti volti a demistificare la tesi secondo cui, a causa della rivoluzione tecnologica, il lavoro sarebbe ormai obsoleto; il capitale, in quanto transnazionale, sarebbe sempre più “astratto”, e, a sua volta, anche lo stato-nazione sarebbe assorbito in una sorta di empireo, che renderebbe inutile, perché priva di presupposti reali, la lotta sociale e politica sul territorio.
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Italia paese centrale e imperialista
di Domenico Moro
L’importanza della collocazione nel sistema imperialista
Una delle questioni più importanti, per chi voglia operare politicamente in un qualsiasi Paese, è capirne la natura. Uno degli aspetti più importanti a questo scopo è stabilire quale sia la collocazione del Paese nell’economia-mondo, per usare un termine caro a Wallerstein. In termini marxisti, bisogna scendere dall’astrattezza del modo di produzione capitalistico alla sua concretizzazione, cioè alla formazione economico-sociale storicamente determinata. Secondo Wallerstein l’economia-mondo è spazialmente gerarchizzata, essendo divisa in tre zone: una alta, il centro, una media, la semiperiferia, e una bassa, la periferia1. Lenin definiva il capitalismo, giunto alla fase più alta di sviluppo, come imperialismo. Anche per Lenin l’imperialismo si divide in una metropoli imperialista, costituita da Stati centrali dominanti e da una periferia, costituita da Stati subalterni e dipendenti dai primi. Naturalmente operare politicamente in un Paese centrale o periferico o semiperiferico è molto diverso, richiedendo un approccio diverso. La struttura economica e di classe è diversa. Ad esempio, nei Paesi centrali il capitale è meglio organizzato e i suoi rapporti di produzione sono più radicati e più forti. In più di un secolo di storia le rivoluzioni sono avvenute in Paesi periferici e semiperiferici (se intendiamo la Russia del 1917 come Paese semiperiferico). Si tratta di un problematica già presente in Gramsci, quando distingue la “Rivoluzione in Occidente” da quella appena svoltasi in Russia. Fra l’altro Gramsci fu ispirato direttamente da Lenin che si rendeva conto delle specificità della rivoluzione nei Paesi avanzati.
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Perchè non ho paura del revenge porn
di Valeria Finocchiaro
Sul finire del giorno, una giovane donna è distesa sull’erba, immobile, e dietro di lei campi e colline deserti incontrano il lago all’orizzonte. Il sole è al tramonto, e i colori della campagna si accendono e vibrano nell’attimo prima che la luce sparisca lasciando il posto alle tenebre. In primo piano il corpo della donna è bianchissimo e nudo, e sui di lei veglia in modo minaccioso una volpe. La donna tiene in mano un fiore reciso e su tutto regna il silenzio. Si sente soltanto, in lontananza, un brusìo sommesso e forse un suono di campana: separato e distante un corteo si incammina nel sentiero sbilenco. È il modo in cui, alle soglie della modernità, Paul Gauguin dipinge la perdita della verginità.
Si tratta di un dipinto cupo e carico di rimandi simbolici, secondo il canone pittorico di Pont-Aven. La verginità perduta è il passaggio dall’innocenza infantile alla corruzione dell’età adulta, e inaugura il tramonto della vita individuale. La ragazza distesa, la cui espressione malinconica è ben lontana dalla serenità delle modelle tahitiane del pittore, ha le gambe leggermente incrociate, in un gesto di pudore che contrasta la nudità esposta conferendo all’immagine la forza dell’ossimoro.
La volpe che domina la sua figura è il simbolo della lussuria, come Gauguin stesso scrisse in una delle sue lettere, e il fiore che tiene in mano il simbolo della sua purezza ormai corrotta. Il gruppo di persone molto lontano dietro di lei ricorda una processione che celebra un rito: è il rito del passaggio all’età adulta variamente celebrato in ogni società conosciuta.
Il corpo non più vergine della donna è congiunto alla terra, secondo un topos della letteratura occidentale che associa il femminile alla forza cieca e selvaggia della natura. A questa immagine fa da contraltare quella, tipica delle rappresentazioni religiose, dell’”eterno Femminino che ci trae verso l’alto”, secondo una formula di Goethe.
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Per non fare la fine dei cavalli
di Bruno Casati*
Un’analisi sulla fase, sui nuovi modi di produzione del capitale e su alcuni errori del “bertinottismo”.
Come contributo al dibattito e alla collaborazione tra comunisti, riceviamo e pubblichiamo questo articolo che uscirà sul prossimo numero della rivista Cumpanis edita dalla Città del Sole e diretta da Fosco Giannini.
Nel nome della ragionevolezza e del buon senso, da più di trent’anni si viene invitati a rassegnarci all’immutabilità dello stato delle cose esistenti: “non ci sono alternative e, in ogni caso, i mercati non le consentirebbero”. Così si sentenzia e, a chi obietta, si agita il monito della Grecia che, solo per aver tentato modesti aggiustamenti, fu umiliata. Alla signora Thatcher, a suo tempo, fu affibbiato il nomignolo di “Tina”, che era poi l’acronimo del suo motto “there is no alternative” [non c’è alternativa] da allora assunto come motto da tutto l’Occidente. E fu una resa incondizionata senza ribellioni che, in trascinamento, portò all’affermazione, non contrastata, che non esistono le classi e, pure le categorie di destra e sinistra, vanno archiviate con tutto il Novecento.
Oggi, se si permane in questa condizione di sudditanza, anche la lotta alle disuguaglianze, che sono il portato della resa, non esce dagli appelli di poche anime belle e dagli inascoltati sermoni di un Papa, sempre più isolato. Forse è arrivato il momento almeno di domandarci una buona volta che cos’è mai questo stato delle cose esistenti che, per dogma, deve restare inalterato. Ci aiuta a decriptarlo, tra i pochi, il filosofo marxista István Meszáros che, nella sua recente e monumentale opera, sono 913 densissime pagine (Oltre il capitale, Ed. Punto Rosso, 2016), ci racconta del folle divario che, nel tempo, si è venuto a configurare tra gli USA e il resto del mondo, secondo cui gli Stati Uniti d’America, che hanno una popolazione inferiore al 5% relativamente a quella mondiale, consumano da soli il 25% di tutte le risorse del pianeta.
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Le rivoluzioni colorate e la Cina: da Tienanmen a Hong Kong
di Domenico Losurdo
"In questi giorni, la stampa occidentale, anche quella di «sinistra», esprime il suo entusiastico appoggio ai rivoltosi di Hong Kong e rievoca Piazza Tienanmen. In effetti conviene prendere le mosse da questa tragedia per analizzare le manovre messe in atto dall’imperialismo contro la Repubblica popolare cinese. Riproduciamo qui, per gentile concessione dell'autore, alcune pagine di un libro di Domenico Losurdo appena pubblicato da Carocci". Con questa premessa di un'attualità imbarazzante, Marx 21 nel 2014 rilanciava un estratto fondamentale dell'intellettuale marxista che vi riproponiamo oggi nel giorno dell'anniversario dei fatti di Tiananmen del 4 giugno 1989. E' la migliore risposta possibile alle centinaia e centinaia di fake news sino-fobiche che leggete in questi giorni in cui il cuore dell'imperialismo è in fiamme
1. Un terrorismo dell’indignazione coniugato al passato
Oltre che al presente, il terrorismo dell’indignazione può essere coniugato al passato. È possibile per così dire impiccare a un’immagine, vera o falsa e comunque accuratamente e strumentalmente selezionata, un concorrente, un potenziale nemico, un nemico da screditare o, più esattamente, da additare al pubblico ludibrio dell’opinione pubblica internazionale. Nel ricordare ogni anno la tragedia di Piazza Tienanmen, agli inizi di giugno i media occidentali ripropongono immancabilmente il fotogramma del giovane cinese che, disarmato, fronteggia con coraggio un carro armato dell’esercito. Il messaggio che si vuole trasmettere è chiaro: a sfidare la prepotenza e il dispotismo è un combattente della libertà al quale l’Occidente non si stanca di rendere omaggio e che solo in Occidente può trovare la sua patria elettiva.
Ma realmente tutto è così evidente? Realmente non c’è spazio per il dubbio e la sfumatura? Voler riflettere un po’, prima di introiettare e far proprio il messaggio manicheo che viene proposto o che si cerca di imporre, è solo sinonimo di atteggiamento sofistico e di sordità alle ragioni della morale? Il terrorismo dell’immediata percezione e indignazione è in agguato. Chi voglia evitare di cadere in trappola farebbe bene a esitare per un attimo e a porsi alcune domande, prima di giungere a una conclusione non solo frettolosa ma soprattutto imposta prepotentemente dall’esterno.
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Lo sguardo del drone su Milano
di Sergio Bologna
Demolire il mito del “modello Milano”. Sembrerebbe una buona cosa, se fatta con ragionamenti di spessore in grado di recuperare quella stagione irripetibile di pensiero critico al quale alcuni docenti della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano hanno dato il loro contributo negli anni Settanta con la rivista Quaderni del territorio. Aggredire il “modello Milano” con superficialità fa soltanto il gioco di quelli che hanno governato la città nei suoi periodi più bui. Si viene indotti a queste riflessioni da un lato da certe prese di posizione (v. l’articolo di Lucia Tozzi su Lo stato delle città, n. 3, ottobre 2019), dall’altro da letture come Against Urbanism di Franco La Cecla che, pur mettendo in risalto alcuni percorsi perversi delle politiche urbane e la mitologia degli “archistar”, è ancora largamente insufficiente ad affrontare determinate problematiche tipiche degli spazi metropolitani.
Probabilmente lo sguardo dell’urbanista ha acquistato la valenza di “sguardo generale” alla fine dell’Ottocento, quando i piani regolatori urbani hanno iniziato a fare scuola e quindi i suoi criteri di giudizio si sono poco alla volta imposti come scienza della città e della società che la vive. È indubbio che molte trasformazioni sociali nella città possono essere ricondotte a scelte urbanistiche, è indubbio che la disposizione dell’abitare determina in maniera notevole le stratificazioni sociali ma è altrettanto vero che l’epoca che stiamo attraversando, in particolare l’epoca che ha visto la nascita dell’informatica e di Internet, ha prodotto degli agenti di trasformazione sociale che sembrano assai più potenti del fattore urbanistico nel cambiare le persone e il loro modo di pensare e di agire.
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Sorvegliare e pulire: eccessi da sanificazione
COVID-19/Epidemiologia
di Donato Greco
Paura del contagio da superfici, oggetti, tastiere di computer, borse della spesa, abiti… Una certa giustificazione c’è: ottimi lavori scientifici dimostrano che, in condizioni sperimentali controllate, il maledetto SARS-CoV-2 riesce a sopravvivere per un certo tempo [1-2-3]. E tuttavia, la probabilità di infettarsi toccando superfici, tastiere, maniglie, sedili è infinitamente piccola, risibile nella vita reale.
Anche una certa logica scientifica c’è: SARS-CoV-2 è un virus a trasmissione respiratoria e col suo respiro un infetto, anche asintomatico, emette miliardi di quegli ormai famosissimi droplets, le microgoccioline di vapore acqueo che possono anche veicolare cellule epiteliali del nostro apparato boccale, cioè un epitelio in continuo rinnovamento. Queste goccioline restano sospese nell’aria per un certo tempo per poi cadere a terra o sulle superfici che circondano l’infetto. Alcune di queste goccioline contengono anche cellule dove è attiva la replicazione del virus.
Così, un malcapitato può avere la sfortuna di raccogliere con le mani queste goccioline fresche, prima che si disidratino con la conseguente morte del loro contenuto. E tuttavia, raccoglierle con le mani ancora non garantisce l’infezione al malcapitato, nemmeno se si mette le mani in bocca: infatti il virus non si trasmette per via cutanea né per via orale, basta la saliva a farlo fuori! Tuttavia il nostro sfortunato cittadino potrebbe creare inavvertitamente un aerosol sbattendo le mani (o in altro modo a me sconosciuto) o, meglio ancora, potrebbe sfregarsi gli occhi, allora sì permettendo l’introduzione nel suo organismo di cellule ancora vive (ma quante?). Insomma infettarsi raccogliendo il virus da una superficie richiede una sequenza di improbabili eccessive, sfortunatissime, rare combinazioni.
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La teologia della fissità ontologica*
di Alberto Bradanini
I problemi sono sempre politici, mai tecnici. La vita è un divenire, la sola cosa stabile al mondo è il cambiamento. Per gli antichi greci, progenitori del nostro sapere filosofico, la politica era un flusso, un animale instabile i cui spiriti ferini occorreva addomesticare affinché essa potesse servire i bisogni nobili dell’uomo, l’unico ente per il quale il futuro è indeterminato.
L’Unione Europea – lo riconoscono persino gli indecifrabili difensori dei suoi misfatti – presenta ampi spazi di miglioramento, per usare un eufemismo. Essa produceva guai su guai anche prima dello scoppio dell’epidemia. Ora – dopo aver preso coscienza della finta operosità di quelle istituzioni davanti al crollo delle economie post-Covid e aver finalmente scoperto che nei Trattati istitutivi è assente ogni riferimento a un’Europa Federale – la disillusione di molti si va convertendo in un mesto disincanto. Sembra così evaporare l’effimera chimera di un’Europa politicamente unita, creatura immaginifica a lungo sopravvissuta nelle anime semplici degli abitanti al Sud delle Alpi, vittime di un’autoflagellazione sconsiderata, complessi di colpa per sprechi e inefficienze, che seppur innegabili non sono la causa del nostro declino. In Italia, tale fustigazione autoinflitta ha risparmiato alle oligarchie tedesche persino il fastidio di investire sulla tutela di quel marchio contraffatto chiamato Unione (si fa per dire) Europea.
La ragione prima per la quale uno Stato Europeo degno di tal nome non vedrà mai la luce è l’assenza del demos, vale a dire di un popolo europeo, la cui linfa insostituibile – se fosse esistita – si sarebbe da tempo mobilitata per partorirlo.
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Capitalismo monopolistico di Stato e UE
di Raffaele Picarelli
L’ispirazione liberista della normativa dell’Unione Europea sugli aiuti di stato in epoca di pandemia. Il ruolo del capitalismo monopolistico di stato dipende dai rapporti di forza fra le classi
Timori e tremori
Carlo Bonomi, eletto il 20 maggio scorso Presidente di Confindustria, nel suo discorso di investitura ha tracciato un programma dell’organizzazione (cfr “Il Sole - 24 Ore” del 21 maggio). Alcune cose importanti le ha già ottenute, altre si appresta a ottenerle. “Su nostra richiesta, lo Stato ha imboccato la via più rapida e naturale per sostenere imprese e lavoro: non prorogare i pagamenti ma abbonare le tasse, come avverrà con l’Irap”. Sorvolando disinvoltamente sui macroscopici interventi in favore delle imprese contenuti nel decreto legge 19 maggio 2020 n.34 (cosiddetto decreto ‘Rilancio’), Bonomi invoca “un credibile programma di riduzione strutturale del maxidebito pubblico”. Che strano! Ha chiesto, e ottenuto, centinaia di miliardi di sovvenzioni, abbuoni, crediti fiscali, garanzie pubbliche, tutti interventi effettuati a debito, e ora chiede un rientro credibile del nostro debito? Ma sì, egli pensa che gli altri dovranno stringere la cinghia per lui e quelli come lui.
“Per riprendere la via degli investimenti” egli prosegue “due sono i caposaldi: la ripresa e il potenziamento di ‘Industria 4.0’ e l’affiancamento di analoghi incentivi per ‘Fintech 4.0’”. La politica dovrà tagliare la spesa corrente e raddoppiare gli investimenti pubblici “nel campo delle infrastrutture di trasporto e logistiche, nella digitalizzazione e produttività dei servizi”. Quindi, riassumendo, nella visione ‘strategica’ di Bonomi abbiamo uno Stato (“la politica”) che abbona le tasse, trasferisce in vario modo 105/110 miliardi di euro (su 155) alle imprese con il decreto ‘Rilancio’, soldi per lo più procurati a debito, e che si impegna a ulteriori cospicue sovvenzioni.
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La mossa del cavallo. Francia e Germania, Ue e cronache del crollo
di Alessandro Visalli
Si sta(va) allineando una tempesta perfetta. L’impatto economico della pandemia iniziava a mordere le economie europee, moltiplicando i disoccupati e rendendo necessarie ingenti spese[1]. La sfida strategica tra i grandi attori mondiali si stava scaldando, promettendo significativi rallentamenti strutturali del grado di interconnessione economica e difficoltà a tenere i piedi in tutte le scarpe, come piace al modello nordico[2]. La Corte Costituzionale tedesca, tra la costernazione generale, aveva buttato un martello nelle ruote dentate della macchina europea[3].
Questa tempesta agiva su una nave parecchio malridotta e peraltro anche mal progettata. Una nave da guerra che si proponeva come transatlantico, senza avere cabine per tutti, servizi adeguati e scialuppe di salvataggio all’occorrenza. Una nave che aveva recentemente subito la defezione della quota inglese dell’equipaggio e nel quale tra i ponti superiori ed inferiori non si cessava mai di litigare. Peraltro, assai poco funzionale anche come nave da guerra, dato che non sapeva dove voler andare e vagolava incerta in mezzo al mare, mentre gli ufficiali, chiusi nella loro stanza erano costantemente impegnati nei loro bracci di ferro.
Avevano costruito questa strana nave in mare aperto, varata come una semplice nave appoggio delle più solide flottiglie nazionali negli anni cinquanta (quando la guida della portaerei americana era indiscussa), ma si era via via allargata ma senza mai tornare nel bacino di carenaggio. L’unica volta che avevano provato a farlo i referendum di mezza Europa avevano fatto immediatamente desistere. Ma quando era passato il momento storico (il naufragio della flotta avversaria nel 1989), si era pensato di trasformarla in nave da guerra. Una nave da guerra che parlava di pace (ovvero un classico).
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Covid ed economia: ciò che si sa, ciò che ci aspetta
di Vincenzo Comito
Dalla caduta del Pil all’aumento del debito, della povertà e delle disuguaglianze, fino alle trasformazioni del lavoro, della produzione e dei mercati internazionali: ciò che sta succedendo nel mondo a causa della pandemia. E ciò che possiamo ragionevolmente attenderci nel prossimo futuro
Da diversi mesi si moltiplicano gli scritti sulle conseguenze del coronavirus: si diffondono le previsioni, si moltiplicano appelli, speranze o previsioni più o meno negative. Nessuno può veramente sapere cosa succederà nei prossimi mesi e anni. In questo contributo ci limiteremo a individuare alcuni, e solo alcuni, tra i fatti economici e sociali che stanno accadendo e che è molto probabile che accadano nel prossimo futuro.
Caduta del Pil, disoccupazione, povertà
Il Pil. È indubbio che il Pil di moltissimi paesi cadrà ulteriormente nei prossimi mesi, e ancora forse nei prossimi anni, sino al caso probabilmente estremo, almeno nel breve termine, dell’India, paese per il quale Goldman Sachs stima come plausibile una riduzione del Pil del 45% nel secondo trimestre del 2020. L’economia del Sudafrica dovrebbe contrarsi del 23,5% nello stesso periodo, secondo la banca Absa. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la Fed valuta che una ripresa piena dell’economia ci sarà soltanto verso la fine del 2021. È poi noto che per l’Italia le previsioni sono di una caduta del Pil nel 2020 intorno al 9,5%, mentre per l’Eurozona in generale, secondo la BCE, dovrebbe oscillare tra l’8% e il 12%.
La Banca Mondiale stima che, a livello mondiale, il Pil si ridurrà del 5% nel 2020 (Wheatley, 2020). Faranno plausibilmente eccezione alcune realtà asiatiche, dalla Cina alla Corea del Sud, paesi che, avendo vinto rapidamente il virus, sono ora in rilevante ripresa, sia pure ancora con qualche problema qua e là. Notizie molto recenti ci dicono poi che, almeno in Europa, si assiste con lo scoppio della pandemia a un forte aumento dei risparmi delle famiglie, una misura precauzionale che potrebbe però contribuire a rallentare la ripresa.
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Economia nazionale e Unione europea
Il Bilancio (dello Stato) baderà a se stesso?
di Alessandro Volponi*
«Non potete aspettarvi che gli imprenditori si mettano a varare programmi di ampliamento mentre stanno subendo perdite. È la comunità organizzata che deve trovare modalità intelligenti di spesa con lo scopo di dare il calcio di inizio al pallone […] Non riuscirete mai a far quadrare il bilancio pubblico con misure che riducono il reddito nazionale […] è il peso della disoccupazione e la caduta del reddito nazionale che stanno buttando all’aria il bilancio. Voi badate alla disoccupazione che il bilancio baderà a se stesso!»
(John Maynard Keynes, conversazione radiofonica del 4/1/1933).
«All’epoca della grande crisi […] i capitalisti hanno combattuto costantemente gli esperimenti volti ad accrescere l’occupazione per mezzo della spesa pubblica in tutti i paesi, con l’eccezione della Germania hitleriana. Non è facile spiegarsi tale posizione. È chiaro infatti che un più elevato livello della produzione e dell’occupazione è favorevole non soltanto ai lavoratori ma anche ai capitalisti, poiché i loro profitti si accrescono. D’altra parte la politica di pieno impiego, basata sulle spese statali finanziate in deficit, non incide sui profitti in quanto non richiede la istituzione di nuove imposte. In una situazione di crisi i capitani d’industria si struggono per la ripresa. Perché quindi non accolgono con gioia “la ripresa artificiale” che lo Stato offre loro? [….]. Il periodo nel quale i “capitani d’industria” potevano permettersi di combattere qualsiasi forma di intervento statale, avente come scopo una attenuazione delle crisi economiche, appartiene al passato. Attualmente non si pone in questione la necessità dell’intervento pubblico in tempo di crisi».
(Michal Kalecki Aspetti politici del pieno impiego, 1943).
A differenza di Kalecki, Keynes era convinto che il pieno impiego potesse essere conseguito e mantenuto costantemente nel quadro di un’economia capitalistica e, benché poco incline ad occuparsi del lungo periodo, fantasticava di un mondo in cui pochissime ore di lavoro al giorno avrebbero assicurato a tutti un’esistenza libera e felice grazie alla crescita continua della produttività, un mondo pacifico perché la piena occupazione in tutti i paesi avrebbe eliminato le cause economiche della guerra; la rendita sarebbe gradualmente scomparsa (“eutanasia del rentier”) quindi il profitto si sarebbe ridotto a pura remunerazione del rischio e del lavoro di direzione.
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Covid-19, la verità
di Marcello Teti*
Premessa
L’uso sistematico della disinformazione strategica, nei riguardi dell’epidemia da coronavirus, è stato lo strumento più importante per riuscire a creare l’attuale clima di paura e di micidiale insicurezza nella popolazione. Una vera e propria epidemia di informazioni artatamente subdole, ambigue, spesso appositamente gonfiate, altre volte false, surrettizie, subliminali. Quasi sempre prive di ogni fondamento razionale, prima ancora che scientifico. Una campagna martellante di notizie date con lo scopo di pompare dosi sempre più massicce di paura e di angoscia in una opinione pubblica atterrita, incapace di distinguere e fare un minimo di scelte critiche. Che accetta ormai supinamente ogni imposizione, ogni sopraffazione dei suoi diritti, quando non è essa stessa addirittura a chiedere ancora più restrizioni. Una sorta di “infodemia” ben più grave della modesta epidemia in atto, la cui sorgente di infezione è proprio il Governo e la sua vasta corte di tecno-scientisti a caccia di fama, potere e lauti guadagni. In verità, senza questi mestatori, millantatori di pseudo verità scientifiche, difficilmente si sarebbero potute creare le condizioni per ingenerare una psicosi collettiva così irrazionale. Va aggiunto subito anche il ruolo decisivo che hanno svolto i grandi mass-media (giornali, tv nazionali e locali, radio, ect) nel creare la situazione surreale che stiamo vivendo da quattro mesi a questa parte. Con grande compiacenza, essi hanno amplificato a dismisura la pletora di informazioni distorte e tendenziose, quando non le hanno inventate direttamente essi stessi.
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Domenico Losurdo, “La lotta di classe”
di Alessandro Visalli
Il libro di Domenico Losurdo è stato pubblicato nel 2013 e rappresenta in qualche modo l’estensivo scavo archeologico dal quale viene tratta la tesi storico-ricostruttiva ad ampio raggio presentata nella sua ultima opera, “Il marxismo occidentale”[1]. La tesi di fondo è che la lotta di classe ha forme molteplici, includenti sia lo scontro tra lavoro e capitale nel luogo della produzione e nella società, sia quello per la liberazione dalle forme di oppressione presenti nel mondo e, finanche, quello tra nazioni.
I due padri del marxismo, ovvero Karl Marx e Friedrich Engels, nelle loro opere e lettere, non hanno mai espresso in modo sistematico la tesi che Losurdo cerca di desumere dal loro lavoro, ovvero la connessione tra liberazione della classe operaia e liberazione nazionale. Ciò è onestamente riconosciuto, ma lo storico ritiene svolga un ruolo centrale nel loro pensiero ed a tal fine compie una profonda operazione di ricostruzione, andandone ad individuare le tracce nei testi e nella complessiva storia del marxismo.
Questa è la tesi, per certi versi paradossale, ma reputo ben fondata, del testo.
I due processi di liberazione articolano le tre forme di emancipazione per le quali i due filosofi lavorano: la “emancipazione umana”, la “emancipazione politica” e la “emancipazione universale”. Questa triplice emancipazione è il prodotto di un’azione sviluppata durante diversi decenni e avendo sempre di mira una costante attenzione alla politica estera, pungolata dalla turbolenta politica internazionale del tempo. Tempo che va dall’assestamento post guerre napoleoniche alla crisi del 1848 e poi alla progressiva creazione dei blocchi di potere, con stati guida e stati satellite di interposizione, che condurranno alla Prima guerra mondiale.
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«Intus legere» La Matrix europea e il gruppo Bilderberg
di Salvatore Bravo
La prassi è sempre sincrona alla teoria, alla comprensione, la quale è sempre un atto intellettuale, ovvero “intus legere”: capire significa leggere dentro, astrarre la verità dalla contingenza, apparentemente costituita da frammenti, da situazioni frammentate. In realtà esse hanno il loro senso nel substrato che dà significato all’empirico. Il periodo attuale, ormai trentennale, ha la sua verità nella tecnocrazia di sistema. La tecnocrazia è altro dalla scienza: essa ha il fine di trasformare ogni ente in fondo per il plusvalore. La crematistica risponde alla legge della tecnocrazia globale, entifica popoli e culture al fine di trasformare ogni esistente in plusvalore da consumare ed immettere sul mercato. Il nichilismo è diventato la legge dell’occidente globale. Gli esseri umani si differenziano dagli altri enti, solo poiché ricoprono una doppia natura storicamente indotta: produttori e consumatori. Il tempo ciclico della produzione esige che vi siano consumatori: senza la doppia natura innestata dal sistema tecnocratico l’economicismo non reggerebbe. La tecnocrazia non è un fenomeno naturale, la sua pervasività capillare è sicuramente favorita da condizioni storiche, ma curvare queste ultime per teleologie di questo genere è possibile solo in presenza di lobby organizzate per tali finalità. La democrazia boccheggia sotto i colpi di gruppi di privilegiati che costruiscono progetti per i popoli utilizzando il loro immenso potere economico per determinare le decisioni degli Stati. Il gruppo Bilderberg è la cupola finanziaria all’interno della quale non lavorano solo finanzieri, ma anche manager, giornalisti e carrieristi che in nome “del martello dell’economia” sono disponibili a mettere in pratica cinici propositi:
«Stando alle notizie raccolte, la conferenza del Bilderberg sarebbe organizzata da una commissione permanente, detta anche Comitato Direttivo (Steering Committee), della quale fanno parte alcuni membri di circa diciotto nazioni differenti.
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A che punto siamo della storia?
di Moreno Pasquinelli
Il principale paradigma della visione dialettica si può racchiudere in questa massima: nulla è perenne se non il cambiamento. Non lo è, evidentemente, nemmeno il capitalismo. Sappiamo però che il capitalismo, rispetto alle formazioni sociali che lo hanno preceduto, si distingue per il suo innato dinamismo, per la sua intrinseca tendenza ad adattarsi alle diverse circostanze, per la sua capacità di superare in avanti anche le crisi più devastanti. Il capitalismo è infatti un organismo mutante, per sua natura condannato a incessante metamorfosi. Le crisi, tanto più se profonde, segnano sempre il passaggio da uno stadio ad un altro.
Il 2020 sarà ricordato come un anno spartiacque tra un periodo e un altro, come data storicamente periodizzante, come la linea che separa il vecchio dal nuovo.
Sappiamo cos’è il vecchio che ci lasciamo alle spalle: il lungo ciclo segnato dal combinato disposto di globalizzazione estrema, neoliberismo e iper-finanziarizzazione. Cosa sarà il nuovo, l’addiveniente, non è dato sapere con certezza. Con certezza sappiamo che la storia non soggiace a nessun principio teleologico per cui essa sarebbe organizzata e procederebbe in vista di un fine (sia esso socialismo o qualsiasi altra cosa si voglia intendere per fine); sia che tale principio dipenda da una volontà provvidenziale esterna alla storia, sia che esso sia concepito come immanente ad essa. Di contro alla concezione meccanicistica del rapporto causa effetto, oggi sappiamo che da una determinata causa possono risultare effetti diversi. Non si tratta solo di “probabilismo”, per cui dall’evento A non si può dedurre come assolutamente certo l’evento B.
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Il vecchio di fronte al thàlatta
di Michele Castaldo
Che sia, quello attuale, un periodo confuso e di magra per le sparute forze ideali che si richiamano al comunismo è fuori discussione. Che si allunghi perciò la lista di chi scrive necrologi nei confronti degli oppressi e sfruttati, pure. Che gli intellettuali e professoroni di “sinistra” facciano la fila per la respirazione bocca a bocca al capitalismo in crisi, passi, è una storia che si ripete. Ma che si pretenda addirittura di impartire lezioni su cosa sia o debba essere un movimento di massa, beh, è troppo! Dunque, per dirla con Totò, ogni limite ha una pazienza! E in certi casi la si perde, come in questo periodo, nei confronti di personaggi circondati da aureola di cartone.
Mi riferisco al professor Gianfranco La Grassa, un nome una garanzia, che in un articolo su questo sito suona la campana a morto per la lotta degli oppressi e sfruttati. Dopo un corposo articolo in cui cincischia fra autori alla ricerca del tempo che fu, scarta l’economia – da “bravo” economista - per ergersi a consigliere politico e sparare nel mucchio. Sentiamolo: «[…] Sottolineo che si deve attaccare a più non posso l’economicismo, l’assenza totale di ogni analisi dell’evoluzione politica e sociale in quest’epoca di sempre crescente disordine e conflittualità internazionale». Ovvero in una fase di caos dell’economia e della politica, molti direbbero della “geopolitica”, come se a un certo punto la storia la facesse la geografia piuttosto che le forze sociali in rapporto ai mezzi di produzione, ecco che il professorone tira fuori dal profondo dell’anima liberaldemocratica l’anatema: «Non si cerchi però, nel breve (e forse medio) periodo, di voler riproporre la “riscaldata minestra” del conflitto sociale o addirittura “di classe”».
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