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È di nuovo Primo Maggio
Andrea Bottalico e Francesco Massimo
Un nuovo progetto raccoglie l'eredità della più longeva delle riviste operaiste. E rilancia gli assi principali: l’inchiesta storica e militante assieme all’attenzione alle trasformazioni del lavoro e alle nuove figure sociali che le accompagnano
La rivista Primo Maggio (1973-1989), fondata e animata da Sergio Bologna, Cesare Bermani, Bruno Cartosio, Primo Moroni e altri fu di gran lunga la più longeva delle riviste «operaiste» (Quaderni Rossi pubblicò dal 1961 al 1965; Classe Operaia dal 1964 al 1967; Contropiano dal 1968 al 1971; Rosso dal 1973 al 1979). Questa longevità la rende una rivista meno legata alle contingenze politiche come potevano essere le altre – esposte ai capricci dei rapidi e imprevedibili avvicendamenti storici e di fase – e con un respiro di analisi più profondo. La sua longevità le permise di attraversare due decenni di segno opposto: prima quello dell’ascesa vorticosa e poi quello del lento declino del movimento operaio. E forse questa capacità di resistere, raccogliere energie e produrre analisi anche procedendo contro – ma in molti casi anticipando: si pensi alle intuizioni sulla crescente importanza della logistica così come del lavoro autonomo – il corso della storia rende quell’esperienza particolarmente affascinante e utile per il presente.
Negli scorsi due anni un gruppo di militanti e intellettuali – in buona parte ricercatori/trici precari/e – di diverse generazioni ha fondato il collettivo Officina Primo Maggio con l’obiettivo di recuperare e rivisitare l’esperienza dell’omonima rivista degli anni Settanta e Ottanta: in particolare la centralità del metodo dell’inchiesta – storica e militante – l’attenzione alle trasformazioni del lavoro e alle nuove figure sociali che le accompagnano. Ne avevamo parlato su Jacobin Italia con Sergio Bologna nello scorso gennaio. In quell’intervista Bologna ha insistito su un punto centrale del metodo della vecchia e nuova Primo Maggio:
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L’attualità del socialismo: Un problema storico-teorico
di Pasquale Serra
La struttura di classe della società italiana che la quarantena ha oggi evidenziato in tutta la sua virulenza e drammaticità, non nasce, ovviamente, con la quarantena stessa, perché essa era già squadernata, e pienamente visibile, sin dalla metà degli anni Ottanta del Novecento, se non da ancora molto prima. Così come, d’altronde, erano squadernati, e pienamente visibili, alcuni mutamenti radicali (dei veri e propri rovesciamenti) avvenuti, all’interno di essa, nei riferimenti sociali di destra e sinistra. Lo segnalava già Franco De Felice nella sua ultima, grande, opera, pubblicata nel 1996 per la Storia d’Italia Einaudi, nella quale, ragionando in maniera lucida e spregiudicata sulla nuova composizione sociale italiana, aveva sostenuto che nel blocco più protetto del nuovo quadro della competizione internazionale, c’è molto più la sinistra che la destra, la quale tende, invece, a rappresentare i settori più colpiti[1]. Si tratta di una situazione, questa, particolarmente anomala, perché è una situazione che capovolge i tradizionali riferimenti sociali di destra e sinistra (all’interno della quale, come diceva molto bene Mario Tronti, troppo spesso «vediamo una destra di popolo che avanza in Europa e in Occidente»), assegnando, ormai quasi stabilmente, i salotti alla sinistra e le periferie alla destra. Ma fino a quando, si chiedeva ancora Tronti, potrà durare una situazione come questa?[2]. E questa domanda, posta da Tronti, che individuava con precisione il rovesciamento avvenuto intorno ai rapporti tra classi sociali e ideologie politiche, risuona ancora di più oggi, come un pericolo, in tutta la sua virulenza e drammaticità, perché come ha scritto di recente Dider Eriban, un importante sociologo francese, «la quarantena evidenzia la struttura di classe della società», non solo nel mondo del lavoro, come è evidente, ma soprattutto fuori di esso, dove ci sono quelli che hanno perso tutto, e che «non hanno più niente».
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Instaurazione del rischio di estinzione
di Jacques Camatte
In un primo approccio, l’importanza eccezionale accordata agli effetti patologici legati all’infezione da coronavirus sembrerebbe un buon modo per mascherare il fenomeno essenziale in atto: la distruzione della natura e la rimessa in discussione del processo di vita organica sulla Terra. Si tratta della scomparsa di migliaia di specie e del blocco di tale processo in atto da quasi quattro miliardi di anni, che conducono ad un’immensa estinzione. Ora la Terra è un corpo celeste eccezionale e nessun altro somigliante è stato scoperto a migliaia di anni luce. Come può la specie escamotare* un tale evento, se non a causa della sua follia, rinchiudimento in un divenire, un’erranza, che la fa incapace d’immaginare qualcosa di diverso, in particolare una via d’uscita. Essa si preoccupa solo di se stessa, ignorando che ciò che subisce è una conseguenza della sua dinamica di separazione dalla natura e della sua inimicizia,1 sia interspecifica, che infraspecifica.
Tale dinamica di mascheramento è vera, evidente, ma questa affermazione non implica una sottovalutazione del fenomeno che stiamo subendo. È ciò su cui vogliamo insistere e non intendiamo separare i due fenomeni, ma al contrario integrare ciò che riguarda la specie nel divenire della totalità del fenomeno vivente.
Il carattere più importante di questa pandemia è il suo contagio fortissimo a causa del virus stesso ma soprattutto a causa della sovrappopolazione e della distruzione della natura che riduce il numero delle specie possibili ospiti. Essa è vissuta come una terribile minaccia.
Ora, in diversi momenti del loro processo di vita uomini e donne si trovano, consciamente o inconsciamente, in presenza della minaccia che in certi casi può manifestarsi come una minaccia ben determinata.
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Il capitalismo non è in quarantena
Innovazione e conflitti nella crisi da Covid-19
Giuseppe Molinari e Loris Narda intervistano Salvatore Cominu
A partire dagli spunti contenuti nel libro Frammenti sulle macchine, pubblicato per la collana Input di DeriveApprodi, discutiamo con Salvatore Cominu gli effetti che gli sconvolgimenti dell’emergenza sanitaria ed economica avranno sui processi di innovazione capitalistica, sulle prospettive di rilancio dell’accumulazione, sulle possibilità di un contro-uso della crisi.
* * * *
È innegabile che la crisi da Covid rappresenti un acceleratore dei processi di ristrutturazione capitalistica – pensiamo ad esempio alla spinta alla digitalizzazione del lavoro o della formazione – e una ghiotta opportunità per i Big Tech e per le altre imprese che vengono solitamente raggruppate sotto la definizione di «capitalismo delle piattaforme». È altrettanto vero che la crisi ha mostrato le fragilità strutturali dell’organizzazione capitalistica odierna: siti web che non reggono il numero degli accessi, catene di distribuzione incapaci di gestire il quantitativo d’ordini, l’improvvisazione su didattica a distanza e smart working. Si può dire che negli ultimi anni si è aderito pedissequamente alle retoriche capitalistiche sottovalutando lo scarto che c’è tra di esse e quello che effettivamente vediamo?
L’innovazione tecnologica è anche hype, l’innovatore e il suo venture capitalist sono attori che dialogano con i mercati corporate e finanziari, sono produttori di retoriche che spingono le aspettative, enfatizzando le utilità per i compratori (le imprese, gli individui, le organizzazioni) e il valore atteso che alimenta, in ultimo, le convenzioni finanziarie.
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Il crocevia della globalizzazione: quale mondo dopo il coronavirus?
di Andrea Muratore
Torna il nostro dossier “Coronavirus: sfide e scenari”, su cui oggi Andrea Muratore ci parla degli scenari a lungo termine aperti dalla pandemia e delle prospettive riguardanti le evoluzioni economiche, politiche e sociali indotte dalla pandemia in corso in tutto il mondo
L’epidemia di coronavirus e le sue conseguenze per le società del mondo globalizzato stanno, giorno dopo giorno, acquisendo tutte le caratteristiche di una svolta epocale. Di un contesto di catalizzazione di dinamiche, scenari e sviluppi già in atto, accelerati dall’incontro tra la pandemia originatasi in Cina e un mondo globalizzato di cui stavano, gradualmente, venendo in emersione spigolature e contraddizioni. Come ha dichiarato in un’intervista alla rivista francese Le Grand Continent la virologa Ilaria Capua, il virus e i suoi effetti corrono sfruttando la velocità e l’iperconnessione, fisica e non, del nostro sistema: “Attraverso le infrastrutture di comunicazione siamo riusciti ad accelerare (e quindi a trasformare qualitativamente) dei fenomeni che prima mettevano millenni ad accadere. Pensiamo al virus del morbillo: non era altro che una mutazione della peste bovina che si è trasmessa all’essere umano quando abbiamo iniziato ad addomesticare la mucca. Il morbillo ha invaso il mondo camminando, a piedi. Pensiamo all’influenza spagnola, che un secolo fa ci ha messo ben due anni per diffondersi. Questa volta invece sono bastate un paio di settimane”.
Il coronavirus impatta come il temuto “cigno nero”, lo shock esogeno teorizzato nell’omonimo saggio di Nassim Nicholas Taleb e che in Italia è stata resa popolare dall’attuale presidente della Consob Paolo Savona. La tutt’altro che remota ipotesi di una malattia pandemica accelerata dai meccanismi della globalizzazione si trasforma in uno shock sistemico. Paradigmi consolidati sono saltati in poche settimane, dopo che le società occidentali si erano cullate nell’illusione che le strategie draconiane messe in campo dalla Cina di Xi Jinping fossero sufficienti a prevenire un’espansione del coronavirus oltre i confini dell’Impero di Mezzo.
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Tagliare la democrazia?
di Geminello Preterossi
Dopo più di due mesi di quarantena, si può dire che il timore che avevo manifestato all’inizio – cioè che un’emergenza reale, dalle cause e implicazioni innanzitutto politiche e sociali (la destrutturazione del Welfare e del sistema sanitario, perché “ce lo chiedeva l’Europa”) potesse scivolare, come su una sorta di piano inclinato, verso una qualche forma di stato di eccezione – si è rivelata purtroppo abbastanza fondata. Dopo il primo impatto, traumatico, con il virus, sono emersi progressivamente errori, omissioni, inspiegabili falle, e anche qualche scivolata (probabilmente dovuti, almeno in parte, a confusione, spiazzamento, cattivi consiglieri, più che a intenzioni sbagliate). E soprattutto si intravedono, oggi, i possibili effetti a lungo termine, dal punto di vista democratico. Prima di ragionare sul futuro, però, è bene fare con franchezza un elenco delle cose che non possono passare in cavalleria: la stigmatizzazione di Andrea Crisanti, che ha salvato il Veneto, seguita da imbarazzati silenzi e mezze ammissioni, troppo tardive ed evasive, da parte dei “tecnici di governo”. La non trasparenza dell’OMS, oggetto di molti condizionamenti e pressioni, che si è riflessa anche sulle direttive ondivaghe e opache dei consulenti cui il governo si è affidato. Le cure snobbate o addirittura osteggiate e poi rivelatesi importanti e comunque utili (plasma, eparina ecc.). La demonizzazione di persone serie (spesso medici in prima linea), semplicemente perché non allineati a una presunta “verità” ufficiale (salvo poi ammettere a denti stretti che avevano ragione: si veda il caso di De Donno a Mantova). L’operazione di drammatizzazione mediatica (dopo una maldestra rassicurazione iniziale), per coprire una grave sottovalutazione all’inizio, che ha imposto una soluzione estrema e generalizzata dopo, la quale ha di fatto scaricato quasi integralmente sui cittadini il peso della risposta alla crisi.
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Internet e social media prima e dopo il Coronavirus
Fraintendimenti e deviazioni che tradiscono la democrazia sociale
di Alessandra Valastro
1. La prova di Internet e dei social media nell’emergenza del 2020: una vittoria o un disvelamento? Qualcosa non torna
Pasquale Costanzo ha sempre affermato che Internet è strumento e non diritto, mezzo e non fine: un mezzo strumentale all’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti, e come tale insuscettibile di essere considerato oggetto di un diritto a sé stante.
Ragionando sul “posto” di Internet nell’ordinamento costituzionale italiano, egli ha invitato a resistere alla tentazione di riconoscere alle pur straordinarie caratteristiche della Rete «capacità nomopoietiche tali da accreditare senz’altro la comparsa di un nuovo, autonomo e, secondo taluni, fondamentale diritto individuale, identificabile con quello di accedere al mezzo»[1]. La rilevanza costituzionale di Internet comincia e finisce nel suo essere strumento, come tale «connotato dalla stessa libertà di qualsiasi altro mezzo idoneo ed efficace per l’esercizio di diritti costituzionalmente guarentigiati». Ciò significa che la natura servente di Internet non muta, e non deve mutare, qualunque sia la tipologia dei diritti che la Rete si accinge a servire (civili, politici, sociali, economici); ed anche quando l’accesso ad essa valga a contribuire alla rimozione degli «ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, comm 2, Cost.)”»[2].
Mai come oggi questo assunto si manifesta in tutta la sua esattezza, sobrietà, lungimiranza.
Eppure, allo stesso tempo, mai come oggi si ha la sensazione che qualcosa non torni.
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Politica-struttura e socializzazione delle perdite
di Alessandro Pascale e Roberto Sidoli
Nel capitalismo di Stato contemporaneo assume ormai un ruolo sempre più importante la praxis e la regola antiliberista della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite a favore dei grandi monopoli privati. Si tratta di un segmento della sfera politica borghese nella quale emerge con particolar evidenza, a partire dal 1929, la funzione concreta assai rilevante svolta da quest’ultima in qualità di “espressione concentrata dell’economia” (Lenin, 1921) e della politica-struttura, intesa come l’insieme delle azioni materiali degli apparati statali che modificano e influenzano in prima persona, in modo più o meno costante e con effetti sensibili, proprio il processo di produzione delle variegate formazioni economico-sociali di matrice capitalista.
A tal proposito l’inizio del 2020 ha mostrato una vera e propria orgia di aiuti statali e parastatali (quali le banche centrali degli USA, dell’Europa e del Giappone) a favore delle grandi imprese private, dei “too big to fail” delle metropoli imperialistiche, demolendo e ridicolizzando – come durante la gravissima crisi economica e finanziaria del 2007-2009 – per l’ennesima volta la logora favoletta relativa alle presunte virtù taumaturgiche del libero mercato e della sua presunta “mano invisibile”. Molto visibile e concreta, viceversa, si è rilevata la “mano” e la pratica politico-economica dell’amministrazione Trump, a favore della finanza e dei grandi trust statunitensi.
– Negli USA
Secondo Fabio Scacciavillani, professore di economia e commercio alla Luiss di Roma, il ruolo della banca centrale negli USA è di «garantire i profitti della Borsa», piuttosto che di «assicurare la stabilità dei prezzi».
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Il lavoro e le macchine
di Andrea Cengia
Raniero Panzieri: Politica, etica e teoria come coordinate dell’azione
Nel 2021 ricorrerà il centenario della nascita di Raniero Panzieri, padre nobile dell’operaismo italiano e fondatore dei Quaderni Rossi. Per l’occasione ombre corte pubblica Il lavoro e le macchine. Critica dell’uso capitalistico delle macchine, una raccolta di scritti di Panzieri a cura di Andrea Cengia. Pubblichiamo qui un estratto dall’introduzione. Ringraziamo l’editore e l’autore per la collaborazione e ricordiamo che il libro si può acquistare e ordinare direttamente sul sito di ombre corte, in libreria e negli store online. Sosteniamo sempre l’editoria indipendente, in modo particolare ora. Rimettere in circolazione classici del pensiero critico e militante è un progetto culturale e politico indispensabile per ricominciare a respirare.
* * * *
A quasi cento anni dalla sua nascita, vengono qui proposti alcuni articoli e saggi di Raniero Panzieri che, lungi dal rappresentare esaustivamente la sua intera produzione, hanno lo scopo di riaprire un dialogo con il suo patrimonio di esperienza politica, teorica e culturale. Senza entrare nel dettaglio della sua straordinaria, quanto difficile biografia, occorre ricordare brevemente che Raniero Panzieri, nato nel 1921, è stato all’origine un dirigente del Partito socialista italiano (Psi) appartenente alla corrente di Rodolfo Morandi con il quale ha sviluppato una forte intesa politica e culturale.
Durante l’esperienza di partito egli ha avuto modo di toccare da vicino la condizione dei braccianti nel sud Italia per poi giungere, negli anni Sessanta, a conoscere i destini delle industrie del nord, spesso popolate da molti braccianti di quel sud che Panzieri aveva ben conosciuto. Nel 2021 ricorrerà il centenario della nascita e questa raccolta di saggi guarda a quell’anniversario non certo con un atteggiamento “memorialistico” o “monumentale”.
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Sovranità (monetaria) o barbarie
di Stuart Medina e Manolo Monereo
Non si può separare la politica monetaria da quella fiscale.
Ogni volta che ci si prova, le motivazioni di solito sono tutt’altro che innocenti e le conseguenze possono rivelarsi disastrose. Questa schizofrenia monetario-fiscale rappresenta spesso uno stratagemma per limitare il potere di uno Stato, subordinandolo a istanze antidemocratiche.
La moneta è un elemento fondante dei rapporti di potere non solo all’interno di uno Stato, ma anche fra gli Stati. L’architettura dei meccanismi di creazione e distruzione della moneta ha un effetto sulla possibilità di accedervi e, quindi, sulla sua distribuzione sociale.
In uno Stato capitalista, le banche, spesso private, sono autorizzate a operare in un altro circuito monetario che fa leva sulla moneta dello Stato. Il circuito inizia con la concessione del credito, che implica la creazione di depositi o di denaro bancario nel medesimo atto, e si chiude con il rimborso dei prestiti. Questo meccanismo conferisce un immenso potere alla classe capitalista perché gli permette di decidere quali risorse verranno mobilitate e quali attività economiche potranno realizzarsi. Ma allo stesso tempo, il sistema finanziario capitalista genera instabilità perché inanella cicli speculativi con periodi di depressione prolungati. Lo Stato capitalista crea categorie privilegiate che usufruiscono di un accesso privilegiato alla moneta per facilitare il processo di accumulazione.
Lo Stato dotato di sovranità monetaria può compensare l’instabilità del sistema finanziario con una rigorosa supervisione bancaria e agendo in chiave anticiclica grazie alla sua capacità di emissione illimitata che gli consente di pagare per i “cocci” quando scoppia una bolla.
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Tempo e Denaro. Risguardi. Franco Piperno interprete di Marx
Inviato da Eugenio Donnici
1. Nel periodo in cui ho vissuto nel campus dell’Università della Calabria accadeva, molto spesso, cosi come accadeva con i vecchi compagni di strada, nel piccolo borgo silano, di accostarsi alla teoria del valore-lavoro di Marx con un approccio intriso di curiosità, interesse, sete di conoscenza unita a un’attitudine a riconoscere la complessità del pensiero. Tutto ciò ci portava a percepire, inconsapevolmente, le complicate interpretazioni a cui questa teoria era stata sottoposta, finendo per farci abbandonare il campo. Anche perché si arrivava alla conclusione che bisognava continuare ad indagare, a studiare ed approfondire non solo l’opera del pensatore tedesco, ma anche tutte quelle opere i cui autori si erano cimentati, misurati con la coerenza della cosiddetta legge del valore-lavoro. Paradossalmente, è stato proprio quest’atto di uscir fuori dallo schema, di non seguire un programma lineare, che ha fatto riemergere il bisogno di riprendere quel cammino, in realtà mai interrotto completamente, e ricco di linfa vitale.
Complice di questo nuovo desiderio, di continuare ad indagare una teoria che ha dato luogo a molte controversie, in quella che viene definita una vera e propria «Babele del marxismo», nei suoi numerosi attacchi per scuotere la validità e quindi le fondamenta dell’intero impianto teorico che si regge su quella scoperta, è stato proprio un articolo di una delle menti più brillanti di quell’ateneo che, in qualche modo, mi ha colto in contropiede. L’articolo in questione è «Lavoro e tempo di lavoro in Marx», di F. Piperno, una persona che ha messo a disposizione del movimento operaio tutta la sua conoscenza scientifica. Piperno ha saputo guardare lontano ed è riuscito ad incidere nella politica, pagando un prezzo molto elevato. Quando nell’Università della Calabria fecero irruzione i gendarmi, sequestrarono e distrussero libri come «La rivoluzione terrestre». Egli, com’è noto, riuscì a rifugiarsi in Francia, evitando le maglie della rete del Teorema del 7 aprile.
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Pandemia logistica
La crisi vista dalle infrastrutture del capitalismo avanzato
di ACTA
Pubblichiamo la traduzione del testo Pandémie logistique. La crise sanitaire depuis les infrastructures du capitalisme avancé scritto da ACTA. Una lettura utile e puntuale sul paradossale statuto della logistica emerso con evidenza in questa crisi, il suo essere presentata al contempo come causa della diffusione pandemica e come sua possibile 'soluzione'. Nell'articolo si discutono inoltre i conflitti che si stanno producendo nel "settore" logistico (che in Francia impiega ormai un quarto della forza lavoro), nella loro rilevanza 'essenziale' sia dal punto di vista del capitale che da quello di classe.
Ogni crisi - sia essa economica, politica o sanitaria - aggrava e rende visibili le strutture, le logiche profonde e le contraddizioni di una società data. In quello che stiamo vivendo, la logistica si sta affermando ancora una volta come campo strategico e come “tallone d'Achille” dell'economia globalizzata. Dai lavoratori nei magazzini catapultati in “prima linea” alle catene di fornitura globali che diffondono il virus, dagli aerei da carico che consegnano maschere dalla Cina agli scandali sanitari nei magazzini, il settore della logistica prende in prestito a turno l'immagine del salvatore e del colpevole. Al fine di individuare linee di analisi e prospettive di intervento politico, a metà marzo è stata avviata un'indagine collettiva, attraverso la creazione di un Gruppo di indagine logistica (GEL). Questo testo è la prima sintesi di un lavoro collettivo ancora in corso.
* * * *
Pandemia just-in-time
Più che mai, l'attuale crisi sanitaria mette in evidenza la “logisticizzazione” del mondo. La pandemia segue le rotte del commercio mondiale e fa parte di una generazione di virus la cui nocività non è tanto contenuta in nuove forme biologiche quanto in modalità accelerate di trasmissione e circolazione. Viaggiando su esseri viventi o oggetti, su camion, autobus, aerei o navi da carico, nei mercati, negli aeroporti e nelle metropoli, il Covid-19 si inserisce in ogni poro (e porto) delle economie globalizzate. Segnando le infrastrutture del capitalismo di un’impronta virale, esacerba e rende visibile la loro nocività.
La dipendenza fondamentale del capitalismo dalle infrastrutture logistiche globali ha provocato reazioni politiche contraddittorie, che inizialmente hanno consistito nel brandire la chiusura delle frontiere, come se la pandemia fosse sensibile ai riflessi nazionalistici.
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... E Mes-sia!
di Massimiliano Bonavoglia
Con la sentenza del 5 maggio, la corte costituzionale tedesca ha sostenuto che la BCE, nell’attuare misure come il Q.E. voluto da Draghi dal 2015 che applicavano il whatever it takes, abbia infranto la misura della proporzionalità nel sostenere i Paesi dell’eurozona. Non solo, si è anche rivolta sia al governo tedesco, sia al parlamento tedesco, rilevando che queste istituzioni nazionali non hanno vigilato ed eccepito in merito, a difesa degli interessi nazionali. Non solo. Si è anche rilevato che la corte di giustizia europea non ha vigilato sull’operato della BCE e non ne ha limitato l’azione. Quindi riassumendo, in una articolata e complessa sentenza, la corte costituzionale tedesca, ossia il massimo organo giuridico nazionale di un paese europeo, anzi, del paese egemone in Europa, ha criticato diverse istituzioni nazionali e internazionali: il parlamento tedesco, il governo tedesco, la BCE e la corte di giustizia europea. Nessuna di queste quattro istituzioni, due nazionali, due europee, hanno fatto il proprio dovere secondo la corte costituzionale tedesca. Nonostante i numerosi trattati europei, dice la corte tedesca, la sovranità spetta ancora agli Stati nazionali che hanno solo conferito mandati con la sottoscrizione dei trattati, per spazi d’azione limitati che, qualora dovessero risultare violati da parte della azione della BCE, o del MES, che ne sostituisce l’azione di politica monetaria attraverso la politica economica di aggiustamenti macroeconomici per i Paesi in difficoltà, la corte costituzionale tedesca si riserva il compito di indagare e chiedere spiegazioni. Interessante che secondo la corte costituzionale tedesca, la sovranità appartiene ancora agli Stati della UE, non è stata ceduta a titolo originario, ma solo con un mandato, che in quanto tale è rivedibile. Si gettano le fondamenta per la Germanexit, in un conflitto istituzionale tra un Paese membro (e quale Paese!) e la Corte Costituzionale europea delegittimata e messa sul banco degli imputati. Lo stesso per la banca centrale europea.
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L’Italia è sull'orlo del fallimento. La schiavitù non sia il nostro destino
di Alberto Bradanini*
Ultimo editoriale dell'Ambasciatore Bradanini: "Un altro mondo è sempre possibile. La sfera finanziaria risponda dunque a quella politica. I mercati siano governati dallo Stato e non viceversa."
L’Italia è sull’orlo del fallimento. Nella giungla di quesiti che stringono d’assedio la mente del cittadino davanti al vuoto d’orizzonte dei dirigenti alla guida del Paese risulta centrale comprendere il rapporto tra sistema monetario e finanza sovranazionale, poiché dietro un’apparente neutralità tecnica si nasconde l’eterno bisogno patologico di dominio e colonizzazione. Di tale tecnicismo imposto fanno parte la narrativa ‘endogena del vincolo esterno’ (un incomprensibile ‘fuoco amico’ del nostro ceto dominante contro il lavoro e l’ingegno degli italiani), la leggenda di una maggiore efficienza della nostra economia all’interno dell’eurozona (contro l’evidenza dei dati su potere d’acquisto, lavoro stabile, investimenti pubblici e via dicendo rispetto ai tempi della gloriosa lira) e il mito di un’Unione Europa meglio attrezzata per costruire una società più libera e più giusta, mentre è limpido come il sole che essa è strumento di dominio delle élite finanziarie sovranazionaliste, il cui obiettivo è la distruzione della statualità nazionale, ultimo baluardo a difesa dei beni sociali e dei ceti più deboli.
La forma, affermava un grande scrittore del secolo scorso, è la sostanza visibile dell’esistenza. La differenza, ancora una volta, la fa la consapevolezza. Se non possiamo sfuggire alla sofferenza, vorremmo almeno guardarla negli occhi. Alle prese con una transizione politico-sociale che lascerà profonde cicatrici, la coscienza di ciò che scorre nelle vene profonde è il punto d’inizio della riscossa. Un aspetto preliminare/fondamentale è quello che il pensiero classico cinese chiama ‘rettificazione dei nomi’, un percorso di ragione emotiva (si perdoni l’ossimoro), affinché le parole usate corrispondano alla realtà descritta. Un’apparente banalità, che fornirebbe tuttavia un prezioso ausilio, nei limiti della sua praticabilità, per combattere le ingiustizie del mondo.
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La fine del lavoro: versione Postone o Castoriadis?
di Bernard Pasobrola
Moishe Postone,con il suo libro "Tempo, lavoro e dominio sociale" è stato uno degli ispiratori del gruppo di teorici tedeschi riunito intorno alla rivista Krisis. Questo gruppo, nato nel 1986 a Norimberga, ha incentrato la sua riflessione sulla teoria del valore di Marx e poi, grazie soprattutto a Robert Kurz, sulla critica del lavoro e del "feticismo della merce". Il legame teorico con la Scuola di Francoforte è esplicito, soprattutto con Adorno e con il suo allievo Hans-Jurgen Krahl. La partecipazione di Anselm Jappe, ha poi contribuito ad accentuare il riferimento all'Internazionale Situazionista, in particolare a Guy Debord.
Postone cerca di scoprire quale sia l'essenza del capitalismo a partire dalle categorie critiche del Marx della maturità, proponendo una «ri-concettualizzazione del capitale che fondamentalmente rompe con il quadro tradizionale di interpretazione marxista». Per lui, Marx utilizza il termine merce «per designare una forma storicamente specifica di relazione sociale, costituita come una forma strutturata di pratica sociale, che allo stesso tempo è il principio strutturante delle azioni, delle visioni del mondo e della disposizione delle persone». Postone aggiunge che la «specificità del lavoro nel capitalismo consiste nel fatto che esso media le interazioni umane con la natura, così come le relazioni sociali tra le persone».
La sua griglia analitica fa uso perciò di quelli che sono dei concetti piuttosto ortodossi (merce, capitale, lavoro, valore...), ma si sforza però di determinare quale tra loro sia quello che svolge il ruolo di vero principio strutturante, o di vera mediazione, che renda razionale il sistema.
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Mascherine: essere nessuno e odiarsi − Silvia Romano: mamma li turchi!I − Bonafede: Stato-mafia 2.0
di Fulvio Grimaldi
Due eventi avevano promesso di interrompere l’uragano terroristico, intimidatorio, manipolatore, unanimistico, squadrista, a giornale e schermo nazionali uniti (al guinzaglio del New York Times, organo di Soros, Gates e del profeta Malachia) e di farci eremgere, almeno con il naso, dal pantano di spazzatura politica e morale in cui ci hanno affondato.
Sprovveduta, ma santa subito
Invece niente. I due eventi ci hanno ricacciato col naso, gli occhi e le orecchie sotto, nella melma della propaganda falsa, bugiarda e ipocrita. Una retorica sgocciolante di emozioni farlocche (esaltazioni), che Mario Appelius, la voce tonante di Mussolini (“Dio stramaledica gli inglesi!”), era al confronto un sommesso ora pro nobis di beghine nella cappella laterale. Un trionfo epocale del regime e, dunque, a loro avviso, della nazione tutta, la liberazione della povera Silvia Romano. Povera perché, con ogni evidenza, travolta dagli avvenimenti costruitile addosso. E giustamente soddisfatta per essere tornata a casa dopo 18 mesi. 18 mesi durante i quali aveva capito che la ragione di chi l’aveva spedita a far girotondi con bambini neri, non era altro che una miserabile operazione colonialista in linea con quelle che, da qualche secolo, i bianchi cristiani infliggono ai diversi per fregargli radici, identità, cultura, fede, e farli sentire beneficati da alieni di qualità superiore (che poi gli avrebbero fregato anche il resto). Per cui s’è fatta musulmana, cioè della religione dei cattivi, malmessi e inferiori. Brava.
Con raccapriccio rivedo l’accoglienza all’aeroporto, tutti addosso a Silvia intabarrata nella veste islamica somala, ad abbracciarsi e baciucchiarsi, alla faccia dei tecnoscienziati e del loro banditore.
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Capitalocene
di Salvatore Bravo
L’epoca del Capitalocene è il regno della produttività e delle scissioni. Il Capitalocene con la conseguente crisi ecologica è la manifestazione più evidente di un processo che ha il suo centro nella trasformazione della natura e degli esseri umani in risorse per la valorizzazione. La natura, ma si potrebbe aggiungere anche la comunità umana, dal capitalismo regnante è giudicata “esogena” e pertanto sostanza altra, scissa dalla totalità, la cui unica finalità è di essere trasformata in valore di scambio. La scissione diviene “visione del mondo” (Weltanschauung) al punto che il soggetto si autopercepisce come abitato da due sostanze in relazione gerarchica tra di loro: res cogitans e res extensa. Il Capitalocene è il pungolo nella carne che disfa le unità per strutturare relazioni di dominio. L’esternalizzazione della natura, e dunque la separazione tra il “soggetto occidentale” e la “natura” è radicata nella relazione tra mente e corpo, la prima ridotta a solo cervello, da controllare e capire attraverso schemi anatomici applicati, il secondo a semplice corpo meccanico da modellare ed ostentare al fine di fondare relazioni di dominio e visibilità. Lo sfruttamento, in tal modo, è sistemico, niente e nessuno sfugge dalla valorizzazione. La rete della matematizzazione diviene il modello unico a cui ogni ente deve sottostare. Il dominatore in tale contesto è anche dominato, poiché si autopercepisce e si decodifica unicamente secondo parametri di ordine efficientistico e produttivo. Ogni linguaggio e visione altra è cancellata in nome della produttività. Il Capitalocene assimila energia, include per omologare. In tale processo il modello unico assimila le altre culture e visioni, mediante il fascino acritico del calcolo, della produzione, dell’eccedenza: il valore d’uso è sostituito dal valore di scambio.
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Un culto di morte
di Il Pedante
I do not believe that a nation dies save by suicide. To the very last every problem is a problem of will; and if we will we can be whole.
(G.K. Chesterton)
I.
Non è facile commentare il periodo che stiamo attraversando. Mentre i più lo traducono nelle cronache e nei bollettini sanitari di una malattia che circolerebbe dall'inizio dell'anno, qualche avanguardia critica si spinge a denunciare gli errori con cui sarebbe stata gestita la collegata emergenza. È però ormai evidente che le reazioni e i pensieri innescati dalla patologia virale, su cui pure si fissa disciplinatamente il dibattito, evidenziano le piaghe di una patologia antropologica più vasta da cui emergono i limiti, se non forse anche la fine, di un intero modello antropologico e sociale.
Per restare nel dominio semantico che tiene banco, prima di valutare le cause e i rimedi occorre dare una chiara descrizione dei sintomi. In punto di fatto, la sospensione delle attività sociali oggi imposta per arginare la trasmissione di un virus non ha precedenti in tempi di pace e forse anche di guerra, scaricandosi ora l'intero potenziale offensivo e difensivo dello Stato sulla sola popolazione civile. Il combinato delle misure in vigore ha creato le condizioni di un esperimento, inedito per radicalità e capillarità, di demolizione controllata del tessuto sociale che parte dai suoi atomi per diramarsi verso la struttura. Alla base sono colpiti gli individui: terrorizzati dall'infezione e dalle sanzioni, braccati nella quotidianità con un accanimento e un dispiegamento di mezzi che è raro riscontrare nella repressione dei crimini più efferati, segregati tra le mura domestiche, allontanati dai propri cari, isolati nella malattia e nella morte, istigati alla delazione e al terrore - quando non direttamente all'odio - del prossimo, privati dei conforti della religione, senza istruzione, costretti alla disoccupazione e a vivere dei propri risparmi nell'attesa di un'elemosina di Stato, stipati come bestie in batteria e ridotti ad abitare il mondo attraverso gli ologrammi gracchianti di un telefonino.
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Storia di due marxismi: in ricordo di Erik Olin Wright
di Michael Burawoy
Un saggio, due autori: attrezzi per leggere il presente e per trasformarlo
Questo scritto, in cui Michael Burawoy[1] traccia un rigoroso profilo intellettuale del collega e amico Erik Wright, è stato redatto per la conferenza in ricordo di Erik Olin Wright – scomparso nel gennaio 2019 – tenutasi l’1 e il 2 novembre 2019 all’Università del Wisconsin a Madison, dove Wright era stato docente nel Dipartimento di Sociologia e per circa quarant’anni direttore del Havens Center for Social Justice. Lì Wright aveva sviluppato nell’arco di alcuni decenni il suo programma di ricerca scientifica neo-marxista atta a rielaborare un’analisi di classe al passo con i tempi, progetto che all’inizio degli anni Novanta, a seguito di aporie scientifiche e mutamenti politici più generali, lasciò il posto al Progetto di utopie reali. Grazie a Erik Wright, il Havens Center è stato non solo un dipartimento universitario di assoluta centralità nel dibattito sociologico americano, ma un’autentica fucina di sociologia critica, crocevia di generazioni di ricercatori e attivisti da tutto il mondo, dove si fondono rigore scientifico e impegno politico.
Questo saggio è stato inviato da Michael Burawoy a Opm, e riproduce il testo pubblicato sul numero 121 della New Left Review, uscito nel febbraio 2020.
Burawoy è stato nel 2004 presidente dell’American Sociological Association – carica che anche Wright avrebbe ricoperto, nel 2012 – ed è tuttora docente in uno dei luoghi più rilevanti della produzione sociologica americana, il Sociology Department dell’Università di California a Berkeley.
L’importanza della traduzione di questo scritto è molteplice. Anzitutto, permette di far entrare nel dibattito pubblico italiano i due autori statunitensi, entrambi esponenti di una via “critica” alla scienza sociale, che mentre a livello globale hanno esercitato un’indiscussa influenza scientifica e intellettuale, nel nostro paese sono poco noti ai non addetti ai lavori.
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Il problema del debito privato e lo scopo del debito pubblico
di Marcello Spanò
L’emergenza pandemica, vista dalla prospettiva delle sue conseguenze economiche, ha portato in primo piano un problema sistemico che spesso, per ideologia o per ignoranza, nel dibattito pubblico viene lasciato sotto traccia: la questione del debito privato In seguito al prevedibile crollo del Pil di diverse economie, in primis quella italiana, il debito privato, in particolare quello delle imprese, rischia di diventare insostenibile
L’emergenza pandemica, vista dalla prospettiva delle sue conseguenze economiche, ha portato in primo piano un problema sistemico che spesso, per ideologia o per ignoranza, nel dibattito pubblico viene lasciato sotto traccia: la questione del debito privato. In seguito al prevedibile crollo del Pil di diverse economie, in primis quella italiana, il debito privato, in particolare quello delle imprese, rischia di diventare insostenibile.
Quello del debito privato è un problema che spesso viene trascurato in tempi di relativa tranquillità per riaffiorare (cogliendo regolarmente quasi tutti di sorpresa) in tempi di crisi. Molti economisti e regolatori si esercitano quotidianamente sul monitoraggio del debito pubblico, poiché questo è considerato, dalla tradizione accademica dominante, responsabile di diverse distorsioni e indebite intromissioni nel regolare funzionamento dei mercati che – sempre secondo tale tradizione – condurrebbe spontaneamente all’equilibro e all’efficienza allocativa. Come prova della presa che tale visione ha sulle decisioni politiche, basti riflettere sull’accanimento con cui i trattati e gli accordi presi in sede europea, da Maastricht al Patto di Stabilità e Crescita al Fiscal Compact, si sono dedicati al controllo dei disavanzi pubblici dei paesi dell’eurozona, e la negligenza con cui hanno considerato la dinamica dei debiti del settore privato, verso le banche domestiche e verso il settore estero. Di fatto, però, quando le crisi esplodono, rivelano sempre un problema di insostenibilità del debito privato. Il debito pubblico, invece, nei momenti di emergenza, non soltanto viene derubricato come una variabile di secondaria importanza, ma viene perfino invocato come una risorsa strategica per il salvataggio dal naufragio dell’intero sistema economico.
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E allora, viva, viva il debito!
di Raffaele Picarelli
Dopo decenni di dogmi, in tempo di crisi cade la maschera: il denaro di chi paga le tasse serve per socializzare le perdite dei profittatori privati. Ma una volta sanata l’azienda, lo Stato si levi di mezzo
Il grido di dolore
Non è tempo di guardare al debito (pubblico)! tuona Mario Draghi al “Financial Times” il 25 marzo scorso. Non è tempo di guardare al debito (pubblico)! gli fa eco il 29 aprile scorso il governatore della Fed Jerome Powell. Ma come? Per circa quarant’anni essi e i loro predecessori ci hanno martellato sulla necessità inderogabile di tenere i conti pubblici in equilibrio! Allora era tutto uno scherzo? No, era semplicemente lotta di classe: il liberismo e il monetarismo degli ultimi quarant’anni è stato il volto feroce del dominio capitalista nel mondo.
Il ‘rigore’ dei conti è stato il totem ideologico da cui è partito un poderoso attacco per lo sfruttamento planetario e senza limiti dei subalterni; per la massiccia riduzione (spesso scomparsa) di diritti, salari, servizi sociali; per l’estrazione massiccia di plusvalore e per l’appropriazione capitalistica della massa dei profitti. Ora, al tempo della Pandemia, dello sconvolgimento della società capitalistica, serve il denaro pubblico, il denaro di chi paga le tasse (ben sappiamo chi è), per salvare il sistema. E non solo il denaro pubblico di ora, ma dei prossimi anni (almeno 12 a leggere il DEF governativo approvato nei giorni scorsi dalle Camere).
E allora, viva, viva il debito! Soldi e capitali pubblici subito! Lo dicono tutti: imprese, governi, istituzioni economiche nazionali e internazionali. In tanti gridano spaventati che la base produttiva e fiscale potrebbe saltare, la società entrare in dinamiche fuori controllo, la riproduzione capitalistica avviarsi verso una crisi ingovernabile. Per queste ragioni, gridano fra i molti Carlo Messina, amministratore delegato di Banca Intesa, e Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, è ineludibile una rapida e mastodontica socializzazione delle perdite private.
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«Io non ho il minimo dubbio»
Il fallimento comunicativo di scienziati ed «esperti» nei giorni del Covid-19
di Roberto Salerno*
Sembra semplice: un virus ha fatto il salto di specie e da un animale si è trasferito all’essere umano. Appartiene alla famiglia dei coronavirus, diversa da quella dei virus influenzali. Per attaccare gli organi umani deve usare una delle tante cavità presenti nel nostro corpo: bocca, occhi, naso, ecc. Nel nostro organismo può entrare in due modi: o direttamente, grazie a un soggetto infetto che parlando emette goccioline che finiscono in una delle nostre cavità; oppure indirettamente, attraverso le nostre mani, se toccano prima una superficie infetta e poi una delle nostre cavità.
Su queste semplici affermazioni non esistono pareri discordi. Meglio segnarsele, perché sono le uniche.
Nel percorso da queste acquisizioni ai provvedimenti che hanno incatenato l’Italia e – con varie gradazioni e sfumature – il 75% dell’intero pianeta, la scienza ha offerto uno spettacolo di sé abbastanza desolante. Anzi no, non la scienza, poveretta, ma coloro che ritengono di “possederla”, e cioè un nugolo di persone che a vario titolo si ritengono – e vengono riconosciuti come – scienziati.
1. Medici, virologi, immunologi: poca roba, è un’ecatombe, pfui, moriremo tutti
Hanno cominciato i medici. Senza per forza arrivare ai casi che vi sono subito venuti in mente, e che afferiscono più allo show business politico-mediatico che alla scienza, possiamo notare che tra Maria Rita Gismondo, direttrice del laboratorio dell’ospedale Sacco di Milano, che dice «non voglio sminuire ma la sua (del virus) problematica rimane appena superiore all’influenza stagionale», e Andrea Crisanti, direttore del laboratorio di Microbiologia del policlinico di Padova, secondo cui «la mortalità è la stessa dell’influenza spagnola del 1918 che ha fatto milioni di vittime», ci sono tante posizioni quanti sono coloro che frequentano gli ospedali.
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La sentenza della Corte tedesca. Chi ha orecchie per intendere, intenda
di Vadim Bottoni
La Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe il 5 maggio ha emesso una sentenza che ha prodotto uno scossone nelle testate d’informazione internazionali, da Bloomberg al Financial Times, che l’hanno etichettata come “dichiarazione di guerra” o “bomba” verso le istituzioni dell’UE. I media nostrani sembrano invece ancora un po’ balbettanti, ma tant’è che la Corte tedesca ha inviato un vero e proprio diktat alla BCE per giustificare, entro tre mesi e alla luce di principi che vedremo poi, la parte più rilevante del famigerato Quantitative easing (più correttamente PSPP), avviato circa cinque anni fa.
Ci stiamo riferendo a quella misura di politica monetaria non convenzionale che agli occhi di molti aveva “minimamente” reso la BCE assimilabile alle Banche centrali degli altri paesi avanzati e che oggi, in piena crisi economico-sanitaria, rappresenterebbe l’ultimo baluardo di sostegno alle economie dei paesi del sud Europa.
Avviato nel 2015 il PSPP è un consistente programma di acquisto da parte della BCE di titoli emessi da Stati sovrani dell’Eurozona per contrastare il sentiero deflattivo segnato dal crollo della domanda aggregata imputabile, in gran parte, all’austerità imposta ai Paesi periferici dell’Eurozona, oltre che a un rallentamento generale dell’economia post-crisi. Alcuni dubbi accompagnarono tale misura, infatti diversi analisti sottolinearono tanto il ritardo nell’implementazione di una operazione considerata indispensabile quanto la criticità della mancata condivisione dei rischi, per volere innanzitutto della Germania: per tale criticità la grandissima parte dei rischi derivanti dall’acquisto titoli avrebbe dovuto essere sopportata dalle stesse banche centrali nazionali e quindi ricadere sui singoli Stati membri, nonostante il cosiddetto sistema unico delle Banche centrali che vede al vertice la BCE.
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Derrida comunista
di Leo Essen
C’è lutto anche in politica. E ad essere in lutto non sono i comunisti che hanno creduto di aver perso, con il socialismo reale, anche il sogno di un comunismo possibile. La mente va a Althusser, al ricordo che ne offre Élisabeth Roudinesco, quando, parlando dell’amico scomparso, accosta il suo destino a quello di tutta una generazione di comunisti che, di fronte al disastro del socialismo reale, vedevano inabissarsi il loro ideale ed erano costretti a rinunciare all’impegno militante, con il risultato di sprofondare nella malinconia. Il lutto come ossessione, come un fantasma dell’ossessione, come idealizzazione e reificazione, e la malinconia, come memoria di una perdita, non possano essere confinati al socialismo reale. Rispondendo a Roudinesco, Derrida dice di non credere che la «malinconia» di cui lei parla – questa mezza sconfitta che non è possibile in alcun modo ridurre né esaurire, questo atteggiamento di scacco strutturale che segna l'inconscio geopoltico dei nostri tempi – sia soltanto il segno del decesso di un determinato modello comunista. Esso, dice, non fa che riversare i suoi pianti, talora privi di lacrime e inconsapevoli, più spesso fatti di lacrime e sangue, sul cadavere della politica stessa. Piange quello che è il concetto stesso di politica nei suoi caratteri essenziali, oltreché in quei caratteri specifici propri della modernità – lo Stato nazionale, la sovranità, la forma-partito, la struttura parlamentare nella sua configurazione più diffusa.
Nel 2001, in questo dialogo con Roudinesco, (morirà nel 2004), Derrida parla del suo rapporto con Althusser, suo grande amico e maestro, coinquilino in Rue d’Ulm a Parigi, e dice di essere stato costretto per lungo tempo al silenzio. Un silenzio frutto di una scelta, ma non per questo meno dolorosa.
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Se l'attualità di Marx inquieta i liberali
di Marco Veruggio
Marx Revival. Concetti essenziali e nuove letture. A cura di Marcello Musto, Donzelli, 2019, 472 pp., 30 euro
Il recente volume miscellaneo Marx Revival testimonia come il pensiero di Marx possa essere ancora utile per affrontare lo studio dell’economia e della società capitalistiche, inclusi temi di grande attualità come migrazioni e nazionalismo. Il che forse spiega l’acredine con cui un autorevole filosofo liberale come Bedeschi su Il Foglio ha recensito la pubblicazione.
Il sottotitolo di questa ampia e varia miscellanea curata da Marcello Musto, docente di sociologia presso l’Università di Toronto, indica al lettore sin dall’inizio come di questo volume si possa fruire sia come introduzione all’opera di Marx per un pubblico neofita interessato ad acquisire familiarità con l’argomento prima di attaccare direttamente la lettura dei testi fondamentali, sia come testo di approfondimento e di aggiornamento per un pubblico già esperto, in chiave non esclusivamente accademica, ma con un’esplicita volontà di affrontare alcuni temi dell’odierna agenda politica riprendendo e attualizzando le categorie del materialismo storico e senza concessioni e nostalgie all’era del ‘socialismo reale’, perché – annota Musto nella Prefazione al volume – il modello di socialismo di Marx era una ‘associazione di liberi esseri umani’ e ‘non contemperava uno stato di miseria generalizzata, ma il conseguimento di una maggiore ricchezza collettiva e il soddisfacimento dei bisogni dei singoli’.
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