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Dall'utopia roosveltiana all'estorsione mafiosa: il declino della potenza americana
di Pino Arlacchi
[E' per noi di l'AntiDiplomatico un grande onore poter pubblicare quest'analisi di Pino Arlacchi, professore di sociologia generale, ex vicesegretario dell'Onu e uno dei massimi esperti di criminalità finanziaria a livello internazionale. Strumenti, metodi e comportamenti regolarizzati dalla prassi, non sanzionati dagli stati e che oggi sono, nella totale ignoranza dei cittadini per la censura sistematica del mainstream e per la complessità che li avvolge, le peggiori estorsioni che subiscono gli stati nazionali. Estorisioni che come scrive Arlacchi sono di tipo mafioso e che vede protagonisti gli Stati Uniti con la degenerazione iniziata negli anni'80.
In questo piccolo saggio Arlacchi ricostruisce la decadedenza della visione statunitense da Bretton Woods con il sogno di un "governo mondiale" da parte di Roosevelt all'estorsione di stampo mafiosa attuale attravero i due pilastri del dollar e del military a scapito del soft power. E' una lettura per comprendere tutti i possibili scenari futuri a livello di relazioni internazionali dopo la devastante crisi economico-finanziaria che si appresta a sconvolgere i già precari attuali].
* * * *
In questi tempi arroventati, si cercano i precedenti della crisi attuale e si discute molto, perciò, di Bretton Woods, la Conferenza del 1944 che ha rifondato l’ordine mondiale. Ma poiché la storia è sempre storia del presente, si trascura spesso di considerare la stretta connessione di Bretton Woods con la Conferenza di San Francisco che portò alla creazione delle Nazioni Unite l’anno successivo.
E si trascura di evocare la comune matrice: l’idea del governo mondiale. Una visione che dopo gli anni ’20 del Novecento era diventato molto popolare, promossa dai milioni di iscritti alle varie associazioni che ad essa si ispiravano e condivisa da grandi personalità.
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A maggio fioriscon le rose
di Militant
A maggio fioriscon le rose… e l’Occidente esce dall’ibernazione iniziata fuori stagione, quando già l’inverno era alle spalle. Nel farlo, non risponde tanto al richiamo di Madre Natura, ma a quello più prosaico del Profitto. Andiamo a vedere, però, se la quarantena del vicino è sempre più verde. Nel frattempo sono verdi le zone della Francia dove, dall’11 maggio in poi, si ritornerà alla libertà di movimento: l’intero Paese è stato diviso in zone colorate. Quelle rosse, come l’Île-de-France (la regione parigina, che da sola “pesa” dodici milioni di abitanti e che una volta era rossa anche per colore politico), dovranno attendere un altro po’. Le scuole riapriranno proprio l’11 maggio (anche nella zona rossa, per quanto domenica 3 maggio oltre trecento sindaci dell’hinterland parigino abbiano manifestato la loro contrarietà), mentre le università saranno ferme fino a settembre. I famosi “assembramenti” saranno consentiti non prima di metà luglio, mentre ancora non c’è un’indicazione precisa per i ristoranti, i cinema e quant’altro. Il confinement per gli anziani e i soggetti a rischio non era tecnicamente obbligato, ma “consigliato”. In tutto ciò, passa quasi in secondo piano – tanto da essere sottolineato solo dalla stampa di sinistra (che Oltralpe ancora esiste, a differenza dell’Italia), che il governo abbia prolungato fino al 24 luglio lo stato di emergenza sanitaria, che gli conferisce, di fatto, i pieni poteri, facendo saltare gli equilibri tra gli organi dello Stato, già piuttosto sbilanciati, tra l’altro, in un regime semipresidenzialista. In vista della riapertura del Paese, il ministro dell’Interno, ad esempio, ha elencato le numerose categorie di “agenti” che potranno erogare multe a chi non rispetterà le regole del déconfinement: riservisti (della polizia e della gendarmeria), agenti aggiunti di sicurezza, gendarmi volontari, addirittura “agents de sécurité assermentés”, che sarebbero una specie di guardie giurate. Facile passare, quindi, dall’emergenza sanitaria a quella sanzionatoria.
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Quarantena e distanza sociale dalla spagnola al coronavirus
di Stefano Latino
Spagnola 1918-1919
La mia formazione, di marcata impronta storica, mi ha spinto a ragionare attorno ad alcune pandemie del passato, in particolare l’influenza spagnola del 1918-1919, per cercare analogie e differenze con l’attuale covid-19. Mi propongo di riformulare la retorica della “centralità” delle misure di controllo sociale e delle quarantene nella gestione di questo tipo di emergenze a partire dai dati storici e da alcune considerazioni sulla gestione iniziale del covid-19 in Italia. La pandemia del 1918-1919 e quella del 2019-2020 appartengono a due ceppi virali differenti: influenza di tipo A-H1N1 la prima, mentre la seconda è compresa nella famiglia dei coronavirus. L’elemento principale che esse hanno in comune è il tipo di diffusione, che avviene per via aerea. Inoltre, la sintomatologia presenta esiti simili, con la morte che sopraggiunge a causa di una polmonite grave. Entrambi i virus hanno effettuato un percorso simile, in quanto derivano da un “salto di specie” dagli animali all’uomo: probabilmente una ricombinazione di agenti patogeni provenienti da suini e uccelli nel caso della spagnola, mentre da pipistrelli per quanto riguarda il covid-19. Detto ciò, va tenuta in considerazione la velocità di propagazione del contagio, che pare enormemente più alta nel caso della spagnola, poiché si stima che essa colpì un terzo della popolazione mondiale dell’epoca, provocando, secondo varie stime, dai 20 ai 100 milioni di morti.1 Cifre che oggi sembrano pura distopia, anche nelle previsioni più catastrofiste, se applicate al coronavirus odierno. La tragedia di cento anni fa è spiegata anche dal contesto storico in cui agì la pandemia, con l’umanità prostrata dalla Prima guerra mondiale che stava volgendo al termine.
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La sentenza di Karlsruhe del 5 maggio e l'evocazione del MES
Cosa vuole veramente la Germania?
di Quarantotto
Come già avvenuto per il precedente post, pubblichiamo un brano, del libro di prossima pubblicazione, concernente la più stretta attualità; si tratta di un estratto di alcune delle complessive considerazioni che derivano dall'analisi del contenuto e degli effetti della sentenza della corte costituzionale tedesca del 5 maggio 2020 (compiuta dopo la sua pubblicazione).
La parte qui riprodotta riguarda più direttamente il merito economico di tale effetti.
Ma, come vedremo, una disamina logicamente rigorosa fa emergere l'abile strumentalità (tattica), della presa di posizione ostentata con la sentenza, rispetto a un più ampio obiettivo: quello di restaurare la German dominance nell'Unione europea.
Un obiettivo che in realtà non esige neppure l'integrale recepimento da parte della BCE.
La Germania, infatti, alzando la posta in gioco nella contesa sulla flessibilità di applicazione delle regole dell'eurozona, si pone in una situazione win-win: da adesso in poi, la BCE e la Commissione dovranno assolvere un onere della prova molto più rigoroso riguardo alla necessità di interpretazioni flessibili ed "evolutive" del quadro normativo dell'eurozona.
E questo appesantimento delle cautele imposte per poter legittimare le varie forme di tolleranza nell'allentamento della morsa deflazionistica, rafforzandosi la priorità di un pronto ritorno alla logica del consolidamento fiscale, è già una vittoria per la Germania.
Quantomeno nel suo impatto sulla visione che, già di suo, possiede la classe politica italiana.
...
f) In coerenza con l’anomalia di quanto appena evidenziato, risulta pure il passaggio della pronuncia relativo alla specificazione degli effetti di politica economica il cui “proporzionale” accertamento sarebbe mancato da parte della BCE e che la CGUE sarebbe stata metodologicamente incapace di rilevare.
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Ammalarsi di paura
di Stefania Consigliere e Cristina Zavaroni*
L’«effetto nocebo» dello #stareincasa e della malainformazione sul coronavirus
[Sono trascorsi due mesi e mezzo da quando i giornali hanno dato la notizia del primo morto italiano per coronavirus, interrompendo la lunga serie di titoli dedicati a Renzi e alle liti di governo.
«Virus, il Nord nella paura», tuonava la prima pagina di Repubblica del 22 febbraio.
Da quel momento, i media italiani a reti unificate e la retorica dei governanti non hanno più smesso di ingigantire quella paura, di trasformarla in terrore, e soprattutto di renderla nociva.
Abbiamo a lungo ragionato sugli effetti e gli scopi di questa manipolazione delle nostre fobie, ma ancora non ci siamo soffermati a sufficienza sull’ipotesi che quei timori – ben comprensibili di fronte a una pandemia – siano diventati a loro volta un morbo, una patologia che s’è aggiunta al Covid19, abbassando le difese immunitarie della popolazione e rendendo il contagio più grave.
In svariati commenti ai post di queste settimane è emersa l’idea che l’esercito in strada, i toni dei ministri, la scelta e la presentazione dei dati, le homepage dei giornali abbiano contribuito a farci – letteralmente – ammalare di paura.
Questo articolo, scritto appositamente per Giap, affronta la questione dal punto di vista dell’antropologia medica e dello studio scientifico sull’effetto placebo e il suo contrario: l’effetto nocebo. WM]
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0. Il Covid-19 come macchina di visione
La migliore filosofia della nostra epoca lo insegna da anni: la grande partizione fra natura e cultura, fra regno dell’oggettività e regno dei desideri, non è che un costrutto moderno. Nell’impero del rilevamento e dei big data lo abbiamo (ri)scoperto a nostro danno: i fatti neutri non esistono; nessun dato è semplicemente “dato”, ogni dato è l’esito di una scelta osservativa, di un’interpretazione, di un’intenzione, di una politica.
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Lenin e la lotta all'opportunismo
di Tiziano Censi
I primi moti spontanei della classe operaia sorsero agli inizi del XIX secolo in maniera disorganica e priva di prospettiva dalle contraddizioni economiche generate dal nuovo sistema produttivo capitalistico. Era il tempo del Luddismo che portava i lavoratori alla distruzione dei macchinari percepiti come la causa più prossima del loro impoverimento. Al movimento operaio mancava, ancora, una teoria generale che riuscisse a spiegare i cambiamenti in atto e disvelasse i rapporti di proprietà che si celavano tra le maglie del progresso tecnologico, capace di dare una prospettiva rivoluzionaria alla lotta dei lavoratori. La formulazione di questa teoria la dobbiamo in gran parte al genio di Karl Marx, ma la scoperta delle leggi dialettiche dello sviluppo storico in quanto tali non aiutano il progredire della storia più di quanto la conoscenza della temperatura di ebollizione dell’acqua non aiuti a farla evaporare. Gli operai avevano una causa e un fine ultimo per cui lottare, era il tempo di elaborare la strategia che li avrebbe condotti a questi risultati.
Materia di dibattito nella storia del movimento operaio, da allora fino ad oggi, è stata la ricerca delle corrette pratiche, dei giusti principi sui quali organizzare i lavoratori e condurre la battaglia per il socialismo. Differenti valutazioni sulla strada da percorrere hanno più volte, nel corso degli anni, modificato le politiche, le parole d’ordine, gli indirizzi e i modelli organizzativi dei partiti comunisti in giro per il mondo, e non si può dire che questa discussione sia terminata, anzi, si ripresenta con maggior vigore di fronte alle difficoltà che lo squilibrio dei rapporti di forza odierni e le nuove sfide dello sviluppo capitalistico ci pongono innanzi. Tutt’oggi esistono nel movimento comunista internazionale visioni differenti sul ruolo che i comunisti dovrebbero interpretare nel teatro della politica.
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Complottology
di Daniele Gullì
“I fenomeni sociali sono frutto dell’azione umana, ma non della progettazione umana.” Adam Ferguson
Sono cresciuto guardando X-Files, Fox Mulder era il mio guru. In edicola compravo X-Factor - rivista che si occupava di enigmi, misteri, Ufo e fenomeni paranormali - e in età adolescenziale leggevo libri come Impronte Degli Dei e Il Mistero di Orione. Insomma, ho sempre avuto una perversa attrazione per le cosiddette realtà alternative. Non è nelle mie corde, quindi, approcciarmi, anche alla più stramba delle teorie, con pregiudizio e puzza sotto il naso. Anzi, per mio cruccio, tendo ad appassionarmene a tal punto da finire per conoscerla meglio di chi la diffonde compulsivamente.
Approccio dicotomico e mortificazione del confronto
Ho ritenuto necessaria questa premessa per svincolarmi preventivamente dalla semplicistica quanto generalizzata logica del tifo da squadra. La smania di assegnare le persone a compagini contrapposte - Guelfi vs Ghibellini, Buoni vs Cattivi o, come in questo caso, Complottisti vsManipolati dal Potere - svilisce ogni discussione. Pensiamo, ad esempio, all’attualissima, quanto degradante, discussione sui vaccini. Porsi delle domande in merito alle politiche nazionali sull’obbligo vaccinale, senza però buttare alle ortiche le conquiste umane in campo medico-sanitario, sembra diventato impossibile. Il polverone alzato dalle orde di NoVax per cui i vaccini non sarebbero altro che veleni iniettati per rimpolpare le casse di Big-Farm, e magari togliere di mezzo qualche poveraccio, inquina ogni ragionamento che voglia svincolarsi dalla contrapposizione dualistica.
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In perfetto Stato. Indicatori globali e politiche di valutazione dello Stato neoliberale
di Enrico Mauro
Ci sono diverse buone ragioni per leggere questo libro di Diego Giannone (IN PERFETTO STATO. Indicatori globali e politiche di valutazione dello Stato neoliberale, Mimesis, Milano-Udine, 2019) dedicato alla «trasformazione dallo Stato nazionale welfarista keynesiano allo Stato internazionale competitivo hayekiano» (p. 103, ma cfr. anche pp. 11 e 24-32). E sono tutte anticipate dal titolo e da un’«Introduzione» ben fatta, che consente al lettore, recensore o meno, di orientarsi rapidamente.
La prima ragione è il titolo, che sia in copertina che nel frontespizio compare in maiuscolo, sicché si può intendere sia come «In perfetto Stato» che come «In perfetto stato». Mentre la prima lettura è confermata dai frequenti riferimenti al «perfetto Stato neoliberale» (p. 16 e passim), la seconda è suggerita dal velo di ironia che copre, ispessendosi pagina dopo pagina, tutto il testo, ironia che nasce dalla dialettica tra una locuzione («In perfetto stato» appunto) che potrebbe essere il motto di una palestra o di un centro-benessere e una critica senza sconti allo Stato e all’ordine globale neoliberali-neoliberisti.
La seconda ragione è che la critica al neoliberalismo-neoliberismo si svolge sulle spalle di due giganti: Antonio Gramsci e Michel Foucault (le epigrafi che precedono l’introduzione sono tratte dai Quaderni del carcere e da Sorvegliare e punire). Si svolge, più precisamente, sulla base di un utilizzo congiunto dei due, volto a «mostrare come quello degli indicatori possa configurarsi sia come un potere di classe che come un potere di classificazione (p. 72, ma cfr. passim e specialmente il par. 3.2, dedicato a «Potere di classe e potere di classificazione»).
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Economia e società allo stremo: cosa si potrebbe fare
di Alberto Bradanini
Un acuto economista del secolo scorso affermava che la sola cosa più instabile dell’economia sono gli economisti. Un’osservazione questa che potrebbe estendersi alla politica se non fosse smentita dalla granitica stabilità dei nostri esperti e decisori politici su temi economici, tutti seguaci della medesima ideologia e in preda alla confusione davanti al dovere di restituire lavoro e speranza a un popolo alla deriva.
Il clero dei media – insieme agli ambienti, diciamo così, scientifico/accademici – tendono su questi temi a rovesciare la metodologia su cui si fonda la scienza: prima viene deciso il risultato da raggiungere, poi la strada per arrivarci. Per quanto seducente possa essere questo metodo, sarebbe bene ogni tanto guardare ai risultati. Il sentiero finisce in un baratro, ma a pochi viene in mente di cambiar direzione.
Vediamo qual è oggi l’assetto sociologico della nostra società. Gli strati alti del sistema navigano tranquilli anche durante il cattivo tempo, basta aspettare in coperta che torni il sereno, scaldandosi lo stomaco con un buon vino. Appena sotto troviamo coloro che in cambio di carriere e prebende, più o meno lecite, si adoperano per sostenere la punta della piramide: hanno un lavoro stabile e protetto, guardano il mondo con ottimismo, non si lasciamo prendere dallo sconforto. Più in basso la maggioranza, precari, occupazioni di sopravvivenza, futuro famiglie e figli quanto mai incerti, una pensione da fame se mai arriverà, vite che non avremmo sognato.
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Introduzione al confronto con gli economisti austriaci
di Bollettino Culturale
Un vantaggio nel discutere con gli economisti austriaci è che, a differenza dei neoclassici moderni, sostengono che è necessaria una teoria del valore e che, inoltre, le domande fondamentali non vengono risolte facendo appello a formulazioni matematiche, come nel caso del soliti manuali microeconomici. Per questo motivo, la controversia ruota attorno a principi concettuali fondamentali.
L'idea prevalente degli economisti austriaci è che il valore derivi dall'utilità che il consumatore attribuisce al bene che acquista. Pertanto, l'accento è posto sul rapporto dell'individuo con i suoi bisogni e il bene. "Il valore dei beni si basa sul rapporto dei beni con i nostri bisogni, non sui beni stessi", scrive Menger. Di conseguenza, il valore "è il significato che beni specifici o quantità parziali di beni acquisiscono per noi, quando siamo consapevoli di dipendere da essi per la soddisfazione dei nostri bisogni.”
La valutazione del consumatore consiste nel preferire un particolare incremento di un bene rispetto a incrementi di altri beni (un modo per evitare l'obiezione nota come "il paradosso del diamante e dell'acqua"). L'individuo stabilisce una scala o una classifica delle preferenze e i prezzi sono il riflesso di questa scala.
Pertanto, e sempre secondo gli austriaci, il valore non può essere prodotto. Respingono la tesi secondo cui il capitale genera valore e che l'interesse è spiegato dalla produttività marginale del capitale o che il salario è uguale alla produttività marginale del lavoro. Come spiega Böhm Bawerk, la produzione genera solo beni che hanno valore in base alla valutazione che ne fanno i consumatori.
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Covid sfida la scienza ad aprirsi alla società e alla complessità
di Fabrizio Bianchi, Liliana Cori, Luigi Pellizzoni
Le ipotesi ai tempi del Coronavirus sono un capitolo affascinante e potrebbero dare origine a un’enciclopedia praticamente infinita. Danno conto di una grande vivacità intellettuale, del desiderio di molti di contribuire a trovare soluzioni per uscire dalla crisi e si alimentano su una circolazione vorticosa di informazioni. Le ipotesi emergono, vengono moltiplicate, talune rimangono sospese, altre discusse perché confermano convinzioni consolidate o le ribaltano a sorpresa, sollecitano reazioni o smuovono emozioni. E in questo periodo la necessità di attrarre l’attenzione è massima, perché si parla sempre e solo dell’emergenza in corso, e chi accede ai media tradizionali o ai social lo fa per avere notizie, capire gli andamenti, immaginare le prospettive. Lo testimonia l’enorme ascolto del bollettino quotidiano delle 18 della Protezione Civile, che ha fatto familiarizzare i più con materie quali l’epidemiologia, la virologia, la modellistica.
D’altra parte, i media, si sa, vanno alla ricerca di emozioni e sollecitano aspettative, e spesso aumentano la percezione del rischio, l’incertezza e la paura, come abbiamo scritto qui. I ricercatori sono sollecitati a dare risultati nuovi e le ipotesi si moltiplicano, si accumulano, si modificano con velocità straordinaria, soprattutto quando donne e uomini di scienza vengono interpellati come esperti, devono quindi rispondere su tanti aspetti diversi da quelli che hanno coltivato a fondo, e le loro idee vengono proiettate in diretta nell’agone delle decisioni politiche.
La scienza è presente nel dibattito, i cittadini e i portatori dei diversi interessi si affacciano e prendono la parola, e l’occasione va colta al volo per aprire ancora di più la scienza al dialogo con la società, sulle domande di ricerca, sulla genesi e l’uso delle ipotesi.
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Epidemia tra norma ed eccezione
di Carlo Galli
1. La tematica del caso d’eccezione è stata elaborata da pensatori anti-liberali, di destra di sinistra, da Schmitt a Benjamin, da Donoso ad Agamben, da Sorel a Tronti. Il “caso d’eccezione” è stato faticosamente raggiunto come la vetta di un monte, dopo un’angosciante scalata. È un concetto estremo, destrutturante, in quanto dimostra che l’essenza di ogni ordine sta nel potere di creare disordine. In altri termini, che la sovranità è regolatrice, in uno spazio determinato, perché ha inizio dal “non-ordine”, perché ha davanti a sé una materia, i cittadini, omogenea e indifferenziata, infinitamente plastica, che può essere ordinata e disordinata in mille mutevoli differenze, con molteplici classificazioni, in infiniti sbarramenti e infinite aperture. Questo legare e slegare, questo “far ordine nel fare disordine”, e viceversa, è l’opera della decisione sovrana.
Invano il mondo liberale nei suoi sviluppi ha voluto riempire lo spazio vuoto della sovranità con solide “sostanze” non disponibili all’agire sovrano: le persone e i loro diritti, i corpi elementari o secondari, insomma, la società. Invano il pensiero dialettico ha mostrato che la sovranità è l’espressione di una vita complessa, storica, di intense contraddizioni reali, che non è solo il potere decidente nel suo assoluto formalismo ma è egemonia, dominio articolato. E al contempo è strumento di azione orientata all’autonomia collettiva, alla rivoluzione come apertura al nuovo.
Davanti a tutto ciò il pensiero dell’eccezione sgombra il campo con piglio irresistibile: la verità della politica moderna è il gesto che ripropone l’origine, è la folgore dell’a decisione, l’insorgenza del potere costituente, il cuneo della rivoluzione che spacca la storia.
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Scarsità e redistribuzione del lavoro
Leo Essen intervista Giovanni Mazzetti
In questa fase di crisi sanitaria, che si sta trasformando in crisi economica e dell’occupazione, il tema della redistribuzione del lavoro e della riduzione della giornata lavorativa emerge con forza. La posta in gioco è immensa. Il numero dei disoccupati cresce come non mai dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Che fare?
Vogliamo tornare al mondo di prima, sperando di riacciuffare il lavoro perso, anche se si trattava di un lavoro pessimo e mal pagato? Oppure vogliamo prendere atto che il mondo della produzione è nelle nostre mani, che c’è bisogno di un cambio di paradigma, che c’è bisogno di assumere i cambiamenti già avvenuti nelle cose, maturando nuovi rapporti?
Sono domande che ci poniamo tutti, e che ho rivolto a Giovanni Mazzetti, già Professore di Economia Marxista all’Università della Calabria, Presidente del Centro Studi e Iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e redistribuzione del lavoro complessivo.
* * * *
In questi giorni di emergenza la preoccupazione di trovare vuoti gli scaffali dei supermercati è grande. Oggi, più di ieri, è evidente che la nostra sopravvivenza di persone e di lavoratori è legata a quella di altri lavoratori. Si può andare oltre la divisione del lavoro, e assumere un atteggiamento, per così dire, autarchico, oppure si deve interpretare la divisione del lavoro entro un nuovo paradigma sociale?
Il lavoro particolare, unilaterale, è stato il punto di partenza della condizione umana. Vale a dire che i nostri lontani antenati hanno imparato a praticare la produzione in una miriade di forme diverse, ciascuna delle quali era appannaggio solo di questo o quell’organismo locale (tant’è vero che nelle popolazioni meno sviluppate il concetto astratto di lavoro non esiste.)
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Il virus che c’era già. Neoliberalismo e pandemia
di Fabrizio Capoccetti
La situazione in cui ci troviamo a vivere da due mesi a questa parte è estremamente difficile, anche se, tuttavia, non è mai stata improbabile; e ciò perché, se – come capita spesso di leggere – in un mondo globalizzato è «naturale» incorrere in virus e pandemie, a giudizio di chi scrive a non essere «naturale» è proprio la vita in un mondo globalizzato, o che si concepisce come tale. Il mondo non è un flipper in cui milioni di persone possano spostarsi come biglie impazzite da un angolo all’altro del «globo» e, con il loro stile di vita, far girare come trottole merci, cose, persone e virus. Il «villaggio globale» non esiste se non come distopia – ahinoi – già realizzata, in cui a imporsi è il multiculturalismo, un’ideologia intrinsecamente «debole»[i] che «divide e indebolisce»[ii]; un’ideologia che ha finito per indebolire i più deboli e favorire i più forti. La «società aperta»[iii] e globalizzata si è rivelata essere – come osserva il geografo francese Christophe Guilluy – «la più grande fake news degli ultimi decenni»[iv], null’altro che l’arroccamento delle classi dominanti in un «mondo di sopra» chiuso «nei suoi bastioni, nei suoi lavori, nelle sue ricchezze»[v], eretto sulle macerie di un «mondo di sotto»[vi] espropriato dei mezzi necessari e indispensabili a poter garantire la tenuta dei legami sociali.
Si tratta di un fenomeno inedito, una rottura storica che inaugura l’«epoca della a-società»[vii], una società «delle minoranze e delle maggioranze relative»[viii], in cui non vi sono più né distinzioni sociali né culturali; una rottura che non passa più attraverso la lotta frontale delle classi sociali, bensì attraverso la sua negazione: «un gioco di specchi che con astuzia produce la progressiva invisibilità dei più umili»[ix].
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COVID Marx, per un comunismo pandemico
di Fabio Ciabatti
Il distanziamento sociale cui ci costringe l’epidemia da COVID-19 si configura, a prima vista, come la versione più estrema dell’isolamento individualistico tipico della società borghese. Il mondo che stiamo vivendo ci appare popolato da atomi che evitano qualsiasi rapporto sociale con gli altri atomi, fatti salvi quelli strettamente utilitaristici, necessari a soddisfare i bisogni materiali essenziali. Stando così le cose, sembriamo proprio fottuti, intrappolati come siamo in un sogno che non è il nostro. E’ il sogno di Margaret Thatcher: “La società non esiste. Ci sono solo gli individui, uomini e donne, e le loro famiglie”. Ma è davvero così?
Per rispondere a questa domanda partiamo da una famosa affermazione di Marx: “L’uomo è nel senso più letterale uno zoon politikon, non soltanto un animale sociale, ma un animale che solamente nella società può isolarsi”. Queste parole, seppur scritte nell”800 per polemizzare con le “robinsonate” degli economisti borghesi, possono aiutarci a comprendere qualcosa della crisi attuale. Per capire come sia possibile, aggiungiamo un’altra affermazione dello stesso Marx, immediatamente precedente a quella prima citata, che riporto di seguito con una piccola variazione: “l’epoca che genera questo modo di vivere, il modo di vivere dell’individuo isolato, è proprio l’epoca dei rapporti sociali (generali da questo punto di vista) finora più sviluppati” (nell’originale al posto della parola “vivere” si trovava “vedere”).1
Quello che vorrei sostenere è che, per quanto paradossale possa sembrare, per isolarci al massimo al fine di evitare il contagio abbiamo bisogno del livello più alto possibile di sviluppo dei rapporti sociali. Non siamo in una società che si basa su piccole unità produttive sostanzialmente autosufficienti dal punto di vista della produzione dei beni di prima necessità, come poteva essere la società contadina precapitalistica.
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La monetizzazione del disavanzo nella letteratura macroeconomica recente (pre e post-Covid)
di Fulvio Corsi*
Cenni sul funzionamento dell’attuale sistema monetario
Già prima dell’arrivo del COVID-19 le principali economie europee, nonostante gli enormi interventi di politica monetaria (tassi zero o negativi e QE), si trovavano in una grave condizione di stagnazione associata ad un pericoloso rischio di deflazione. L’arrivo dello shock COVID-19 ha enormemente aggravato la già delicata situazione trascinando le economie di tutto il mondo in un profonda recessione con una ancora più accentuata dinamica deflazionistica. E’ evidente a tutti gli osservatori che imponenti misure di sostegno e stimolo all’economia sono urgentemente necessarie. Purtroppo però, soprattutto in Europa, le tradizionali misure di stimolo dell’economia erano già risultate largamente insufficienti persino nel periodo di stagnazione pre-Covid. Risulta quindi difficile pensare che questo tipo di misure possano consentire di affrontare adeguatamente la fase, molto più critica, di recessione economica post-Covid.
Ma perché le tradizionali leve di intervento macroeconomico risultano attualmente inadeguate? La ragione è da ricercarsi nel modo in cui il sistema crea endogenamente i mezzi di pagamento necessari per consentire gli scambi economici. Anche volendo partire dalla teoria quantitativa della moneta cara ai neoclassici e monetaristi, MV=PY, è evidente che a parità di velocità della moneta V, che dipende dalle abitudini di pagamento e che in periodi di crisi tende semmai a ridursi, è possibile avere un aumento del reddito nominale PY (reddito reale Y per livello dei prezzi P) solo a patto che la quantità di moneta M utilizzata per transazioni legate al PIL aumenti.
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Le FAQ del governo sulla «Fase 2»: benvenuti in Assurdistan!
di Wu Ming
Le Frequently Asked Questions – o meglio, le risposte alle Frequently Asked Questions – si scrivono quando si deve chiarire una questione o fornire una sintesi rapida e leggibile di un testo molto complesso, quale può essere un decreto. A volte, però, una questione è talmente male impostata, un testo talmente mal concepito e mal scritto da rendere un chiarimento impossibile. In casi del genere, il ricorso alle FAQ può solo alimentare arzigogolio e fare più confusione di prima.
Abbiamo letto le FAQ che dovrebbero chiarire i contenuti del Dpcm del 26 aprile. Provengono dal governo, ma sono prive di qualunque intestazione – ennesima prova di sciatteria. Sono pubblicate da tutti i giornali e siti di informazione. Contengono assurdità, contraddizioni eclatanti e vere e proprie schifezze. Qui ci limitiamo a isolare due questioni.
Tieni l’albero genealogico a portata di mano
Chi sono i «congiunti» e «affetti stabili» a cui potremo fare visita?
«L’ambito cui può riferirsi la dizione “congiunti” può indirettamente ricavarsi, sistematicamente, dalle norme sulla parentela e affinità, nonché dalla giurisprudenza in tema di responsabilità civile. Alla luce di questi riferimenti, deve ritenersi che i “congiunti” cui fa riferimento il DPCM ricomprendano: i coniugi, i partner conviventi, i partner delle unioni civili, le persone che sono legate da uno stabile legame affettivo, nonché i parenti fino al sesto grado (come, per esempio, i figli dei cugini tra loro) e gli affini fino al quarto grado (come, per esempio, i cugini del coniuge).»
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Non c'è liberazione dal lavoro senza liberazione del lavoro
di Gianluca Pozzoni
“Smith Ricardo Marx Sraffa: Il lavoro nella riflessione economico-politica” di Riccardo Bellofiore (Rosenberg&Sellier, 2020) non è un semplice compendio di storia del pensiero economico. È piuttosto un'immersione nelle teorie economiche moderne che spinge l’autore a interrogarsi sul ruolo del lavoro nell’attuale fase neoliberista del capitalismo, sul suo futuro aperto, e sui compiti politici che questo futuro pone
Tanto vale dichiararlo in apertura: dietro al titolo esoterico, da “addetti ai lavori”, dell’ultimo libro di Riccardo Bellofiore – Smith Ricardo Marx Sraffa – si nasconde in realtà un testo fortemente militante. Si tratta, beninteso, di una militanza teorica, da economista critico. Lo stesso titolo del libro è un omaggio all’opera Smith Ricardo Marx, pubblicata all’inizio degli anni Settanta da un altro economista critico, Claudio Napoleoni, antico maestro di Bellofiore. E se l’impostazione di Bellofiore non risparmia neppure lo stesso Napoleoni, criticato in vari punti, fedele all’approccio del suo predecessore è invece la scelta di avanzare una proposta teorica ripercorrendo alcune tappe fondamentali del pensiero economico moderno.
Al pensiero classico di Adam Smith, primo termine di confronto in ordine di tempo, sono infatti dedicati i primi due capitoli dopo quello introduttivo. Segue poi un capitolo dedicato al pensiero di David Ricardo, e altri due ancora a Marx. Chiudono il corpo del volume, prima delle appendici, due capitoli dedicati rispettivamente a Piero Sraffa e John Maynard Keynes. Ma come annunciato in apertura, non ci troviamo davanti a un semplice compendio di storia del pensiero economico. Stante l’interesse didattico dei profili dei vari autori qui tracciati, questa escursione nelle teorie economiche moderne si svolge all’insegna di una scelta tematica ben specifica, enunciata nel sottotitolo: il lavoro nella riflessione economico-politica. Scelta che, peraltro, spinge l’autore fino a interrogarsi sul ruolo del lavoro nell’attuale fase neoliberista del capitalismo, sul suo futuro aperto, e sui compiti politici che questo futuro pone. Ma andiamo con ordine.
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"Perché il sistema capitalistico è praticamente morto"
di Francesco Piccioni
Trovare un titolo così su un quotidiano economico dedicato specificamente alla finanza, diciamolo, è sorprendente. Scorrendolo, poi, abbiamo riscontrato notizie e spiegazioni delle trasformazioni avvenute nei “mercati” che mettono a fuoco esattamente i problemi sistemici.
Ancora più sorprendente, per un lettore italiano cresciuto ad editoriali stile Giavazzi-Alesina-Giannini-Cottarelli, è il fatto che questa attenzione ai fattori strutturali sia opera di un investitore istituzionale, a capo di un importante fondo di investimento svizzero. Non di un professorino cresciuto come un pollo in batteria alla Bocconi e passato direttamente dai banchi di studente alla tribuna di “teorico” grazie all’abilità nel maneggiare modellini econometrici (matematica applicata, insomma, non economia).
Il mestiere dell’autore si vede dall’attenzione a passaggi di tecnica finanziaria davvero poco noti ai non addetti ai lavori, e questo può distrarre l’attenzione del lettore non “addestrato”. Ma i passaggi sintetici, e i giudizi espressi sulle “svolte” dell’economia capitalistica degli ultimi 30 anni, sono quasi da saggio marxista. Chiari, semplice, soprattutto veri.
Marxismo inconsapevole, certo. Ma se così è vuol dire che è la realtà economica ad affermarsi, con tale evidenza che anche chi è stato formato su altri princìpi teorici (neoliberisti, in questo caso) è costretto ad arrivare alle stesse conclusioni.
C’è un perché questo riesca “naturale” ad un investitore istituzionale, uno che mette le mani quotidianamente nei “mercati” comprando e vendendo, speculando e guadagnando (oppure non più), e invece risulti impossibile ai “commentatori” ed editorialisti prima citati. Un investitore gioca con soldi veri, deve avere risultati tangibili. Gli altri sono pagati – anche dagli stessi investitori – per raccontare un mondo diverso da quello reale, in cui gli investitori possano liberamente sguazzare.
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Italia, le difficili strade della necessaria indipendenza
di Mimmo Porcaro
Rien ne va plus
Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti: la crisi pandemica sarà utilizzata dall’Unione europea, come e più delle crisi precedenti, per approfondire la subordinazione delle nazioni e delle classi più deboli. Di fronte alla gravità dei problemi attuali l’unica soluzione è data da vasti programmi di investimento pubblico. E di fronte alla vastità della spesa necessaria e del conseguente debito è difficile sfuggire alla scelta della monetizzazione del debito stesso, se non si vuole ammazzare il medico (lo stato) proprio mentre cura il paziente[1]. Questa è la scelta degli Stati uniti, questa è la scelta della Cina, questa è da tempo, almeno de facto, la scelta di gran parte del mondo, ma questa non è la scelta dell’Unione europea. E non lo è proprio perché la crescita del debito dei paesi periferici dell’“Unione”, in un contesto istituzionalmente contrario alla mutualizzazione, è il miglior sistema per intensificare la presa su quegli stessi paesi e costringerli alla svendita del patrimonio e a tagli di bilancio che inevitabilmente ricadono sulle classi subalterne[2]. È vero che in questo momento la Bce si comporta quasi come prestatore di ultima istanza acquistando notevoli quantità di debito italiano. Ma, come hanno spiegato Blanchard e Pisani-Ferry[3], questa da un lato non è una vera e propria monetizzazione e dall’altro potrebbe cessare in ogni momento (così come potrebbero peraltro cessare o ridursi – a insindacabile giudizio di lorsignori – tutte le altre politiche di monetizzazione dell’occidente, che sono però assai meno istituzionalmente limitate di quanto non sia l’azione dell’Eurotower), costringendo così l’Italia, incapace di pensarsi fuori dall’eurozona, a scelte che farebbero sembrar moderate quelle del mai abbastanza vituperato governo Monti.
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Utopia, Stato e libertà in "Stato e rivoluzione"
di Bollettino Culturale
Durante l’agosto e il settembre del 1917 Lenin scrisse Stato e Rivoluzione. Come ha chiarito nella prefazione alla prima edizione, il suo scopo era quello di affrontare la questione dello Stato da un punto di vista politico e teorico. La discussione, il confronto con le idee di Karl Kautsky, i socialdemocratici russi e gli anarchici, ebbe luogo nel contesto della Grande Guerra e alla vigilia della Rivoluzione d'Ottobre. In effetti, l'opuscolo fu lasciato incompiuto perché la rivoluzione stessa "interruppe" Lenin, come egli stesso disse.
Al di là delle affermazioni del suo autore, Stato e Rivoluzione rappresenta una sintesi della tabella di marcia verso la società comunista mentre disegna alcune delle caratteristiche fondamentali di quella società futura. Per questo motivo può essere letto come un testo appartenente alla tradizione utopica occidentale. In questo senso, condivide elementi con quel tipo di letteratura. Tanto per cominciare, la società comunista intravista nell'opuscolo di Lenin è una società egualitaria e di abbondanza. L'abbondanza e l'uguaglianza costituiscono spesso le caratteristiche principali delle società immaginate dalle prime utopie popolari medievali. Stato e Rivoluzione risponde anche alla tradizione marxista di critica radicale del capitalismo e allo stesso tempo rappresenta l'immagine di un desiderio. Da questo punto di vista si collegherebbe anche con la tradizione utopica. Poiché sia la severa critica del mondo in cui è stato concepito, sia l'espressione di un desiderio, appaiono continuamente nella storia delle utopie.
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Peste e Rabbia
di Charles Reeve
Come possiamo incrociare e fare entrare in risonanza le riflessioni sullo strano e singolare periodo in cui viviamo? Un periodo che, a causa del suo lato tragico, mostra in rilievo evidenziandole le debolezze e i limiti del sistema capitalista globalizzato che, solo ieri, venivano viste come se fossero espressione della sua forza e del suo potere. Sottoposti a un discorso tossico, come in un loop, siamo bloccati nel presente da un'atmosfera ansiogena, impotenti a causa del nostro stesso isolamento. Ci sentiamo come minacciati in un mondo in cui qualsiasi oggetto o individuo viene percepito come ostile, come causa di morte. Le relazioni umane stesse vengono minate dal pericolo. Le statistiche e le curve degli «specialisti» della morte vengono seguite come quelle del mercato azionario, sommergendoci e sopraffacendoci; vengono ad aggiungersi alle spiegazioni complottistiche, alle speculazioni e alle presunte certezze che vorrebbero rassicurarci. È in una tale magma che lo spirito critico si deve aprire una strada. Solo cercando di esercitarlo, riusciremo a raggiungere l'unica via d'uscita verso l'aria libera e a superare così la rassegnazione del pensiero di fronte alla paura.
Sembrava che la rimozione dell'idea della morte fosse ben consolidata ormai nelle società ricche, cancellata dal culto del benessere e dal mito del progresso, dell'individuo che domina la natura. Ora, la tempesta del progresso non è altro che la distruzione di ciò che è vivente; qualcosa che era già temuto, anche un secolo fa, dai nemici dell'ideologia produttivistica, tra cui Walter Benjamin e altri emancipatori «pessimisti».
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Spillover, siamo tutti responsabili
di Alba Vastano
Quanta responsabilità ha avuto ed ha nell’espandersi di un’ epidemia, fino alla drammatica realtà che l’ha trasformata in una pandemia, la mano devastante delle opere umane sulla natura? La questione ci tocca tutti ed è oggettiva. Così la definisce sul ‘New York Times’, David Quemman il ricercatore, saggista scientifico, autore del saggio Spillover: “Siamo stati noi a generare l’epidemia di Coronavirus. Potrebbe essere iniziata da un pipistrello in una grotta, ma è stata l’attività umana a scatenarla”. Un j’accuse forte che dobbiamo riconoscere e umilmente incassare. Siamo un po’ tutti responsabili di questo nuovo flagello.
* * * *
“Non vengono da un altro pianeta e non nascono dal nulla. I responsabili della prossima pandemia sono già tra noi. Sono virus che oggi colpiscono gli animali, ma che potrebbero da un momento all’altro fare un salto di specie , uno spillover in gergo tecnico, e colpire anche gli esseri umani”.
Previsione oculata che oggi è una drammatica realtà a causa della pandemia che ha messo in ginocchio il mondo. Ne scrive David Quammen, autore di saggi scientifici, nel suo libro ‘Spillover’ del 2012 (ed. Gli Adelphi). Un saggio che ha impegnato l’autore per ben 6 anni. Un tempo che l’ha portato in giro per il mondo, al seguito di scienziati ricercatori, nelle foreste congolesi, così come nelle fattorie australiane e nei mercati delle mega-città cinesi. Lo scopo di questo lunghissimo girovagare? La ricerca della prova di un fenomeno scientifico, la zoonosi, la patologia legata al passaggio di un virus da alcune specie di animali all’ospite umano e le fenomenologie conseguenti ai danni della salute. Avviene quindi lo spillover, una fuoriuscita del virus da una specie animale al passaggio a quella umana.
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Tornanti. Una mappa
di Nuova Direzione
1) Premessa
L’epidemia di Covid-19, che ha investito l’intero pianeta ha costretto al blocco o a un fortissimo rallentamento tutte le economie occidentali, rappresenta un tornante storico che determina un “prima” ed un “dopo”. Una nuova fase sta avanzando con rapidità assolutamente imprevedibile e con pari incertezza. Una nuova fase esige di aggiornare le parole d’ordine.
Il presente testo rappresenta il contributo che Nuova Direzione propone alla discussione collettiva per la costruzione di una piattaforma di ispirazione socialista ed in grado di coniugare una prospettiva di difesa della indipendenza e sovranità democratica e nazionale con un chiaro orientamento egemonico imperniato su un blocco sociale coerente con questa. Sono necessarie per la fase chiarezza teorica e programmatica, da una parte, e la massima convergenza di forze e d’azione possibile, dall’altra. Ma la prima istanza, senza visione non c’è azione coerente, implica che l’eventuale soggetto, pur potendo allearsi tatticamente anche con forze diverse, dovrà avere una chiara e coerente linea politica. A questo fine le proposizioni che seguono.
La nostra economia non va riavviata, né rimessa in piedi, ma interamente “reimpostata”, ri-organizzata.
A questo fine dobbiamo fare un breve passo indietro per allargare lo sguardo.
2) Dove siamo
Gli sviluppi politici promossi nell’era neoliberale, e specificamente nella sua fase di più accentuata globalizzazione economica, a partire dagli anni ’90, hanno avuto come esito una radicale depoliticizzazione della popolazione.
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Da emergenza sanitaria a stato di eccezione politico?
di Geminello Preterossi
L'attitudine critica non può essere quella di negare o relativizzare il problema coronavirus, ma di denunciare abusi, irrazionalità, eccessi, logiche e rischi "di fondo". Bisognerà, poi, subito riorganizzarsi socialmente e politicamente
Gli interventi di Giorgio Agamben sulle conseguenze politiche del coronavirus impongono alcune riflessioni. In generale, condivido la critica alla normalizzazione dell'emergenza, trasformata in "calamità" (anche quando si tratta, ed è la maggior parte dei casi, di questioni politiche, economiche, sociali e non certo di "oggettività" naturali o tecniche). Ora però il problema esiste e, soprattutto in Lombardia, ha creato una situazione drammatica dal punto di vista sanitario. Quindi una reazione mirata, ma adeguata, è necessaria. Certo, il rischio che si trasformi un'emergenza sanitaria reale in uno stato di eccezione politico c'è, è davanti ai nostri occhi. Delegare in toto agli esperti (che peraltro manifestano posizioni non sempre univoche) le scelte politiche è pericoloso: i tecnici devono fornire i dati da valutare, ma la decisione deve essere politica, perché solo così si può tenere conto della complessità dello scenario. Occorre saper distinguere, rendersi conto delle soluzioni che hanno funzionato e di quelle che non hanno funzionato, essere flessibili per aggiustare le strategie. Nessun fideismo emergenzialista, dunque. Abbiamo bisogno, piuttosto, di ragion pratica. La vita pubblica è cosa diversa da un laboratorio: altrimenti si trasforma la società intera in un “laboratorio”. Ciò, sia chiaro, non per ridimensionare il quadro, che è grave e preoccupante, ma per mantenere in funzione la capacità di valutare criticamente e deliberare di conseguenza (a proposito, siamo sicuri che le istituzioni rappresentative debbano eclissarsi, in un contesto del genere?). Inoltre, quando sarà passata questa buriana, bisognerà mettere in fila tutto: non solo errori, atteggiamenti ondivaghi e opachi, mancanze, ma la logica di fondo, i rischi politici che si corrono, le finalità perseguite dai “poteri indiretti” e il conto che verrà fatto pagare ai più deboli.
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