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poliscritture

«Il mestiere di pensare» di Diego Marconi

di Donato Salzarulo

image 187fe1.- «Povera, e nuda, vai Filosofia »

Qualche anno fa, un progetto ministeriale prevedeva di ridurre da tre a due anni l’insegnamento di filosofia nei Licei e di eliminarla dalle tabelle disciplinari di vari corsi di laurea perché – questa la singolare motivazione – trattasi di disciplina troppo specialistica. Mentre la matematica, la chimica, la fisica, ecc., per i cervelli di certi consulenti ministeriali, non lo sono.

Pur non facendo il filosofo di professione, ma rivendicando per me e per tutti gli uomini (e donne) la facoltà di pensare, ragionare, argomentare e conoscere, sia pure antologicamente, il patrimonio dei classici della filosofia, condivisi la levata di scudi che ci fu, quando il progetto fu reso noto. Anzi, fu proprio uno di loro a rivelarlo con un articolo su “La Repubblica” del 15 febbraio 2014.

Si tratta di Roberto Esposito che, per argomentare la necessità dell’insegnamento della filosofia, tra l’altro, scrisse: «La filosofia, oltre che indispensabile di per sé, lo è nei confronti degli altri saperi […] perché definisce le loro differenze, misura la tensione che passa tra i vari linguaggi. In quanto sapere critico, la filosofia impedisce la sovrapposizione di questioni eterogenee, delinea i confini dentro i quali esse assumono significato.»

Indispensabile di per sé vuol dire un sapere capace di ritagliarsi durante la sua storia secolare i propri oggetti di conoscenza che si chiamano “metafisica”, “gnoseologia”, “ontologia”, “logica”, “retorica”, “etica”, “estetica”, ecc. Oggi questi saperi sono diventate cattedre universitarie di “Storia della filosofia antica”, “medievale”, “moderna” e “contemporanea”, di “Filosofia della scienza”, “del linguaggio”, “del diritto”, “della politica”, “della storia”, “della morale”, “della religione”, e via elencando, a seconda delle Università.

Indispensabile per gli altri saperi vuol dire capace di esercitare una critica dei loro linguaggi, dei loro concetti, delle questioni che affrontano, ecc. In fondo, la filosofia è la madre di molte discipline, dalla quale col passar del tempo si sono rese autonome. A pensarci bene certi filosofi all’inizio erano anche matematici (Pitagora, ad esempio), scienziati (Aristotele, Telesio), teologi, ecc.

Ma la filosofia non esaurisce il proprio ruolo confrontandosi criticamente con l’enciclopedia dei saperi del proprio tempo. Come scrive Esposito, «tutt’altro che chiusa in sé, essa è sempre aperta al mondo – alle sue potenzialità e ai suoi conflitti. […] La capacità, e anche il desiderio, di aprire un confronto, in qualche caso uno scontro, rispetto a ciò che esiste a favore di una diversa disposizione delle cose. In questo senso la filosofia – anche e forse soprattutto quella che si definisce “teoretica” – ha sempre un’anima politica. Non, certo, nel senso di fornire prescrizioni o indicazioni su cosa fare o come agire. Ma perché è situata lungo il confine tra il reale e l’immaginario, il necessario e il possibile, il presente e il futuro. Perciò essa è sempre in rapporto con la storia. Non parlo solo della storia della filosofia – pure indispensabile. Ma della storia nella filosofia. Il pensiero non solo ha, ma è storia, perché consapevole del nostro limite. Di quanto abbiamo, ma anche di quanto ci manca, dell’assenza che taglia ogni presenza, della scissione che attraversa ogni unità.»

Queste parole di Esposito andrebbero meditate attentamente. La filosofia, soprattutto quella “teoretica”, ha sempre un’anima politica, perché si confronta col mondo. Certe volte si scontra anche. Per una diversa disposizione delle cose rispetto a ciò che esiste. Io aggiungerei anche per la sua conservazione. Comunque, ci sarà sempre un Platone che scriverà La Repubblica, un Campanella La città del sole o John Rawls Una teoria della giustizia. Ci sarà pure chi razionalizzerà il reale così com’è; ma ci saranno altri filosofi che sapranno esercitare le armi della critica. Oltre che un’anima politica, la filosofia è sempre in rapporto con la storia. Non solo perché costruisce la sua storia, ma perché la storia è dentro la filosofia come “pensiero vivente”, oggi più che mai consapevole del proprio limite. Un pensiero caratterizzato da coppie concettuali come ciò che si ha e ciò che ci manca, il necessario e il possibile, il reale e l’immaginario, il presente e il futuro, l’assenza e la presenza, l’uno che si scinde e si divide in due, ecc. Un pensiero, insomma, tutt’altro che rigido e monolitico.

«È un’idea, questa, – scrive concludendo Esposito – che congiunge tutti i grandi pensatori, da Platone a Hegel e oltre. Il motivo per il quale, nonostante l’apparente inutilità che spesso le viene rinfacciata, si continua a praticare filosofia sta proprio nella coscienza che il suo compito è inesauribile. Che restano sempre spazi inediti da aprire, vie nuove da imboccare, opzioni diverse da sondare. Quando si è supposto che così non fosse, che la verità era stata raggiunta e il percorso compiuto, allora la filosofia è stata messa a tacere e i filosofi sono stati banditi dalla città. Con i risultati che sappiamo.»

 

2.-Un libretto di qualche anno fa

Discutendo recentemente con amici di “filosofia come scienza” o di “filosofia come chiacchiera” (nel cui contenitore ci sarebbero anche Hegel e Sartre come esempi di “chiacchiera” elevata), mi è tornato in mente un libretto Einaudi, di quelli della collana Vele, con la copertina bianca, che avevo comprato qualche anno fa; un libretto il cui titolo, Il mestiere di pensare, mi era piaciuto assai e che, soprattutto, mi aveva incuriosito perché, in prima di copertina, presentava un assaggio del suo contenuto con queste parole: «Si ha l’impressione che ci siano oggi due filosofie: una filosofia professionale, blindata nello specialismo e apparentemente poco capace di incidere sul resto della cultura, e una filosofia mediatica, sostanzialmente irrilevante per i filosofi professionali. È proprio così? In che cosa consiste oggi il mestiere del filosofo?»

Scritto da Diego Marconi, il libretto era stato pubblicato nello stesso periodo, febbraio 2014, in cui ferveva il dibattito sulla difesa della filosofia dai progetti di ridimensionamento ministeriali. Una ragione in più per comprarlo. Poi, siccome l’attività assessorile mi teneva in quei giorni col fiato in gola, finì nelle pile dei libri da leggere. Ed ora, costretto in casa dalla quarantena, eccolo qua sotto i miei occhi.

 

3. I requisiti di un contributo di filosofia analitica

Diego Marconi è professore di Filosofia del linguaggio all’Università di Torino. Il suo orientamento è analitico. Poco o nulla a che vedere con Felice Cimatti, che pure è filosofo del linguaggio come lui, ma, facendosi promotore di un’ontologia, allo stesso tempo scientifica e mistica, non si troverebbe probabilmente d’accordo con il collega.

Il filosofo analitico ha degli standard da rispettare: deve aderire alla “svolta linguistica” (per chi volesse sapere di che si tratta, consiglio di leggere il libro di Franca D’Agostini Analitici e continentali, prima parte, capitolo quarto, pp.123-166), rifiutare la metafisica speculativa, accettare l’analisi concettuale (cioè spiegare un’espressione linguistica stabilendo “lo status e le proprietà inferenziali delle asserzioni in cui essa compare”, pag. 83), accettare una qualche distinzione fra scienza e filosofia, rispettare la logica e le scienze naturali, essere convinti che la filosofia abbia natura essenzialmente argomentativa e sforzarsi di essere chiari.

Questi sono i criteri di Hans-Johann Glock, uno dei maggiori studiosi di Wittgenstein. Diego Marconi, non ritenendoli sufficientemente vividi, immagina come debba essere un contributo di filosofia analitica:

«1) teorico anziché ermeneutico: deve avanzare tesi filosofiche sostantive che intendono essere originali; 2) argomentativo anziché dogmatico: deve argomentare le sue tesi conformemente a modelli argomentativi condivisi; 3) rigoroso e non rapsodico, impreciso o oscuro; 4) deve essere un contributo a una discussione in corso, e non limitarsi a esprimere le riflessioni solitarie del suo autore.» (pag. 74)

Impossibile resistere alla tentazione di applicare i suddetti criteri al libro che ho tra le mani. Ebbene, salta all’occhio subito che non rispetta il criterio uno. Ma Diego Marconi, essendo anche lui uno studioso di Wittgenstein e avendo scritto un libro intitolato Wittgenstein e il Novecento. Tra filosofia e psicologia, dopo aver elencato i criteri, in nota si premura di precisare«Si potrebbe obiettare che vi sono pure filosofi analitici che fanno un lavoro di tipo ermeneutico (ad esempio sui classici della filosofia analitica) pur non essendo storici della filosofia in senso stretto. Giusto: tutte le tradizioni hanno bisogno di espositori e interpreti. Tuttavia, se questi interpreti sono filosofi analitici soddisferanno i requisiti 2-4» (pag. 7). Benissimo. Mi sembra ragionevole. I criteri sono orientativi.

 

4.- Analitici, continentali e “contaminati”

Inutile dire che requisiti simili, escludono dal campo della filosofia analitica libri come Minima Moralia di Adorno che è una raccolta di 153 aforismi. Sono, secondo me, delle tessere in cui si avanzano delle tesi filosofiche abbastanza sostantive, anche originali e rigorose, ma, essendo rapsodiche, a tratti, risultano oscure e il loro legame segreto va scoperto. Faccio questo esempio per dire che, per quanto criteri simili, possano apparire ragionevoli, sono ragionevoli – mi si scusi il bisticcio – per un certo modo di considerare e usare la ragione. Nel caso dei filosofi analitici si fa uso di formalismi, di linguaggi “disciplinati”, di concetti e argomentazioni “controllabili”, ecc. Adorno, invece, ha un’altra idea di ragione. Per lui è dialettica, conflittuale, capace di farsi carico delle contraddizioni esistenziali e sociali. Non a caso, Adorno è un illustre esponente della Scuola di Francoforte o, se si preferisce, della “teoria critica”.

Per quanto mi riguarda, non ho nessuna difficoltà ad ammettere che la ragione, per così dire, analitica produca conoscenze; ma preferisco un’idea di ragione più ampia, comprensiva, speculativa, dialettica. Dirò di più: avendo imparato, nell’estate del 1982, da uno straordinario libro di Ignacio Matte Blanco, intitolato L’inconscio come insieme infinito, che il nostro pensiero (compreso quello matematico) è sempre il frutto dell’intreccio di due logiche: quella tradizionale (aristotelica per intenderci) e quella simmetrica, definita come «espressione logica del modo indivisibile dell’essere», sarò sempre diffidente e insoddisfatto nei confronti di chi ritiene che l’impresa conoscitiva possa essere garantita soltanto da metodi e linguaggi formalistici.

Nel libro citato di Franca D’Agostini le due forme di razionalità vengono definite “analitica” e “continentale”. Alla prima forma di razionalità appartengono correnti di pensiero come il pragmatismo (C.S. Peirce e W. James), il neopositivismo (gli autori del famoso “Circolo di Vienna”: M. Schlich, M.R. Carnap, H. Feigl, O. Neurath, F. Waismann; a questi si aggiunsero H. Reichenbach, C.G. Hempel, D. Hilbert, W. Köhler), la filosofia analitica americana e inglese (G. E. Moore, G. Frege, B. Russel, L. Wittgenstein) e, infine, il razionalismo critico (K. Popper).

Alla “razionalità continentale” appartengono, invece, l’esistenzialismo (J. P. Sartre, M. Heidegger, K. Jaspers, ecc.), la teoria critica della Scuola di Francoforte (T. W. Adorno, H. Marcuse, M. Horkheimer, E. Fromm, L. Löwenthal, ecc.), l’ermeneutica (W. Dilthey, H.-G. Gadamer, P. Ricoeur, ecc.), e infine il post-strutturalismo (J. Derrida, G. Deleuze, J.-F. Lyotard, ecc.).

Dividere in due buona parte della filosofia novecentesca è poco più di uno schema, qualcosa che somiglia a un espediente didattico degno di un bigino. Così la stessa D’Agostini si premura di segnalare che la parte centrale di un simile schema è occupato dalle correnti di pensiero che presentano una qualche forma di “contaminazione” tra i due tipi di razionalità: fenomenologia (E. Husserl), strutturalismo (M. Foucault, L. Althusser, ecc.), neo pragmatismo (R. Rorty), teorici degli atti linguistici (J. L. Austin, J. Searle), teoria critica habermasiana (J. Habermas), e, infine, epistemologia post-positivistica (T. Kuhn e P. K. Feyerabend).

Siccome Franca D’Agostini ha pubblicato il suo libro oltre venti anni fa e siccome il suo oggetto di ricerca era “analitici e continentali”, molto altro sfugge alla sua indagine.

Comunque, al momento, ciò che mi interessa sottolineare è che non c’è un solo modo d’intendere la razionalità e, quindi, non c’è un solo modo di pensare e di produrre conoscenza. Gli specialisti o gli artigiani di questo mestiere possono essere popperiani, strutturalisti, francofortesi, fenomenologi, esistenzialisti, materialisti, spiritualisti, operaisti, post-strutturalisti, e chi più ne ha più ne metta.

La filosofia, come sostiene Esposito, ha un compito inesauribile, ha sempre spazi inediti da aprire o nuove vie da imboccare. Naturalmente, se vi riesce. Altrimenti si fa un lavoro di tipo storico-filosofico o ermeneutico per ripensare, rinforzarsi, ridarsi slancio. Quante volte si assiste alla “rinascita” del pensiero di questo o quel filosofo? Penso alla “Nietzsche-Renaissance” di questi ultimi decenni che impensieriva così tanto Fortini…Quante volte si auspica un ritorno a Marx piuttosto che a Kant? Alain Badiou, in barba a Popper che lo ritiene un “totalitario”, ha riletto La Repubblica di Platone per criticare meglio le nostre attuali repubbliche. La lotta per la verità deve essere condotta quotidianamente e gli approdi sono sempre temporanei. Pensare che i sostenitori di uno stile di lavoro analitico producano autentica conoscenza, mentre gli altri facciano chiacchiere, sia pure colte ed elevate, è una forma di boria che non ha nessun diritto di essere coltivata. Anche perché i filosofi analitici (ma non solo loro) hanno problemi grossi come una casa. Problemi che Diego Marconi riconosce sinceramente nel suo libretto. Mi limito a citarne uno: quello dello specialismo e, conseguentemente, della comunicazione e divulgazione filosofica.

 

5.- Lo specialismo

Il primo capitolo del libretto è intitolato «La filosofia nell’epoca del professionismo». L’avvio è una citazione di Freeman Dyson, un anziano e celebre fisico teorico, tratta da un articolo del Novembre 2012 pubblicato sul «New York Review of Book»:

«Quando e perché la filosofia ha perso mordente? In che modo è diventata una flebile reliquia delle sue glorie passate?…I filosofi sono diventati insignificanti quando la filosofia è diventata una disciplina accademica a sé stante, distinta dalla scienza, dalla storia, dalla letteratura e dalla religione…Gli ultimi capolavori scritti da un filosofo sono stati probabilmente Così parlò Zarathustra (1885) e Al di là del bene e del male (1886) di Friedrich Nietzsche. I dipartimenti di filosofia moderna non hanno posto per il mistico.» (pag.3)

Facile per Marconi smentire il celebre fisico e citare capolavori e filosofi, analitici e continentali, che abbiano avuto, dopo Nietzsche, una notevolissima influenza culturale, buona o cattiva che sia. Però il perentorio giudizio di Dyson e, soprattutto, il riferimento a Nietzsche, gli fa problema. Può essere che persone come lui «sentano la mancanza del Grande Filosofo, che esprime la sua visione del mondo in un sistema in cui scienza e arte, moralità, economia e politica e altro ancora hanno il loro posto.» (pag. 5), anche se proprio i grandi filosofi hanno cercato di tener distinta la filosofia da altre discipline (scienza, storia, letteratura, religione), pur occupandosene. Anzi, mai come oggi “Filosofia della scienza”, “della religione”, “della politica”, ecc., come dicevo prima, fioriscono nelle Università.

«E tuttavia c’è un senso in cui Freeman Dyson ha ragione. La filosofia accademica è oggi assai meno comunicativa di quanto lo sia stata in altri periodi storici, anche relativamente recenti; non rispetto al “grande pubblico” […], ma rispetto al “pubblico colto”, cioè agli esperti di altre discipline e, in generale, a chi abbia una formazione anche di livello alto, ma non specificamente filosofica.» (pag.6). Risultato: un giurista, un biologo, un chimico non sarebbero in grado di leggere un articolo di filosofia pubblicato su una rivista accademica perché i filosofi scrivono libri e articoli per altri filosofi.

Come è accaduto tutto questo e perché? La risposta di Marconi è netta: è accaduto perché, dalla fine dell’Ottocento ad oggi, si sono moltiplicati i filosofi. Tanto per fare un esempio: nella sola Italia, nel 1880, tra Università e scuola secondaria, ve n’erano un centinaio o poco più. Oggi sono oltre 1500 nelle Università, a vario titolo, e parecchie migliaia nelle scuole secondarie.

Insieme ai professori è cresciuto torrenzialmente il numero di pubblicazioni filosofiche. Senza contare i libri, oggi le sole riviste di filosofia italiane sono più di 90. Ciò ha generato inevitabilmente lo specialismo, che ha «il grande pregio di consentire anche agli studiosi normali di fare un lavoro di ricerca onesto e sensato.» (pag. 15)

Ma chi fa di mestiere il filosofo può permettersi questa scelta che sembra obbligata? Diego Marconi nutre un dubbio profondo:

«Non è affatto ovvio che la filosofia possa permettersi la scelta specialistica. Al contrario di altre discipline, la filosofia – si può sostenere ha una vocazione generalista: o la filosofia è il tentativo di “capire come le cose, nel senso più ampio possibile del termine, stanno insieme, nel senso più ampio possibile del termine” (come diceva Wilfred Sellars), oppure non lo è. Quindi lo specialismo, a cui la filosofia (come ogni altra disciplina) sembra oggi obbligata, costituisce per la filosofia in particolare un problema di non facile soluzione, in cui è messa in gioco la sua sopravvivenza.» (pag. 16)

Oltre allo specialismo, un’altra conseguenza della proliferazione dei filosofi, è l’entrata in crisi dell’immagine del Grande Filosofo.

«Bisognava trovare il modo di fare della filosofia un’attività alla portata di studiosi magari colti e intelligenti, ma non necessariamente geniali né strepitosamente originali, come avrebbe detto Wittgenstein all’inizio degli anni ’30 del Novecento, filosofi capaci (skillful). Per essere credibile, il filosofo di professione avrebbe dovuto concepirsi più come artigiano competente (o, perché no, operaio specializzato) che non come architetto di cattedrali.» (pag.18-19)

Le soluzioni trovate a questo problema furono fondamentalmente tre: a) Studio della storia della filosofia con i vari “Ritorni a…”. Questa soluzione ebbe grande fortuna e continua ad averla, perché quello degli storici è un lavoro indispensabile. Inconvenienti: poteva far diventare i filosofi sacerdoti di un culto o poteva fare di loro «dei giornalisti sportivi, da calciatori che erano stati». b) Ermeneutica: nella versione che ne ha dato Hans-Georg Gadamer. c) Filosofia analitica, la più adottata nel mondo insieme a quella storico-filosofica.

I filosofi analitici si occupano: I) di problemi filosofici per cercare di risolverli. «Su che cosa sia la soluzione di un problema filosofico ci sono state e ci sono opinioni diverse.» (pag.23) II) Problemi filosofici nella loro formulazione attuale (al massimo ricerca filosofica degli ultimi decenni). Non sono interessati alla storia passata dei problemi. III) L’attività teorico-argomentativa è sottoposta al controllo della comunità dei filosofi.

«I primi due punti mostrano chiaramente perché la filosofia analitica sia una soluzione – di fatto, la soluzione prevalente – al problema posto dalla proliferazione dei filosofi. La filosofia analitica consente di circoscrivere quanto si vuole l’area della propria ricerca. […] Da un lato c’è spazio per tutti, dall’altro lo spazio può essere reso piccolo a piacere. […]» (pag.24)

«Non sorprende quindi che la filosofia analitica sia il paradigma della concezione artigianale della filosofia: quella che vede la filosofia come un “onesto mestiere”, non riservato ai geni ma aperto a molte persone di qualche intelligenza, qualche cultura e qualche creatività». (pag.25)

La scarsa capacità di comunicazione della filosofia di oggi è una delle conseguenze dello specialismo: I) Perché i filosofi sono costretti a dare per presupposte conoscenze e capacità che solo gli specialisti possiedono; II) perché trattano solitamente questioni la cui importanza e interesse sono tutt’altro che ovvi. (pag.26).

Diego Marconi fa alcuni esempi di questi “contributi intraparadigmatici” che, agli occhi anche di un pubblico colto, apparirebbero privi di interesse. Tuttavia, se opportunamente contestualizzati e valorizzati, se ne capirebbe l’importanza.

Lo specialismo non è soltanto un problema della filosofia, ma riguarda tutti i settori del sapere. Però, sembra che la filosofia non possa permetterselo, perché è “generalista” per sua “intrinseca essenza” e si «si occupa dei problemi degli esseri umani (di tutti gli esseri umani), si rivolge a quello che Chaim Perelman chiamava l’”uditorio universale”, cioè alla comunità umana senza esclusione alcuna, e ha il compito di dare un senso all’insieme delle cose, incluse quelle di cui si occupano le ricerche specialistiche degli scienziati. Se rinuncia a dare risposta a questa richiesta di senso, la filosofia rinuncia alla vocazione specifica da cui deriva la sua legittimazione culturale e, in fin dei conti, anche sociale.» (pag. 39)

L’esistenza di un vasto pubblico non è la sola fonte di legittimità di una disciplina. Infatti, chi legge riviste o libri di biologia molecolare o di topologia? Pochissimi. Ma scienze naturali e matematica sono avvantaggiate perché le si ritiene utili e perché “costituiscono vera conoscenza

Diego Marconi è convinto del ruolo conoscitivo delle scienze naturali e della matematica e concorda «con chi pensa che questo sia sufficiente a legittimarle. Quello che invece non condivido è il luogo comune secondo cui la filosofia non produce conoscenza.» (pag. 41). I primi a sostenere questo luogo comune sono alcuni filosofi stessi quando hanno «una visione della storia della filosofia come eterno conflitto di opinioni ugualmente precarie» oppure quando ritengono che essa progredisca soltanto nella formulazione dei problemi e non anche nella loro risoluzione.

Michael Dummett ha, invece, rivendicato alla filosofia veri e propri risultati. Anche se il suo elenco è davvero minimale. L’idea di Marconi è che «alla base dell’immagine corrente della filosofia e della sua storia c’è soprattutto quella che chiamerei una (comprensibile) distorsione prospettica: molti risultati della filosofia, forse i principali, non vengono annoverati a suo credito perché, nel momento stesso in cui sono conseguiti, cessano di essere considerati parte della filosofia per diventare scienza» (pag.43). L’autore si limita a fare alcuni esempi più recenti (meccanica, logica moderna, informatica, semantica formale), ma si potrebbe tranquillamente andare molto più indietro nel tempo.

«Dunque la tesi che la filosofia non produca conoscenza può essere contestata con argomenti che a me paiono plausibili. […Detto tutto questo, però, nella rivendicazione della vocazione generalista della filosofia c’è molto di convincente.» (pag. 43-44). Il problema dovrebbe valere anche per le scienze, tuttavia il loro valore non è inficiato dalla scarsa diffusione culturale dei loro risultati. «Invece nel caso della filosofia sembra che la sua specifica vocazione venga brutalmente tradita, se i risultati della ricerca filosofica risultano incomprensibili per i più. Questo è particolarmente vero – come si è già ricordato – per chi attribuisce alla filosofia un compito di rischiaramento, di chiarimento della nostra posizione nel mondo, o, come si usa dire in una diversa tradizione, un compito di conferimento di senso.» (pag. 44).

Si può concepire la filosofia anche in modo non analitico, in modo storico-filosofico o ermeneutico. Ciò non toglie che sia difficile eludere, per varie ragioni, il problema della comunicazione:

a) La filosofia, come ogni pratica a cui la società assegna risorse, ha bisogno di legittimazione. Fino ad oggi si è guadagnata una certa legittimità come agenzia di conservazione del patrimonio dei classici della filosofia da Platone a Wittgenstein. «Si riteneva e tuttora si ritiene che l’umanità debba conservare memoria del Teeteto e del Discorso sul metodo, insegnandone il contenuto alle successive generazioni.» (pag.45) L’universale riconoscimento di questo compito di conservazione è servito anche alla filosofia analitica come fonte di legittimazione.

b) «Non poca ricerca ha ricadute significative in altre discipline, dal diritto alla psicologia cognitiva, dall’intelligenza artificiale alla linguistica, dalla sociologia all’economia; ma queste ricadute restano in buona parte virtuali, semplicemente per difetto di comunicazione.» (pag. 45). Così capita che percorsi di ricerca già realizzati in filosofia vengono replicati in altre discipline (informatica, linguistica, politica). Ma che cosa hanno fatto i filosofi affinché queste acquisizioni diventassero patrimonio comune?..(pag. 46)

c) «La comunicazione della propria ricerca al di fuori della ristretta cerchia degli specialisti serve allo specialista stesso a tener vivo il senso del proprio lavoro, che tende continuamente a perdere di vista. Una delle conseguenze più perverse dello specialismo, infatti, è lo smarrimento del quadro dei problemi in cui si inserisce la propria ricerca.» (pag. 46). Diego Marconi a pag.47 fa degli esempi. Il tono è accorato. Ogni ricercatore, almeno di tanto in tanto, dovrebbe rivolgersi la domanda sul senso della propria ricerca.

 

6.- Il problema comunicazione e della divulgazione

Marconi riconosce che filosofi “continentali” come Deleuze, Foucault, Derrida, Habermas, sembrano avere un successo relativamente di massa e un’influenza culturale molto più ampia di quelli “analitici”. Cerca di capirne le ragioni. Ne individua una nell’omogeneità dei temi e della retorica della filosofia continentale con la formazione culturale di questo “pubblico colto” che, avendo studiato la storia della filosofia nella scuola secondaria, ha conservato un interesse per questo genere di discorso, che contempla, tra l’altro, la presenza di autori del canone umanistico. Mentre «l’assenza nei testi analitici di richiami espliciti ai grandi classici del pensiero e alle loro dottrine li rende incoerenti con l’aspettativa di filosofia di questo pubblico colto.» (pag. 49) Però ha dei dubbi sulla effettiva comprensione di libri così difficili come quelli di Deleuze, Lacan, Derrida o Cacciari, comprensione nel senso in cui l’autore userebbe l’espressione nel caso di testi filosofici.

Quando i lettori dicono di aver compreso libri di questo tenore «forse alludono piuttosto a una sorta di stimolazione intellettuale, fatta di associazioni tra forme d’espressione usate dal filosofo e propri pensieri o altre letture dello steso genere; di adesione estetica a quella che appare come efficacia espressiva; di impressioni di profondità – una profondità che magari non si sarebbe in grado di esplorare, e che il filosofo stesso spalanca senza esplorarla. Ma un abisso affascina proprio perché non si riesce a vederne il fondo.» (pag.49).

Il pubblico anche colto ha scarsa sensibilità per la qualità argomentativa (generalmente debole) di questa filosofia. Non si domanda: “Che ragioni mi sono state offerte, a ben vedere, per credere in tutto ciò”? (pag.50).

Se le cose stessero così il successo di questa filosofia, secondo Marconi, è superficiale e fragile.

Quello della “comprensione” di un testo filosofico è un punto che andrebbe approfondito. Ciò che Marconi indica come limiti (stimolazione intellettuale, associazioni fra i pensieri del lettore ed espressioni del filosofo, ecc.) fanno parte di un’esperienza di lettura. Esperienza che non è fatta unicamente di efficacia argomentativa.

Però, quando si parla di comunicatività della filosofia non si ha in mente il numero di lettori di Foucault o di Habermas. Si ha in mente la “filosofia mediatica”, quella dei Festival, delle rubriche di collaborazione di filosofi professionali a settimanali e quotidiani, presenza in dibattiti televisivi, ecc. Il fenomeno non riguarda soltanto la filosofia; c’è anche lo psicanalista, lo scienziato, l’economista, il linguista, il prete, ecc.

«L’intellettuale mediatico – per parlare in generale – è un professionista della sua disciplina a cui il sistema dei media chiede di coprire una casella nei suoi molti palinsesti.» (pag. 50).

Lo può diventare per varie ragioni (successo di un libro, è molto disponibile, è amico di un giornalista importante, è un conversatore brillante, ecc.); il valore professionale non è necessariamente un requisito decisivo. Perciò l’intellettuale mediatico può essere all’incirca chiunque. Per esempio, «il filosofo mediatico può essere un pensatore di grande talento che sceglie di prepensionarsi nella chiacchiera cultural-ideologica, ma anche un professionista normale che non disdegna né la notorietà né l’integrazione retributiva.» (pag.51).

Secondo Marconi esistono soprattutto in Italia, Francia e Spagna perché il sistema accademico non dispone di meccanismi premiali, non esistono istituzioni del merito, strutture gerarchiche, premi scientifici alla ricerca, ecc. Non esiste, insomma, una vera comunità scientifica che lavori in modo competitivo e cooperativo.

«In questa situazione, non può sorprendere che i filosofi più consapevoli dei loro meriti, o semplicemente più intraprendenti, cerchino altrove le gratificazioni e i riconoscimenti che il loro ambiente professionale non gli offre. Da qualche decennio, li hanno in parte trovati nel rapporto col “grande” pubblico, attraverso il canale dei mezzi di comunicazione di massa. Essendo spesso persone intelligenti e duttili, non hanno avuto troppa difficoltà a farsi ospitare dai media. Pochi sono diventati ricchi, ma parecchi hanno raggiunto la notorietà: è già qualcosa» (pag. 53-54)

È un male che esistano gli intellettuali mediatici, e in particolare i filosofi mediatici?…In linea di principio, no; ma in linea di fatto, questi “filosofi mediatici” non fanno divulgazione filosofica, ma contribuiscono alle discussioni in corso, quelle di attualità, come qualsiasi cittadino colto.

Ma ci sono eccezioni, sostiene Marconi: la serie Zettel curata per Rai scuola da Maurizio Ferraris, Mario De Caro e Achille Varzi, molte recensioni pubblicate nelle pagine culturali di alcuni quotidiani, Wikipedia.

Problema: ma si può davvero divulgare la filosofia, o almeno, una buona parte della filosofia? Kant pensava di no. Egli considerava non divulgabile il nucleo essenziale della filosofia «nel senso che non era sensatamente formulabile se non nei termini esatti in cui andava formulato, e doveva essere esposto con tutta la cura e la calma richiesta per tenere a freno l’istinto dogmatico della ragione.» (pag.56). Anche per Diego Marconi ci sono effettivamente dei casi difficili …Ma in molti altri casi la divulgazione è perfettamente possibile, tant’è vero che esiste ed è di buona qualità. (pag. 57)

Due generi di divulgazione filosofica riuscita: a) testi che si presentano come introduzione alla filosofia: Il primo libro di filosofia di Nigel Warburton: «è a tutti gli effetti un testo analitico: ha un’impostazione teorica e non storica, privilegia le argomentazioni e vede la filosofia come un tentativo di risolvere problemi» (pag. 57-58); la Brevissima introduzione alla filosofia di Thomas Nagel; Il primo libro di filosofia della scienza di Samir Okaska, la Brevissima introduzione alla filosofia del linguaggio di Paolo Casalegno e, infine, La moralità di Bernard Williams. b) saggi teorici di filosofia: Paura di conoscere di Paul Boghossian, La verità e i suoi nemici di Michael Lynch, Il mondo messo a fuoco di Achille Varzi; Prima lezione di filosofia di Roberto Casati.

Per la comunità accademica della filosofia analitica le opere di divulgazione non “pagano”, non sono “vere” opere scientifiche. Non la pensa così Diego Marconi. «Credo che, al contrario, la divulgazione di buona qualità dovrebbe essere molto apprezzata dalla comunità accademica, non solo per i suoi meriti intrinseci (un buon libro divulgativo è comunque un buon libro), ma come “servizio alla professione”: è chiaro che opere di questo genere mettono i contenuti teorici analitici a disposizione delle altre discipline e della cultura nel suo insieme, e quindi contribuiscono alla legittimazione della filosofia analitica» (pag. 59). Divulgativo non è sinonimo di “non impegnativo”; è invece sinonimo di “accessibile anche in mancanza di una competenza specialistica” (pag. 60)

 

7.- Conclusione

Questo libretto, pur non rispettando tutti i requisiti di un contributo analitico (pag.74), individua in modo plausibile le ragioni storiche all’origine dello specialismo in filosofia Ne individua altresì le conseguenze e argomenta in modo efficace sulla necessità di una visione “generalista” della filosofia. Una visione che non può sottrarsi ad una dimensione storica. Fanno male, sostiene espressamente, i testi analitici a non fare richiami espliciti ai grandi classici del pensiero e alle loro dottrine. Fanno male a non esplicitare il confronto con la tradizione. La logica non può non confrontarsi con la storia. Anche perché esiste una storia della logica.

Forse il Grande Filosofo non è più possibile, ma se i filosofi, a prescindere dal loro orientamento (analitici, continentali, “contaminati”, né l’uno né l’altro), in nome dello specialismo, non riescono a comunicare e a divulgare, almeno presso il “pubblico colto”, i risultati delle loro ricerche, contestualizzando e valorizzando l’importanza delle conoscenze acquisite, il fatto è assai preoccupante socialmente e culturalmente.

Ritornando al discorso da cui son partito («Povera, e nuda, vai Filosofia »), vuol dire perdita di legittimità. Vuol dire, e non c’è da meravigliarsi, che dei consulenti ministeriali ritengono la materia troppo “specialistica” e, quindi, roba autoreferenziale e per addetti ai lavori.

Se poi pensano, come pensano i più, che la matematica e le scienze producono vera conoscenza, mentre la filosofia chiacchiere a gogò, il cerchio si chiude. E diventa un cappio alla gola per gli artigiani del pensiero.

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DOMENICO ACCORINTI
Friday, 03 July 2020 11:36
(segue da commento 3)
Certo così non era agli albori della scienza moderna (ancora squisitamente filosofica): basti pensare a quanto affermato da Francesco Bacone ne La nuova Atlantide circa l'obbligo, da parte del consiglio dei saggi della polis della scienza da lui descritta, di vagliare se fosse opportuno o meno diffondere le scoperte effettuate nei laboratori della comunità e se fosse utile o meno la loro applicazione tecnica. Di fatto oggi, al posto di tale controllo etico - politico noi osserviamo che sono le forze economiche (non dimentichiamo che l’economia di mercato, che non tollera controlli etico – politici in nome di una degenerata dottrina liberale, che nulla ha più a che spartire col liberalismo classico, ha fatto dell’innovazione tecnologica il fulcro del suo operare brandendo lo scientismo come sua bandiera. Una bandiera teoreticamente logora sin che si vuole, ma sostanzialmente egemone e incontrastata come principio di organizzazione della vita umana globale) che, in base ai propri interessi, decidono se un’applicazione tecnologica è utile o meno alle singole collettività umane organizzate (in modo sempre più fragile) su base politica.

In sostanza l'odierno scientismo nelle sue varie espressioni ha effettuato nei confronti della filosofia un'operazione affine a quella operata nel medio evo dalla teologia: la sua ancillatio a dogmi di fede. Quindi al presente si tende ad affermare, ma, per la verità, negli ultimi decenni in forma sempre meno convinta (si pensi allo svilupparsi della bioetica e delle filosofie ecologistiche), che la scientia activa (e con essa la tecnostruttura) salva sempre e comunque, è un bene in assoluto, per cui non ci sarebbe bisogno, come invece affermava Bacone, di alcun vaglio da parte di saggi dell’utilità per l’uomo di quanto essa mette a nostra disposizione. Ne consegue, dal momento che le scoperte scientifiche (con la conseguente, connessa, innovazione tecnologica) e l’attività economica oggi tendono a presentarsi come due facce della stessa medaglia, che sarà il mercato, che non è certo il luogo della riflessione razionale, ma, caso mai, il luogo del soddisfacimento degli appetiti, più o meno naturalmente necessitati, o più o meno artificiosamente vellicati, a decidere.

Tra il rapporto che lo scientismo, particolarmente nella sua rozza forma attuale, ha imposto tra la scienza (nei fatti la tecnologia applicata nell’ottica delle sue ricadute economiche) e la filosofia (nei fatti la politica) ed il rapporto medievale che vi fu tra teologia e filosofia resta però una differenza: che, mentre la teologia per lo meno lasciava alla filosofia degli spazi (ancorché limitati) in cui muoversi, ciò non accade per lo scientismo, in quanto quest'ultimo contesta della filosofia proprio ciò che gli è peculiare, e cioè il controllo circa la vantaggiosità per l'uomo dell'uso del sapere, dandolo per scontato (scienza = verità = utilità per l'uomo). E' proprio da ciò che ritengo nasca, in concreto, il c.d. contrasto tra scienza e filosofia. Un contrasto impari che, se non venisse sanato ponendo di nuovo la scienza (le conoscenze particolari) sotto il dominio della sapienza (il vaglio critico della vantaggiosità o meno per l'uomo delle conoscenze particolari), non potrebbe che portare alla fine della filosofia (per mancanza della sua componente essenziale), con tutti i rischi che ciò comporterebbe. Rischi enormi, convinti come siamo che per l'uomo la ricerca della saggezza e della felicità tenga luogo dell'infallibilità istintuale dei bruti come strumento di conservazione della specie. L'uomo è fatto "per seguir virtude e conoscenza" non tanto per finalità quanto per necessità.

In conclusione, sopra abbiamo visto che tradizionalmente la filosofia è fatta constare di due elementi. Il primo, e cioè l'acquisto di una conoscenza che sia nel contempo la più valida e la più estesa possibile, è ancor oggi ritenuto validamente facente parte del sapere filosofico, quale momento metascientifico della conoscenza (epistemologia). Il secondo, e cioè l'esame critico che consenta la possibilità di fare un uso della conoscenza (avente le caratteristiche sopra precisate) che sia vantaggioso per l'uomo, invece, viene oggi accantonato in nome dell'egemone scientismo, che vede come salvifica in modo assoluto ed indiscutibile l’applicazione pratica della conoscenza scientifica. E questo accantonamento mette irrimediabilmente in crisi l'idea stessa di filosofia poiché per essa, come abbiamo visto, l'acquisto di una conoscenza è necessariamente in funzione dell'indagine sapienziale che ne vaglia criticamente l'uso a vantaggio dell'uomo. Ma è proprio questa ulteriore nota, avente carattere specifico, cioè questo funzionalizzare la conoscenza alla sapienza (*) (che, ribadiamo, non comporta specificità di oggetto, bensì di atteggiamento), che fa sì che la filosofia sia tale e si distingua da ogni altra forma di sapere e, in particolare, dalla semplice metascienza, che, pur legittimamente, comprende nel suo ambito come momento di conoscenza.

La meditazione filosofica quindi può avere ad oggetto qualsiasi cosa (per cui su tutto si può filosofare e, conseguentemente, al suo interno tutte le specializzazioni d'oggetto sono ammissibili), ma, perché essa possa essere identificata come tale, richiede, a chi compie la meditazione, di stabilire una connessione tra il mondo delle specifiche conoscenze (scienze particolari) ed il mondo delle scelte sapienti, usando poi quelle come mezzo e queste come fine.

A corollario del fatto che la meditazione filosofica può avere come oggetto qualsiasi cosa rileviamo che quindi filosofare non può essere considerata un’attività professionale (cosa ben diversa, naturalmente, è la professione di docente di materie filosofiche per cui sono richieste specifiche competenze sull’evoluzione storica del pensiero filosofico depositatesi nel corso dei secoli nel patrimonio culturale onde istruire ai rudimenti della storia del pensiero) per cui, come diceva Aristotele, ognuno di noi è filosofo per quel tanto che si pone delle domande.


(*) Riteniamo che una delle più felici definizioni di sapientia (l’opposto della stultitia) sia quella che rinveniamo nel Dizionario della lingua latina di Ferruccio Calonghi: “Grande abilità nel giudicare il valore ed il corso delle cose”, e quindi di comprendere il significato di queste ultime. E’ infatti proprio dell’uomo saggio agire conoscendo a fondo gli altri uomini con cui si relaziona e le situazioni in cui versa. Tutto ciò, com’è ben noto, è invece precluso allo stolto, che tale abilità non possiede.
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DOMENICO ACCORINTI
Friday, 03 July 2020 11:27
Dovendo scegliere un punto di partenza per affrontare la questione ritengo che sia opportuno che ci si soffermi brevemente sul concetto di filosofia quale si è venuto consolidando nei secoli e, più particolarmente, quale è stato sinteticamente illustrato alla voce "Filosofia" del "Dizionario di filosofia" di Nicola Abbagnano (alla quale rinvio chi volesse ulteriormente approfondire la questione de qua).

Alla suddetta voce l'Abbagnano propone, come momento supremo di sintesi delle varie modalità con cui la filosofia si è manifestata quale "creazione originale dello spirito greco e condizione permanente della cultura occidentale" (ma, malgrado il riferimento ad una peculiare civiltà, la definizione presentataci si dimostra in grado di fare in qualche modo riferimento anche a modalità meditative proprie di altre civiltà), la definizione illustrata nell'Eutidemo platonico, secondo cui la filosofìa è l'uso del sapere a vantaggio dell'uomo. La filosofia è dunque la scienza nella quale coincidono il fare ed il sapersi servire di ciò che si fa (Eutid., 288e - 290d). Platone osserva che a nulla servirebbe possedere la scienza di convertire le pietre in oro se non ci si sapesse servire dell'oro; a nulla servirebbe la scienza che rendesse immortale se non ci si sapesse servire dell'immortalità; e via dicendo.

Secondo questo concetto, la filosofia implica due elementi (che, osserva l'Abbagnano, ricorrono frequentemente nelle definizioni che sono state date in epoche diverse e da diversi punti di vista, citando, a mo' di esempio, Cartesio, Hobbes, Kant, Dewey):

1) Il possesso o l'acquisto di una conoscenza che sia nel contempo la più valida e la più estesa possibile;

2) L'uso di questa conoscenza a vantaggio dell'uomo.

Osserva poi l'Abbagnano che questa formula ha il pregio di non assumere nulla circa la natura ed i limiti del sapere accessibile all'uomo (I punto) o circa gli scopi cui l'uso può essere indirizzato (II punto).

Ma, a mio giudizio, da un diverso punto di vista andrebbe rilevato che la definizione platonica si caratterizza per il fatto di essere una definizione ab extra, cioè una definizione che si caratterizza non per dei contenuti conoscitivi specifici ma, unicamente, per il riferimento che essa fa ad un orientamento finalistico della conoscenza (come usarla a vantaggio dell'uomo?) a priori indeterminato (il vantaggio per l'uomo, la sua felicità nascenti da quella specifica conoscenza, in che cosa consistono?), anzi delle conoscenze che già esistono di per sé come conoscenze particolari (ed utilizzate con finalità tecniche) al di fuori della filosofia, e che la filosofia fa proprie vagliandone la validità e l'estensione. Se le cose stanno così si deve concludere che, sostanzialmente, l'oggetto della filosofia è la totalità del sapere e non può quindi darsi una contrapposizione tra il sapere oggetto della filosofia e quelli oggetto delle scienze particolari, in quanto il primo ed i secondi da sempre coincidono.

Per conseguenza andrebbe rigettata quella impostazione che tende a contrapporre le scienze positive alla filosofia, o, peggio, a considerare quest'ultima come un dominio di conoscenza "arretrato", ancillato alle scienze positive, al quale, inevitabilmente, queste ultime finiranno con l'erodere sempre più gli spazi conoscitivi man mano che la ricerca scientifica progredirà. Infatti, così impostato, il problema è, in astratto, un falso problema.

Naturalmente nella concretezza dell'evoluzione storica del pensiero occidentale le cose sono andate diversamente: è ben noto infatti che la scienza moderna è nata per contrapposizione alla filosofia (naturale) nella forma concreta della scolastica aristotelica, e che ciò ha determinato un atteggiamento di (illusoria) estraneità della scienza moderna alla filosofia. Sappiamo però che, andando oltre le apparenze, non è così. In realtà la scienza moderna è nata dalle disquisizioni tra due dottrine di filosofia naturale. Galileo si sentiva un filosofo che polemizzava con altri filosofi e, addirittura, soleva dire ai suoi avversari scolastici, dogmaticamente aristotelici, che se Aristotele fosse stato vivo avrebbe considerato lui il suo vero allievo, e non i suoi contraddittori.
Dall'indagine filosofica sul metodo per giungere alla conoscenza della natura si è successivamente passati, aumentando la c.d. autonomia della scienza, alla tecnicizzazione dei risultati ottenuti grazie alla nuova costruzione teorica. Evidentemente in tutto ciò non vi è nulla di antifilosofico, si tratta semplicemente di specifici esiti extrafilosofici sui quali, comunque, la filosofia avrà pur sempre da dire la sua vagliando che vadano effettivamente a vantaggio dell'uomo.

Il fatto è che la modernità, in particolare nei secoli XVIII e XIX, si è spinta sino ad attribuire incondizionatamente alla conoscenza scientifica qualità salvifiche (l’uso del sapere a vantaggio dell’uomo di cui parla Platone), la presenza delle quali invece, secondo la tradizione umanistica, spetterebbe proprio alla filosofia vagliare criticamente introducendo giudizi di valore. Per cui proprio le dottrine filosofiche ancor oggi dominanti (anche se sempre più sottoposte a forti critiche negli ultimi tempi), hanno finito con l'avallare dogmaticamente il principio che automaticamente nella scienza vi siano comunque qualità salvifiche, segnando in questo modo la propria decadenza e, soprattutto, la fine della centralità dell’uomo a favore della centralità delle strutture tecnologiche che, da semplice strumento, quali erano sempre state intese, diventano un vero e proprio fine (si pensi allo strumentalismo del Dewey che, come ci ricorda l’Abbagnano, attribuisce al pensiero scientifico, che viene così sostanzialmente "filosofizzato", nei termini dogmatici di cui sopra, l'impegno morale di una "ricostruzione razionale" della vita umana, della formazione di una tecnica diretta a dominare gli eventi individuali e sociali dell'attività economica, politica, pedagogica, logicamente omogenea alla tecnica costituita per controllare la natura fisica).
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DOMENICO ACCORINTI
Friday, 03 July 2020 11:12
Dovendo scegliere un punto di partenza per affrontare la questione ritengo che sia opportuno che ci si soffermi brevemente sul concetto di filosofia quale si è venuto consolidando nei secoli e, più particolarmente, quale è stato sinteticamente illustrato alla voce "Filosofia" del "Dizionario di filosofia" di Nicola Abbagnano (alla quale rinvio chi volesse ulteriormente approfondire la questione de qua).

Alla suddetta voce l'Abbagnano propone, come momento supremo di sintesi delle varie modalità con cui la filosofia si è manifestata quale "creazione originale dello spirito greco e condizione permanente della cultura occidentale" (ma, malgrado il riferimento ad una peculiare civiltà, la definizione presentataci si dimostra in grado di fare in qualche modo riferimento anche a modalità meditative proprie di altre civiltà), la definizione illustrata nell'Eutidemo platonico, secondo cui la filosofìa è l'uso del sapere a vantaggio dell'uomo. La filosofia è dunque la scienza nella quale coincidono il fare ed il sapersi servire di ciò che si fa (Eutid., 288e - 290d). Platone osserva che a nulla servirebbe possedere la scienza di convertire le pietre in oro se non ci si sapesse servire dell'oro; a nulla servirebbe la scienza che rendesse immortale se non ci si sapesse servire dell'immortalità; e via dicendo.

Secondo questo concetto, la filosofia implica due elementi (che, osserva l'Abbagnano, ricorrono frequentemente nelle definizioni che sono state date in epoche diverse e da diversi punti di vista, citando, a mo' di esempio, Cartesio, Hobbes, Kant, Dewey):

1) Il possesso o l'acquisto di una conoscenza che sia nel contempo la più valida e la più estesa possibile;

2) L'uso di questa conoscenza a vantaggio dell'uomo.

Osserva poi l'Abbagnano che questa formula ha il pregio di non assumere nulla circa la natura ed i limiti del sapere accessibile all'uomo (I punto) o circa gli scopi cui l'uso può essere indirizzato (II punto).

Ma, a mio giudizio, da un diverso punto di vista andrebbe rilevato che la definizione platonica si caratterizza per il fatto di essere una definizione ab extra, cioè una definizione che si caratterizza non per dei contenuti conoscitivi specifici ma, unicamente, per il riferimento che essa fa ad un orientamento finalistico della conoscenza (come usarla a vantaggio dell'uomo?) a priori indeterminato (il vantaggio per l'uomo, la sua felicità nascenti da quella specifica conoscenza, in che cosa consistono?), anzi delle conoscenze che già esistono di per sé come conoscenze particolari (ed utilizzate con finalità tecniche) al di fuori della filosofia, e che la filosofia fa proprie vagliandone la validità e l'estensione. Se le cose stanno così si deve concludere che, sostanzialmente, l'oggetto della filosofia è la totalità del sapere e non può quindi darsi una contrapposizione tra il sapere oggetto della filosofia e quelli oggetto delle scienze particolari, in quanto il primo ed i secondi da sempre coincidono.

Per conseguenza andrebbe rigettata quella impostazione che tende a contrapporre le scienze positive alla filosofia, o, peggio, a considerare quest'ultima come un dominio di conoscenza "arretrato", ancillato alle scienze positive, al quale, inevitabilmente, queste ultime finiranno con l'erodere sempre più gli spazi conoscitivi man mano che la ricerca scientifica progredirà. Infatti, così impostato, il problema è, in astratto, un falso problema.

Naturalmente nella concretezza dell'evoluzione storica del pensiero occidentale le cose sono andate diversamente: è ben noto infatti che la scienza moderna è nata per contrapposizione alla filosofia (naturale) nella forma concreta della scolastica aristotelica, e che ciò ha determinato un atteggiamento di (illusoria) estraneità della scienza moderna alla filosofia. Sappiamo però che, andando oltre le apparenze, non è così. In realtà la scienza moderna è nata dalle disquisizioni tra due dottrine di filosofia naturale. Galileo si sentiva un filosofo che polemizzava con altri filosofi e, addirittura, soleva dire ai suoi avversari scolastici, dogmaticamente aristotelici, che se Aristotele fosse stato vivo avrebbe considerato lui il suo vero allievo, e non i suoi contraddittori.
Dall'indagine filosofica sul metodo per giungere alla conoscenza della natura si è successivamente passati, aumentando la c.d. autonomia della scienza, alla tecnicizzazione dei risultati ottenuti grazie alla nuova costruzione teorica. Evidentemente in tutto ciò non vi è nulla di antifilosofico, si tratta semplicemente di specifici esiti extrafilosofici sui quali, comunque, la filosofia avrà pur sempre da dire la sua vagliando che vadano effettivamente a vantaggio dell'uomo.

Il fatto è che la modernità, in particolare nei secoli XVIII e XIX, si è spinta sino ad attribuire incondizionatamente alla conoscenza scientifica qualità salvifiche (l’uso del sapere a vantaggio dell’uomo di cui parla Platone), la presenza delle quali invece, secondo la tradizione umanistica, spetterebbe proprio alla filosofia vagliare criticamente introducendo giudizi di valore. Per cui proprio le dottrine filosofiche ancor oggi dominanti (anche se sempre più sottoposte a forti critiche negli ultimi tempi), hanno finito con l'avallare dogmaticamente il principio che automaticamente nella scienza vi siano comunque qualità salvifiche, segnando in questo modo la propria decadenza e, soprattutto, la fine della centralità dell’uomo a favore della centralità delle strutture tecnologiche che, da semplice strumento, quali erano sempre state intese, diventano un vero e proprio fine (si pensi allo strumentalismo del Dewey che, come ci ricorda l’Abbagnano, attribuisce al pensiero scientifico, che viene così sostanzialmente "filosofizzato", nei termini dogmatici di cui sopra, l'impegno morale di una "ricostruzione razionale" della vita umana, della formazione di una tecnica diretta a dominare gli eventi individuali e sociali dell'attività economica, politica, pedagogica, logicamente
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Eros Barone
Wednesday, 06 May 2020 18:25
Le aporie sorgenti dai rapporti fra le idee e le cose sensibili in Platone; il destino autoconfutatorio dello scetticismo nel ragionamento ‘elenctico’ attraverso cui Aristotele fonda il principio di non contraddizione; l’argomento del ‘terzo uomo’ nella critica aristotelica e, prima ancora, nell’autocritica platonica della dottrina delle idee; la prova ontologica dell’esistenza di Dio in Anselmo di Aosta e le critiche di Gaunilone, di Kant e di Russell; la contraddittorietà del principio dell’autocausazione e dell’automovimento nelle prove ‘a posteriori’ dell’esistenza di Dio elaborate da Tommaso d’Aquino; il conflitto epistemologico tra realismo e strumentalismo nell’interpretazione della ‘rivoluzione scientifica’ copernicana; il carattere aporetico del dualismo cartesiano; la dimostrazione dell’unicità della sostanza in Spinoza; la deduzione trascendentale delle categorie e le antinomie della ragione in Kant; la deduzione dialettica dell’Io puro in Fichte; l’identità fra soggetto e oggetto nella concezione hegeliana dell’Assoluto; l’inversione dei rapporti di predicazione in Feuerbach; l’analisi del feticismo della merce e la teoria del plusvalore in Marx; il ragionamento con cui Wittgenstein dimostra che, se noi non siamo liberi, non possiamo sapere se siamo o non siamo tali; l’uomo come “essere delle lontananze” in Heidegger; l’uomo come “essere che è ciò che non è e non è ciò che è” in Sartre; l’uomo come allotropo
empirico-trascendentale in Foucault…
Ecco i ‘passaggi’ (alcuni fondamentali, altri opzionali) che fanno dello studio della filosofia una prova difficile e impegnativa che permette allo studente di verificare il suo personale rapporto di adeguatezza o inadeguatezza rispetto alla comprensione di questo universo concettuale. Sennonché, come afferma giustamente Diego Marconi, il punto archimedico dello studio della filosofia (e della stessa filosofia ‘tout court’) è il rapporto tra logica e storia. Va detto allora che tale rapporto è fondato sulla duplice consapevolezza che, per un verso, non vi sono proposizioni filosofiche che godano di una sorta di statuto di extraterritorialità rispetto ai condizionamenti (economici, politici e ideologici) della storia e, per un altro verso, tali proposizioni, quando sono il frutto di una ricerca logicamente argomentata e autenticamente filosofica, ci offrono poche verità assolute e molte verità relative, laddove queste ultime non per questo sono prive di valore e di oggettività. La filosofia, del resto, è in sé una disciplina fortemente selettiva, poiché la ragione stessa, che pure è in linea di principio universale, è, rispetto a categorie particolari ma assai potenti come il sentimento, la tradizione, il pregiudizio, l’immaginazione o la sensazione, un patrimonio per pochi. Ritengo, fra l’altro, che proprio questo sia il motivo che spiega le valutazioni in genere piuttosto estensive che vengono formulate dagli insegnanti di filosofia sulle prestazioni dei loro allievi: una circostanza che spiega anche perché, nel mercato delle ripetizioni, essi non abbiano alcun posto (il che, tutto sommato, è da considerare un titolo di onore). È un grande merito della scuola italiana, che va ascritto ai due diòscuri del neo-idealismo italiano, Croce e Gentile, aver dato all’insegnamento della filosofia un posto importante e non marginale nella ‘ratio studiorum’ dei licei. Occorre, tuttavia, ribadire, dissipando i persistenti equivoci alimentati da semplificazioni banali e da corrive demagogie, che l’accessibilità ‘alla’ cultura non coincide con l’accessibilità ‘della’ cultura e, quindi, con l’accessibilità della disciplina che della cultura è una delle espressioni più alte. Va inoltre tenuto presente il grave danno che alla struttura e al funzionamento della scuola arreca il continuo avvicendamento di ministri 'per caso', personaggi privi di spessore intellettuale e, direi, umano, individui che provengono dal nulla e spariscono nel nulla, segno di una labilità operativa e di una volatilità culturale che trova il suo perfetto corrispettivo simbolico nell'enfasi
didattico-ideologica conferita alla digitalizzazione e allo studio tendenzialmente esclusivo della lingua inglese. Dal canto suo, la filosofia, pur presentandosi alle giovani menti dei nostri studenti con un sorriso in apparenza accattivante, manterrà sempre l’attitudine enigmatica e sfuggente che si ritrova nel sorriso dell’àugure: è vero che quel sorriso è un invito, ma è altrettanto vero che esso è una sfida, poiché riguarda una delle prove più ardue che la ragione dell’uomo proponga all’uomo stesso.
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