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il rasoio di occam

Scienza, storia, società. Riflessioni su epistemologia e politica

di Giorgio Matteoli

Tanto nel senso comune quanto tra gli specialisti si tende a considerare la scienza e la politica come due sfere indipendenti dell’attività umana, e gli scienziati come sostanzialmente immuni da qualsivoglia ideologia. Negli ultimi anni tuttavia è sorta da più parti, all’interno dei science studies, l’esigenza di ripensare la relazione tra la concretezza storico-politica della scienza e le sue fondamementali pretese di universalità, all’interno di un discorso che fosse al contempo epistemologico e politico. Il libro di Pietro Daniel Omodeo, Political Epistemology. The Problem of Ideology in Science Studies, uscito per Springer nel 2019, fornisce un utile quadro di riferimento per orientarsi in questi dibattiti recenti, e più in generale per riflettere criticamente sulle ideologie scientifiche e sul ruolo che la scienza occupa, o potrebbe occupare, all’interno della società

POLITICAL EPISTEMOLOGY 499Sono stati molti i dibattiti che negli ultimi anni hanno riportato in primo piano la questione del rapporto tra scienza e politica: da quello sulla “post-truth” (parola dell’anno nel 2016 secondo gli Oxford Dictionaries) e la cosiddetta “post-truth politics”, al problema degli effetti di una diffusione più o meno controllata di “fake news” nella sfera dell’opinione pubblica; dalle discussioni intorno all’opportunità o alla presunta preferibilità di una democrazia diretta contro gli spettri tecnocratici della democrazia rappresentativa, fino al ruolo politico effettivamente assunto dagli scienziati, tanto nei mezzi di comunicazione di massa quanto all’interno dei comitati tecnico-scientifici, rispetto alla gestione della crisi sanitaria attuale.

Il problema del legame tra la scienza (e più in generale, la conoscenza) e la politica è ovviamente molto più antico di questi dibattiti, e costituisce di fatto uno dei rompicapo più complessi e persistenti, soprattutto a partire dall’età moderna, nella storia della cultura occidentale.

Quasi tutti i suoi protagonisti hanno intrattenuto rapporti significativi e in certi casi epocali con i centri del potere: è noto che Platone corteggiò il tiranno Dionigi di Siracusa per fondare una società guidata da filosofi-re; Filippo II di Macedonia fece dare lezioni private a suo figlio Alessandro da Aristotele; Agostino combatté i problemi di ordine pubblico sollevati nella sua Ippona da manichei, donatisti, ariani e pelagiani; Carlo Magno chiamò a corte Alcuino di York come consigliere privato, e gli affidò il compito di fondare e amministrare la Schola Palatina; e Bernardo di Chiaravalle diventò l’ideologo e il promotore delle crociate. Con l’età moderna la relazione tra sapere e potere non fece che intensificarsi, grazie agli interessi politici ed economici cui gli enormi progressi tecnologici garantiti dalla nuova scienza potevano rispondere. Basti pensare che (sempre ricordando solo i casi più famosi) il papa Gregorio XIII riformò il calendario che oggi porta il suo nome utilizzando i risultati astronomici di Copernico; Tycho Brahe lavorò alla corte del re Federico II di Danimarca e il suo assistente Keplero presso quella di Rodolfo II a Praga; Galileo, prima di mettere il suo telescopio al servizio del doge di Venezia e dei Medici di Firenze, lavorò all’Arsenale costruendo strumenti militari all’avanguardia - e si potrebbe proseguire sino agli esempi più recenti ed eclatanti, da Oppenheimer e Fermi a Watson e Crick.

Sebbene gli esempi appena ricordati siano molto noti (alcune di queste vicende sono state messe in scena anche a Hollywood) si fa fatica di norma a concepire la scienza e la politica come due sfere intimamente connesse dell’attività umana. Apparentemente non le si pensa viaggiare su binari del tutto separati. Si discute spesso dei rapporti che dovrebbero intrattenere, o della preminenza che sarebbe meglio accordare all’una invece che all’altra: in fondo, abbiamo accolto con favore la scienza che ha reso possibile frigoriferi e navigatori GPS e biasimiamo quella che ha prodotto la bomba atomica e l’effetto serra. Tuttavia, secondo un’idea che struttura profondamente la nostra geografia concettuale (almeno su un piano normativo, se non descrittivo) la scienza e gli scienziati sono concepiti di fatto come sostanzialmente immuni da qualsivoglia visione del mondo o ideologia. L’universalità astratta della scienza e la dimensione storica - politica, economica, filosofica, sociale, religiosa - concreta di cui essa si trova sempre a far parte si concepiscono di norma su due poli antitetici; come sfere che possono sì talvolta entrare in contatto, ma dovrebbero rimanere separate per preservare la purezza dell’una dalle compromissioni mondane dell’altra. Allo scienziato che sta nella “torre d’avorio” si chiede di uscire, per entrare nella “piazza”: che la torre sorga già nella piazza passa inosservato.

Tale compartimentazione tra la teoria e la prassi scientifica non si riscontra soltanto nel senso comune, ma informa anche i discorsi nei quali prende corpo la coscienza ideologica diffusa e collettiva della scienza, ovvero quelli di chi su di essa riflette per professione. Infatti, all’interno dei science studies (intesi nell’accezione più ampia possibile come qualsiasi meta-discorso sulla scienza, indipendentemente dal fatto che a condurlo siano filosofi, storici, sociologi, antropologi, divulgatori o gli scienziati stessi) la linea maggioritaria ha sempre contribuito a legittimare tale distinzione, tenendo rigidamente separate le questioni riguardanti la “genesi” da quelle riguardanti la “validità” della conoscenza scientifica. L’unico aspetto della scienza intorno a cui è possibile dire qualcosa di rigoroso - così suona la manualistica tradizionale - è il cosiddetto “contesto della prova” o della “giustificazione”: tutta quella serie di procedure astratte e universali, assunte come indipendenti dall'ambito della loro formulazione, in cui le teorie scientifiche vengono sottoposte deduttivamente a validazione, conferma o confutazione empirica. Al contrario, del “contesto della scoperta”, cioè di quello che riguarda l’ambito delle cause e delle motivazioni per cui le teorie scientifiche vengono formulate, si potrà dire ben poco di veramente razionale, e tutt’al più esso potrà interessare a psicologi, sociologi o politologi.

Contro questa tendenza riduzionistica, all’interno dei science studies si è costituita nel corso dell’ultimo secolo una corrente di ricerca, generalmente nota come “epistemologia storica”, la quale, nonostante il suo carattere relativamente minoritario e l’eterogeneità interna tra le diverse prospettive teoriche che ne fanno parte, ha sviluppato una prospettiva metodologica volta a ripensare la relazione, sempre dialettica, tra la concretezza storica della scienza e le sue (legittime) pretese di universalità. Anche se le è stato dato un nome soltanto dopo la seconda guerra mondiale (e precisamente in Francia, ad opera di alcuni allievi del filosofo e storico della scienza Gaston Bachelard) tuttavia le stesse esigenze e motivazioni teoriche di fondo di questa tradizione erano già presenti sin dalla fine del secolo precedente anche in altri ambienti e correnti culturali, come il neokantismo tedesco e la fenomenologia dell’ultimo Husserl, certe frange del pragmatismo italiano o la Vienna di Ernst Mach. E nemmeno si può dire che in seguito essa sia rimasta confinata al contesto francese, come dimostrano alcune riformulazioni significative nel mondo anglosassone e, a partire dagli anni Novanta, nella “scuola di Berlino” dell’Istituto Max Planck di Storia della Scienza.

Negli ultimi anni sono stati soprattutto alcuni studiosi dell’Istituto berlinese a gettare le basi per lo sviluppo di un programma di ricerca comune che assumesse esplicitamente come oggetto di studio le complesse interazioni tra le strutture epistemiche, economiche e politiche della scienza, con il fine di fondare e praticare una vera e propria “epistemologia politica”.[1] Il libro di Pietro Daniel Omodeo[2] Political Epistemology. The Problem of Ideology in Science Studies (Springer 2019) si colloca all’interno di questo tentativo, e si presenta come un’indagine volta a far emergere le “collective agendas”, i programmi collettivi politici e teorici che orientano (talvolta anche in maniera irriflessa e sotterranea) i discorsi sulla scienza. L’autore rileva fin dalle prime pagine che un’operazione di questo genere ha la funzione di contrastare una ulteriore tendenza “de-politicizzante” sorta internamente ai science studies dopo la fine della Guerra Fredda, in un clima da “fine delle grandi narrazioni” e “fine della storia”. Tale tendenza sarebbe consistita nel far retrocedere sempre di più sullo sfondo, se non a far scomparire del tutto, ogni presa di posizione esplicita da parte dei ricercatori rispetto al significato politico-culturale più ampio delle proprie indagini epistemologiche: si tratterebbe cioè di una forma di ideologia scientista, solidale a quella più generale che abbiamo richiamato in apertura, la quale assume in maniera indebita l’universalità astratta del proprio oggetto (la scienza) sul proprio discorso, ammantandolo di imparzialità e neutralità ma oscurandone così l’inevitabile posizionamento storico-culturale.

Questo libro intende contribuire a un’inversione di tendenza, una “ri-politicizzazione” dei science studies che serva a portare in primo piano il ruolo giocato dalle condizioni normative di natura politica, economica e culturale nella produzione e riproduzione della conoscenza. L’operazione ha carattere programmatico più che conclusivo; e tuttavia non si limita a indicare genericamente una via di ricerca, ma si sforza soprattutto di mostrare delle strategie e dei metodi per percorrerla. Il principale strumento teorico che viene impiegato per corrodere la patina di neutralità dello “sguardo da nessun luogo” assunto in questo campo discorsivo è la nozione di “ideologia”, da intendersi volendo come un sostituto più performante del concetto kuhniano di “paradigma”. Questo concetto viene riattivato da Omodeo (dopo un’importante disamina storica dei suoi diversi usi, da Mannheim a Althusser) accogliendo il significato particolare che esso ha nella filosofia di Antonio Gramsci, autore chiave per la rilettura critica della storia dei science studies condotta nel libro e padre nobile di questa versione dell’epistemologia politica. Così il termine non è inteso in un senso deteriore, come un inconscio collettivo o una dimensione irrazionale (pseudo-scientifica, mistica o religiosa) da dissolvere in quella a-ideologica della razionalità scientifica. Al contrario, secondo la lezione gramsciana, non c’è rottura tra la scienza e l’ideologia: ogni scienza porta su di sé le tracce del collettivo in cui si è formata storicamente, e lo stesso vale per i meta-discorsi che la analizzano. Tali tracce possono essere oscure e irriflesse oppure esplicite e consapevolmente avallate, a seconda del grado di «auto-riflessività» che di volta in volta viene impiegato. In tal modo la scienza cessa di essere concepita come terreno neutrale, e si rivela nel suo carattere di «prassi culturale», come campo di «lotte per l’egemonia» in cui si perseguono fini collettivi in conflitto tra loro [pp. 6-8].

Gramsci infatti aveva notato che «ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o più ceti di intellettuali che gli danno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico».[3] Intese come programmi epistemologici collettivi definiti dai “ceti intellettuali” del “gruppo sociale” degli scienziati, le ideologie scientifiche dunque non sono mai perfettamente descrittive rispetto alla scienza reale su cui riflettono, ma contengono sempre anche una componente normativa. Non hanno carattere meramente parassitario rispetto alla scienza che studiano, ma ne costituiscono parte integrante, perché ne determinano il significato socio-culturale, chiariscono quali siano i problemi legittimi e rilevanti che essa dovrebbe affrontare, stabiliscono metodologie, strategie argomentative e retoriche comunicative. A diverse immagini della scienza e del ruolo che dovrebbe assumere nella società di cui fa parte corrispondono così differenti immagini del futuro di entrambe.

Sulla base di queste premesse, Omodeo sceglie di sviluppare la riflessione intorno alle ideologie che strutturano i science studies attraverso un’analisi dei problemi e delle lotte egemoniche più importanti che hanno segnato la storia di tale campo di studi. Dei cinque capitoli di cui si compone il libro (se si escludono introduzione e conclusione) i primi quattro sono dedicati a posizionare l’epistemologia politica rispetto a tali problemi: il rapporto tra teoria della conoscenza e teoria della società e l’uso politico della storiografia (cap. 2), la questione della continuità o discontinuità del progresso scientifico e il rapporto tra scienza, tecnica, tecnologia e modernità (cap. 3), l’opposizione - non solo teorica - tra metodologie “internaliste” e “esternaliste” (cap. 4), il posto da assegnare alla scienza nella relazione tra la struttura economica e la sovrastruttura ideologica e il ruolo e la funzione assunta dagli “intellettuali” all’interno di tale quadro (cap. 5). L’ultimo capitolo invece è interamente dedicato a Gramsci, sia nel senso che ripercorre la storia travagliata delle appropriazioni della sua filosofia all’interno dei science studies, sia perché fornisce alcuni spunti per la messa in atto di un’epistemologia e una storiografia concepite alla luce della teoria dell’egemonia.

Coerentemente con le premesse dell’epistemologia storica, che l’epistemologia politica intende sviluppare, questo lavoro si propone come una «ricerca storica di teoria della conoscenza» e una «indagine teorica intorno al nostro passato epistemico» [p. 4]; e va segnalato che non si tratta (come spesso accade) di una vuota proclamazione d’intenti, poiché in effetti l’argomentazione filosofica e le ricostruzioni storiche sono sempre tenute insieme con lucidità e precisione, concertandosi in un modo che dà nell’insieme un contributo fondamentale nel suo campo: se anche un lettore dovesse rifiutare molte delle conclusioni a cui giunge l’autore, dovrebbe comunque tenere conto del libro per il valore delle sintesi e delle mappature storiografiche che vi si trovano. Proprio a causa della ricchezza dei dettagli e dei riferimenti di tale operazione “cartografica”, nello spazio di queste poche cartelle sarà necessario ridurre la scala di rappresentazione del nostro quadro, estrapolando due tesi che appaiono particolarmente rilevanti.

La prima ha carattere più marcatamente epistemologico, e fornisce una possibile soluzione al problema per eccellenza di ogni teoria della conoscenza, cioè quello del rapporto tra il soggetto e l’oggetto del sapere. L’autore ha il merito di aggiungere profondità e di sottolineare il significato politico di tale problema: diverse epistemologie elicitano o legittimano diversi effetti politici, e implicano sempre un’opposizione di progetti sociali ed etici, concezioni della realtà e della verità; cosicché da un punto di vista politico non è indifferente sostenere, per esempio, che la verità esiste ed è conoscibile date certe condizioni oppure che essa è inconoscibile e tutto ciò che resta è il proliferare incontrollato delle interpretazioni particolari.

Omodeo costruisce la propria proposta a partire da un’attenta ricognizione storica e un corpo a corpo teorico con i modi in cui la questione è stata impostata nell’ultimo secolo all’interno del suo ambito di studi (che certamente rispecchiano una situazione culturale di più ampia portata) e individua in particolare due tendenze complementari e polarizzate. La prima, di impronta «strutturalista» (il bersaglio polemico è soprattutto Althusser) avrebbe marginalizzato il ruolo della soggettività umana in favore di un’attenzione quasi esclusiva verso gli aspetti oggettivi e appunto “strutturali” della conoscenza, restituendo l’immagine di «un’evoluzione del sapere senza soggetto» anti-storicista e anti-umanista. Una seconda tendenza di segno opposto alla prima sarebbe stata invece quella più latamente post-moderna (si pensi al cosiddetto “costruttivismo sociale” e ad autori come David Bloor, Barry Barnes, Bruno Latour e, per l’epistemologia storica, Lorraine Daston) incline a una «radicalizzazione soggettivistica» che ha trascurato la dimensione oggettiva, ovvero il referente, della conoscenza [pp. 21-8].[4]

Entrambe le tendenze (e soprattutto la seconda, che di più sembra riguardarci ancora da vicino) andrebbero superate per la loro unilateralità e parzialità, ed è questo il tentativo che l’autore si propone. La posta in gioco politica nell’eliminazione del soggetto o dell’oggetto della conoscenza infatti sta in questo: che se si smette di parlare di validità e di verità del sapere (a prescindere dal fatto che lo si faccia perché non è rimasto alcun soggetto a parlarne o perché si ritiene che sia impossibile farlo) non resta che la mera «volontà di potenza» di chi occupa il posto dell’emittente del discorso, e si lascia così libero gioco alla «legge del più forte in epistemologia» [pp. 29-30]. Così Omodeo adotta due strategie per orientare i science studies nella direzione opposta. Da un lato, invita a riscoprire alcuni autori marginalizzati dai diversi canoni disciplinari, e su tutti Ludwik Fleck, medico e filosofo polacco fautore di un’epistemologia degli «stili di pensiero» collettivi attenta a non rinunciare (per usare una terminologia in voga nel mondo anglosassone) né alla structure né alla agency della scienza [p. 30-1]. Dall’altro, si sforza di importare all’interno dei science studies stimoli provenienti da altre regioni del sapere - come si ricordava, soprattutto dalla teoria politica di Antonio Gramsci (per la sua «teoria dell’egemonia» e la concezione dell’«intellettuale organico») e dalla sua «filosofia della prassi» umanista e storicista, capace di fornire gli strumenti teorici per pensare la funzione sociale e politica dell’attività scientifica [32-6].

La seconda tesi è una lezione di metodo storico, che riprende e applica a dei casi particolari la critica gramsciana alla filosofia della storiografia di Benedetto Croce.[5] Omodeo invita a considerare le principali opposizioni concettuali (apparentemente solo teoriche) che hanno dato forma ai science studies - come i capitoli tematici nell’indice del manuale di una disciplina - nella loro dimensione di schieramenti di campo a un tempo politici e teorici. Tuttavia ciò non serve a scrivere manuali più accurati o completi: definire le radici ideologiche e le conseguenze pratiche delle concettualizzazioni storico-culturali della scienza non vuole avere una portata solo interpretativa, ma soprattutto trasformativa rispetto al presente e al futuro del campo di studi entro il quale si colloca [pp. 7-8]. Ri-concettualizzare la scrittura del passato di una disciplina significa anche, per via mediata, trasformare la rappresentazione del presente di quella disciplina e della possibile dinamica di sviluppo delle lotte egemoniche che essa ha ereditato.

Tra i molti casi storici che nel libro l’autore rilegge a partire da tale proposito metodologico, di particolare interesse è la disputa ormai classica tra “internalismo” ed “esternalismo”, che a lungo ha impegnato gli storici e i filosofi della scienza nel corso del Novecento. In breve, e con un certo grado di approssimazione, i due approcci si distinguono per il diverso ruolo che assegnano ai fattori materiali extra-teorici nella genesi e nello sviluppo della scienza. Gli internalisti ritengono che la si debba studiare prescindendo da tali fattori, privilegiando le ragioni “interne” alla scienza stessa (argomenti deduttivi, costruzione teorica degli esperimenti, conferma e disconferma empirica). Gli esternalisti al contrario danno più peso alle componenti sociali ed economiche del processo conoscitivo (interessi e motivazioni private, lotta per il prestigio, organizzazione istituzionale e politiche di finanziamento delle comunità scientifiche). Ma come mostra Omodeo non si è trattato affatto di una semplice divisione di campo teorica. Seguendo gli sviluppi di questo dibattito a partire dalle sue origini nel secondo dopoguerra, si nota come la cesura tra le due opzioni dipendesse in realtà dal lato della “cortina di ferro” che il ricercatore sosteneva; e il lettore potrebbe stupirsi scoprendo che, proiettate su questo sfondo, molte delle vicende personali o delle tesi di autori anche notissimi e citatissimi (su tutti Thomas Kuhn e il suo protettore James Bryant Conant, direttore del progetto Manhattan) assumono una tonalità politica che si potrebbe non voler più assumere con leggerezza e in maniera irriflessa.


Giorgio Matteoli è dottorando all'Università di Torino

NOTE
[1] https://www.mpiwg-berlin.mpg.de/page/political-epistemology (Aprile 2020).
[2]Professore di Epistemologia storica all'Università Ca' Foscari di Venezia.
[3]A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 2007, Vol. III, Q12, §1, p. 1513.
[4]Per una discussione più ampia e accessibile, si veda anche P. D. Omodeo, Soggettività, strutture, egemonie: questioni politico-culturali in epistemologia storica, «Studi culturali», XV, 2, 2018, pp. 211-34.
[5]«Se il politico è uno storico (non solo nel senso che fa la storia, ma nel senso che operando nel presente interpreta il passato), lo storico è un politico e in questo senso […] la storia è sempre storia contemporanea, cioè politica», A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 1242.

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