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La classe operaia che non volle farsi Stato: Linea di condotta
di Sandro Moiso
Emilio Quadrelli, Autonomia Operaia. Scienza della politica, arte della guerra, dal ’68 ai movimenti globali, in appendice la ristampa anastatica del numero unico della rivista Linea di condotta del 1975 con una introduzione inedita, Interno 4, 2020, pp. 352, 20 euro
“Cos’è un grimaldello di fronte a un titolo azionario? Che cos’è la rapina di una banca confronto alla fondazione di una banca? Che cos’è l’omicidio di fronte al lavoro?” (L’opera da tre soldi – Bertolt Brecht)
Credo sia giusto, in questo quarantunesimo anniversario del 7 aprile e del teorema Kalogero, tornare a parlare di un’opera giunta alla sua terza edizione. A quattro anni dalla seconda (2016) e a dodici dalla prima (2008). Un’opera, quella di Emilio Quadrelli, che non soltanto ripercorre la storia dell’autonomia operaia italiana, dai primi anni Sessanta fino alla metà degli anni Ottanta, a partire dal conflitto e dall’iniziativa di classe che la fondarono e le diedero le gambe su cui marciare, ma che, in questa nuova edizione, aggiunge un dato di tutto rispetto: la ristampa anastatica del numero unico della rivista Linea di condotta uscito nel 1975, accompagnata da un’esauriente Introduzione a cura dello stesso Quadrelli.
Una rivista uscita in numero unico, con datazione di copertina luglio-ottobre 1975, che avrebbe preceduto di poco «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti», uscito poi in nove numeri tra l’autunno di quello stesso anno e il settembre del 1977, di cui si è occupato recentemente sempre Emilio Quadrelli per Red Star Press (qui) proprio per riportare alla luce un’esperienza di analisi e pratica politica militante troppo a lungo rimossa dalla ‘storia ufficiale’ di ciò che è entrato nella memoria collettivaa come Autonomia Operaia.
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Il modo di produzione informatico
di Daniela Danna
Le parole di Marx a proposito dei cambiamenti del modo di produzione colpiscono oggi, agli inizi di aprile 2020, come una sassata: “A un determinato stadio del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, ovvero – ciò che ne è semplicemente l’espressione giuridica – con i rapporti di proprietà nel quadro dei quali fino ad allora si erano mosse. Da forme di sviluppo delle forze produttive, questi rapporti si convertono in loro catene. Arriva così un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica, l’intera immensa sovrastruttura si trascina più o meno rapidamente nel cambiamento”1.
Oggi per accomodare le nuove forze produttive è necessaria la fine della sfera della privatezza, della privacy in inglese, l’espressione con cui si intende la capacità dei singoli di sottrarsi allo sguardo degli altri, e nuove enclosures nell’ambito delle trasmissioni elettromagnetiche.
Le forze di produzione si sono infatti sviluppate (o “evolute”, come in altre traduzioni) rendendo possibile il controllo a distanza dei lavoratori. “Evolute” lo si può dire naturalmente nel senso di rendere possibili profitti maggiori, questo è in un sistema capitalistico l’unico senso del loro “sviluppo”, cioè della direzione che economia e società stanno prendendo, direzione voluta e guidata dalla classe dominante.
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Moneta a debito o NON a debito?
di Francesco Cappello
Uno scudo a protezione del risparmio privato e del Paese
Perché chiedere pericolosissimi prestiti internazionali se in casa nostra abbiamo risorse sufficienti ad affrontare la crisi sistemica in atto ed organizzare la rinascita del paese? Per chi non lo sapesse, noi italiani, abbiamo un risparmio privato pari a quasi il doppio del debito pubblico! 4200 miliardi da impiegare virtuosamente, proteggendoli allo stesso tempo, ed efficacemente, da instabilità finanziarie e dalla normativa bail-in introdotta dall’unione bancaria europea. Esiste un preciso piano di attacco al risparmio italiano da parte di certa finanza a cui è necessario non prestare il fianco. Esso va protetto e valorizzato secondo i dettami della Costituzione che al primo comma dell’art. 47 afferma: la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Lo si può fare tramite l’emissione di titoli di Stato: “buoni di solidarietà e protezione“ riservati al risparmio nazionale secondo la proposta originale di G. Grossi. Non farlo nelle condizioni attuali del paese sarebbe una scelta criminale.
Moneta nazionale o economia di puro debito?
Come dice l’ex Presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan: uno Stato che emette la propria valuta, ha zero possibilità di fallire.
Oggi, alla categoria dei debitori appartengono non solo famiglie e imprese ma interi popoli e le loro organizzazioni statali.
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Sfatiamo gli equivoci e prendiamo coraggio!
di Alberto Micalizzi
Una serie di equivoci di fondo sul funzionamento dell’Unione Europea sta creando un’enorme confusione tra i non addetti, lasciando che i nostri rappresentanti agiscano nello spazio compreso tra ignoranza e malafede.
Equivoco N. 1 – La BCE non è una banca centrale
Pochi hanno compreso che il sistema bancario europeo non ha una banca centrale. Affinché la BCE fosse tale, dovrebbe poter fare due cose esplicitamente vietate dai trattati istitutivi:
i) Il prestito di ultima istanza agli Stati mediante l’acquisto diretto dei titoli di Stato, così come fa la Banca d’Inghilterra, la FED americana o la Bank of China.
ii) Perseguire l’obiettivo della crescita economica, anziché quello della stabilità dell’inflazione.
Dunque, cos’è la BCE? E’ una stanza di compensazione tra banche commerciali finalizzata prioritariamente al buon funzionamento del mercato interbancario. Andrebbe ridenominata “Organo di armonizzazione del mercato interbancario”.
Un altro equivoco strutturale riguarda il Quantitative Easing (QE), che potremmo italianizzare chiamandolo “agevolazione creditizia”.
Si crede che la BCE attui l’agevolazione creditizia a favore delle banche affinché queste portino liquidità all’economia reale (famiglie e imprese). Sbagliato.
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Il Coronavirus detonatore di una nuova crisi globale
di Zosimo
Dal cuore del capitalismo globale, gli USA, matura una crisi economica di proporzioni inedite che dovrebbe porre fine ad un trentennio di dominio assoluto del neoliberismo
L’avvento dell’emergenza COVID-19 negli USA sta mettendo a nudo la realtà e le contraddizioni del sistema politico ed economico. Dopo aver cercato in tutti i modi di ignorare e posticipare l’entrata nella crisi, quando la gravità’ della situazione ha messo la classe politica con le spalle al muro ecco che allora si è messo in moto anche qui il processo che già è stato vissuto in Cina e in Europa, ma naturalmente tutto in salsa americana.
Innanzitutto la direzione politica della crisi ha evidenziato le divisioni e le differenze esistenti nel paese: il Presidente Trump, sia per atteggiamento personale e politico di fondo, sia sotto la pressione di molte potenti lobbies, ha cercato fino all’ultimo di non interrompere del tutto il rituale capitalistico della produzione e del consumo. Non che le sue controparti democratiche si siano comportate in modo differente. Magari in modo meno eclatante e visibile ma anche loro sono rimasti ad osservare finché hanno potuto. Poi alcuni, e tra questi si è distinto il Governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo, hanno capito che era il momento di intervenire con risolutezza, per non rimanere del tutto travolti dalla valanga dell’emergenza sanitaria in arrivo. Ed hanno scavalcato Trump che poi nei giorni e settimane successive è stato costretto ad inseguire per non perdere credibilità’ di fronte alla gran parte della popolazione.
Un’emergenza sanitaria che negli USA è esplosa in modo fragoroso nei numeri e nella velocità di diffusione tanto da assicurare nel giro di pochi giorni alla potenza imperialista per eccellenza del capitalismo globalista contemporaneo la triste e non invidiabile leadership mondiale per numero di contagi.
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L'istituzione totale
di Piotr
1. Diversi miei amici indiani mi hanno più volte scritto per avere notizie sull'epidemia da coronavirus in Italia. Nella mia ultima risposta ho espresso la preoccupazione per l'esito neo-totalitario che questa crisi può avere, che è forse ancora più chiaro degli esiti economici e finanziari che per ora io non riesco ancora a mettere bene a fuoco.
La risposta di uno di essi mi ha particolarmente colpito. Devo subito dire una cosa: questo mio interlocutore indiano non è uno che girovaga su Internet alla ricerca di notizie stravaganti. E' una persona di sinistra, è un pacifista, sostiene in modo militante il dialogo tra India e Pakistan, odia i fanatismi ed è persona intrinsecamente tollerante e riflessiva. In più è un ottimo matematico, è stato dean del Dipartimento di Matematica Pura di una prestigiosa università indiana, è razionale e non crede alle spiegazioni soprannaturali.
Ecco cosa mi ha scritto:
“Amico mio, tu dici di non credere alle teorie cospirazioniste. Va bene. Tuttavia io percepisco (I am feeling) che si stia in realtà preparando una grande cospirazione: a great conspiracy is brewing up”.
Attenzione alle parole, perché il mio corrispondente, è una persona molto istruita e meticolosa e non le usa a caso: “isbrewing up” significa “si sta preparando”, “sta fermentando”, “si sta apparecchiando”. Quindi il mio amico non sostiene che il coronavirus sia frutto di una cospirazione (cosa indimostrabile oggi e che con molta probabilità non sarà mai possibile dimostrare e comunque è ininfluente per il discorso politico che dobbiamo fare), ma che la crisi del coronavirus permette una cospirazione.
Poi specifica cosa intende per “cospirazione”: “Mentre noi siamo confinati a casa si sta ordendo ogni misfatto: all misdeeds are being hatched”.
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Un solo mondo, una sola salute, una sola umanità
di Michele Nobile
Ho il piacere e l’onore di collaborare con Michele Nobile dalla metà degli anni ’70, da quando, di me più giovane e appena uscito dal liceo, s’impegnò attivamente nel movimento rivoluzionario italiano e internazionale. Conosco il suo carattere modesto, schivo e restio rispetto a qualsiasi ambizione di carriera politica o di spettacolarizazione della propria enorme preparazione teorica. Per questo mi assumo la responsabilità – e spero che lui non me ne abbia – di proporre questo suo nuovo testo come un Manifesto politico per la fase che stiamo vivendo e per quella che la pandemia capitalistica sta aprendo di fronte a noi.
Considerare questo testo come un Manifesto politico internazionale non implica alcun vantaggio per Michele o per il blog rossoutopico al quale egli collabora. Non implica nemmeno alcuna proposta organizzativa o alcuna demagogia agitazionistica. È solo un Manifesto delle coscienze che può essere ignorato o valorizzato.
Tutto qui, ma è moltissimo perché nel profluvio di testi che stanno dilagando in Rete e nel mondo, questo Manifesto può rappresentare una solida pietra di partenza: senza secondi fini elettorali, senza ambizioni di carriera politica o accademica, senza demagogia gruppettara e minoritaria.
Il mondo andrà come andrà, il capitalismo purtroppo sopravviverà anche a questo suo nuovo crimine (qui descritto in poche parole da Michele), ma alcuni di noi non gli concederanno la cosa più importante: la nostra libertà di pensiero e la nostra convinzione che solo l’abolizione del capitalismo su scala mondiale (Cina compresa) potrà preparare l’umanità alle prossime gravissime emergenze climatiche ed epidemiologiche rispetto alle quali questa pandemia capitalistica da Coronavirus sembrerà solo una piccola prova generale.
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Per una “economia di guerra” sanitaria
di Giorgio Gattei, Antonino Iero
1. La teoria di una “economia di guerra”
L’economia ha le sue regole inflessibili e se la lotta al Coronavirus assomiglia sempre di più ad una guerra, sebbene sanitaria, allora si devono considerare i passaggi obbligati della c.d. “economia di guerra”, che è una dignitosa branca della scienza economica sviluppata nel corso delle due guerre mondiali del Novecento ed elaborata in Gran Bretagna, in Germania, negli Stati Uniti ed anche in Italia. Proprio da noi, tra il 1939 e il 1943, è stato teorizzato un “circuito monetario di guerra” che abbina alla “mobilitazione delle risorse produttive”, sia materiali che umane, anche e soprattutto una mobilitazione della moneta necessaria per soddisfare il bisogno collettivo della “vittoria sul nemico”[1]. Infatti, per affrontare una guerra (anche sanitaria) non basta pianificare l’apparato “di contrasto” adeguato, ma bisogna anche programmare le modalità del suo finanziamento. Per questo il punto di partenza del “circuito” non può stare che nelle mani dello Stato, con tutta la “potenza di fuoco” della produzione di quella sua “moneta sovrana” nella quantità necessaria a sostenere il fronte di combattimento (che in una guerra sanitaria è rappresentato dagli ospedali, mentre i soldati sono i medici e gli infermieri ed i caduti sono, in primo luogo, il personale sanitario e, in secondo luogo, i malati che non ce l’hanno fatta).
Lo Stato deve quindi immediatamente spendere (in questo caso la fretta è buona consigliera) e non può pensare di ricavare il denaro che gli serve con gli strumenti tradizionali del fisco (troppo lento) o del debito pubblico (troppo incerto).
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The next thing: accelerazione tecnologica e digital divide ai tempi del Covid-19
di Serena Ciranna
La pandemia ha cambiato la nostra percezione del Web e messo in evidenza gli effetti della diseguaglianza generazionale nell’accesso al digitale. Se i principali esclusi e a rischio sono gli anziani, le nuove generazioni potrebbero essere le vittime di una assuefazione informazionale che li espone al pericolo della disattenzione
La pandemia e l’accelerazione digitale
Nelle prime settimane d’isolamento forzato per rallentare il contagio del Covid-19, l’universo digitale ha subito un’improvvisa espansione. Le conseguenze si sono viste rapidamente sia nei contenuti prodotti online che al livello dell’infrastruttura. L’apparato era già lì, ma in pochi giorni ha dovuto reagire ad una domanda sempre più forte. Amazon è stata forse la sola impresa ad assumere impiegati in massa quando altre aziende mandavano i propri a casa. Dall’inizio della crisi, Facebook e la sua controllata WhatsApp, hanno rilevato un aumento del traffico del 50%. Applicazioni di collaborazione a distanza come Slack e Zoom hanno dovuto far fronte a una richiesta inedita. Costretti a fare i conti con l’intimità domestica, con i familiari o con la solitudine, con il tempo ritrovato o la noia, ci siamo rivolti alle tecnologie che avevamo a disposizione sempre più indiscriminatamente e per un ventaglio sempre più ampio di attività. Di conseguenza, il nostro modo di essere utenti di questi servizi è cambiato, non solo in termini di quantità ma di qualità. Dipendenti dalle notizie che venivano dall’esterno, confinati in casa, la nostra connessione a Internet è diventata in molti casi l’unico canale per lavorare, fare la spesa, tenere i contatti con amici e familiari lontani. I nostri dispositivi si sono popolati di applicazioni di cui molti non avevano mai sentito parlare prima, i contenuti pubblicitari sui social media si sono subito adattati a nuove forme di consumo – puntando sugli acquisti online e su prodotti specifici come l’abbigliamento da casa, gli e-books, applicazioni per fare esercizio tra le mura domestiche.
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Il sogno europeo condannato a morte dall’Eurogruppo
di coniarerivolta
“Amarti m’affatica, mi svuota dentro”. Dovrebbe essere questo il ritornello che da anni riecheggia negli animi di migliaia di elettori di sinistra, impegnati nella costruzione del sogno europeo. Un sogno a cui la realtà, e non il virus, ha in questi giorni inferto il colpo finale. Chi ha seriamente la volontà di spostare le condizioni di vita delle classi subalterne su un sentiero di progresso e uguaglianza non può che prendere atto di come la miseria delle scelte politiche di queste ore, ed in particolare le recenti risultanze dell’Eurogruppo, sia certificata dal marchio CE. Un Eurogruppo che è stato chiamato a pronunciarsi, vale la pena ricordarlo, in un contesto sanitario, quello della Covid-19, che neanche la generazione che ha vissuto l’ultimo conflitto mondiale aveva mai visto, con ormai 50mila morti in Europa, di cui 20mila solo in Italia.
Alla questione sanitaria però, con sempre più cogenza, si stanno affiancando le questioni economiche e sociali. Questioni che, per definizione, sono questioni politiche, e che pertanto non possono prescindere dal contesto istituzionale, quello dell’Unione Europea, nel quale ci troviamo ad agire, e che oggi più che mai ci impone di fare i conti con la storia. Il progetto europeo, infatti, ha radici profonde, e si sostanzia quasi subito come un progetto di unione monetaria. Questo processo, che fino all’inizio degli anni ’80 aveva visto l’opposizione delle sinistre italiane, è l’unica gamba di un soggetto volutamente zoppo. In barba a tutti i rapporti specialistici che suggerivano di avviare la fase di unificazione partendo dalla politica fiscale (tra cui il Rapporto Werner, un report della Commissione Europea del 1977 e il Rapporto Delors), le classi dominanti e i loro rappresentati politici hanno scientemente sviluppato la sola unione monetaria.
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Il “Manifesto contro il lavoro” venti anni dopo
di Cybergodz
È uscita in Germania, nel 2019, la IV edizione del Manifesto contro il lavoro (I edizione in Germania nel 1999, tr. it.2003).1
Un’edizione particolarmente significativa poiché cade nel ventennale della prima uscita di questo importante e acuto libro che, provocatoriamente – nell’epoca della “disoccupazione” cronica e della litanía generalizzata implorante “lavoro, lavoro” -, attaccava (e attacca) frontalmente e “categorialmente” il paradigma lavorista, dimostrando come si tratti di un costruzione storica e non connaturata all’umano tantomeno eterna. Un paradigma, cioè, legato a doppio filo alla modernità capitalistica e di fatto in “scadenza” nell’epoca della terza rivoluzione industriale, quella caratterizzata dalla produzione guidata dalla microelettronica e capace di performances produttive impensabili già solo per il taylorismo-fordismo del boom economico del secondo dopoguerra.
Il Manifesto contro il lavoro, per essere più precisi, così come tutto il pensiero critico che si rifà alla Critica del Valore – corrente di pensiero di cui lo stesso Manifesto fa parte – non opera però una mera critica del “fare” tout court. Gli autori di questo intrigante Pamphlet2 sono stati spesso superficialmente accusati di essere niente più che un manipolo di intellettuali svogliati fannulloni sfaccendati e, naturalmente, parassiti (con tutta la connotazione anti-semita che questo tipo di accuse porta con sé),3 imputati di una sorta di “istigazione” al vagabondaggio. Anche se non ci sarebbe, in fondo, niente di particolarmente scandaloso se il messaggio di questo libro mirasse ad un mero rifiuto a priori del diktat lavorista capitalistico – come comunque anche fa – il Manifesto opera tuttavia una critica più articolata e profonda.
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“Andrà tutto bene”. A chi? I fantastici quattro. Liberarsi degli eretici
di Fulvio Grimaldi
“Per Bill Gates i vaccini sono una filantropia strategica che nutre i suoi numerosi affari legati ai vaccini, compreso l’obiettivo di Microsoft di controllare un’identità digitale universale che gli assicurerebbe il controllo dittatoriale sulla politica sanitaria mondiale, punta di lancia dell’neoimperialismo tecnoscientifico multinazionale” (Robert Kennedy Jr.)
“Prima regola, non credere a niente di quanto dice il governo” (George Carlin, umorista statunitense)
Robert Francis Kennedy Jr. è figlio di Robert F. Kennedy, ministro della Giustizia USA, assassinato il 6/6/1968, e nipote di John F. Kennedy, presidente USA, assassinato il 22/11/1963. Avvocato impegnato nella difesa dell’ambiente, oppositore della vaccinazione forzata, è fondatore e presidente della “Waterkeeper Alliance”, un’organizzazione non-profit per la difesa delle riserve d’acqua mondiali. Torneremo sulle sue posizioni.
E’ già successo e, ogni volta, è andata peggio. Stiamo facendo la fine dei pagani sotto Costantino e Teodosio, dei sassoni sotto Carlo Magno, dei catari-albigesi con papa Innocenzo III, degli ugonotti (protestanti) per due secoli fino a Luigi XIII e Luigi XIV (e ne sa qualcosa il mio antenato, Pierre de Gerbaulet, che si rifugiò in Vestfalia nel ‘600 e si fece cattolico). Per finire, limitandoci ai genocidi, all’eliminazione pressochè totale dei nativi d’America. A ognuna di queste pulizie etnico-religiose, ma essenzialmente, come oggi, politico-economiche, seguirono arretramenti civili, totalitarismi feroci, desertificazioni culturali, devastazioni morali e ritorni di barbarie. Ogni posizione che sfuggisse all’ordine era criminalizzata come “eretica” (αἱρετικός: “colui che sceglie”. Bello, no?). Protagonista, immancabilmente, l’apparato cristiano nelle sue varie denominazioni, principalmente cattolica. Prima da protagonista, poi da fiancheggiatore.
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Sul funerale di Salvatore Ricciardi
Salutare un amico e un compagno, tornare a occupare lo spazio pubblico
di Wu Ming
Tra le misure prese durante quest’emergenza, il divieto di assistere ai funerali è una delle più disumanizzanti.
In nome di quale idea di «vita» si sono prese queste misure? Nella retorica dominante in queste settimane, la vita è ridotta quasi interamente alla sopravvivenza del corpo, a scapito di ogni altra sua dimensione. In questo c’è un fortissimo connotato tanatofobico (dal greco Thanatos, morte), di paura morbosa del morire.
La tanatofobia permea la nostra società da decenni. Già nel 1975 lo storico Philippe Ariès, nel suo caposaldo Storia della morte in occidente, constavava che la morte, nelle società capitalistiche, era stata «addomesticata», burocratizzata, in parte deritualizzata e separata il più possibile dal novero dei vivi, per «evitare […] alla società il turbamento e l’emozione troppo forte» del morire, e mantenere l’idea che la vita «è sempre felice o deve averne sempre l’aria».
Nell’arrivare a ciò, proseguiva, era stato strategico «lo spostamento del luogo in cui si muore. Non si muore più in casa, in mezzo ai familiari, si muore all’ospedale, da soli […] perché è divenuto sconveniente morire a casa». La società, sosteneva, deve «accorgersi il meno possibile che la morte è passata». Ecco perché molti rituali legati al morire erano ormai ritenuti imbarazzanti e in fase di dismissione.
Già prima dello stato d’emergenza che stiamo vivendo, la ritualità legata al morire era stata ridotta al minimo. Per questo ci hanno sempre colpito così tanto le manifestazioni di un suo riemergere. Si pensi al successo mondiale di un film come Le invasioni barbariche di Denys Arcand.
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Dal coronavirus alla crisi mondiale: il tempo della necessità è arrivato
di Paolo Azzaroni
Il 24 gennaio 2020 si sarebbe verificato in Germania il primo caso europeo di COVID-19.
Nel marzo 2020 le borse mondiali iniziano a crollare. La crisi sistemica è aperta.
Nessuno può con certezza definire il livello di correlazione di questi due avvenimenti. Nessuno può comunque negare che i due fatti siano correlati.
Se, malgrado i soliti rumori ricorrenti, non ci si poteva aspettare l’arrivo del Covid-19, tutti si aspettavano però l’esplosione della bolla finanziaria.
La risposta globale alla crisi del Covid-19 è diventata uno scenario all’interno del quale si cominciano a cercare i rimedi alla crisi mondiale.
E’ nella produzione d’angoscia e nella repressione che i grandi argentieri del Globalismo e dell’Unione Europea cominciano a pianificare i rimedi per uscire indenni dalla crisi.
Per meglio capire la gravità della situazione vorrei fare un passo indietro.
Commentando un mio recente articolo «Brexit, lotte di classe in Francia e il “che fare” che ci aspetta», un compagno commentava :
“Lo sviluppo capitalistico richiede una crescente quantità di capitali da investire nella produzione per mantenere il profitto nonostante la caduta tendenziale del suo saggio, tanto più in una fase di trasformazione profonda del modo di produzione.”
La mia risposta:
“La caduta tendenziale del saggio di profitto, evocata in questo intervento, è probabilmente all’origine del grande mutamento che, a più riprese, ci ha ricordato lo stesso compagno: riunione della commissione trilaterale (1975) e ristrutturazione profonda del tessuto industriale mondiale.
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Coronavirus: cigno nero o neoliberismo al capolinea?
di Fabrizio Venafro, Salvatore Bianco
Un evento imprevedibile di cui l’uomo non è responsabile, che impone soluzioni emergenziali a costo di infrangere le libertà democratiche, e che si trasforma in un’ennesima occasione di profitto capitalistico. Questa la vulgata dominante sulla pandemia, da contrastare in nome di un nuovo paradigma
Un nuovo strano spettro si aggira per il mondo: è il cigno nero del coronavirus. Secondo questa curiosa interpretazione, che riprende la fortunata formula adoperata dall’epistemologo ed ex trader Nassim N. Taleb per intendere ogni evento non prevedibile a impatto catastrofico (Il cigno nero. Come l’improbabile governa la nostra vita, Il Saggiatore, 2008), il Covid-19 sarebbe un accadimento altrettanto casuale e improvviso, al pari di un qualsiasi cataclisma naturale che si abbatta sulla terra. Eppure, se proviamo ad azionare a ritroso la macchina del tempo e neppure di molto, scopriamo negli ultimi vent’anni uno stillicidio di Sars, Mers, Ebola.
Al Forum di Davos, nel 2018, l’Oms lanciava l’ennesimo allarme, dichiarando che era in arrivo una nuova pandemia, che gli Stati erano impreparati e che, soprattutto, «non c’era modo di fermarla». A nulla poi sono serviti i pareri di illustri epidemiologi che hanno bollato come «prevedibilissima» l’attuale pandemia, per arrestare l’uso alquanto disinvolto dell’espressione mutuata da Taleb. Quello stesso giorno a Davos, nel tempio della finanza mondiale dove ancora risuonavano le parole della rappresentante dell’Oms, Sylvie Briand, i convenuti non persero l’occasione per imbastire una narrazione celebrativa intorno alle magnifiche sorti e progressive del neoliberismo.
Ebbene in queste settimane con forza crescente si sta riproponendo, con lo spauracchio del cigno nero esibito, una forma analoga di racconto oggettivo e asettico, che cela un intento neutralizzante.
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Non basta Keynes, ci vuole Marx
Alessandro Bartoloni intervista Domenico Moro
Una crisi pesantissima che covava da tempo, a cui l’Europa sta reagendo in ritardo e seguendo vecchie ricette che non aiuteranno né la ripresa economica né la classe lavoratrice. Per capire la crisi economica che sta dietro la crisi sanitaria abbiamo intervistato Domenico Moro, economista e ricercatore presso l’Istituto Nazionale di Statistica.
Domanda. Ciao Domenico, innanzitutto grazie per questa intervista. Allora, come alcuni hanno sottolineato la pandemia da Coronavirus ha messo in luce le fragilità del sistema economico capitalistico e fatto scoppiare una crisi già pronta a esplodere. Per quanto sia difficile fare previsioni, come giudichi i mesi che verranno: siamo di fronte ad uno scenario a V, con una forte crisi e una rapida risalita, oppure dovremo fare i conti con una crisi lunga e difficile?
Risposta. Credo che sia da escludere una evoluzione economica a V, con una rapida discesa seguita immediatamente da una altrettanto rapida ripresa. È molto più probabile che ci troveremo davanti a una crisi lunga e soprattutto profonda. A livello mondiale, dopo la Seconda guerra mondiale, solo nel 2009 si registrò un decremento del PIL, pari al -1,28%, oggi si prevede un decremento per il 2020, secondo alcune banche internazionali tra il -2,3 e il -2,6%. In Italia sono ferme almeno il 60% delle attività produttive, il che significa perdere 10-15 miliardi di Pil a settimana. Il centro studi della Confindustria prevede un calo del Pil in Italia, sempre nel 2020, del -6%, ma solo a patto che la fase acuta dell’emergenza termini a maggio con la riapertura del 90% delle attività.
La crisi che si prospetta è molto grave, perché non riguarda solo la domanda ma anche l’offerta. Molte imprese staranno ferme, senza produrre, per mesi. Ciò vuol dire rimanere senza liquidità. Sarà, quindi, molto difficile per molte di queste imprese riprendere l’attività, saldando i debiti pregressi, e trovando gli investimenti per ripartire. Pensiamo solo al turismo, che riguarda il 13% del Pil e conta quasi un milione di addetti, e che è molto difficile possa riprendere a girare a pieno ritmo in pochi mesi.
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"Il ceto politico italiano deve affrancarsi dalla servitù del vincolo esterno"
L'Antidiplomatico intervista Alberto Bradanini
L'ex diplomatico è attualmente presidente del Centro Studi sulla Cina contemporanea dichiara all'AntiDiplomatico: "Per non sprofondare nell'abisso di un paese sottosviluppato, occorre recuperare immediatamente (almeno in parte) la sovranità monetaria"
"I chimerici Stati Uniti d’Europa. Tale futuribile istituzione politica non è alle viste, perché semplicemente è assente il sottostante, vale a dire un popolo europeo. I popoli non nascono da un qualunque Eurogruppo". A dichiararlo all'AntiDiplomatico prima del vertice Ecofin di oggi e in vista del Consiglio europeo di giovedì che dovrebbe decidere una strategia europea alla crisi è Alberto Bradanini*, ex ambasciatore italiano a Pechino e Teheran. E l'Ambasciatore Bradanini non ha dubbi su quello che l'Italia dovrebbe fare per uscire dall'armageddon economico che si profila. "Il ceto politico italiano è chiamato ad affrancarsi dalla servitù del vincolo esterno, mettendo al centro il perseguimento di un diverso destino per il nostro Paese. Occorre recuperare immediatamente (almeno in parte) la sovranità monetaria e quanto più possibile quella istituzionale-democratica". E per farlo l'ex diplomatico italiano avanza una proposta precisa: "Emettere biglietti di Stato a corso legale circolabili solo in Italia (che come fatto negli anni ‘60 e ’70) legalmente compatibili persino con i trattati europei (art. 128 comma 1, del TFUE)".
Abbiamo chiesto poi all'Ambasciatore Bradanini, attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea, un giudizio sul ruolo che ricoprirà Pechino dopo la crisi, una riflessione sulla mancanza di solidarietà dai nostri alleati nel momento di maggior emergenza per il nostro paese dalla Seconda Guerra Mondiale e, infine, un commento sulle sanzioni criminali che gli Stati Uniti continuano ad imporre in una fase di lotta globale alla pandemia. "L’impero ideocratico messianico fondamentalista, quello americano, non ha alcuna pietà per i popoli che soffrono. Solo s’interessa all’espansione del proprio potere. Le nazioni che resistono alla sottomissione vengono attaccate politicamente, economicamente e quando serve anche militarmente."
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La scia dell’untore: privacy, ICT e virus non informatici
di Stefano Pietropaoli
L'attuale pandemia legata al COVID-19 sta incidendo radicalmente sulla salute e, in generale, sui comportamenti di una porzione sempre più ampia dell’umanità; ma sta rimodellando anche il ruolo che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione reciteranno nella vita di ognuno di noi.
Da una parte, l’industria dell’hardware sta accusando una battuta di arresto senza precedenti. All’ovvio calo delle vendite si aggiunge la contrazione della produzione di device (come dimostra il caso degli iPhone, prodotti in Cina), a sua volta affiancata dalla sostanziale situazione di stallo in cui si trova lo sviluppo strategico delle reti 5G. Dall’altra, sembra invece godere di un momento di straordinaria espansione la realizzazione di software edi soluzioni cloud-based.
All’isolamento fisico si sta contrapponendo una contiguità digitale che attraversa ogni aspetto della socialità: il lavoro diventa smart working, lo studio diventa e-learning, il commercio diventa digital commerce, la spesa diventa home delivery, le prestazioni professionali diventano on demand services, le riunioni diventano web conferences, e via dicendo in un tripudio anglofonico ormai non più arginabile.
In un simile scenario la vita sociale si muove dunque quasi esclusivamente in rete: flussi di dati di proporzioni incalcolabili (bigger data) mettono in connessione soggetti che altrimenti sarebbero sostanzialmente isolati, oltre che a livello fisico, anche sul piano comunicativo. Stiamo assistendo così a una digitalizzazione di traffici informativi senza precedenti, continuamente alimentata dal ricorso di massa a strumenti di cloud computing, alla condivisione via web di documenti, a videochiamate e teleconferenze.
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L’unità della sinistra negli anni '90 e i problemi strategici dei comunisti oggi
di Luca Colamini
Uno dei traumi originari e dei fattori di crisi del movimento comunista italiano degli ultimi decenni è senza dubbio la partecipazione ai governi del centrosinistra. La travagliata esperienza e i risultati deludenti di quella fase hanno rappresentato un elemento decisivo nella progressiva erosione della base di consenso dei comunisti, e uno dei punti – se non il punto – di radicali divergenze strategiche e conseguenti scissioni.
Tracciare un bilancio di quegli anni e del decennio successivo è un’operazione complessa, che non può essere esaurita da un singolo intervento e richiede al contrario un lavoro di comprensione collettiva, necessario affinché coloro che sono impegnati nella riedificazione del movimento comunista in Italia siano partecipi di una ricostruzione condivisa della storia e delle alternative in campo – le quali, si vedrà, rappresentano ancora oggi opzioni tattiche e strategiche che esercitano una seduzione sull’area comunista. Per determinare una via diversa, di non facile individuazione e di impervia percorribilità, occorre necessariamente passare attraverso una conoscenza esatta delle vie dalle quali ci si vuole distanziare.
Si deve soprattutto evitare che nuove generazioni di comunisti familiarizzino con la teoria e la prassi comunista attraverso schemi ossificati – di destra, di sinistra, di centro – che hanno già clamorosamente fallito e sono corresponsabili della condizione di massimo arretramento storico in cui versa il movimento comunista italiano.
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It’s the capitalism, stupid!
di Maurizio Lazzarato
«L’agroindustria, come forma di riproduzione sociale, deve
terminare per davvero, anche solo per una questione di salute
pubblica. La produzione altamente capitalizzata di cibo dipende
da pratiche che mettono in pericolo la totalità della specie umana,
in questo caso contribuendo a provocare una nuova mortale pandemia»
Rob Wallace
Il capitalismo non è mai uscito dalla crisi del 2007/2008. Il virus si innesta sull’illusione di capitalisti, banchieri, politici di poter far tornare tutto come prima, dichiarando uno sciopero generale, sociale e planetario che i movimenti di contestazione sono stati incapaci di produrre.
Il blocco totale del suo funzionamento mostra che in mancanza di movimenti rivoluzionari, il capitalismo può implodere e la sua putrefazione cominciare a infettare tutti (ma secondo rigorose differenze di classe). Il che non significa la fine del capitalismo, ma solo la sua lunga e estenuante agonia che potrà essere dolorosa e feroce. In ogni modo era chiaro che questo capitalismo trionfante non poteva continuare, ma già Marx, nel Manifesto, ci aveva avvisati.
Non vi contemplava solo la possibilità di una vittoria di una classe su un’altra, ma anche la loro vicendevole implosione e una lunga decadenza.
La crisi del capitalismo comincia ben prima del 2008, con la fine della convertibilità del dollaro in oro e conosce una intensificazione decisiva a partire dalla fine degli anni Settanta.
Crisi che è diventata il suo modo di riprodursi e di governare, ma che inevitabilmente sfocia in «guerre», catastrofi, crisi di ogni genere e caso mai, se ci sono delle forze soggettive organizzate, eventualmente, in rotture rivoluzionarie.
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Huntington, le guerre di faglia
di Salvatore Bravo
Globalizzazione e mito
Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati dal perenne giubilo per la globalizzazione, la si presentava come il farmaco1 che avrebbe dovuto curare la conflittualità tra i popoli liberi di sciamare da un orizzonte ad all’altro del globo. Si sarebbero conosciuti e dunque ogni pregiudizio sarebbe caduto in nome della fratellanza ritrovata. Tutti uguali, tutti vicini e senza frontiere. Lo spazio ed il tempo si sarebbero disintegrati dinanzi alla velocità dei mezzi di trasporto e dei voli a basso costo che avrebbe trasportato le folle liberate dagli angusti spazi delle nazioni in ogni luogo. Le pubblicità osannavano la vicinanza ritrovata vestendo bimbi di diverse etnie nello stesso modo, le differenze, fardello contro il progresso dei popoli in marcia sarebbero state trascese in nome di una uguaglianza imprecisa, nebulosa a livello concettuale, ma molto spendibile a livello di immagine. Uguaglianza epidermica, poiché eliminate le differenze, non restavano che i corpi da soddisfare nello stesso modo. Dietro la commedia della globalizzazione che si concretizza nell’intercultura, nell’Erasmus, nel globo pronto all’uso della finanza, nel mercato del lavoro per cittadini sempre più precari invitati a cogliere le opportunità mondiali in un corale delirio di onnipotenza, non vi è che conflittualità. L’interconnessione ha aumentato in modo esponenziale i conflitti. La pace a cui inchinarsi ha il volto dei lavoratori sradicati dalla loro patria, dalla loro cultura, dai loro affetti. La loro lingua è ora l’inglese nuovo passaporto per la precarietà mondiale ed imperitura. La torre di Babele della globalizzazione si curva pericolosamente, e dalle sue “faglie” è possibile scorgere la verità che un numero incalcolabile di immagini hanno cercato di occultare.
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L’orizzonte delle scelte nell’epoca del coronavirus
di Andrea Zhok
Un recente articolo dell’Economist (“A Grim Calculus” 02/04/2020) ha sollevato una questione cruciale, questione che circola in forma inesplicita in numerose discussioni politiche in epoca di Covid-19. La domanda che muove l’articolo è sostanzialmente la seguente: “Per quanto tempo saremo in grado di considerare la vita di ogni singolo essere umano, di qualunque età e condizione fisica, al di sopra di ogni considerazione economica?” Possiamo permetterci l’atteggiamento morale di “non dare un prezzo ad una vita?” Dopo tutto “ogni scelta ha un costo” e “il costo del distanziamento potrebbe superare i benefici”.
Gli interrogativi esplicitati dall’Economist sono con noi dall’inizio della crisi. Li abbiamo visti incarnati nelle prese di posizione iniziali di diversi paesi (Usa, UK, Olanda, Svezia) e li continuiamo a sentire come minoranza rumorosa nelle discussioni sui social media.
La forma dell’argomento dell’Economist è caratteristica, e merita un’attenta riflessione. Essa contrappone due tesi, che appartengono a due grandi tradizioni della filosofia morale. Da un lato abbiamo la tesi di origine kantiana per cui nel mondo si devono distinguere le cose che hanno un prezzo da quelle che hanno una dignità. Gli esseri umani, in quanto dotati di ragione hanno una dignità, non un prezzo: essi appartengono per Kant ad una dimensione a sé stante, il cui valore non può essere espresso in maniera comparativa. Gli esseri umani sarebbero ‘fini in sé’ e non dovrebbero essere mai considerati mezzi per fini ulteriori. Questo sottrarrebbe la dignità umana ad ogni considerazione in termini di costi-benefici.
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Lo sviluppo capitalistico e la diffusione delle epidemie
di Militant
Da qualche giorno è online l’Ordine Nuovo, una nuova rivista comunista a cui collaboriamo e che nasce con l’ambizione di rappresentare uno strumento di formazione, di dibattito e di radicamento nella classe. Invitando chi ci segue a farla girare e, soprattutto, a leggerla e discuterla, pubblichiamo di seguito il nostro contributo al primo “numero”
Nel giro di alcune settimane un patogeno microscopico ha messo in crisi le lunghe catene del valore dell’economia capitalista. Un microrganismo che la scienza fatica perfino a classificare tra gli esseri viventi si è così trasformato nel fatidico granello di sabbia capace di inceppare i meccanismi della globalizzazione, riuscendo a rallentare o, in alcuni casi, addirittura a fermare la produzione. In questo momento milioni di salariati sono confinati nell’isolamento, mentre ad altri viene imposto, nonostante il rischio di contagio, di andare a lavorare e sacrificarsi in nome del profitto. Una pandemia che sta progressivamente investendo tutti i paesi del mondo, a partire da quelli a capitalismo avanzato, ma in cui anche la capacità di risposta della sanità pubblica e la tenuta dei rispettivi sistemi di welfare si stanno trasformando in fattori decisivi nella competizione inter-imperialistica.
Sarebbe però riduttivo provare a interpretare quanto sta avvenendo esclusivamente attraverso la lente della crisi sanitaria o, al più, della incipiente crisi economica. E non perché questi aspetti non siano entrambi drammaticamente reali, ma perché così rischieremmo di non cogliere alcuni delle contraddizioni sistemiche che proprio l’epidemia sta facendo emergere.
Partiamo ponendoci una prima domanda: questa pandemia, così come le altre epidemie che pure l’hanno preceduta, era davvero imprevedibile? Si è trattato realmente di un evento “straordinario”? Il sistema informativo mainstream e le classi dirigenti continuano a raccontarla come una sorta di “calamità imponderabile”, uno di quei disastri naturali che, al pari dei terremoti, delle eruzioni vulcaniche o dei meteoriti, rimangono inevitabili per quanto ci si possa poi adoperare per minimizzarne le conseguenze.
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Economie di guerra e conflitti post-pandemici
di Alberto De Nicola e Biagio Quattrocchi
Il martellante richiamo alla guerra utilizzato per descrivere gli effetti dell’emergenza sanitaria sembra segnalare un mutamento all’interno del dibattito economico mainstream. Dentro questo interregno, le lotte in corso e quelle a venire potrebbero giocare un ruolo decisivo
Nel pieno dell’emergenza Covid niente sembra essere più pervasivo del richiamo alla guerra. La retorica bellica accomuna economisti e leader politici di differenti orientamenti: è addirittura arduo trovare qualcuno che non l’abbia almeno implicitamente evocata, prima per presentare le misure di distanziamento sociale e successivamente per preparare le popolazioni alle amare conseguenze della recessione economica che queste stanno già innescando. Per rendere conto della vastità e della profondità della situazione emergenziale presente e futura, è indubbio che le due guerre mondiali costituiscano gli unici “fatti totali” che è possibile reperire nel serbatoio della memoria collettiva. Bisognerà vagliare con attenzione le implicazioni di questo riferimento continuo e martellante alla guerra da parte di chi muove le leve del potere economico e politico: a prima vista, l’impressione è che serva a modellare le aspettative sociali verso un orizzonte segnato da una pesantissima compressione dei livelli di vita, da una rarefazione delle risorse e da una militarizzazione dello spazio sociale. Inoltre, la metafora bellica – specie se riferita a un “nemico invisibile” – spinge a rappresentare il corpo sociale come un qualcosa di omogeneo e indifferente alle sue interne striature.
Ma c’è forse qualcosa di più. La mobilitazione dell’immaginario della guerra sembra voler rompere con quel senso di familiarità a cui ci aveva abituato, per più di dieci anni, la parola “crisi”: e questo perché quella che stiamo vivendo non segue semplicemente quelle precedenti, ma si innesta su di esse, radicalizzandole e facendole mutare di natura. La crisi come forma di regolazione permanente della società che differisce all’infinito il momento della sua risoluzione, lascia ora il campo all’immaginario della catastrofe: il dischiudersi di una percezione collettiva legata alla minaccia della sopravvivenza delle comunità, non la temporanea interruzione nella continuità di un sistema, ma la sua stessa riproducibilità e sostenibilità globale.
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Come si vede il mondo1
di Eros Barone
Il rapporto fra astrazione e realtà in alcune correnti filosofico-scientifiche dell’età contemporanea
«...all’analisi delle forme economiche non possono servire – né il microscopio né i reagenti chimici: l’uno e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza di astrazione.»
K. Marx, Prefazione al I libro del Capitale.
«Veritas est adaequatio rei et intellectus» 2
S. Tommaso d’Aquino, De veritate.
1. L’importanza dell’astrazionee il modo corretto di concepirla
Nella storia della cultura l’astrazione è stata spesso svalutata quale ‘nome’ o ‘fantasma’, come se coincidesse con l’astrattezza e come se astrarre significasse di per sé isolarsi dal mondo. In realtà, l’astrarre è, in quanto negazione delle determinazioni del particolare, un processo che genera la categoria: in quanto tale, è per Hegel «l’immane potenza del negativo; esso è l’energia del pensare». 3 Quindi, il concetto è, quale espressione dell’astratto, il frutto specifico del pensiero, che condensa nell’universale i tratti salienti di un enorme numero di concreti. Come suggerisce il riferimento a Hegel, nella storia della filosofia è necessario distinguere due fondamentali concezioni dell’astrazione: una come nome e l’altra come essenza. Sennonché, sia che si tratti della corrente filosofica del nominalismo sia che si tratti della corrente del realismo, sarebbe improprio un rinvio esclusivo alla medievale “disputa sugli universali”, poiché ciò che qui conta è il concepire l’astratto come fondativo, oppure no, della comprensione reale del concreto.
Di conseguenza, sul versante nominalista si situano gli indirizzi di pensiero che negano la conoscibilità reale del mondo, dei suoi processi e dei suoi eventi, svuotando le astrazioni, cioè i concetti, le categorie e le leggi, del loro effettivo contenuto, giacché questi indirizzi ritengono che vi sia una barriera gnoseologica invalicabile tra la conoscenza e la realtà, fra l’astrazione teorica e la concretezza empirica.
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