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The Lancet: Covid-19 non è una pandemia, ma una sindemia
di Edmondo Peralta
The Lancet è considerata una delle più prestigiose riviste medico-scientifiche. Sia chiaro, anche The Lancet ha preso cantonate, come quando ha dovuto smentire uno studio (poi ricusato) sui pericoli della idrossiclorochina, studio che è servito all’Oms per sospendere l’uso del farmaco nei trial clinici, e lo stesso ha fatto l’Aifa italiana.
Di recente la rivista ha pubblicato un intervento del suo direttore, Richard Horton, che contesta, in riferimento al Covid-19, non solo le clausure il terrorismo sanitario dei governi, bensì lo stesso concetto di pandemia e propone quello di Sindemia. Un neologismo inglese Sindemia (synergy e epidemic) che è usato per caratterizzare l’aggregazione di due o più epidemie concomitanti o sequenziali o gruppi di malattie in una popolazione con interazioni biologiche che aggravano la curva prognostica delle malattie stesse. [Vedi: G. Collecchia, Il modello sindemico in medicina, in Recenti Progressi in Medicina, 220, 2019, pp. 271 ss]
Segnaliamo ai lettori l’articolo che segue.
* * * *
“Covid-19 is not a pandemic“: non una pandemia, ma una “sindemia“. Per il direttore di The Lancet la gestione dell’emergenza, basata solo su sicurezza ed epidemiologia, non raggiunge l’obbiettivo di tutelare la salute e prevenire i morti. Covid-19 non è la peste nera né una livella: è una malattia che uccide quasi sempre persone svantaggiate, perché con redditi bassi e socialmente escluse oppure perché affette da malattie croniche, dovute a fenomeni eliminabili se si rinnovassero le politiche pubbliche su ambiente, salute e istruzione. Senza riconoscere le cause e senza intervenire sulle condizioni in cui il virus diventa letale, nessuna misura sarà efficace. Nemmeno un vaccino.
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Una critica alla teoria dell'utilità marginale
di Bollettino Culturale
La teoria del valore è stato un campo di discussione permanente in economia: le due linee principali (teoria del valore-lavoro e teoria dell'utilità marginale) hanno presentato approcci totalmente dissimili alla questione.
La teoria del valore-lavoro, proposta da Adam Smith e continuata da David Ricardo, postula che il valore dei beni dipende dalla quantità di lavoro socialmente necessaria per la loro produzione. L'approfondimento di questa teoria, portato avanti da Karl Marx, ha portato alla formulazione della nozione di plusvalore (un aumento di valore che viene trattenuto dal capitalista a scapito del lavoratore).
Le derivazioni della teoria del valore-lavoro e dei concetti che ne derivano (generazione di plusvalore e sfruttamento della forza lavoro) sono state molto disturbanti per l'attuale ordine sociale. Questa teoria, quindi, ha superato l'ambito della discussione accademica ed è stata ampiamente utilizzata nei dibattiti politici del XIX e XX secolo.
Con l'obiettivo esplicito di cercare un'altra base di sostegno alla teoria del valore, che presentasse meno conflitti sociali, alla fine del XIX secolo un gruppo di economisti iniziò ad abbozzare una proposta alternativa. I lavori di Stanley Jevons, Karl Menger e León Walras, seguiti da quelli di Eugen Böhm-Bawerk, Alfred Marshall e Vilfredo Pareto, hanno gettato le basi per una teoria del valore basata sulle preferenze del consumatore utilizzando i concetti di utilità o ofelimità e concentrandosi sull’analisi del comportamento delle unità aggiuntive, dando origine all'approccio marginalista.
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Quei sacrifici che ci rendono solo più poveri
di Giovanni Mazzetti
Introduzione al quaderno n. 8/2020 del Centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e redistribuzione del lavoro complessivo sociale
“Ogni sterlina risparmiata
è un’occupazione cancellata”
Perché riproporre oggi ai lettori italiani una conversazione radiofonica di John M. Keynes, su Spesa e risparmio, che ebbe luogo nel gennaio del lontano 1933? La ragione è abbastanza semplice: perché le cose che Keynes cercò di esporre in quell'occasione, e nei suoi altri interventi di quel periodo, non sono ancora entrate a far parte del comune sapere dei cittadini dei paesi economicamente maturi. E in questo gli italiani non fanno eccezione. D'altronde, come cercheremo di mostrare in questa breve introduzione, si tratta di questioni che hanno una grande rilevanza ai fini della comprensione delle difficoltà economiche che gravano sulla società contemporanea e della spiegazione delle cause dell'odierna disoccupazione di massa.
Il sapere sociale è incapace di far fronte a questa situazione, e si macera da un quarantennio in ricorrenti riti sacrificali, favoriti dal riemergere delle ideologie conservatrici, appunto perché è ancora impastato di rappresentazioni, esperienze, concetti che risalgono al periodo che precedette l'affermarsi dello Stato Sociale e ignora l'ABC della rivoluzione keynesiana. Tutto lo sviluppo che ha avuto luogo nel trentennio antecedente al momento in cui è esplosa l'attuale crisi non riesce pertanto ad essere compreso; e ancora meno si riescono ad afferrare i problemi che a quello sviluppo sono conseguiti. Per questo la società torna lentamente sui suoi passi e subisce un lacerante impoverimento. Al mancato progresso nella comprensione dei processi sociali che hanno consentito l’arricchimento, deve necessariamente conseguire la loro dissoluzione e un grave regresso materiale.
Per non subire passivamente l'impoverimento
È vero che la maggioranza della popolazione rifiuta questa evoluzione. Che vaste minoranze dimostrano attivamente contro i tagli e i sacrifici.
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Il tallone di ferro sul popolo dell’abisso
di Filippo Violi
Jack London, pseudonimo di John Griffith London, è morto suicida a quarant’anni (1916), ritrovato cadavere in un cottage nella residenza di Beatty Ranch, nella contea di Sonoma in California, probabilmente a causa di un’overdose di antidolorifici. Un atto estremo da tempo premeditato si direbbe, ma solo dopo essersi imbattuti nella lettura del suo antieroe per eccellenza “Martin Eden” (1909), romanzo autobiografico.
Il giovane marinaio proletario individualista che sogna di diventare scrittore e ci riesce, conquista l’amore di una giovane dell’alta borghesia, grazie al suo enorme bagaglio culturale autodidatta. Raggiunto il successo per protesta si autodistrugge contro una fama in cui non si riconosce, in polemica con il professionismo letterario dell’epoca. E con quella pena di cui London si fece carico, ossia l’orribile obbligo di scrivere per vivere che lo accompagnò sempre e lo tormentò fino in fondo.
Il romanzo di London si svolge come melodramma e fiaba mentre intorno c’è la creazione della società moderna, si fanno discorsi sulla democrazia e l’individuo, ma al contempo c’è la nascita dell’industria culturale, al fine di dare identità alla nazione e alla società, c’è la nascita della cultura di massa. Jack London è forse il primo grande autore globale, letto dalla California alla Russia, che si misura con questa industria e che alla fine ne rimarrà schiacciato.
Ma perché parlare di London oggi? Ad un secolo e oltre dalla sua morte? Forse perché non si è scritto e non si è detto già abbastanza? O forse, meglio, perché la sua figura così spietata nell’agire, nello scrivere, nell’indagare (per lui stessa cosa), priva di compromessi, satura di eccessi, sfrontata, dissacrante, palesemente anticapitalista, socialista, luddista, rivoluzionaria, visionaria, anticipatrice, risulta scomoda ancora oggi?
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La fuga di Logan
di Piotr
Il capitalismo è un sistema che esclude. L'inclusione o l'esclusione sono decise in base all'efficienza nel generare profitto e rendita. Per il resto il capitalismo non si sente vincolato da nessun obbligo verso la società, i suoi uomini e le sue donne. Questa logica può essere dissimulata durante i periodi di espansione, ma quando la crisi morde si riaffaccia poco a poco per poi conclamarsi apertamente.
Il Nixon shock del 1971 segnalò l'inizio della crisi sistemica che ancora oggi, enormemente aggravata, ci avvolge. Seguì quasi un decennio di scontri tra il Potere del Denaro e il Potere del Territorio. Il primo spingeva verso politiche di austerità, di liberalizzazione, di privatizzazione del dominio pubblico, di super sfruttamento dei lavoratori interni e di meticoloso controllo e sfruttamento degli spazi esterni ai centri capitalistici storici. Il secondo cercava di resistere con politiche espansive che rilanciassero l'economia reale (sempre capitalistica, ovviamente) e le sue benefiche ricadute sulla “middle class”, sentendosi vincolato verso la società (Nixon si spinse a dire “Adesso siamo tutti keynesiani” - pochi mesi dopo venne fatto fuori dallo scandalo Watergate).
Alla fine degli anni Settanta questa lotta stava indebolendo entrambe le parti e i due Poteri di conseguenza strinsero un patto all'insegna del nuovo paradigma di accumulazione, cioè la coppia finanziarizzazione-globalizzazione. Iniziò l'epoca di Reagan e della Thatcher e tutto quel che ne seguì: una ripresa dell'aggressività imperialistica dopo la breve pausa seguita alla sconfitta in Vietnam e la progressiva concentrazione della ricchezza in mano a una ristretta élite, il famoso “1%”. Un uno per cento, però, che raccoglie attorno a sé ceti ancillari che da questa concentrazione traggono beneficio e/o di questa concentrazione sono i funzionari o di questa élite sono i giullari.
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Perché non voglio parlare di scuola
di Gianluca D’Errico
Perchè in questo momento è più utile agire
“Non crediamo agli assoluti” ma “nell’azione per una modificazione delle condizioni che ci circondano, e assieme a questa in una azione per la modificazione delle componenti fondamentali dell’uomo, per non parlare di quelle della società”. Questa è la frase che mi è risuonata in mente più spesso dall’inizio del cosiddetto lockdown, anche perché l’avevo letta da poco (grazie al volumetto I “Piacentini”: Storia di una rivista (1962-1980) di Giacomo Pontremoli dedicato ai “Piacentini” e pubblicato dalle Edizioni dell’asino). Goffredo Fofi la scrisse, sui “Quaderni Piacentini” appunto, in un articolo del 1967. La interpreto come un invito non certo allo stolto pragmatismo, ma al fare politico in contrapposizione alla postura intellettuale.
Dall’inizio della pandemia ho cercato gli altri, ho provato a fare gruppo, a confrontarmi, ad agire. Non sono stato mai “solo”. Potrei arrivare a dire che nessuna riflessione su ciò che è accaduto da febbraio 2020 a oggi sia stata, per me, una riflessione individuale. Qui a Napoli è nata una rete di insegnanti, educatori e genitori che già da inizio marzo ha cominciato a incontrarsi, telematicamente, con molta frequenza. Ne sono nati azioni e pensieri collettivi, ovviamente imperfetti, incompleti, frammentati: come tutto ciò che nasce nella condivisione. Un piccolo miracolo. E le parole che qui scrivo sono parole nostre più che mie.
Abbiamo dapprima, come molti, pensato che quello che stava accadendo poteva essere una “occasione” per la scuola pubblica. Un’occasione di ripensamento radicale e complessivo di quanto già nell’ordinario non ci piaceva.
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Trump contro Biden: si scrive post-ideologia, si legge propaganda
di Camilla Pelosi
Molto spesso la definizione di “post-ideologia” in politica copre la volontà dei politici di coprire affermazioni senza alcun appiglio nella realtà e create come semplici artifici retorici e di propaganda. Camilla Pelosi nel contesto del dossier “AMERICANA” oggi studia la questione in riferimento al dibattito tra Donald Trump e Joe Biden
Il dibattito politico attuale ama autodefinirsi “post-ideologico”, sottintendendo di appartenere a un’era ormai depurata da ideologie e altri mostri novecenteschi.
“Qualcuno è POST senza essere mai stato niente!” suggeriva Giovanni Lindo Ferretti già alla fine degli anni Ottanta, in Svegliami. Può l’essere umano fare a meno dell’ideologia, restando animale politico? Se essa rappresenta i valori e il senso comune che garantiscono il funzionamento di una società civile, il nostro periodo storico avrà pur dovuto sostituirla con qualcosa e questo qualcosa, in quanto essenzialmente non ideologico, sarà soprattutto e in primo luogo pragmatico. A livello della vita pubblica, si prospetterebbe l’avvento di una sorta di tecnocrazia illuminata: solo ed esclusivamente i fatti muoverebbero le decisioni di un elettorato finalmente razionale e ragionevole. Dato che le questioni di costume non possono appellarsi a nessuna conferma numerica che sostenga una tesi in maniera univoca, esse verrebbero cancellate dal confronto: la politica finirebbe per essere inglobata dall’economia, in quanto i principali punti quantitativi di una campagna elettorale riguardano questioni meramente economiche.
Chiaramente, la realtà è ben lontana da questo scenario (per fortuna, ci viene da aggiungere). L’ideologia è viva e vegeta: ha solo cambiato forma. Come i servizi, i mezzi di comunicazione e le relazioni umane, si è smaterializzata, ma proprio grazie alla perdita di consistenza è ormai in grado di infilarsi in ogni interstizio della nostra struttura percettiva del reale. Non fa più capo ai fardelli ingombranti e problematici dei dogmi politici del passato, dove serviva da spartiacque per dividere il mondo in due chiaramente distinguibili sfere di influenza; è più sfaccettata, e quindi più difficile da riconoscere.
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Il ruolo dello Stato nel conflitto di classe
di Francesco Pietrobelli
Non è passato inosservato – grazie a numerosi articoli usciti sull’Ordine Nuovo – il ruolo dello Stato nella crisi economica scatenata dall’attuale pandemia. Un’azione di sempre maggiore intervento nel campo economico e di sostegno alle imprese, in linea con la tendenza sempre più marcata per cui il ruolo dello Stato a supporto del capitale privato è essenziale1, affinché vi siano manovre pubbliche che tutelino il fronte padronale da un drastico calo dei profitti. Numerose sono state le mosse governative che si sono così susseguite, fin dai primi mesi di crisi, a sostegno delle imprese, fra le quali troviamo moratorie sui prestiti o garanzie statali sui finanziamenti aziendali2. Particolare scalpore è stato causato dalla richiesta di FCA, a maggio, di usufruire della garanzia statale sui prestiti bancari, prevista dal DL liquidità, con la quale aveva diritto – di fronte alle perdite economiche causate dalla pandemia – di chiedere un prestito, pari al 25% del fatturato dell’anno precedente, a un istituto bancario con garante, fino al 70% del totale, lo stato italiano tramite la SACE, una controllata della Cassa Depositi e Prestiti. Prestito poi ottenuto – ben 6,3 miliardi con Intesa Sanpaolo – con non il 70%, ma bensì l’80% di garanzia da parte dello Stato, data la strategicità dell’azienda, senza al contempo che venissero bloccati i cospicui dividendi di 5,5 miliardi, previsti per il 2021, fra i propri azionisti3. Detto in soldoni: i soldi pubblici, dei lavoratori, saranno utili alla FCA per pagare i profitti dei propri azionisti.
Che lo Stato si sia rivelato lasco nelle misure concesse alle aziende lo ha rivelato anche lo strumento della cassa integrazione covid.
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La libertà di non essere sfruttati
di David Harvey
La destra si erge a difesa delle libertà individuali. Ma essere liberi veramente significa sottrarre le nostre vite ai vincoli rigidi del capitalismo. Un'anticipazione dal nuovo libro di David Harvey
Il tema della libertà è stato sollevato mentre tenevo alcune lezioni in Perù. Gli studenti erano molto interessati alla domanda: «Il socialismo comporta che la libertà individuale debba essere sacrificata?». La destra è riuscita ad appropriarsi del concetto di libertà come proprio e a usarlo come arma nella lotta di classe contro i socialisti. Bisogna evitare la sottomissione dell’individuo al controllo statale imposto dal socialismo o dal comunismo a tutti i costi, sostengono.
Ho risposto che nell’ambito di un progetto socialista di emancipazione non bisogna rinunciare al concetto di libertà individuale. Il raggiungimento delle libertà individuali è, ho sostenuto, uno scopo centrale di tali progetti di emancipazione. Ma questo risultato richiede la costruzione collettiva di una società in cui ognuno di noi abbia adeguate possibilità di vita e possibilità per realizzare ciascuna delle proprie potenzialità.
Marx e la libertà
Marx diceva cose interessanti su questo argomento. Una di queste è che «il regno della libertà inizia quando il regno della necessità viene lasciato indietro». La libertà non significa nulla se non hai abbastanza da mangiare, se ti viene negato l’accesso a un’adeguata assistenza sanitaria, alloggio, trasporti, istruzione e simili. Il socialismo deve soddisfare le necessità di base in modo che le persone siano libere di fare ciò che vogliono.
Il punto finale di una transizione socialista è un mondo in cui le capacità e i poteri individuali sono completamente liberati da desideri, bisogni e altri vincoli politici e sociali.
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Il frutto marcio del Recovery Fund
di coniarerivolta
La situazione dei contagi in Italia e in Europa peggiora di giorno in giorno. Il sistema sanitario, sfiancato da anni di austerità, mostra, oggi come durante la scorsa primavera, tutte le sue difficoltà nel gestire la nuova fase dell’emergenza. Nuove chiusure hanno riguardato alcune attività commerciali e alcuni sciacalli continuano opportunisticamente a tirare in ballo il MES, affermando con franchezza che sarebbe la via per legare le mani alla politica economica. La cronaca politica, tuttavia, con un afflato messianico, è da mesi impegnata a cantare le magnifiche sorti e progressive del Recovery Fund. Di questo strumento ci siamo già occupati, mostrandone tutte le criticità. Ora, tuttavia, sembra che sia la sua stessa impalcatura a scricchiolare. È infatti arrivata dalla Spagna, seguita a ruota dal Portogallo e forse dalla Francia, la notizia che il governo di Pedro Sanchez vuole rinunciare ai circa 70 miliardi di prestiti che le spetterebbero dal Recovery Fund pur rimanendo interessato ad ottenere i circa 72 miliardi di contributi a fondo perduto. Anche alla luce di ciò, riteniamo opportuno ripassare quale sia la struttura di questo programma, quali le insidie e a quale punto sia la sua implementazione.
Come abbiamo già avuto modo di raccontarvi, il Recovery Fund è un programma di finanziamento di 750 miliardi di cui 360 miliardi di prestiti e 390 di contributi a fondo perduto, da spalmare nel triennio 2021-2023. Tuttavia, come sappiamo, il diavolo si annida nei dettagli. Nonostante le cifre roboanti, il Recovery Fund, da un lato, rappresenta un programma di rilancio economico del tutto inadeguato rispetto alla gravissima crisi e dall’altro, invece, si qualifica come un efficace lubrificante dei meccanismi di controllo europeo sulle politiche nazionali portando con sé un pesante e certo carico di austerità e riforme.
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Social e capitalismo crepuscolare (living in a box)
di Roberto Fineschi
Funzionamento e funzione dei social nelle dinamiche del capitalismo crepuscolare
Che cosa ci sia dietro ai social è ormai noto a chiunque lo voglia sapere. [1] Mi permetto di fare una breve sintesi di letture e visioni in una prospettiva personale legata ad altre riflessioni recentemente sviluppate sul capitalismo crepuscolare.
1) Costruire la “scatola”
I proprietari di Facebook, Twitter e compagnia cantante sono degli scienziati sociali. Non è una mia nomina ad honorem, lo sono veramente, in particolare sono esperti di psicologia sociale e “comportamentismo”. La nuova alleanza che hanno instaurato è con web designers ed esperti di calcolo, progettisti questi ultimi dei fantomatici algoritmi. Vediamo come funziona questa triplice alleanza.
1.1) Lo scienziato sociale
I comportamentisti mettono sul tavolo la loro psicologia sociale, ovvero lo studio del comportamento umano spontaneo, automatico, precosciente. Forti di evidenze sia teoriche sia sperimentali sulle modalità di reazione a stimoli di diverso tipo, individuano reazioni standard, soprattutto quelle legate alle pulsioni più profonde e condizionanti dell’animale uomo (piacere, dolore, paura, rabbia, autoconservazione, socialità, appartenenza ecc.). Studiano come innescare delle reazioni automatiche, utilizzando scientemente stimoli che attivino queste pulsioni profonde. In particolare sono interessati a produrre comportamenti in tutto e per tutto identici a quelle che chiamiamo “abitudini”, ovvero che si ripetono senza il ripetersi di uno stimolo esterno, ma che vengono compiuti “spontaneamente” da chi agisce: lo stimolo viene in sostanza introiettato.
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Il partito dei lavoratori e gli utili idioti del Capitale
di Antonio Martino
Quando Alberto Asor Rosa pubblicò nel 1977 il suo Le due società: ipotesi sulla crisi italiana nemmeno la fantasia del più fervido indiano metropolitano avrebbe potuto immaginare lo scenario di questi giorni. L’ipotesi di un virus in grado di paralizzare la vita del potentissimo e liberissimo Occidente, infatti, poteva affascinare un lettore di Urania, e non certo un compagno di movimento. Oltre quattro decenni dopo la fantascienza è realtà: anzi, parafrasando Marx, è farsa. Tralasciando l’enorme massa di argomenti sulla (pessima) gestione e sui (falsi) rimedi contro la (scontata, essendo in autunno) seconda ondata, vorremmo concentrarci sull’analisi sociale delle conseguenze della crisi, in accordo con quanto già scritto in merito al problema della classe rivoluzionaria.
Partiamo dal dato reale: chi preme per il cd. lockdown è di norma un soggetto che ha dalla propria parte la sicurezza del posto di lavoro e un certo benessere accumulato. Viceversa, chi si oppone è sovente un piccolo imprenditore- proprietario di attività al dettaglio e di commercio minuto, piccole imprese con pochi dipendenti-, un libero professionista o una partita iva. Dal punto di vista strutturale, la linea di faglia è tra garantiti e non, tra lavoratori dipendenti (pubblici e privati di grandi imprese) e unità produttive autonome. In più, l’enorme massa dei disoccupati e dei precari che tende naturalmente a salvaguardare quegli scampoli di normalità fittizia. Si può perciò affermare, generalizzando, che la gestione delle misure di contenimento (sic) del virus siano un’immensa cartina di tornasole della divisione in classi della società italiana.
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Cosa ci si deve aspettare?
intervista a Leonardo Mazzei
Pubblichiamo l’intervista che Leonardo Mazzei ha rilasciato per la prestigiosa testata tedesca Makroskop
D. Il governo cerca di imporre un secondo lockdown che colpisce anche i diritti politici. Quale è il ragionamento del governo, delle èlite in generale – e le reazioni su scala popolare?
R. Proprio oggi, domenica 25 ottobre, è uscito il nuovo Dpcm (Decreto del presidente del consiglio dei ministri) che punta a restringere ulteriormente la libertà di movimento ed attacca il diritto al lavoro di milioni di persone, in particolare quelli dei servizi turistici e della ristorazione. A differenza di quanto avvenuto a marzo, adesso la linea del governo è quella della chiusura progressiva. Ma continuando così alla fine il risultato non sarà molto diverso. Questa strategia viene perseguita con un Dpcm a settimana. Un modo che, se da una parte mostra le difficoltà di Conte, dall’altro sembra fatto proprio per generare, oltre alla paura, un’assoluta incertezza sul futuro. Il precedente Dpcm, del 18 ottobre, ha stabilito di fatto la sospensione del diritto a riunirsi in luoghi pubblici. Contro questa lesione dei diritti democratici, attaccati in parallelo a quelli sociali, manifesteremo il 31 ottobre davanti alle prefetture dei capoluoghi di regione. Il ragionamento delle èlite sembra chiaro: siccome la crisi è gravissima ed il malessere sociale è alle stelle, la sola tecnica di governo che può funzionare è la strategia della paura. E’ una linea che presenta dei rischi anche per il blocco dominante, ma che finora – come dimostrato anche dai risultati delle elezioni regionali di settembre – ha funzionato. Che continui a funzionare è invece tutto da vedersi. Proprio a causa del clima di paura, la reazione popolare è stata finora modesta. Ma a tutto c’è un limite. E i fatti degli ultimi giorni, a Napoli e non solo, ci dicono che le cose stanno finalmente cambiando.
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L'istruzione
di Elisabetta Frezza
Testo dell’intervento al convegno Euro, mercati, democrazia… e conformismo EMD 2020, svoltosi a Montesilvano (PE) nei giorni 17 e 18 ottobre 2020
questa vis riformista, e iconoclasta, che si è abbattuta sull’istruzione italiana ha sortito l’effetto paradossale che la scuola pubblica, nata come straordinario strumento per sollevare le masse dalla ignoranza, si è intestata ufficialmente il compito di assicurare l’ignoranza di massa
La scuola c’entra, eccome, con il conformismo.
In quanto bacino di raccolta e di smistamento delle giovani generazioni, la scuola è un ganglio fondamentale nella edificazione del mondo nuovo degli uguali, obbedienti e pacificati perché cresciuti senza velleità di pensiero. Che la scuola si sia intestata questo compito palesemente antitetico alla propria ragion d’essere è uno dei tanti paradossi che ci sono inflitti nel tempo delle verità invertite, del bi-pensiero e della ubriacatura delle parole in libertà. Un paradosso esiziale della cui esistenza, e soprattutto della cui gravità, pochi si rendono conto.
Per parte mia, consegnerò qualche riflessione che attinge a quello che, in fondo, è il movente che mi ha spinto in questi anni ad approfondire alcuni aspetti legati alla scuola e alla educazione, ovvero l’esperienza diretta come madre di cinque clienti dell’istruzione pubblica italiana distanziati di un triennio l’uno dall’altro: un’esperienza che ho vissuta in una prima fase quasi passivamente ma, dopo un paio di giri di ricognizione, in modo via via più disincantato, non fosse altro che per l’esito impietoso del confronto diacronico tra le varie istantanee scattate allo stesso soggetto lungo l’arco di qualche lustro.
Quella signora un po’ agée, ma ancora piacente e ancora feconda che era la scuola italiana – un tempo ammirata da tutti come modello di eccellenza sulla scena mondiale – si è rapidamente deturpata.
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La pandemia come metafora della crisi epocale della società capitalista
di Giorgio Paolucci
Basta capitalismo! Via libera a un altro mondo, a un’altra umanità
Ospedali al collasso, locali pubblici, fabbriche e uffici chiusi, volti coperti da mascherine, miliardi di persone chiuse in case, bare accatastate in attesa di una sepoltura. Siamo in stato di guerra si ribadisce a ogni pie’ sospinto: guerra sanitaria, economico-finanziaria, politica e sociale. Una guerra che non ha precedenti perché non provocata dagli uomini ma dalla natura contro l’umanità nella sua interezza. Per alcuni sarebbe una sorta di sua rivalsa contro la smisurata volontà di potenza dell’uomo che lo induce a pretenderne il possesso come pure cosa inanimata e non cuore pulsante della vita e di cui egli stesso è figlio e parte integrante. Comunque, un accidente, una sorta di gigantesca meteorite caduta dal cielo imprevista e imprevedibile.
Così non c’è questione che vada via via ponendosi che non venga ricondotta al Covid-19, quel nemico terribile ed invisibile che non risparmia nessuno. Ormai non si contano più i neologismi composti con la combinazione del termine “Covid-19” o “corona” in ogni campo: scientifico, medico-sanitario ed economico-sociale. Il tutto per costruire una narrazione secondo cui non vi sarebbe alcuna relazione fra la devastante crisi che si annuncia con l’antefatto, vale dire con lo stato delle cose prima del diffondersi della pandemia.
E così, fatto del tutto eccezionale nella storia moderna, una guerra scoppia prima della crisi.
Si potrebbe obiettare che la storia non si ripete mai uguale a sé stessa e che per ogni cosa c’è sempre una prima volta.
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“Il Parlamento cancelli i provvedimenti che vietano le manifestazioni di protesta”
Daniele Nalbone intervista Emiliano Brancaccio
Per l’economista le proteste di Napoli sono solo l’inizio: la crisi del Covid distrugge i vecchi equilibri sociali ed è destinata a scatenare un’onda caotica di rivendicazioni. Per scongiurare tentazioni repressive occorre mettere in chiaro che il diritto costituzionale di manifestare va posto allo stesso livello del diritto alla salute
“Siamo sull’orlo della più violenta ‘doppia depressione’ nella storia del capitalismo. I vecchi equilibri sociali stanno saltando, dobbiamo attenderci un’onda caotica di rivendicazioni che metterà a dura prova l’intero assetto democratico. In questo scenario, chiedo al governo e al parlamento di assumere un impegno: la tutela costituzionale della libertà di riunione e di manifestazione pubblica deve esser situata allo stesso livello della salvaguardia della salute. Non sono più ammissibili decreti e ordinanze che vietino assembramenti e cortei a causa del covid. Le autorità dovrebbero piuttosto impegnarsi affinché tutte le manifestazioni di protesta si effettuino liberamente, in condizioni di rischio sanitario adeguatamente contenuto”. Per Emiliano Brancaccio, docente di politica economica all’Università del Sannio e voce critica del pensiero progressista, la crisi scatenata dal coronavirus è destinata a minacciare il sistema dei diritti su cui reggono le attuali liberaldemocrazie. Una tesi che l’economista documenta nel suo ultimo libro, in uscita il 12 novembre, dal titolo eloquente “Non sarà un pranzo di gala” (a cura di Giacomo Russo Spena, edito da Meltemi), di cui la rivista Il Ponte ha pubblicato un estratto che sta già facendo discutere. Con questa intervista a MicroMega, rilasciata all’indomani delle proteste di piazza a Napoli, Brancaccio commenta l’ipotesi di un nuovo lockdown, analizza i rigurgiti di crisi sanitaria ed economica e lancia un appello in difesa dell’articolo 17 della Costituzione, che sancisce il diritto di manifestare pubblicamente.
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Professor Brancaccio, il Fondo Monetario Internazionale ha sostenuto che un lockdown generale potrebbe ripristinare la fiducia dei cittadini e aiutare così la ripresa economica. Lei ha criticato questa presa di posizione. Perché?
Il FMI non ha fornito evidenze a sostegno di questa tesi ardimentosa. Anzi, i suoi stessi dati indicano il contrario: i lockdown più duraturi sono statisticamente correlati con le crisi economiche più profonde e persistenti.
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Non siamo tutti sulla stessa barca: gli effetti dell’austerità nella seconda ondata
di coniarerivolta
Interrogato sulla possibilità di una nuova chiusura massiccia delle attività sociali ed economiche a fronte del dilagare della pandemia nel Paese, il presidente del Consiglio Conte ha più volte dichiarato che non vi sarà e non vi dovrà essere un nuovo confinamento paragonabile a quello della scorsa primavera. Al di là dei proclami di principio, da cosa dipende davvero la possibilità di evitare nuove soluzioni così drastiche come quelle sperimentate in Italia e altrove tra marzo e aprile senza dover assistere impotenti alla morte – evitabile – di migliaia di persone?
Dopo un’estate relativamente quieta con numeri di contagi molto bassi, la realtà ci mostra, purtroppo, che l’emergenza è tutt’altro che finita: il vaccino, da un lato, è verosimilmente ancora lontano e ha inevitabili tempi di sperimentazione non comprimibili; e la circolazione del virus, dall’altro, ha ripreso la sua corsa con i tristi effetti che già si stanno verificando e che andranno a manifestarsi sempre più nelle prossime settimane.
Che fare dunque? La domanda potrebbe sembrare di esclusiva competenza sanitaria e non piegabile a considerazioni di tipo politico ed economico. In realtà, però, così non è per due ordini di ragioni.
In primo luogo, perché la stretta necessità o meno di un intervento emergenziale come il confinamento è inscindibilmente legata al grado di preparazione di un sistema socioeconomico e sanitario di fronte alla pandemia; in secondo luogo, perché ogni diversa soluzione, o anche solo tamponamento dell’emergenza sanitaria, ha ripercussioni differenti sui diversi strati sociali e ha dunque immediate implicazioni politiche.
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La Cina pensa che gli Stati Uniti siano al capolinea
di Julian Gewirtz (Foreign Affairs) – Giacomo Marchetti
Il conflitto tra USA e Cina ha assunto la forma di un guerra fredda di nuovo tipo.
Le cose cambieranno poco se, in un ipotetico passaggio di poteri a Washington – che non si annuncia per niente lineare e forse non proprio pacifico –, vincerà Joe Biden.
Certo, lo sfidante democratico vuole ripristinare la leadership nord-americana all’interno di una cornice multilaterale abbandonata durante questi anni dall’attuale inquilino della Casa Bianca, costringendo gli Stati Uniti a trovare una forma di confronto non antagonista su alcuni dossier: dall’Accordo di Parigi sul Clima in cui vuole rientrare all’Organizzazione Mondiale della Sanità di cui vuole fermare il processo di uscita, oltre a ri-raggiungere l’UNESCO.
Biden è una atlantista convinto ed intende rafforzare il ruolo della NATO, così come la cooperazione con la UE che saranno probabilmente gli assi della propria politica di pressione sulla Cina.
Biden ha affermato di voler ricongiungersi all’Accordo sul Nucleare sull’Iran ed in generale “rivedere e potenzialmente riformulare l’intero approccio ai Paesi del Golfo”, come ha dichiarato un consulente dell’amministrazione Obama al «Financial Times».
Dalla sua prima visita all’estero da Presidente in Arabia Saudita e Israele nel maggio del 2017, Donald Trump ha consolidato sempre un legame più stretto con la petrol-monarchia araba e con l’entità sionista: dall’uscita dall’accordo sul nucleare firmato da Obama nel 2015 alla spinta per la “normalizzazione” dei rapporti con Israele da parte di alcuni Stati Arabi (EAU, Barhain e probabilmente Sudan), per non parlare della vendita di ingenti quantitativi di armi usati nella guerra in Yemen.
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L’unità dei comunisti può poggiare su un’unica base: quella del marxismo-leninismo
di Eros Barone
«Prima di unirsi, e per unirsi, è
necessario innanzi tutto definirsi risolutamente e
nettamente» (Lenin).
Abbiamo assistito alla fine di una fase iniziata, almeno in Italia, con il collaborazionismo delle sinistre sedicenti “radicali” (Prc e Pdci) rispetto alla borghesia e la loro progressiva delegittimazione rispetto al proletariato: epoca che si è conclusa con la loro scomparsa dal parlamento. La bancarotta politica, ideologica e morale delle formazioni opportuniste, non meno che la costituzione del Pd, partito della borghesia imperialista, avrebbero dovuto indurre ad una seria riflessione coloro che avevano sopravvalutato il grado di permeabilità di tali formazioni rispetto a posizioni autenticamente comuniste, ossia marxiste-leniniste, e che non si rendono ancora conto che una fase della storia del movimento di classe, legata alla nozione otto-novecentesca di ‘sinistra’, si è definitivamente chiusa.
Ciò è reso ancor più evidente dalla presenza, dentro la ‘sinistra’, di una cultura anticomunista e pro-imperialista sempre più diffusa, che ostacola fortemente lo sviluppo di un metodo e di una teoria capaci di superare il movimentismo e la pura protesta: quel movimentismo e quella protesta che sono, per dirla con Mao Ze Dong, come i palloni che, quando piove, si afflosciano. Quella che il Partito Comunista ha intrapreso è dunque una ‘lunga marcia’ verso i lavoratori, verso le fabbriche, verso gli uffici, verso le periferie, verso le scuole e le università: i tanti luoghi nei quali nessuno sa più quali siano le grandi ragioni di un partito comunista fondato sul socialismo scientifico.
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André Gorz, “Addio al lavoro”
di Alessandro Visalli
Nel 2000 il filosofo francese André Gorz risponde all’intervista di Margund Zetzamann, spiegando[1] le ragioni per le quali nel suo “Miseria del presente, ricchezza del possibile”[2] invitava a liberarsi dell’obbligo del lavoro. Gorz, che si toglierà la vita di lì a sette anni, sul lavoro aveva a lungo riflettuto cercando costantemente la via per l’autorealizzazione del singolo dentro gli angusti spazi della gabbia d’acciaio della moderna società industriale e capitalista (ma anche socialista reale). Già nel 1967, scriveva che in entrambe le società “l’individuo, in quanto produttore e in quanto cittadino, è spodestato di ogni potere reale (che non può essere altro che potere collettivo) sulle decisioni e sulle condizioni produttive che modellano la sua vita di lavoro e la sua vita fuori del lavoro. Subendo la società più che crearla consapevolmente, essendo incapace di identificarsi con la sua realtà sociale, l’individuo tende a ripiegare nella sfera privata come la sola sfera in cui egli è sovrano” [3]. Ma questo “spodestamento”, continuava, avviene in quanto lavoratore. Egli, “privato di iniziativa, di responsabilità e di valorizzazione sociale nel suo lavoro, tende a cercare una compensazione nel non-lavoro”. Tema, questo, sul quale è larghissima la riflessione e lo resterà a lungo.
Da queste formulazioni durante gli anni ottanta passerà alla proposta di riconoscere i limiti propri alla razionalizzazione e fermare la mercatizzazione sulla soglia di quel che è socialmente sostenibile. In altre parole, di fermare l’integrazione funzionale sulla soglia dell’integrazione sociale e puntare sulla “riduzione metodica, programmata, massiccia della durata del lavoro (senza ridurre il reddito)”[4]. A questo stadio la proposta pratica, su cui a lungo insisterà, è di stabilire l’erogazione di un reddito di secondo livello che integri un tempo di lavoro effettivo calante e socialmente prestato.
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Respirare il mondo: la rivolta di Donatella
di Marcello Tarì
Che la rivolta sia qualcosa che riunisce in sé esigenze economiche, politiche e soprattutto esistenziali e perciò sia un evento che ha dignità di essere pensato dalla filosofia non è un fatto scontato. È scontato che se ne occupino, per questioni strettamente disciplinari, la storia o la sociologia, ma della rivolta in quanto tale, con tutto il suo portato di urla, di fiamme e di ebbrezza, è davvero raro che filosofi e filosofe se ne occupino, specie alla nostra latitudine. Questo “occuparsene”, ponendola al centro e non ai margini della riflessione filosofica, è di per sé una delle qualità principali del nuovo saggio di Donatella Di Cesare che esce in questi giorni per Bollati Boringhieri, Il tempo della rivolta. È un piccolo libro ma così denso da impedire l’impresa di parlare in un breve articolo di tutto quello che vi è contenuto, bisogna leggerlo e con attenzione insomma.
Negli ultimi anni il tema della rivolta si è fatto sempre maggiore spazio nella cronaca dando vita a molti e inconcludenti dibattiti sui media, ma soprattutto ad alcuni importanti testi fra i quali ricorderei, per la loro incisività, senz’altro L’insurrezione che viene e i seguenti libri dei Comitato Invisibile, editi in Italia lo scorso anno da Nero, e il saggio di Joshua Clover, Riot Strike Riot. The New Era of Uprisings (Verso, 2016), purtroppo mai tradotto in italiano. Se il primo testo del Comitato, apparso nel lontano 2007, si può dire seminale e percorso da una tensione che non si può che definire profetica, quello del marxista Clover interveniva al culmine del ciclo di rivolte che hanno scosso il mondo lo scorso decennio, cioè le rivolte arabe, quelle delle piazze in Europa e di Occupy negli USA.
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Meme col fucile. Un’antropologia del collasso
di Jack Orlando
Una recensione a «Kill All Normies» di Angela Nagle
«Che cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario come me e una società che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia?», chiede il Joker di Todd Philipps, prima di dare da sé la risposta: «Ottieni il cazzo che ti meriti».
Se ne è fatto un gran parlare di quel film. Di quel personaggio che più che da un fumetto è sembrato uscire dallo specchio del bagno di casa. Delle possibili letture, immancabilmente cieche, di destra o di sinistra del suo agire torbido, sconclusionato eppure familiare.
Familiare perché incarnava l’emarginazione strutturale e la sofferenza psichica che scivolano verso la violenza, il bravo bambino che diventa lupo mannaro. Un loop visto ripetersi a coazione fuori e dentro gli schermi. Perché è evidente a chiunque che la civiltà capitalistica moderna non faccia altro che incedere producendo scarti umani, affastellandoli gli uni sugli altri come le macerie ai piedi dell’Angelo della Storia. E dove vanno quegli scarti, quando non entrano in carcere, in comunità, in obitorio o in psicanalisi?
Si ritirano nell’ombra, si leccano le ferite e covano odio e rancore per una vergogna a cui è difficile trovare un responsabile. L’emarginazione comporta ontologicamente un ripiegamento su se stessi come la natura umana comporta la ricerca del proprio simile. Ed ecco sorgere comunità di esclusi e falliti che mangiano dallo stesso piatto amaro e parlano la stessa lingua sgradevole dando le spalle al resto del mondo, autocompiaciuti e vicendevolmente esaltati.
E in un mondo dove il social network è diventato parte integrante della socialità, assumendone a volte l’unica forma, dove altro potevano ritrovarsi questi soggetti? Rassicurati dall’anonimato, confortati da una dimensione comunitaria che non necessita di rapporti umani, felici della assoluta libertà di parola che queste idrovore di parole garantiscono.
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Tech Worker, lavoro tecnologico e identità. Nuovi orizzonti e nuove forme di conflitto
di Simone Robutti
Questo articolo presenterà un’analisi utile a comprendere la nuova ondata di organizzazioni, scioperi e proteste che attraversa il settore dell’Information Technology(IT), in particolare in USA e Nord Europa, scritta dal punto di vista di un Tech Worker. La speranza è quella di dare trasparenza a questi fenomeni e permettere di comprenderne più a fondo le peculiarità, le similarità con strutture e processi passati e presenti ma anche le profonde differenze sia sul piano della prassi che sul piano dell’identità
Nota: in questo articolo si utilizzerà il termine “Tech Worker” per identificare esclusivamente figure tecniche o creative impegnate nello sviluppo di software, hardware e artefatti tecnologici in genere. Questo uso del termine differisce da quello, ad esempio, di Tech Workers Coalition che definisce Tech Worker chiunque sia coinvolto nel processo di produzione di una tecnologia. Questa scelta è fatta per meglio mapparsi sulla nascente identità del Tech Worker, che sebbene venga forzosamente allargata a figure molto diverse tra loro per scopi strategici, ad oggi ha trazione principalmente tra figure tecniche. Questa non è una critica all’obiettivo di creare solidarietà tra diverse categorie di lavoratori ma esclusivamente una semplificazione fatta per dare chiarezza alle idee qui esposte. Alcune mansioni associabili a questa definizione di Tech Worker sono: grafici, programmatrici, designer, sistemisti, architetti del software, tester, quality assurance, copywriter.
Il Capitale Digitale è un colosso dai piedi d’argilla. La testa d’oro, la parte più visibile, è quella di Mark Zuckerberg, Sundar Pichai o di Jeff Bezos che iniziano a trattare con gli Stati-Nazione da pari. Ormai insidiati nelle strutture produttive, logistiche e burocratiche di ogni paese, hanno reso dipendenti non solo i consumatori ormai inseparabili dai loro schermi (incluso il sottoscritto) ma anche tutti i tessuti sociali di cui fanno parte. Una rimozione repentina di Google Search, Google Cloud Platform o Amazon Web Services avrebbe un impatto traumatico su tanti settori industriali, al punto che l’Unione Europea insegue il sogno di un Cloud indipendente e di servizi web liberi dalla giurisdizione americana non solo come stimolo al settore digitale del vecchio continente ma anche e sopratutto come strumento di indipendenza tecnologica.
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Homo pandemicus
Ideologia COVID e nuove frontiere del consumo.
di Fabio Vighi*
L’attuale emergenza sanitaria dovrebbe suggerirci una riflessione sul potere dell’ideologia in un’epoca troppo frettolosamente definita post-ideologica. La caduta del muro di Berlino, ça va sans dire, non ci ha liberati dalle ideologie. Piuttosto, il sentirci affrancati da pressioni ideologiche ci rende vulnerabili a un non-pensiero unico tarato sull’anonima brutalità del calcolo economico. Con la globalizzazione e l’emancipazione dalle Grandi Narrazioni ci siamo consegnati a forme sempre più subdole di manipolazione che intercettano la dimensione viscerale del nostro essere. La dissoluzione dei vecchi legami simbolici ci ha proiettato nella dittatura piatta e invisibile dell’economia, contrabbandata come libertà. Questa pretestuosa libertà si risolve, essenzialmente, nell’obbligo di produrre e consumare valore (merce).
Resistere alla potenza di fuoco dell’ideologia capitalista è sempre più arduo. La nostra info-sfera centrifuga dati, annunci e comunicati a velocità supersonica. Questi segni ci soverchiano, demolendo le nostre capacità critiche e condannandoci a uno stato di ipnosi semi-permanente. Se a volte troviamo la forza di resistere a questa sopraffazione, ci ritroviamo però ridotti all’impotenza quando si tratta di immaginare nuove configurazioni sociali in grado di garantirci uno spazio di autonomia rispetto ai rapporti socio-economici che ci definiscono. Da qui la percezione di un tempo storico insieme irreversibile e inesauribile, per cui l’intera esperienza umana ripiega in un flusso destinale dove ogni evento è posto e insieme presupposto dalla metafisica del capitale.
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Covid, lo sconforto prima del grande Reset
di Piotr
Uccidere il paziente per uccidere il virus è una soluzione? Uccidere una società per salvarla da una pandemia è la soluzione? Il Covid ci pone di fronte a una gravissima crisi sistemica
Che sconforto.
Da tempo mi domandavo se non sia un po' stupido un governo che spende i soldi in bonus per biciclette e monopattini ma non potenzia i trasporti pubblici. Davvero pensava che le cose fossero equivalenti per la mobilità?
E così ci troviamo nella demenziale situazione di studenti distanziati in aula e accalcati sui mezzi pubblici. I treni regionali possono imbarcare il 100% dei posti. In quelli per pendolari, come i lombardi di Trenord, addirittura si invitano i passeggeri a non mettere oggetti sui sedili perché devono essere tutti occupati, con anche un bel po' di posti in piedi. Gli autobus possono riempirsi per l'80%, cifra già alta e poi chi controlla?
E così finisce che a scuola non ci si infetta in modo significativo, ma andando a scuola sì. E dunque oggi si ritorna all'odiosa, inutile e desocializzante didattica a distanza, senza che la scuola ne abbia colpa.
Ci si infetta sui mezzi di trasporto, sul lavoro, a casa e negli ospedali. Cosa è stato fatto per prevenirlo? Ad esempio cosa si è fatto per non dover ricoverare per motivi sociali positivi paucisintomatici (persone sole, o al contrario che vivono in case sovraffollate, quelle che convivono con anziani, ecc.)? Bonaccini afferma di aver individuato 1.000 posti letto in strutture alberghiere per questi ricoveri di carattere sociale che non richiedono cure mediche, così da non gravare sugli ospedali. Questo in Emilia Romagna. E nelle altre regioni?
E allora, via con altri palliativi, la chiusura dei teatri, delle palestre e dei cinema, già semideserti e tutti dotati di estrattori d'aria (poveretti, una spesa per nulla e una chiusura per niente; questi i dati dell'AGIS per il periodo di riapertura 15 giugno-10 ottobre: spettacoli 2.782, spettatori 347.262, contagiati 1!), i ristoranti che non possono più servire la cena (il pranzo sì, la cena no: perché?), la proibizione di accompagnare a casa la fidanzata di notte, la raccomandazione (che tra poco mi sa tanto diverrà un obbligo) di non muoversi nemmeno coi propri mezzi (e se uno vuole farsi una gita in campagna, in montagna o in un bosco? Che senso hanno queste raccomandazioni quando già ci sono meticolosi divieti per evitare ogni tipo di assembramento?).
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