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Patrimoniale ed egemonia: c’è ancora spazio per il Welfare State in Italia?
di Giuseppe D'Elia
Gli italiani non hanno solo un problema con la tassazione della ricchezza accumulata. Il problema di chiunque voglia realizzare interventi basati sui pilastri costituzionali della solidarietà e dell’eguaglianza è che questi valori ideali sono stati letteralmente emarginati da decenni di propaganda individualista ed elitista
Il recente dibattito sulla patrimoniale, innescato da un emendamento alla Legge di bilancio di Orfini (PD) e Fratoianni (LEU), offre l’occasione per una riflessione più ampia sui valori costituzionali fondamentali della solidarietà e dell’eguaglianza e su come questi valori, e il correlato concetto di uno Stato sociale del benessere (Welfare State), siano stati messi ai margini da una cultura politica che si è fatta egemone, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso.
I due principi fondamentali sono entrambi assimilabili alla sfera del sociale e, in effetti, sono i due pilastri dei cosiddetti diritti sociali, in senso lato: «istruzione, sanità, pensioni, previdenza sociale (in caso di malattia, gravidanza, disoccupazione), servizi socio-assistenziali (per bambini e ragazzi senza famiglia, anziani, malati cronici e disabili)».
Il principio solidaristico, in particolare, è quello che propriamente si contrappone al più gretto individualismo: la solidarietà intesa come bene comune, interesse generale, prevalenza insomma di un’istanza sociale comunitaria sugli interessi dei singoli individui e/o di specifici gruppi più o meno organizzati.
L’art. 2 della Costituzione repubblicana postula l’«adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale», subito dopo aver stabilito che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» ed è una scelta molto saggia questa: di grande equilibrio.
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La politica come esperienza
di Valerio Romitelli
Cosa dice la filosofia di Alain Badiou? E cosa dice riguardo alla politica? Domande ambiziose e impegnative, sul pensiero di uno dei più importanti filosofi contemporanei, eclettico e prolifico, complesso e provocatorio. Attorno a tali questioni si sviluppa l’articolo di Valerio Romitelli, alimentato dal seminario che insieme a Luca Jourdan ha organizzato all’Università di Bologna. Romitelli mette da subito a critica due formule, tanto enfatiche quanto alla fin fine paralizzanti: «tutto è politica» oppure «la politica non conta nulla». Per andare in un’altra direzione, bisogna appunto considerare la politica come esperienza, confrontandosi con alcuni concetti fondamentali: eguaglianza e sottrazione, oggettività e soggettività, evento e comunismo. Dentro questa matassa, oggi quanto mai ingarbugliata, si possono trovare dei fili per pensare e ripensare la politica.
Valerio Romitelli è docente di Storia dei movimenti e dei partiti politici dell’Università di Bologna. Tra i suoi libri recenti ricordiamo L’amore della politica (Mucchi, Modena 2014), La felicità dei partigiani e la nostra (Cronopio, Napoli 2015), L’enigma dell’Ottobre ’17 (Cronopio, Napoli 2017).
* * * *
Sei anni fa, assieme a Luca Jourdan, presso il Corso di laurea magistrale di Antropologia culturale ed etnologia dell’Università di Bologna abbiamo dato avvio a una serie di seminari sul pensiero politico, aperti anche a non iscritti, con uno scopo assai preciso: contrastare il malcostume accademico forse attualmente accentuato dalle accresciute influenze anglofone, che obbligando a sfoggiare le più ampie conoscenze libresche induce ad associare in modo quanto mai eclettico e a volte persino ingenuo riferimenti teorici e filosofici disparati, anche tra loro contrastanti.
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Perché rileggere «Primo Maggio»
di Santo Peli
È stata una scuola di formazione, una sede di dibattito e riflessione in un periodo storico convulso, ma pieno di passioni e di generosità.
È stata una fabbrica di prototipi mentali. Ideata da Sergio Bologna, storico del movimento operaio ed esponente dell’«operaismo italiano», ha vissuto i primi anni sotto la sua direzione per poi passare, dal 1981 al 1989, a Cesare Bermani, affiancato da Bruno Cartosio. Il suo editore fu Primo Moroni, libraio della Calusca di Milano inventore di un modo nuovo di fare cultura. La sua grafica, originale e rigorosa, fu opera di Giancarlo Buonfino.
Una rivista di «storia militante» che ha affrontato con intuito e preveggenza argomenti complessi come la gestione capitalistica della moneta, il declino della grande industria fordista, l’emergere di nuove figure sociali, la trasmissione della memoria, l’avvento della logistica. Attraverso la riscoperta di pagine straordinarie di storia del proletariato migrante fu capace di creare immaginari e modelli di comportamento, di dare una diversa rappresentazione dell’America, di influenzare gli orientamenti di gruppi politici e correnti di ricerca storiografica in Germania.
Pubblichiamo di seguito, come introduzione alla raccolta completa della rivista, un intervento di Santo Peli che compare nel libro La rivista «Primo Maggio» (1973-1989) edito da DeriveApprodi.
In fondo a questa pagina, è possibile scaricare la raccolta completa in Pdf.
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Intelligenza artificiale e "fine del lavoro": alcune chiavi di lettura
di Lorenzo Lodi
Lo sviluppo tecnologico e dell’intelligenza artificiale ci portano verso la “fine del lavoro”? Quali conseguenze politiche ha il dibattito teorico odierno su questi temi? Proponiamo alcune chiavi di lettura a partire dalla lettura “Rivoluzione Globotica” di Richard Baldwin e “Schiavi del Clic” di Roberto Casilli
Negli ultimi anni, il rapido sviluppo dell’intelligenza artificiale (AI – artificial intelligence) e della digital economy ha imposto al dibattito pubblico il tema della “fine del lavoro”; una preoccupazione che torna ciclicamente fin degli albori del capitalismo industriale, ma che nel contesto della “seconda età della macchina” – o della “quarta rivoluzione industriale” [1] – promette di trasformarsi in una realtà concreta. L’argomento appare particolarmente attuale, oggi, in un momento in cui la pandemia di Sars-Covid 19 ha dato ulteriore slancio ai processi di centralizzazione del capitale nelle mani delle “Big Tech”, anche se, a ben guardare, i vari lockdown messi in campo nei mesi scorsi hanno mostrato quanto la società contemporanea si regga ancora sul lavoro di centinaia di milioni di individui. Mai come nel marzo scorso è sembrato vero il seguente monito di Marx in una lettera a Kugelman:
sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa” [2].
Detto questo, basterebbe la grancassa mediatica ed accademica sulle implicazioni delle nuove tecnologie per rendersi conto di quanto valga la pena affrontare seriamente il problema. A tale scopo, cercheremo alcune chiavi di lettura nelle pagine di due libri usciti negli ultimi mesi: “Rivoluzione Globotica” di Richard Baldwin (ed. Il Mulino, Bologna, 2020) e “Schiavi del Clic” di Roberto Casilli (Feltrinelli, Milano, 2020), del quale sarebbe stato in realtà più suggestivo tradurre letteralmente il titolo in francese: “Aspettando i Robot” (En Attendant les Robots, Seuil, Paris, 2019).
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Contro l'uso politico della legge del valore nell'economia politica del socialismo
di Bollettino Culturale
Che cosa dicono i sovietici per difendere la tesi secondo cui la legge del valore non può sparire immediatamente dopo la transizione dal capitalismo al socialismo?
Marx in Critica al Programma di Gotha afferma che nella fase inferiore del comunismo, segnata dalle stigmate del capitalismo, il produttore riceverebbe, dopo le detrazioni per i fondi sociali, l’equivalente esatto della quantità di lavoro da lui fornito alla società.
“Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci in quanto è scambio di valori uguali. Contenuto e forma sono mutati, perché nella nuova situazione nessuno può dare niente all'infuori del suo lavoro, e perché d'altra parte niente può diventare proprietà dell'individuo all'infuori dei mezzi di consumo individuali. Ma per ciò che riguarda la ripartizione di questi ultimi tra i singoli produttori, domina lo stesso principio che nello scambio di merci equivalenti: si scambia una quantità di lavoro in una forma contro una uguale quantità in un'altra.”
I sovietici usarono questo testo per avvalorare la tesi secondo cui affermare che Marx avrebbe previsto la sopravvivenza della legge del valore nel socialismo è un caso di deformazione cosciente.
In realtà Marx precisa che nella fase inferiore del comunismo, la merce, il valore e lo scambio sono scomparsi, poiché qualunque lavoro ha un carattere direttamente sociale dato che i mezzi di produzione sono ormai “bene comune” o “proprietà collettiva” dei produttori. Passa poi al problema della ripartizione del prodotto sociale e critica la rivendicazione della distribuzione secondo un “diritto eguale”, secondo l’”equità”, come era formulata nel programma di Gotha.
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Troppo tardi, ancora presto, giusto in tempo
di Giairo Giani e Michele Garau
Nella notte tra il 23 e il 24 ottobre una sommossa scuote Napoli contro le minacce di un nuovo lockdown. Rapidamente il tono istituzionale si ammorbidisce. Scoppiano altre sommosse analoghe. Torino e Milano il 26 ottobre, Firenze il 30. Inframmezzate altre piazze, più usuali nelle forme e nei linguaggi. Il 6 novembre entrano in vigore le nuove misure di contenimento per scenari differenziati. Quelli che seguono sono appunti parzialissimi su ciò che questa finestra ha sembrato evocare sulla profondità della crisi di questo tempo. Ogni unità d’opera è insostenibile alla prova dei fatti. Ogni autorialità impudica. Siamo alle soglie di cominciamenti senza alcuna storia.
I. Attorno all’inesprimibile
1. Un commiato dalla politica e dalle sue parole. Suggerisce di assumersi questo impegno la notte di Napoli, la prima. Un impegno per far irrompere fatti nuovi. Qualcosa infatti si manifesta ma senza parole. Un fatto imbarazzante. Perché? Perché in secessione dal linguaggio, privo di uno proprio. Ciò che si presenta è un’iniziazione a un mondo sommerso a cui non resta che chiedere:
«rivelate i santi deliri e le iniziazioni delle parole sacre» (Proclo, Inno a tutti gli dei).
Ci sono racconti, espressioni, credenze, legami associati contro l’insostenibilità di una condizione concreta, che si approssimano a forme del comunicare, ovvero del trovarsi assieme aprendosi a un punto di emersione. Sono legami inattingibili dalla parola politica. A meno che non ci si accontenti del sociologismo della “rabbia sociale”.
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Crisi dell’organizzazione capitalistica, della produzione, della circolazione delle merci, della distribuzione e dei modi di vita. E coronavirus
di Vittorio Gioiello
Premessa
L’attuale pandemia da Covid-19 ha aggravato la crisi capitalistica a livello internazionale.
L’ONU informa che il costo globale della pandemia da Covid-19 sarà intorno ai 220 miliardi di dollari.
L’aspetto economico principale di questa crisi consiste nel fatto che è la prima vota che il sistema si blocca sia dal lato della produzione, cioè dell’offerta, che dal lato della domanda.
Il blocco della produzione ha a sua volta prodotto il blocco degli investimenti che, sommato ai licenziamenti di massa, ha fatto precipitare le economie occidentali in una recessione molto simile ad una grande depressione. Questo è successo nei paesi sviluppati. Le ripercussioni su quelli molto più poveri sono state, ovviamente, più disastrose.
Questa crisi, quindi, è legata a doppio filo all’organizzazione capitalistica della produzione, della circolazione delle merci, della distribuzione e dei modi di vita.
Non è vero che questa crisi da pandemia giunga inaspettata. Fu prevista, per esempio, nel 2005, sulla rivista Foreign Affairs, in un articolo preveggente sulla prossima pandemia.
La crisi mette in evidenza il rapporto perverso tra società e natura.
Il primato di una produzione tesa all’estremo al fine di una estrazione di profitto si è andato ad accompagnare ad un approfondimento della devastazione ambientale e della diseguaglianza globale.
Il carattere della crisi è, inoltre, strettamente connesso con il processo di globalizzazione.
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Snowden, Assange, la sorveglianza globale e l’informazione scomoda
di Arturo Di Corinto
L’antidoto cresce là dove il male alligna. Forse.
Arpanet, la nonna di Internet, nasce negli Stati Uniti il 29 Ottobre 1969. il concetto di privacy nasce con il saggio The right to privacy scritto da due avvocati, Samuel Warren e Luis Brandeis, nel 1890, sempre negli Stati Uniti. E il primo articolo della Costituzione degli Stati Uniti è dedicato alla libertà d’espressione. La Costituzione è del 1789.
Gli Stati Uniti, nazione simbolo del free speech, patria della comunicazione senza limiti grazie a Internet e del concetto moderno di privacy, è però anche il paese della sorveglianza di massa.
Con decine di uffici, agenzie, laboratori e centri di ricerca dedicati al controllo di web, email, telefoni, volti e impronte biometriche, gli Stati Uniti sono il paese che perseguita con più determinazione i suoi figli che hanno fatto bandiera della battaglia per la privacy individuale e per la trasparenza dei pubblici poteri.
Programmi governativi dai nomi fantasiosi come Tempora e Prism, software come Carnivore e XkeyScore, leggi come il Patriot Act e la Fisa, con la sua sezione 702, sfidano costantemente la libertà che gli Stati Uniti dicono di promuovere e proteggere. A casa e fuori.
La legge forse più pericolosa per la libertà di americani e resto del mondo rimane però la sezione 702 della legge antiterrorismo FISA (Foreign Intelligence Surveillance Act) che autorizza la raccolta senza mandato di ogni informazione utile allo scopo della sorveglianza globale.
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Perchè la fionda?
di Geminello Preterossi
La Fionda, n. 1 2021, n. 1 2021, Nulla sarà come prima?
Perché è lo strumento di chi si ribella all'oppressione. Di chi non può contare su grandi risorse materiali né gode di protettorati mainstream, ma mira dritto perché ha il coraggio delle idee. La forza dell'irriverenza, che fa analizzare in contropelo i luoghi comuni. La passione intellettuale e politica di chi non aderisce alle idee ricevute, ma sottopone tutte le tesi a una verifica attenta. L'ostinazione ragionata di chi non ha paura di smentire la propaganda, squarciando il velo della post-verità del sistema neoliberista. La lucida coerenza di non negare i fatti, o edulcorarli, per approfondire e cercare di capire di più, senza fermarsi di fronte alle convenienze, alle interpretazioni di comodo.
«La fionda» è uno spazio pluralista e libero di elaborazione culturale e politica, promosso da una comunità di persone che condivide alcune precise idee - statualiste, autenticamente democratiche e antiliberiste -, senza compromessi contraddittori né opacità furbesche. Ma che ha l'autentico desiderio di confrontarsi, di dare luogo a un dibattito vero, fecondo, senza tabù. Questo deve essere il tempo della nitidezza e dello spirito critico che non arretra di fronte a nulla. Solo così sarà possibile ripartire non gattopardescamente, ma cambiando paradigma.
La fionda di Davide contro Golia. Ma anche la fionda di Gian Burrasca.
* * * *
In questa rivista si parta di cose serie, non di sovranismo, moltitudine, democrazia sovranazionale e governo mondiate, diritti dei consumatori al posto di quelli dei cittadini, virtù del mercato da contrapporre allo Stato, e via cantando con i ritornelli del neoliberalismo, nelle sue varie declinazioni, e dell'altergtobalismo, viziato di subalternità culturate e antistatuatismo.
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Tra P2, apparati deviati e Usa: come la magistratura legge le “stragi di Stato”
di Giuseppe Gagliano
Il volume al quale vogliamo rivolgere la nostra attenzione è quello curato da Angelo Ventrone e cioè L’Italia delle stragi. Le trame eversive nella ricostruzione dei magistrati protagonisti delle inchieste (1969-1980) (Donzelli 2020) che costituisce un contributo di grande rilevanza sotto il profilo storico per ricostruire le trame drammatiche della strategia della tensione che determinò – è opportuno ricordarlo-135 morti e 560 feriti.
Come osserva il curatore ciò che accade in Italia è un caso unico in tutta l’Europa occidentale. Infatti, l’Italia fu un vero e proprio laboratorio per sperimentare la strategia della tensione, strategia che fu possibile grazie alla collaborazione delle istituzioni politiche e militari italiane.
Se queste stragi furono possibili nel nostro paese ciò fu determinato dalle enormi limitazioni alla nostra sovranità politica, militare ed economica che furono gettate sia dal Trattato di Parigi sia dalla adesione dell’Italia alla Nato piaccia o meno agli storici asserviti al diktat Nato-USA.
La destabilizzazione che fu posta in essere dalla strategia della tensione – caratterizzata da attentati dinamitardi e da tentativi falliti di colpi di Stato – fu resa possibile dalla connivenza e dalla complicità dei servizi segreti italiani, dei gruppi neofascisti, delle forze armate italiane, delle istituzioni politiche italiane e da quelle imprenditoriali ma soprattutto dalla P2 e dal ruolo determinate rivestito sia dalle basi Nato in Italia sia dalla CIA, che poté muoversi sul nostro territorio come se questo fosse un protettorato americano.
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“Good ol’ Karl”. Alla riscoperta di Marx
di Dario Corallo
Quando Marx iniziò a scrivere “Il Capitale”, decise di partire da quello che, all’epoca, sembrava un concetto imprescindibile dell’economia, senza il quale non sarebbe potuta esistere alcuna ricchezza: la merce.
La centralità di questo concetto è ribadita proprio nella prima frase:
“La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una “immane raccolta di merci” e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l’analisi della merce”.
Lo schema marxiano di produzione di un valore è tanto semplice quanto elegante. Ogni merce ha un valore (V) dato dalla somma del valore intrinseco, ovvero dalla disponibilità o rarità della materia prima (M), dal bisogno che quel bene soddisfa (B) e dal lavoro necessario alla sua realizzazione (L). Quindi, per dirla in maniera semplice, V=M+B+L. L’imprenditore, non potendo determinare i primi due valori, si rifà tutto sul lavoro dei suoi dipendenti, sottraendone una parte, e “aggiungendo” una variabile che non ha niente a che fare con la merce e che Marx chiama, appunto, “plus-valore”. Questo processo di produzione e scambio della merce è ciò che permette di incrementare il capitale.
Quindi l’imprenditore utilizza del denario (D) per produrre merce (M) che verrà riveduta un valore superiore rispetto al denaro investito (D1). Il processo di accrescimento del capitale (e cioè il capitalismo, che chiameremo C) è quindi sintetizzabile con la formula C= D→M→ D1.
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Brancaccio, la catastrofe e la rivoluzione
di Michele Castaldo
Un commento allo scritto «Osservazioni e critiche a “Catastrofe o rivoluzione” di Emiliano Brancaccio» di Gianni De Bellis e Mario Fragnito
Scrive Sergio Cararo su sinistrainrete.info:
«Brancaccio, economista e docente dell’Università del Sannio, ha avuto l’occasione di incrociare la spada in dibattiti pubblici con diversi esponenti dell’establishment: da Mario Monti a Romano Prodi, da Olivier Blanchard a Lorenzo Bini Smaghi»,
dunque parliamo di un pezzo da novanta.
Per quanto mi riguarda non sono abituato a guardare nessuno dall’alto in basso e neppure dal basso in alto, ma a misurarmi con i fatti e le idee che ad essi si riferiscono. Dunque non mi impressiono di fronte a un pezzo da novanta e ascolto con interesse il contadino, lo spazzino, il ciabattino, il pescatore, il manovale e l’operaio per quello che dicono e non per la loro qualifica. Si tratta di un metodo che non tutti i militanti di sinistra sono abituati a usare.
Avevo già letto l’articolo «Catastrofe o rivoluzione» pubblicato su sinistrainrete.info e lo avevo anche commentato in modo un poco “provocatorio”, nel senso che: premesso che si vada verso una catastrofe, cerchiamo di incominciare a ragionare su cosa si debba intendere per rivoluzione. Una serie di ulteriori commenti hanno evidenziato la torre di Babele della sinistra in questa fase, ovvero una voliera nella quale ognuno canta il suo «canto libero».
Su sollecitazione di Gianni a Mario ho riletto lo stesso articolo oltre al loro commento «2001-2016 Centralizzazione del capitale e crisi finanziaria oppure: oppure Crisi, da cui centralizzazione del capitale? ». Cerco, nelle note che seguono, di chiarire il mio punto di vista.
I compagni Gianni e Mario cercano di criticare una certa ambivalenza, un certo equilibrismo di alcune posizioni, o anche di qualche clamorosa contraddizione in Brancaccio.
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Le multinazionali in Italia
di Domenico Moro
La multinazionale come forma tipica d’impresa del capitalismo odierno
Come abbiamo visto in un articolo precedente[1], l’Italia è un Paese appartenente al centro del sistema economico mondiale e presenta un carattere imperialista, sebbene occupi nella catena imperialista una posizione bassa e sebbene lo Stato imperialista italiano presenti delle debolezze strutturali, che spingono il capitale a base italiana a trovare appoggio, oltre che presso lo Stato nazionale, anche presso organismi sovranazionali, come la Nato e la Ue.
L’imperialismo odierno non si manifesta attraverso il controllo diretto territoriale della periferia da parte degli stati del centro, come all’epoca del colonialismo, ma attraverso il controllo dei flussi di capitale, di merci e di tecnologia, tra il centro – i paesi più sviluppati – e la periferia – i paesi meno sviluppati, subalterni e dipendenti rispetto ai primi.
Elemento centrale dell’imperialismo attuale sono le imprese multinazionali e transnazionali[2], cioè le imprese che articolano la loro rete di produzione e di vendita in paesi diversi da quelli di origine e di sede. Infatti, le multinazionali e le transnazionali sono state uno degli strumenti principali della globalizzazione e l’imperialismo attuale si può definire come imperialismo delle multinazionali e delle transnazionali.
Nonostante i processi di globalizzazione abbiano subito negli ultimi anni, dal punto di vista degli scambi commerciali, un rallentamento, in contemporanea con una certa tendenza verso la regionalizzazione in tre macro-aree, il Nord-America con al centro gli Usa, l’Europa con al centro la Germania e l’Asia con al centro la Cina[3], ciò non vuol dire che la tendenza all’internazionalizzazione del capitale sia venuta meno.
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Covid: il terrore giustifica i mezzi
di Leonardo Mazzei
Chi ci segue sa quel che pensiamo del Covid. Primo, l’epidemia c’è, ma non è né la peste né la spagnola. Secondo, l’emergenza sanitaria c’è, ma al 90% è frutto dei tagli alla sanità targati euro(pa). Terzo, i morti ci sono, ma la quasi totalità è deceduta col Covid, non di Covid, e talvolta pure senza Covid. Quarto, e ben più importante, il virus è esattamente quel che lorsignori aspettavano per far passare, grazie alla paura diffusa h24 dai media, progetti e misure che avrebbero avuto ben altra opposizione in tempi normali.
Senza questo quarto e determinante aspetto, senza il decisivo fattore P (come paura), non si spiegherebbe quasi nulla di quel che sta accadendo. Tantomeno verrebbero accettate narrazioni al limite dell’assurdo, limitazioni di ogni forma di libertà, una censura di fatto applicata non solo ai “dissidenti”, ma pure alla più piccola sbavatura (vedi il caso Crisanti) nella narrazione ufficiale.
Già, il racconto ufficiale… Ma quanto è coerente questo racconto? Ecco una bella domanda alla quale vale la pena di dedicarsi. Lo faremo con una serie di esempi, che ci porteranno ad una conclusione che già anticipiamo: la narrazione ufficiale è tanto coerente nei fini (terrorizzare, terrorizzare, terrorizzare), quanto incoerente nei fatti e nelle tesi che utilizza per generare quel terrore. Anzi, da questo punto di vista, essa fa acqua da tutte le parti.
- La bufala del lockdown che “ci protegge”
Ci siamo già occupati di questa leggenda in primavera, quando, sulla base di dati ufficiali, dimostrammo quanto l’andamento dell’epidemia nei singoli paesi apparisse piuttosto indifferente alle diverse forme di contenimento adottate.
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L’assalto al cielo e il “mondo nuovo”
di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
Pubblichiamo il capitolo undicesimo “L’assalto al cielo e il “mondo nuovo” tratto dal libro Il prometeismo sdoppiato: Nietzsche o Marx? di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
La principale modalità operativa assunta all’interno del mondo occidentale del prometeismo di matrice collettivistico durante gli ultimi due secoli, a partire dal 1789 e dalla rivoluzione francese, è costituita dalla titanica lotta collettiva condotta da frazioni più o meno consistenti di operai e lavoratori salariati (oltre che di intellettuali) e tesa ad abbattere i rapporti di produzione classisti lottando con gravi problemi, contraddizioni interne più o meno acute e soprattutto contro nemici assai più potenti sul piano materiale per creare e costruire un “mondo nuovo”: ossia una formazione economico-sociale di matrice cooperativa e socialista, in una linea rossa che parte dagli Arrabbiati guidati da Jacques Roux e dalla congiura degli Eguali da Babeuf-Buonarroti per arrivare mano a mano all’inizio del nostro terzo millennio.
Come sottoprodotto di tale fenomeno politico-sociale, inoltre, un’altra forma importante di espressione non teorica del prometeismo rosso si è sostanziata nella speranza collettiva riposta da segmenti più o meno ampi delle masse popolari occidentali, ivi compresa la Russia, rispetto a leader politici ed “eroi rossi” (Ernst Bloch) ritenuti in possesso di eccezionali doti politiche, intellettuali e morali, tali da trasformarli più o meno completamente in supereroi agli occhi dei suoi seguaci.
Partiamo comunque dall’analisi del “prometeismo della rivolta”, ossia del titanismo insito nei processi insurrezionali popolari che sono stati purtroppo sbaragliati e annientati nel mondo occidentale, immediatamente al loro sorgere oppure dopo solo un breve istante storico di conquista del potere, dopo solo una “breve estate” (H. M. Enzensberger) di inebriante vittoria.
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Puntare tutto sul Recovery Fund può essere fatale per l’Italia
di Enrico Grazzini
Per una volta Federico Fubini, il vice-direttore ad personam del Corriere della Sera che è contemporaneamente un esperto di finanza e un europeista convinto, ha ragione. L’Unione Europea, nonostante le fanfare europeiste, nonostante i proclami superottimistici del ministro dell’economia Roberto Gualtieri, è ancora una volta bloccata. E purtroppo non è assolutamente detto che il Recovery Fund Europeo da 750 miliardi di euro, altrimenti chiamato Next Generation EU, alla fine sarà realmente realizzato. Gli incidenti di percorso possono essere molti, alcuni già visibili, altri imprevedibili. Il futuro dell’Italia è appeso al filo del Recovery Fund, RF, e ai 209 miliardi che il nostro Paese potrebbe cominciare (forse) a spendere nella seconda metà del prossimo anno per rilanciare un’economia moribonda e una società spossata dalla crisi causata dal Covid-19. Tuttavia, Fubini spiega che potrebbero capitare delle brutte sorprese. Il governo Conte aspetta gli “aiuti” dell’Unione Europea come una manna dal cielo ma non è certo che la manna cadrà davvero. È per questo validissimo motivo che il governo dovrebbe cominciare a svegliarsi per trovare e creare anche autonomamente i soldi indispensabili per combattere la crisi.
Attualmente l’opposizione al Recovery Fund da 750 miliardi viene, come noto, da Polonia e Ungheria, i Paesi amici del sovranista Matteo Salvini, capo supremo della Lega: i due Paesi dell’est Europa bloccano un processo di finanziamento della UE che, forse per la prima volta da quando è nato l’euro, è favorevole al nostro interesse nazionale.
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Strategie di sopravvivenza del sistema finanziario
Verso il nulla che avanza
di Francesco Cappello
Le banche centrali a partire dalla crisi del 2007/08 nel tentativo di stabilizzare il sistema finanziario, in equilibrio intrinsecamente precario, hanno creato e immesso enormi quantità di moneta nei suoi circuiti, al fine di far quadrare bilanci pericolosamente squilibrati. Ad oggi, nel complesso, più di 30 mila miliardi di dollari la moneta a vario titolo creata (1) e immessa nel sistema finanziario, destinata a crescere a ritmi vertiginosi.
La moneta dal 1971 è moneta fiat, non più legata all’oro (fine del gold standard). Essa si crea dal nulla a volontà. Non è “risorsa” scarsa. Non ha quindi valore intrinseco.
Come fare a conferirglielo?
Sorgente e ruolo dell’inflazione finanziaria
Come è noto alle banche centrali di molti paesi inclusi quelli dell’Unione Europea è stata preclusa la possibilità di finanziare direttamente gli Stati; sono perciò le banche private a fare da intermediare comprando i titoli emessi dallo stato. Esse utilizzano allo scopo moneta creata appositamente dalle banche centrali. Nel contesto europeo le banche private fanno da intermediarie tra la BCE e gli Stati.
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Non c'è più tempo per le incertezze
di Alessandro Pascale
Pubblichiamo un contributo di Alessandro Pascale sull'unità dei comunisti
Recentemente si è assistito ad un breve ma intenso dibattito a distanza sulla questione dell'unità dei comunisti. Avviato da Norberto Natali, è stato portato avanti teoreticamente da Eros Barone, suscitando una controproposta molto pragmatica di Burgio, Sidoli e Leoni. Le proposte operative di questi ultimi non sembrano per ora essere state seriamente prese in considerazione dalle organizzazioni esistenti, almeno non apparentemente... Natali e Barone hanno posto una serie di paletti sul cerchio in cui si dovrebbero includere i comunisti effettivamente tali, ma per chi sa leggere i bizantinismi della politica, nonostante l'apparente apertura, anche le proposte operative di Sidoli e compagni tendono nei fatti a chiudere entro un adeguato perimetro le forze di cui si auspica un'unità d'azione.
Non ho mai amato molto i sotterfugi, e preferisco i discorsi chiari ed espliciti. Nell'opera In difesa del socialismo reale(poi diventata nella II edizione Storia del Comunismo) ho svolto un'analisi abbastanza chiara e netta sui pregi e sui difetti della storia del movimento comunista italiano; pur essendo partito da una posizione scevra da pregiudizi, in molti casi mi sono trovato, studiando, a rimodulare in maniera consistente certi giudizi storici e politici pre-esistenti. Quel che ho capito, e che viene ben espresso dal tenore degli interventi citati, è che abbiamo un patrimonio enorme alle spalle, che dobbiamo saper utilizzare criticamente per comprendere fino in fondo gli errori che abbiamo commesso tutti nel passato, al fine di ricostruire un'organizzazione con fondamenta più solide.
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Capitalismo e democrazia, catastrofe o rivoluzione
di Paolo Ortelli
- Wolfgang Streeck, Jürgen Habermas, Oltre l’austerità. Disputa sull’Europa, a cura di Giorgio Fazio, Castelvecchi, Roma 2020.
- Emiliano Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, a cura di Giacomo Russo Spena, Meltemi, Milano 2020.
«Se, in nome della giustizia e della libertà di restituire significato e unità alla vita, fossimo mai chiamati a sacrificare una quota di efficienza nella produzione, di economia nel consumo, o di razionalità nell’amministrazione, ebbene una civiltà industriale potrebbe permetterselo.»
Karl Polanyi[1]
È da almeno dieci anni che una minoranza di studiosi sociali invoca la necessità di un cambio di paradigma economico, una minoranza che si è rinfoltita con qualche ritardo rispetto allo sgretolamento del sistema sociale che ha governato i destini del mondo negli ultimi quarant’anni. Ci è voluto un decennio di stagnazione perché tornassimo «tutti (nuovamente) keynesiani», realizzando però che ormai abbiamo perso il controllo sulle leve necessarie per applicare politiche keynesiane.
Oggi che la pandemia di Covid-19 sta facendo sentire le sue incommensurabili conseguenze economiche, anche nell’establishment istituzionale e accademico si parla finalmente di cambiare paradigma. Ma forse è a quei pochi capaci di uscire dal coro già in tempi non sospetti che dovremmo rivolgerci per trovare la bussola in questa crisi, la quale rischia di rivelarsi tanto più disastrosa quanto più, dopo lo shock pandemico, ci si illuderà di poter “tornare alla normalità”. Attenzione però, potremmo scoprire che capitalismo e democrazia sono ormai irreversibilmente incompatibili.
Wolfgang Streeck ed Emiliano Brancaccio sono tra gli studiosi sociali che hanno offerto gli strumenti analitici più preziosi in quest’epoca incerta e minacciosa.
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Venezuela, geopolitica post-elettorale
di Geraldina Colotti
Mentre è in corso la farsa dell’autoproclamato con la sua “consultazione popolare”, le reazioni alle parlamentari, che si sono svolte in Venezuela il 6 di dicembre, fotografano la contesa geopolitica per come si va configurando in questo scorcio del 2020. Un anno segnato dalla pandemia da coronavirus, che ha già provocato 1,57 milioni di morti (3.000 al giorno solo negli USA), quasi mezzo milione in Europa.
Un’Europa stretta nella gabbia della Ue, la cui cifra ricompatta, per l’occasione, gli interessi di banchieri, affaristi e grandi imprenditori a scapito dei settori popolari, ribadendo la stratificazione gerarchica esistente fra i suoi stessi membri. Un’Europa che vuole avere la sua fetta di torta, restando però sotto l’ombrello (Nato) del Grande Fratello nordamericano.
Il ministro degli Esteri russo, Serguéi Lavrov, ha sintetizzato adeguatamente la situazione, commentando la decisione del blocco regionale di imporre una nuova tornata di sanzioni alla Russia senza passare per gli organismi dell’ONU. L’Unione Europea – ha detto – ha rinunciato a essere uno dei poli di un sistema multipolare, continuando ad agire nell’orbita di Washington: “La politica della Germania – ha aggiunto – ci conferma che così vuole attuare Berlino, sempre che mantenga la leadership dell’Unione Europea”.
Su richiesta degli Stati Uniti, facendo riunioni a porte chiuse, la UE cerca di screditare l’ONU mediante il “meccanismo generico di imporre sanzione per violazione dei diritti umani”, ha denunciato il capo della diplomazia russa.
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Dopo Trump?
di Raffaele Sciortino
Avvertenza: nonostante l’assertività della comunicazione scritta, quanto segue intende presentare una serie di ipotesi di lettura di una dinamica complessa e aperta a più esiti
“I marxisti, non potendo oggi essere protagonisti della storia,
nulla di meglio possono augurare che la catastrofe,
sociale, politica e bellica,
della signoria americana sul mondo capitalistico”
Bordiga, 1952
Oggi e ieri
Nulla dice di più sullo stato del mondo attuale del fatto che gli Stati Uniti sempre più si presentano come una equazione impossibile. Il primo paese mercantile-capitalistico puro nella storia - privo di un passato premoderno - si divincola tra la crisi del suo comando globale e l’impossibilità di ripristinarlo nella cornice consueta dell’ordine internazionale liberale, tra spinte anti-globalizzazione e destino che ne fa la nazione “indispensabile”, per sé e per le altre, del sistema mondiale, tra crescente polarizzazione interna e aleatorietà di qualunque nuovo patto sociale che possa ricostruire un grande consenso, tra scarico dei costi all’esterno e montante riottosità di alleati e avversari a sostenerli al modo di prima.
Le elezioni di novembre sono l’ennesima conferma di questo paradosso, degno di una configurazione quasi imperiale: il disordine nel ventre della bestia oggi non equivale di per sé al benessere del resto del mondo, così come, nel passato, ogni ricomposizione interna, sociale e politica, progressista è sempre stata ricetta per disastri. Dalla guerra civile, compimento dell’emancipazione nazionale borghese, sono venuti fuori i robber barons e il decollo imperialista e nessuna soluzione alla questione dei neri. Dal New Deal e dall’alleanza “democratica” nella seconda guerra imperialista è nata la spinta decisiva al dominio mondiale; dal compromesso sociale fordista è scaturito il consenso alla Guerra Fredda e all’aggressione al Vietnam.
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Il governo balla sul Mes
di Dante Barontini - Emiliano Brancaccio*
Se dobbiamo stare alle grida mediatiche, il governo è sull’orlo della crisi. Il che sarebbe una novità, a pochi giorni dalla fine dell’anno e dunque dall’approvazione della “legge di stabilità”, la più importante di tutte le leggi perché definisce – per l’anno successivo – come lo Stato italiano finanzierà le proprie attività (tutte, quelle normali e quelle “eccezionali”) e dove troverà le risorse per farlo.
La novità, nella legge di stabilità di quest’anno, è che oltre alla normale leva fiscale (le tasse su imprese e cittadini) si potrà calcolare anche qualche contributo europeo, nell’ottica del Recovery Fund o Next generation Eu, se e quando a Bruxelles si riuscirà a superare il veto di Polonia e Ungheria (ci stanno lavorando intensamente, pare).
Ci sono insomma decine di miliardi da gestire e questo scatena gli appetiti dentro e fuori la maggioranza di governo. C’è chi vorrebbe qualcosa anche stando all’opposizione (Forza Italia in primo luogo, ma non solo), chi vedere una fetta troppo piccola se proporzionata al suo basso bacino elettorale – Renzi, insomma – e poi Confindustria, che pretende per sé e le imprese che rappresenta l’intera posta, senza lasciare neanche uno spillo alle politiche sociali.
Anche tra Pd e Cinque Stelle, inevitabilmente, si è aperta la rissa per la stessa, con in più la complicazione di una “cabina di regia” che Conte vorrebbe capitanare insieme a Gualtieri e Patuanelli (quindi con criterio politicamente equanime), ma ricorrendo all’ennesima task force di “esperti” e “manager”. Il che sottrae certamente ai ministeri competenti una buona parte dei progetti da finanziare e del potere che ne deriva.
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“Una ruota quadrata”: alcune linee del Rapporto del CENSIS sulla situazione del paese
di Eros Barone
“Il sistema-Italia è una ruota quadrata che non gira: avanza a fatica, suddividendo ogni rotazione in quattro unità, con un disumano sforzo per ogni quarto di giro compiuto, tra pesanti tonfi e tentennamenti. Mai lo si era visto così bene come durante quest’anno eccezionale, sotto i colpi sferzanti dell’epidemia. Privi di un Churchill a fare da guida nell’ora più buia, capace di essere il collante delle comunità, il nostro modello individualista è stato il migliore alleato del virus, unitamente ai problemi sociali di antica data. E di certo la rissosità della politica e i conflitti interistituzionali non aiutano. Così come nell’emergenza abbiamo trascurato i malati “ordinari”, uno degli effetti provocati dall’epidemia è di aver coperto sotto la coltre della paura e dietro le reazioni suscitate dallo stato d’allarme le nostre annose vulnerabilità e i nostri difetti strutturali, del tutto evidenti oggi nelle debolezze del sistema ‒ l’epidemia ha squarciato il velo: il re è nudo! ‒ e pronti a ripresentarsi il giorno dopo la fine dell’emergenza più gravi di prima”.
Questo è l’‘incipit’ del 54° Rapporto del CENSIS sulla situazione del paese: una rappresentazione sobriamente documentata e giustamente impietosa della odierna realtà italiana, delineata da un intellettuale organico di una delle poche frazioni intelligenti della borghesia italiana, il sociologo cattolico Giuseppe De Rita. Invitando a leggerlo nella sua interezza, ne fornisco, più che una sintesi, alcuni estratti particolarmente significativi che dovrà tenere ben presenti chiunque si cimenti con i problemi di un lavoro politico serio all’interno del movimento di classe.
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Lo spieghìno: Il “nuovo” MES riformato? È peggio di quello vecchio
di Thomas Fazi
Come nelle più prevedibili delle sceneggiature hollywoodiane, proprio quando il mostro sembrava ormai morto, eccolo rialzarsi per un (ultimo?) colpo di scena.
Fino all’altro giorno, infatti, erano in molti a dare per morto il MES. Per chiarezza: qui non stiamo parlando del cosiddetto “MES sanitario”, ovvero della nuova linea di credito dalle “condizionalità limitate” riservata agli Stati per le spese sanitarie, che continua ad essere oggetto di un accesso dibattito e di cui abbiamo parlato in più occasioni, ma del Meccanismo europeo di stabilità nella sua accezione più ampia, in quanto organo intergovernativo permanente che esiste dal 2011 e la cui funzione fondamentale è quella di «concedere, sotto precise condizioni, assistenza finanziaria ai paesi membri che trovino temporanee difficoltà nel finanziarsi sul mercato». Parliamo in sostanza dell’organo impiegato (insieme ai suoi predecessori, il FESF e l’EFSM) nel “salvataggio finanziario”, per usare un eufemismo, in cambio di “riforme”, per usare un altro eufemismo, di Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro.
Per capire di cosa parliamo può essere utile richiamare un episodio che riguarda Klaus Regling, il direttore generale del MES, che, come ricorda Carlo Clericetti, «dispone di amplissimi poteri e le cui azioni, secondo una esplicita previsione dello statuto del fondo, non possono essere contestate in nessun modo, nemmeno per via giudiziaria». Nel suo libro di memorie Adulti nella stanza, l’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis racconta che nel tentativo di ottenere un rinvio al soffocante pagamento delle rate dei prestiti si rivolse direttamente a Regling. «Per pagare la rata nei termini stabiliti non avrei i soldi per stipendi e pensioni», gli disse Varoufakis. E Regling, senza battere ciglio, rispose: «E allora non pagare stipendi e pensioni». Questo tanto per inquadrare il plenipotenziario capo del MES.
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Denaro senza valore - Cap. XV
di Robert Kurz
La fine del movimento di espansione interno, la crisi mondiale della terza rivoluzione industriale e l’imbarazzo del positivismo della sinistra
Presentiamo qui un capitolo tratto da Geld ohne Wert (tr.it: Denaro senza Valore),1 l’ultimo libro importante di Robert Kurz uscito quando l’autore era ancora in vita (il libro è del 2011, Kurz ci ha lasciati l’anno seguente a causa di un errore durante una operazione chirurgica). Questa prematura quanto incredibile morte ha sfortunatamente interrotto una importante riflessione in itinere che, con ogni probabilità, avrebbe avuto ancora molto da dire. Kurz infatti al momento della sua morte aveva “solo” 68 anni e, considerando la sua notevole prolificità, tutto lascia pensare che la sua produzione si sarebbe tutt’altro che interrotta in questo punto. Nella prefazione del libro in questione, per esempio, annunciava l’uscita successiva di una serie di testi che avrebbero dovuto approfondire temi legati alla critica dell’economia politica.2
Geld ohne Wert è uno dei molti testi kurziani purtroppo ancora non tradotti in lingua italiana. In questo libro, che è la rielaborazione e ampliamento di una conferenza che avrebbe dovuto tenere in un convegno dal titolo “Magia del denaro. La sua razionalità e la sua irrazionalità” a Brema nel Marzo 2011, Kurz prova a proporre una nuova interpretazione della critica dell’economia politica, elaborando quattro grandi temi – in parte già affrontati in testi precedenti. Il primo di questi riguarda la questione delle società premoderne (o precapitalistiche, che secondo la lettura kurziana è praticamente la stessa cosa), per le quali cerca di delineare la differenza di fondo con quella moderna (o capitalistica). Interpretare le società precedenti alla nostra con gli stessi parametri con cui interpretiamo questa è un errore e una scorrettezza da un punto di vista metodologico, che non rende possibile la comprensione né dell’una né delle altre.
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