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Surplus economico, il rapporto di Baran e l'accumulazione di capitale
del nostro amico Zhun Xu
La crescita economica è stata senza dubbio la prima e principale questione dello sviluppo capitalista dall'economia politica classica agli studi economici più recenti. Molte discussioni sullo sviluppo si riducono alla natura e alle caratteristiche della classe dirigente. Dato che la classe dominante controlla il surplus della società, il modo in cui viene utilizzato il surplus, sia esso investito, consumato o semplicemente sprecato, è a sua discrezione. L'effettivo utilizzo dell'eccedenza implica un ragionevole tasso di accumulazione di capitale e sviluppo economico.
Nel 1957, nell'economia politica della crescita, Paul Baran ha dato un contributo fondamentale alla nostra comprensione del surplus economico, un concetto che ha introdotto nella discussione sullo sviluppo e sulla crescita. Sosteneva che anche i paesi poveri conservano ancora un notevole surplus economico oltre al consumo essenziale nazionale e che il modo in cui le classi dirigenti usano quel surplus modella le traiettorie di sviluppo delle nazioni. Eliminando i consumi della classe superiore non necessari e le inefficienze dell'economia di mercato, tra gli altri fattori, una società meglio organizzata come il socialismo consentirebbe a tutte le nazioni di crescere e svilupparsi.
Per fare un esempio della storia economica cinese, secondo l'economista Victor Lippit, il reddito pro capite in Cina era all'incirca lo stesso nel 1933 come era nel 1953. Il tasso di risparmio, tuttavia, è aumentato dall'1,7 per cento nel 1933 al 20 per cento in 1953. Questo forte aumento fu raggiunto con standard di vita sostanzialmente migliori per la gente comune. La nuova società rivoluzionaria, sosteneva Lippit, era in grado di eliminare contemporaneamente inutili consumi e sprechi d'élite e aumentare consumi e investimenti popolari.
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No al MES! Le menzogne degli europeisti e le ambiguità dei "sovranisti"
a cura di Moreno Pasquinelli
Si è svolta il giorno 6 novembre sotto il Parlamento, promossa da LIBERIAMO l'ITALIA, la manifestazione contro il MES e contro l'eventuale ratifica da parte di governo e Parlamento. Sul MES se ne dicono tante, spesso si tratta di colossali bugie. Come stanno davvero le cose ce lo spiega il DOSSIER pubblicato di seguito,curato da Moreno Pasquinelli e approvato del Coordinamento nazionale di LIBERIAMO l'ITALIA
Il contesto da cui nacque la bestia del Mes
Dopo decenni di finanziarizzazione dissennata, nel 2007-2008, scoppiò negli Stati Uniti la bolla dei mutui subprime, in sostanza la più grave crisi finanziaria dopo quella del 1929. La conseguenza fu il cosiddetto “credit crunch”, il sostanziale blocco dell’offerta di credito da parte delle banche. L’onda d’urto globale travolse anzitutto l’Occidente, ma colpì in modo letale l’eurozona. I governi di Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna, dopo qualche esitazione, decisero di obbligare le loro banche centrali ad esercitare la funzione di prestatore di ultima istanza (lender of last resort), ovvero stampare la moneta necessaria per prestarla a banche e istituti simili, in grave crisi di liquidità. Il paracadute fornito dalla banche centrali evitò in effetti la catastrofe e l’economia poté riprendersi presto.
Per farci un’idea di quanto massiccia fu la manovra della Federal Reserve, basti ricordare che questa acquistò titoli sul mercato per circa 4500 miliardi. Risultato: vero che il deficit salì al 4,2% e il debito pubblico passò al 102% del Pil, ma la disoccupazione scese sotto il 5%, il Pil tornò a crescere del 2% e Wall street tornò presto ai livelli pre-crisi. Una linea “interventista” che la FED non ha mai abbandonato, se è vero, com’è vero, che nel settembre scorso è intervenuta con una gigantesca operazione di 260 miliardi in soccorso di diverse banche a rischio di collasso.
Non fu così nell’eurozona. Alla BCE, del tutto indipendente dai governi e dal Parlamento europeo, tenuta per statuto a rispettare le sue ferree regole monetariste (stabilità dei prezzi e tasso d’inflazione non superiore al 2%) è proibito di agire come prestatore di ultima istanza o di correre in soccorso degli Stati.
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Che cos’è il nuovo lavoro culturale, dal boom dei creativi al crollo del valore
di Bertram Niessen
Il saggio di Bertram Niessen è estratto dal volume Platform Capitalism (Mimesis) a cura di Emiliana Armano, Annalisa Murgia, Maurizio Teli. Questo testo racconta la storia di un circolo vizioso. Il numero di lavoratori delle industrie culturali e creative è aumentato costantemente per decenni, mentre il valore del loro lavoro è tendenzialmente declinato. Ma quali sono, nel dettaglio, i meccanismi di questo crollo? E quali sono le risposte possibili che si profilano all’orizzonte?
Nella prima parte di questo capitolo analizzerò brevemente alcune delle principali dinamiche sociali, tecnologiche e politiche che hanno causato questa situazione. Nella seconda, prenderò in considerazione alcune delle principali pratiche utilizzate per cercare delle soluzioni.
ICC: la promessa del nuovo boom, la classe creativa e il nuovo spirito del capitalismo
Negli ultimi decenni è aumentato esponenzialmente il numero di figure con curricula professionali legati alla creatività, alla cultura e all’arte, di pari passo con l’ampliamento di quel vasto settore del terziario avanzato che va sotto la definizione di Industrie Culturali e Creative (ICC).
Sotto la definizione di ICC ricadono settori molto diversi tra loro. Una tassonomia utile per quanto trattato in questo capitolo è quella adottata dalla Fondazione Symbola, che include: arti performative e arti visive; gestione del patrimonio storico artistico (che comprende tutte le attività che hanno a che fare con la conservazione, la fruizione e la valorizzazione del patrimonio, come musei, archivi, biblioteche, monumenti, ecc.); industrie culturali (attività orientate alla produzione di beni che operano con modalità industriali basandosi su contenuti ad alto tasso creativo o culturale: cinema, televisione, editoria, industria musicale, videogiochi, ecc.); industrie creative (attività legate al mondo dei servizi che hanno negli elementi immateriali il loro carburante principale: design, architettura e comunicazione); produzione di beni e servizi creative-driven (quelle attività che trovano il proprio valore aggiunto nella cultura e nella creatività pur senza esservi direttamente collegate).
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Mes: se poco cambia perché niente deve cambiare
Quel Gattopardo del MES
di Sergio Cesaratto e Massimo D'Antoni
Niente di nuovo sotto il sole. Così ha argomentato nella sua audizione il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri a proposito del nuovo MES (il Meccanismo Europeo di Stabilità): la possibilità di ristrutturazione del debito pubblico è già presente nell’attuale versione del trattato e quindi gli allarmi sollevati per le modifiche sono ingiustificati. Eppure tra i primi a sollevare dei dubbi erano stati economisti che, quanto a fedeltà all’ortodossia europea, sono al di sopra di ogni sospetto.
Giampaolo Galli, già deputato del Pd, aveva scritto un articolo nel quale, pur con cautela, metteva in fila gli elementi problematici della riforma. Egli ricordava l’episodio della famosa “passeggiata di Deauville” di Merkel e Sarkozy dell’ottobre 2010: il fatto che per in quella occasione la prima volta si sia menzionata la possibilità di un “coinvolgimento del settore privato” (una perifrasi per dire la ristrutturazione del debito) viene considerato come uno degli elementi scatenanti della speculazione che ha portato alla crisi dei debiti sovrani del 2011. Rilevava come nella nuova versione del trattato si attribuiscano al MES poteri molto ampi, in parte sovrapposti a quelli della Commissione, nella valutazione della sostenibilità dei debiti dei paesi membri, e con maggiore nettezza che in passato si stabilisce che l’assistenza verrà data solo ai paesi con debito sostenibile; una valutazione negativa sul debito rischia dunque di costringere il paese a ristrutturare il proprio debito per poter accedere ai fondi del MES. Se dunque è vero che il testo del trattato non prevede automatismi, in una situazione di reale necessità un paese bisognoso di aiuto con debito dichiarato non sostenibile avrebbe ben poca scelta.
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“Buscar el Levante por el Ponente”
Lenin da “Materialismo ed empiriocriticismo” ai “Quaderni filosofici”
di Eros Barone
«Il mondo, l’unità di tutte le cose, non è stato creato da nessuno degli dèi o degli uomini, ma è stato, è e sarà un fuoco eternamente vivo, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne»... Un’ottima esposizione dei princìpi del materialismo dialettico.
Lenin, Quaderni filosofici. 1
1. Tra la guerra imperialista e la repressione del partito bolscevico: genesi dei Quaderni filosofici
All’inizio della prima grande guerra imperialista Lenin viveva a Cracovia, allora regione polacca dell’Impero austro-ungarico, dove aveva scelto di espatriare per mantenere un collegamento diretto con la Russia in séguito all’ondata di persecuzioni politiche abbattutasi sul partito bolscevico. Sarà poi costretto a spostarsi in Svizzera a Berna, dove potrà lavorare con profitto avendo a disposizione il ricco materiale presente nelle biblioteche di questo importante centro culturale. In questa situazione di isolamento politico, che lo priva di ogni possibilità di influire direttamente sul movimento rivoluzionario, Lenin utilizzerà al massimo grado l’opportunità di svolgere uno studio teorico tendenzialmente sistematico della dialettica, di Hegel e dell’imperialismo. Si tratta di un momento estremamente importante nella maturazione complessiva del pensiero di Lenin, il cui frutto saranno le centinaia e centinaia di pagine dei Quaderni filosofici e dei Quaderni sull’imperialismo. Per usare un’immagine icastica, se è vero che Marx aveva caricato la bomba della rivoluzione, è altrettanto vero che Lenin la fece esplodere e che l’innesco di questa bomba fu fornito, alla fine del primo decennio del Novecento, dal saggio su Materialismo ed empiriocriticismo e, sei anni dopo, dalla lettura della Scienza della logica di Hegel.
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Scienza e Guerra
di Angelo Baracca*
Il coinvolgimento di un numero enorme di scienziati nella ricerca militare, o/e nella realizzazione di nuove armi, è un aspetto della Scienza attuale che di solito viene ignorato o sottaciuto (et pur cause!). Ma al di là delle dimensioni di questo coinvolgimento, che forse pochi immaginano, vi sono alcuni aspetti intrinseci nella Scienza moderna che costituiscono una predisposizione alle applicazioni militari.
Intervento a incontri con studenti del Corso di laurea in Scienze della Pace, e con studenti di scuole secondarie PISA, 25 Novembre 2019 – LIVORNO, 26 Novembre 2019
I legami fra la Scienza, la ricerca prettamente scientifica, e le attività a le produzioni militari, in una parola la Guerra, sono molteplici e assai più complessi di quanti si pensi a prima vista. L’idea più immediata è che la ricerca scientifica contribuisca alla realizzazione di armi di concezione nuova e più efficaci (nel distruggere e uccidere). Il che è senz’altro vero, ma a mio parere anche semplicistico.
Ritengo opportuno, per chiarezza e per chi non mi conosce, premettere che le mie idee sulla Scienza sono piuttosto radicali: non intendo imporle a nessuna/o, ma esporle senza infingimenti (come ho fatto in decenni di insegnamento) spero contribuisca a rimuovere le concezioni comuni e semplicistiche (a mio parere) che dominano perché ciascuno si faccia la propria opinione, ance fosse diversa dalla mia.
Affronterò distintamente due aspetti della questione. Il primo che potrei chiamare quantitativo, sull’entità dell’impegno degli scienziati per la guerra, perché penso la dimensione di questo impegno sia comunemente poco nota e sottovalutata (o occultata nelle informazioni comuni); ma vi un secondo aspetto, che chiamerei qualitativo, ancora più occultato o mistificato, che riguarda quella che ritengo una predisposizione della Scienza (quella nostra, Occidentale, o del capitalismo1), nel suo stesso impianto metodologico, verso l’aggressione all’Uomo e alla Natura.
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Intervista al professore ed economista Ernesto Screpanti
di Bollettino Culturale
Ernesto Screpanti, nato a Roma nel 1948, è docente ordinario di Economia Politica all’Università degli Studi di Siena. Si occupa di istituzioni del capitalismo, storia e metodologia del capitalismo, teoria del valore e teoria della libertà. Adeguando il pensiero marxista al capitalismo contemporaneo, libera Marx dalla metafisica hegeliana, l’etica kantiana e il determinismo economico. Per Screpanti l’istituzione fondamentale del modo di produzione capitalista non è il possesso dei mezzi di produzione bensì il contratto di lavoro, con il suo rapporto di autorità con cui il padrone sottomette e sfrutta il lavoratore. Elabora nei suoi lavori la teoria dell’“imperialismo globale”, definendo come contraddizioni imperialistiche fondamentali nel sistema di governo mondiale dell’accumulazione quelle tra metropoli e periferie dell’economia mondiale.
Infine rilegge il pensiero di Marx ed Engels come teorici libertari, intendendo la libertà come reale capacità di scelta dei soggetti individuali.
Tra i suoi principali lavori segnaliamo: Global Imperialism and the Great Crisis: The Uncertain Future of Capitalism, Monthly Review Press, 2014; Comunismo libertario: Marx Engels e l’economia politica della liberazione, Roma, Manifestolibri, 2007; Labour and Value: Rethinking Marx’s Theory of Exploitation, Open Book Publishers, 2019.
* * * *
1. Nel suo libro sulla globalizzazione [L’imperialismo globale e la grande crisi: L’incerto futuro del capitalismo, Roma 2014; Global Imperialism and the Great Crisis: The Uncertain Future of Capitalism, Monthly Review Press, New York 2014] lei riprende il concetto leninista di “imperialismo” affermando che la natura del capitalismo contemporaneo si basa sul suo carattere multinazionale e liberoscambista, e che in esso le nazioni ricoprono un ruolo di “gendarmi sociali”.
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MES: il golpe è servito
di Nicoletta Forcheri
A parte che il MES è una Société Anonyme di diritto lussemburghese ai sensi della legge sulle società commerciali del 1915. E che per il suo statuto, pur essendo redatto in francese e inglese, è l’inglese a fare fede, sebbene questa non sia una lingua ufficiale del Lussemburgo. Immaginate di creare una società di diritto italiano ma di scriverne lo statuto in giapponese o in inglese pur riferendovi, per i termini e i concetti di legge, a quelli del codice civile italiano dovenon sono né sovrapponibili né semplicemente esistenti nell’altra lingua… Una nebulosa giuridico linguistica.
Ma poi abbiamo una società commerciale privata i cui azionisti noti sono 19 Stati membri dell’eurozona, e che per il resto il MES è coperto dal segreto professionale. Tutti i suoi atti sono segreti e inviolabili. Non solo, ma le sue importazioni sono esenti di dazi. Il suo personale esentasse.
Non basta, perché il suo personale non può mai essere né indagato né citato in giustizia, praticamente immune e impunito per tutte le sue azioni nell’ambito delle sue funzioni, che riguardano essenzialmente operazioni finanziarie speculative e creazione monetaria. Sogno? Mi pizzico, non posso crederci! E noi che per un minibot dovuto ai legittimi creditori dello Stato di massimo 25000 euro per azienda abbiamo dovuto cambiare ministro delle Finanze, e abbiamo inorridito le cancellerie del mondo intero che ci hanno accusato di volere stampare moneta!!
Senonché, avendo il MES personalità giuridica essa non può mai essere citata né indagata ma vice versa può citare in giudizio chi vuole, quando vuole, come vuole, persone fisiche e morali e per le ragioni che vuole.
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Per quest’anno non cambiare, stesso fisco padronale
di coniarerivolta
Al tempo dell’esecutivo giallo-verde vari esponenti della galassia del centro-sinistra, da Leu al PD, criticarono aspramente il governo per aver portato avanti una riforma fiscale che andava a ridurre la progressività del sistema tributario italiano facendo pagare meno imposte ai più ricchi. Verità indiscutibile, ma a ben vedere del tutto superficiale e strumentale, sia per il pulpito da cui veniva la predica sia per la ristrettezza di giudizio in merito alle caratteristiche complessive del sistema fiscale italiano.
La pessima riforma fiscale Lega-5stelle che allargava il regime forfettario alle partite IVA fino a 65.000 euro e poi, in previsione, con un secondo scaglione al 20% fino a 100.000, era infatti la punta di un iceberg enorme costruito in decenni di stravolgimento delle imposte italiane e annichilimento del loro grado di progressività. Un processo portato a compimento con dovizia da tutte le parti politiche che oggi siedono in parlamento, molto prima e molto oltre gli effetti del pur inaccettabile sistema forfettario per le piccole partite IVA, che ha visto sottrarre alla progressività dell’imposta enormi quote di redditi da capitale tramite numerosi espedienti.
Prova ultima della totale inconsistenza e strumentalità di quelle critiche di PD, Leu e anime varie del centro-sinistra, è proprio la piena continuità con le linee precedenti di politica tributaria seguita dall’attuale governo. Al margine della non approvazione del secondo scaglione della flat tax al 20% per i redditi oltre i 65.000 euro annui e fino a 100.000, motivata peraltro più che da motivi equitativi dal consueto richiamo ai vincoli di bilancio, la linea di politica fiscale del Governo non rappresenta in alcun modo un cambiamento di passo rispetto alla consolidata tendenza pluridecennale.
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La rivoluzione passiva e il programma minimo
di Pasquale Vecchiarelli
Attraverso la rivoluzione passiva la borghesia punta a dominare col completo consenso dei dominati. La rivoluzione attiva non può rinunciare a conquistare le casematte borghesi e rompere questo meccanismo
L’umanità, sempre più avvolta nella tenebra del quotidiano in cui l’unica ragione di vita sembra essere quella di guadagnarsi una sopravvivenza dignitosa, produce a tutti gli effetti tutta la ricchezza di questo mondo. Tuttavia non è proprietaria di ciò che essa stessa produce e intuisce, sulla base della propria diretta esperienza, che altri metodi di organizzazione del lavoro, e quindi della società, sarebbero possibili. Irrazionalmente, però, tali alternative non vengono sperimentate in quanto è sempre più forte il freno che la borghesia – interessata solamente al mantenimento dello status quo - oppone allo sviluppo e al progresso dell’umanità.
È sempre più evidente, inoltre, che maggiore è lo sviluppo della scienza e della tecnica e relativamente minore è il suo impatto diretto nel migliorare le condizioni di lavoro della popolazione. Quante volte ci siamo detti che le nuove macchine consentono di risparmiare ore di lavoro: fatto sta che l’orario e i ritmi di lavoro di chi è già occupato aumenta anziché diminuire.
Lo sviluppo delle forze produttive imporrebbe la pianificazione internazionale della produzione basata sulla cooperazione tra i popoli e invece questo non avviene, anzi, in maniera del tutto irrazionale, i lavoratori di una stessa catena produttiva vengono posti in competizione tra loro. Feroci conflitti tra gruppi industriali per la conquista del plusvalore si trasformano in guerre che finiscono per bruciare le ricchezze prodotte con enorme sacrificio, provocando miseria e migrazioni di massa.
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Il lavoro importato: brevi note ai commenti
di Aldo Barba e Massimo Pivetti
Come promesso (vedi il mio post precedente) Barba e Pivetti mi hanno inviato alcune note ai commenti al loro libro sul "lavoro importato" (invi comprese le reazioni ai miei "Appunti a margine di un libro politicamente scorretto", una riflessione sulle tesi del libro in questione che ho pubblicato qualche giorno fa su questa pagina). Copioincollo qui di seguito il testo inviatomi dai due autori [Carlo Formenti]
Il nostro Il Lavoro Importato. Immigrazione, salari e stato sociale, edito da Meltemi, è un libro divisivo nel tema e per le tesi che vi si espongono. E’ normale quindi che generi reazioni contrapposte. Quelle avverse tendono a ricadere in tre tipologie. Le reazioni appartenenti alla prima tipologia si caratterizzano per lo stabilire una connessione immediata tra il libro ed il dibattito politico corrente in Italia. Poco interessate al merito del discorso che sviluppiamo, la questione che pongono riguarda l’ ‘opportunità politica’ di scrivere, a sinistra sembrerebbe, un libro di questo genere in questo momento. L’accusa, per farla breve, è di “fare il gioco delle destre”. Di questo si tratterebbe per alcuni, perché i problemi causati dall’immigrazione ai ceti popolari sarebbero un’invenzione diversiva dei capitalisti, volta a sviare l’attenzione dalle reali cause dell’accresciuto malessere sociale; per altri, meno sprovveduti, il problema invece esiste, ma a sinistra sarebbe controproducente parlarne in quanto causa o anche solo pretesto di ulteriori frammentazioni del campo. In un caso come nell’altro, ci sembra che questa lettura vuotamente politicista del nostro saggio costituisca la prova più evidente dell’opportunità di discutere esplicitamente il tema.
Una seconda tipologia di reazioni, anch’essa periferica rispetto al merito della questione, muove più o meno esplicitamente al nostro lavoro un’accusa di economicismo. Fosse anche vero quanto andiamo argomentando sull’esercito industriale di riserva e l’azione disciplinare svolta attraverso l’immigrazione sui lavoratori indigeni, staremmo perdendo di vista il fatto che si tratta di uomini. Anzi, non soltanto di uomini, ma “degli ultimi”. Qui crediamo si sia incappati in un equivoco.
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NATO, breve storia dell’alleanza
di Manlio Dinucci
In occasione del 70° anniversario della fondazione della NATO (North Atlantic Treaty Organization) pubblichiamo su questo numero due brevi saggi scritti per Patria, che esprimono punti di vista diversi sulla storia dell’alleanza. Qui il testo del geografo, ricercatore e saggista Manlio Dinucci
Le origini
Gli eventi che preparano la nascita della NATO iniziano con la Seconda guerra mondiale. Nel giugno 1941 la Germania nazista invade l’URSS con 5,5 milioni di soldati, 3.500 carrarmati e 5.000 aerei, concentrando in territorio sovietico 201 divisioni, equivalenti al 75% di tutte le sue truppe, cui si aggiungono 37 divisioni dei satelliti tra cui l’Italia. L’URSS chiede ripetutamente agli Alleati di aprire un secondo fronte in Europa, ma Stati Uniti e Gran Bretagna lo ritardano, mirando a scaricare la potenza nazista sull’URSS per indebolirla e avere così una posizione dominante al termine della guerra. Il secondo fronte viene aperto con lo sbarco anglo-statunitense in Normandia nel giugno 1944, quando ormai l’Armata Rossa e i partigiani sovietici hanno sconfitto le truppe tedesche assestando il colpo decisivo alla Germania nazista.
Il prezzo pagato dall’Unione Sovietica è altissimo: circa 27 milioni di morti, per oltre la metà civili, corrispondenti al 15% della popolazione, in rapporto allo 0,3% degli USA in tutta la Seconda guerra mondiale; circa 5 milioni di deportati in Germania; oltre 1.700 città e grossi abitati, 70mila piccoli villaggi, 30 mila fabbriche distrutte.
La guerra fredda, che divide di nuovo l’Europa subito dopo la Seconda guerra mondiale, non viene provocata da un atteggiamento aggressivo dell’URSS, uscita in gran parte distrutta dalla guerra, ma dal piano di Washington di imporre il dominio statunitense nel dopoguerra. Anche qui parlano i fatti storici. Il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki viene effettuato dagli Stati Uniti nell’agosto 1945 non tanto per sconfiggere il Giappone, ormai allo stremo, quanto per uscire dalla Seconda guerra mondiale con il massimo vantaggio possibile soprattutto sull’Unione Sovietica. Ciò è reso possibile dal fatto che, in quel momento, gli Stati Uniti sono gli unici a possedere l’arma nucleare.
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MES, c’è un altro modo di salvare gli Stati. E l’Europa
di Massimo Amato
Piagnoni e Palleschi, per ricordar D’Azeglio, così possono essere definiti i due campi di un dibattito sul MES in Italia eccessivamente polarizzato. Eppure una vera alternativa ci sarebbe: un reale safe asset europeo per gli investitori finanziari
Attorno alla riforma del MES il dibattito si è, come al solito, polarizzato: fra chi si è stracciato le vesti indicando vittime e carnefici, e chi ha continuato a trattare con sussiego tutti coloro che non hanno capito che l’Europa è una cosa meravigliosa, impossibilitata a far del male a chicchessia. Se non, beninteso, a quelli che se lo meritano.
Resta il fatto che fra gli MES-scettici questa volta si sono dovuti noverare notori euro-entusiasti. In particolare, colpisce la posizione preoccupata del governatore Visco. Come la mettiamo? Forse non è possibile liquidare la questione come un semplice gioco delle parti. Che però merita di esser giocato fino in fondo.
Proviamo, infatti, a portare alle estreme conseguenze il ragionamento dei “piagnoni”. L’Italia è debole a causa di un altissimo debito pubblico, che ormai si autoalimenta: anche a fronte di una lunga serie di avanzi primari positivi ed elevati il peso del debito cresce a causa non solo della stagnazione del PIL aggravata dall’austerity ma anche del costo del suo servizio, che a sua volta tende ad aumentare proprio a causa del livello elevato del debito pubblico. In questo contesto le nuove clausole del trattato, che mettono in mano al MES, più ancora di quanto già non fosse, la possibilità di condizionare finanziamenti a favore di uno stato in difficoltà a una ristrutturazione, più o meno automatica, del debito, possono provocare quello stato di bisogno che il MES sarebbe poi chiamato a sanare. Se le cose andassero così, a rimetterci non sarebbero soltanto le banche, che sarebbero almeno parzialmente compensate dall’accesso al fondo di risoluzione che la riforma prevede alimentato proprio dal MES (buono anche, diciamolo, per eventuali probabili problemi delle banche tedesche), ma i detentori privati del debito italiano.
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Il neoliberismo non è una teoria economica
Prima parte*
di Luca Benedini
Una rigorosa disamina delle contraddizioni interne del neoliberismo, dal culto del mercato al “trickle down”, dai piani di austerità alla gestione dell’euro, dal modo di rapportarsi con le “esternalità” alle prospettive generali dell’economia
Non lavorerò più nella fattoria di Maggie
[...]
Non lavorerò più per il fratello di Maggie
Lui ti dà 5 centesimi
Ti dà un decino
Ti chiede con un sogghigno
Se ti stai divertendo
E poi ti multa
Ogni volta che sbatti la porta
[...]
Non lavorerò più nella fattoria di Maggie
– Bob Dylan dalla canzone Maggie’s farm, incisa nell’album Bringing It All Back Home (1965)
Tutti sanno che i buoni hanno perso
Tutti sanno che lo scontro è stato risolto I
poveri restano poveri, i ricchi si arricchiscono
È così che le cose vanno
Tutti lo sanno
– Leonard Cohen e Sharon Robinson dalla canzone Everybody knows,
incisa nell’album di Leonard Cohen I’m Your Man (1988)
Quando – quasi vent’anni fa – da fonti interne al Fondo monetario internazionale (Fmi) e alla Banca mondiale sono emersi documenti riservati che dimostravano che queste istituzioni intergovernative operavano imponendo nel Terzo mondo non solo ingiustificate ricette liberiste fortemente antipopolari (come i famigerati “piani di aggiustamento strutturale”) ma anche azioni sottobanco incentrate su pesanti forme di corruzione e di attacco alla democrazia, non scoppiò alcuno scandalo nella “grande politica” internazionale, né si iniziò alcuna azione giudiziaria nemmeno per le più gravi di queste illegalità, né da allora si è avviato alcun sostanziale mutamento di direzione in questi organismi [1].
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Non-paradossi delle mobilità umane del XXI secolo
di Salvatore “Turi” Palidda
Da diversi anni la cosiddetta “questione demografica” è diventata una delle principali preoccupazioni di alcuni demografi, anche se le autorità politiche sembrano evitare di parlarne. Che si tratti dello spettro dell’aumento considerato incontrollato della popolazione mondiale, che alcuni sovrappongono alle conseguenze dei cambiamenti climatici e quindi al terrore per migrazioni che a certi dominanti appaiono come minacce di future invasioni distruttive dei paesi detti benestanti, o che si tratti del continuo declino demografico nella vecchia Europa (dall’Atlantico agli Urali), la questione demografica e le migrazioni (e anche l’emigrazione degli stessi abitanti dei paesi ricchi) appaiono come il più grosso problema che incombe sul pianeta tanto quanto la sola questione del riscaldamento climatico. In realtà, il primo gigantesco problema sta nello sviluppo economico che esaspera le diseguaglianze tra una minoranza di miliardari e milionari e delle loro lobby e la maggioranza della popolazione che, sia nei paesi poveri che in quelli ricchi, è a rischio di impoverimento e delle devastazioni che provocano malattie e morti da contaminazioni tossiche oltre che da incidenti sul lavoro ed economie sommerse. Ricordiamo che la maggioranza dei decessi è dovuta a malattie da contaminazioni tossiche, incidenti sul lavoro, malnutrizione, mancanza di cure, e in generale a invivibili condizioni di lavoro e di vita (e questo riguarda sia la maggioranza dei circa 60 milioni di morti l’anno a livello mondiale sia quelli nei paesi detti “ricchi”).
Tuttavia, di tali questioni se ne parla poco e anche gli esperti democratici e gli umanitari ne discutono restando spesso pervasi da categorie e paradigmi assai discutibili. È invece proprio su tali questioni che appare cruciale la necessità di decostruire i discorsi dominanti e adottare un approccio critico che possa permettere di dire la verità al potere, come insegna la pratica della parresia di Socrate ripresa da Foucault.
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L’impunità di classe al tempo del MES e della Prescrizione
Media falsari per omissione
di Fulvio Grimaldi
Metabolizzata l’affettuosa gelosia di quella Francia che, dagli illuministi e dal 1789, passando per la Comune e arrivando a un anno e passa di fenomenali lotte dei Gilet Gialli, pur decimati, tra morti e mutilati, dalle emergenze fascistoidi di Macron, fino agli scioperi di milioni e di giorni, di ogni categoria, che stanno paralizzando la Francia e riducendo, nel confronto, a nanetti da giardino nel parco dei signori i vari Landini, Furlan e Barbagallo, torniamo alle nostre miserie. Che nessuno esplicita con minore pudore di quanto ci riesca il giornalismo dei nostri media.
* * * *
Coloro che leggono queste note, tra epicurei che ne godono e stoici che le soffrono, sanno quanto mi sono strappato i capelli per le inversioni di rotta e gli arretramenti dei Cinquestelle (riferendomi sempre a quelli che ne sono responsabili, s’intende) e quanto me li sono inceneriti per essermi troppo a lungo ostinato a fidarmi di loro. Ho scritto anche un titolo “dal bene maggiore al male minore”. C’è chi, a questo proposito, lapalissianamente osserva che il meno peggio è comunque un peggio. Io rispondo con la stessa logica elementare, ma inoppugnabile: è quanto passa il convento. E allora cosa vogliamo fare? Chiudere il convento? Magari come Napoleone, che tanto bene fece in questo?
Cinque Stelle, il male minore. Quanto male, quanto minore?
E qui mi viene da pensare che i nostri Cinquestelle stanno a quanto noi avremmo voluto che fossero, come i mangiapreti Mazzini e Garibaldi stavano al Bonaparte che liquidava monasteri e sparava sugli altari.
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Populismo, punti di partenza
di Roberto Fineschi
Il populismo è una degli anelli della catena degenerativa che confondendo la rivolta romantica anticapitalistica con la critica del modo di produzione capitalistico produce il fascismo
1. Populismo ha significato - e significa - varie cose, anche di segno se non opposto, almeno contrastante. Solo guardando al passato se ne riscontrano accezioni potenzialmente progressiste - come nel caso del Populismo russo -, conservatrici - per es. l’americano People’s Party -, ambigue, ambivalenti e problematiche come ad es. il peronismo che in Sudamerica si ritiene di poter coniugare sia da destra che da sinistra. Con il tempo, nel lessico novecentesco, ha sicuramente prevalso un’accezione negativa. Ciò è dovuto assai probabilmente anche al consolidarsi, dopo la seconda guerra mondiale, di organizzazioni politico-istituzionali che valutavano negativamente alcune delle sue caratteristiche salienti: le democrazie parlamentari per un verso, il socialismo reale per un altro consideravano la mancanza di mediazione tra istanze del “popolo” e l’esercizio della funzione politica come un aspetto da evitare, e il ruolo dei partiti come organizzatori, educatori, anello nella catena della pratica e partecipazione politica era qui centrale.
Nel caso del cosiddetto socialismo reale, anche il soggetto cui ci si riferiva presentava probabilmente aspetti problematici, in quanto meglio del popolo, la classe, o i blocchi storici di classi, esprimevano le soggettualità in gioco in maniera più adeguata. Anche i “fronti popolari” erano tali in quanto organizzati, fronti appunto. Aspetti populistici - non popolari - venivano d’altra parte chiaramente individuati nei vari fascismi che, pur non dichiarandosi populisti, sicuramente si sentivano e si autoproclamavano emanazione diretta di un fantomatico “popolo”. Tornano qui alla mente i vari miti millenari, improbabili revival imperiali, il concetto nazionalsocialista di “völkisch” e via dicendo.
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L’Emilia Romagna e la crisi che viene da lontano
La fine del Pci e la regione non più rossa
di Lorenzo Battisti
Sembra ormai chiaro che il destino del governo si giocherà nelle prossime elezioni regionali di Gennaio, e in particolare in quelle della mia regione, l’Emilia Romagna (come la solito, il Sud viene dimenticato, ma c’è anche la Calabria al voto).
Il vero fatto nuovo è proprio questo: non solo la regione tradizionalmente rossa è “contendibile”, ma la vittoria della Lega è data quasi per certa dalla maggior parte dei sondaggi. Questo rappresenta un fatto storico, per una regione da sempre considerata rossa, antifascista, progressista e che si scopre d’un tratto verde.
Negli ultimi giorni, prima del pienone di Piazza Maggiore, sono stato colpito dai tanti post sui social network di tanti amici e compagni che avvertono ora l’emergenza dell’onda verde che straripa oltre il Po, dopo aver preso l’Umbria. In particolare sono stato attirato dal post di un compagno che mi sembra riassumere bene l’urgenza avvertita da una parte dei militanti storici della mia regione. E’ un compagno che ha militato nel Pci, tra i miglioristi, e che ha seguito tutto il percorso di trasformazioni fino al Pd, per poi uscire con D’Alema e Bersani in Articolo 1. Ma soprattutto è stato un acuto osservatore delle trasformazioni sociali ed economiche della regione, attraverso il ruolo svolto all’interno dell’istituto demoscopico provinciale. Il compagno scrive:
“Compagni, amici e conoscenti, sia ben chiaro. Questa è davvero la madre di tutte le battaglie. Uno scontro politico a tutto campo. Uno scontro ideologico. Una questione identitaria. Il sangue di noi tutti. Se l'Emilia sarà conquistata non sarà una normale alternanza. […]
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Francia: chi ha ferro ha pane
di Giacomo Marchetti
Giovedì 5 dicembre è iniziato lo sciopero generale in Francia contro la riforma del sistema pensionistico.
Ma la riuscita è stata molto più rosea delle più ottimistiche aspettative e costituisce un ulteriore stimolo per la sua continuazione ed estensione con effetto domino che “rischia” di abbattersi sull’esecutivo.
Secondo i dati “ufficiali”, non degli organizzatori, e quindi senz’altro notevolmente al ribasso, sono stati censiti 510.000 manifestanti in 70 città fuori Parigi, secondo il decryptage di Le Monde…
Per darvi un idea della sproporzione, il quotidiano francese – che comunque dichiara di avere compiuto una stima non esaustiva sul totale – parla di 25.000 a Marsiglia, mentre la CGT del dipartimento di Marsiglia fornisce la cifra di 150.000 persone. Lo stesso a Tolosa: 33.000 per la Prefettura, 100.000 per gli organizzatori!
E rileva comunque una presenza significativa anche nei centri minori oltre a Parigi, Marsiglia, Bordeaux, Lione, Tolosa, comunque molto inferiore alle stime date dai cronisti di testale locali che conoscono meglio le città di cui scrivono…
Le nombre jaune,pagina creata durante la marea gialla per fornire una contabilità precisa, date le cifre diffuse ufficialmente dall’Esecutivo al limite del ridicolo, parla di 1.143.450 partecipanti!
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Dazi, Stato e Rivoluzione (digitale)
di Militant
“La Cina è vicina” gridavano le piazze degli anni Settanta, e dopo quasi mezzo secolo di storia quello slogan non è mai stato tanto aderente alla realtà come lo è oggi, anche se in forme ben diverse da quelle auspicate allora. Non si intravede nessun nuovo Mao al timone, nessuna Rivoluzione Culturale si profila all’orizzonte e non ci sono nemmeno le guardie rosse intente a bombardare il quartier generale. Da Deng Xiaoping in poi la Cina ha smesso di rappresentare un’alternativa ideologica di riferimento, non solo rispetto al comunismo sovietico, ma anche, e soprattutto, rispetto a quell’occidente capitalistico a cui si è andata viepiù, per l’appunto, avvicinando.
La tappa fondamentale di questo percorso è stata sicuramente, tra il 1999 e il 2001, il negoziato finale e poi l’ingresso della Repubblica Popolare nella World Trade Organization (Wto). Com’è noto l’ultimo ventennio di crescita dell’economia globale si è di fatto retto sulla complementarietà tra gli Stati Uniti e la Cina, diventata nel frattempo, la “fabbrica del mondo”. Un’interdipendenza talmente forte da spingere i media internazionali a definire questo G2 informale come “Chimerica”, termine coniato dallo storico statunitense Niall Ferguson e nato dalla crasi di China e America.
Questo processo d’inserimento nel mercato internazionale è rimasto sostanzialmente immutato per tutto il primo decennio del nuovo secolo. La trasformazione della Cina nel principale hub della manifattura globale ha portato con sé, però, uno squilibrio commerciale crescente a danno degli Stati Uniti che, almeno in parte, è stato compensato dai flussi di capitali cinesi a sostegno del debito pubblico USA.
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Cambiare materiali, filosofie di progetto o modello?
di Carlo Bertani
Con l’Autunno, è arrivata la solita sequenza di disgrazie meteorologiche: in fin dei conti, è piovuto quattro giorni di seguito, e quattro giorni di pioggia sono bastati per mettere in crisi il sistema di trasporto italiano.
Una parte di responsabilità l’hanno, ovviamente, i mutamenti climatici in atto, basti pensare che, nel 2018, la temperatura massima del Mar Tirreno giunse a 26°, mentre nel 2019 è giunta a 29°, l’Adriatico a 30°.
Come se non bastasse, s’approfondisce lo strato di acqua che si riscalda – separata dal cosiddetto “termoclino”, che le divide dalle acque di fondo, che rimangono sempre alla massima densità di 4° – il problema è che mentre, prima, il termoclino s’assestava intorno ai dieci metri di profondità, oggi arriva a venti, il doppio.
La quantità di energia che le acque marine contengono, al termine della stagione estiva, è incommensurabile: sono quantità paragonabili a circa 50 volte il consumo elettrico annuo nazionale!
Si dà il caso che questa energia sia destinata a giungere in atmosfera con la fase di omotermia invernale, e allora osserviamo – come nel 2018 – i cicloni oppure, come nel 2019, le piogge “monsoniche”, che devastano il territorio.
In altre parole, l’energia può avventarsi col vento ed aumentarne la velocità, oppure sorreggere i fronti ciclonici e sommergerci con le acque.
In un modo o nell’altro, e qualunque sia la ragione, dobbiamo farci i conti.
L’altro problema, riguarda la specificità del territorio italiano.
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MESsi in trappola
di Francesco Cappello
Il meccanismo europeo di stabilità (MES)
è uno dei modi che i paesi ricchi dell’eurozona stanno perfezionando per porsi al riparo, a danno dei più paesi più fragili, dalle perdite provocate dalle loro stesse politiche mercantiliste-ordoliberiste, sostenute e promosse dalle istituzioni della Ue.
Se leggi “fondo salva stati (fss)“ pensi ad una colletta tra stati, utile a venire in soccorso di quei paesi che venissero a trovarsi in grave difficoltà. Bello no? La solidarietà tra stati! Già nella versione sottoscritta, ratificata e finanziata nel 2012 il fss fu ridefinito meccanismo europeo di stabilità. Anche in questo caso immagini che misure a garanzia della stabilità saranno sicuramente positive. C’è forse qualcuno a cui piace vivere tra brutte sorprese, in un mondo imprevedibile, continuamente mutevole e instabile?
Dire, più realisticamente, che il MES sia stato architettato primariamente quale fondo salva grandi banche d’affari non lo avrebbe reso molto popolare. Dire che mira, seppure indirettamente, ad incoraggiare la minimizzazione della spesa pubblica degli stati o a incentivare la svendita di quel che rimane del loro patrimonio pubblico, o ancora, che abbia come effetto quello di dirottare gli investimenti delle famiglie, orientandoli all’acquisto dei prodotti finanziari delle banche d’affari piuttosto che dei titoli del loro stato, avrebbe rischiato di metterlo in cattiva luce.
La denominazione di fondo salva stati ci aveva comunque abituato a convivere con l’idea dell’eventuale default (fallimento) degli stati. Che i paesi membri possano fallire legittima strumenti quali il MES, predisposti al loro soccorso. Tale eventualità appare oggi realistica quale esito reso possibile da una serie di cambiamenti strutturali intervenuti negli ultimi decenni.
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Intellettuali, parola e potere
di Salvatore Bravo
Ruolo degli intellettuali ed il suo destino
Il ruolo degli intellettuali ed il suo destino sono indissolubilmente legati alla democrazia. Nella fase attuale del capitalismo assoluto la palese decadenza degli intellettuali, ormai organici alla società dello spettacolo, coincide con la fase regressiva ed autoritaria della “democrazia della finanza”. La democrazia nel suo significato ideale è attività decisionale e consapevole dei popoli, è pensiero condiviso, attività creatrice e dialettica mediante la quale i popoli si riconoscono ed autoriconoscono nelle reciproche differenze rispettose dei comuni principi: comunità, giustizia sociale, consapevole limitazione dei processi crematistici, riconoscimento delle differenze all’interno di una cornice assiologica comune. La democrazia è misura e senso del limite senza i quali non è che la parodia di se stessa, dove vige la dismisura, la cattiva distribuzione delle ricchezze e dei poteri non vi è che la sudditanza della politica all’economia. È evidente che la democrazia dei nostri giorni agonizza sotto i colpi del liberismo e delle conseguenti mercificazioni.
L’attività perenne del capitalismo assoluto favorisce la passività
La fase imperiale del capitalismo nella sua furiosa volontà di potenza, conquista e vendita omologa le parole, le svuota del loro significato per renderle frecce uncinate per la perenne televendita. La decadenza delle parole, il loro essere organiche alla lingua del capitale è forse il risultato più alto che il capitalismo assoluto ha potuto ottenere. Il pensiero è costituito di parole, la loro funzionalizzazione alla sola vendita ha reso possibile l’attacco alle coscienze; la penetrazione violenta nella mente dei popoli è un’operazione imperiale nuova ed inaudita. I popoli senza lingua e linguaggi, indotti a parlare la lingua unica del mercato, possibilmente l’inglese commerciale, vivono la profondità della loro crisi politica nella forma dell’attività-passiva.
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Fondo salva stati. Cosa non vogliono dirci
di Federico Giusti e Ascanio Bernardeschi
Con le modifiche al Meccanismo europeo di stabilità si accentuano i vincoli finanziari nell’eurozona e la finanza espropria gli Stati dei loro poteri, a danno dei lavoratori. Una lotta di classe asimmetrica
Si è iniziato a parlare da fine primavera, quando la Lega era ancora al governo del paese, delle modifiche al c.d. Fondo salva stati, fondo con cui l'Ue “aiuta” (virgolette d’obbligo) i paesi in difficoltà, cioè quelli più indebitati. Ma prima di vedere di cosa si tratta, ragioniamo su alcune regole cui devono sottostare i paesi dell’Unione Europea (Ue), secondo il Trattato di Maastricht.
Una di esse dice che nessun paese può avere un disavanzo della bilancia commerciale con l’estero (differenza fra esportazioni e importazioni) superiore al 4% né un avanzo superiore al 6%. Ma la virtuosa Germania non è in regola perché ha stabilmente avanzi maggiori. Gli avanzi della Germania verso in paesi dell’Ue corrispondono ai disavanzi di questi ultimi. Tuttavia nessuno richiama la Germania e sul banco degli imputati vengono messi solo i paesi in disavanzo. Un’altra conseguenza del Trattato è l’impossibilità degli stati in disavanzo commerciale con l’estero di compensare questo svantaggio competitivo con la svalutazione monetaria, visto che la moneta unica è gestita dalla Bce.
Le due cose messe insieme hanno effetti pesanti. Infatti, un indebitamento netto con l’estero del sistema delle imprese dipende dal fatto che nella nazione si acquista più dall’estero di quanto si riesca a vendere, che si consuma più di quanto si incassi, che siamo debitori verso l’estero e che il risparmio netto è negativo. Ciò implica che non possono esserci sufficienti risparmi interni per acquistare il debito pubblico. Quest’ultimo, di conseguenza, deve essere necessariamente detenuto in dosi massicce da risparmiatori e istituzioni finanziarie esteri, visto che è anche proibito dalle regole europee che le banche centrali acquistino i titoli del debito pubblico sul “mercato primario”, cioè direttamente presso gli Stati nel corso delle aste, come invece avveniva una volta.
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Marco Revelli, “Turbopopulismo”
di Alessandro Visalli
Nell’epoca in cui austeri dizionari on line, come quello della Treccani, coniano termini come “sovranismo psichico”[1], riprendendo un Rapporto del Censis[2] ed avviando una polemica[3] ben meritata, l’illustre sociologo torinese Marco Revelli, di cui abbiamo già letto altro[4] si impegna in una damnatio di quel che identifica come un populismo 3.0.
Il libro del politologo e sociologo torinese (anzi cuneese) ex Lotta Continua e poi Bobbio boys[5], sembra interessante soprattutto per questo: è perfettamente espressivo dello spiazzamento della migliore cultura della sinistra italiana.
Una cultura che è forse di sinistra, ma certamente da lungo tempo completamente disancorata con la tradizione socialista[6], se pure nella radice dalla quale proviene l’ex ribelle fattosi pompiere torinese è mai stata connessa[7].
Ciò che accade nel presente a Revelli appare chiaro da un lato e completamente oscuro dall’altro. È in corso quella che chiama una “rivolta dei margini”, un ‘ribollire’ di periferie in fibrillazione (p.56). Svolgendo sotto questo profilo un’analisi simile nella descrizione, ma del tutto opposta nella presa di posizione, a quella che ad esempio abbiamo letto nel lavoro del geografo Guilluy[8], Revelli individua una precisa rappresentazione dell’inversione tra sinistra e destra negli esiti elettorali che dal 2016, sempre più chiaramente, si sono accumulati (Brexit, Trump, fino ai Gilet Gialli). Ma ritrova, proprio come Guilluy, una conferma anche nelle vittorie del centro, quella di Macron in Francia, che ottengono il successo esercitando una loro forma populista, come fece, peraltro Renzi nella sua breve parabola[9]. Quel che si sta verificando è dunque una rivolta, precisamente “dei margini”.
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