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Sòle elettorali

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fiscal-compactNonostante l’affermazione del PD, dell’UKIP di Farage e del Front National di Marine Le Pen, il Partito Popolare europeo ha vinto le elezioni e si ritrova in Parlamento con il maggior numero di deputati. Conseguenza liberale vorrebbe che il candidato presidente espressione di quel partito, Jean Claude Juncker, sia nominato presidente della Commissione Europea. Siccome però il Parlamento europeo nei fatti non conta nulla, il veto posto da Cameron ha subito fatto declinare la possibilità di Junker a presiedere la Commissione. Ci si sta accordando su una scelta che prevede un parterre di nomi di tutto rispetto, fra cui spicca Cristine Lagarde, direttrice del FMI. Le cose stanno peggio di come le descrivevamo qualche settimana fa. In un precedente pezzo, infatti, davamo per sicura l’elezione di Junker qualsiasi fosse stato il risultato elettorale, anche avesse vinto Tsipras. La realtà è addirittura peggio della (facile) previsione. La Commissione Europea, il governo della UE, viene eletta a prescindere da qualsiasi risultato elettorale. Anche se questa dovesse essere vinta dal principale sponsor della UE, ciò che conta è l’accordo fra gli Stati membri e le indicazioni della BCE. Dunque, a cosa servono le candidature, i fantasiosi “programmi” elettorali, la campagna elettorale stessa, se poi il gioco viene deciso altrove, non solo nella sostanza ma addirittura nella forma?

Non è l’unica stranezza emersa dopo il voto di domenica.

La vittoria del PD cementa il processo di costruzione dell’Unione Europea. Su questo crediamo ci siano pochi dubbi, ed è il motivo principale, da cui discendono tutti gli altri, per cui questa tornata elettorale ha peggiorato sensibilmente il quadro politico, sia oggettivamente sia dal punto di vista soggettivo delle opposizioni di classe. Non sono tanto le dichiarazioni entusiastiche di Marchionne, John Elkann o di Andrea Agnelli a dare l’idea di come la pensi il grande capitale sulla figura di Renzi e sul PD. Per inciso, il PD è il partito di Marchionne, e questo dovrebbe far riflettere. E’ l’atteggiamento di Renzi stesso dal giorno seguente le elezioni. In una partita politica “normale”, il maggior esponente europeo del PSE avrebbe dovuto immaginare una linea comune con la famiglia socialista europea in opposizione al Partito Popolare, facendo leva sul proprio risultato e organizzando con il resto del gruppo socialista la strategia per imporre le proprie decisioni a Bruxelles. Quello che invece sta avvenendo è il tentativo da parte di Renzi di interloquire con Angela Merkel, del Partito Popolare, cercando di trovare con lei la linea comune per rafforzare il progetto europeista. Questo fatto dovrebbe certificare anche agli occhi più ingenui della sostanziale – e ormai anche formale – unità d’intenti fra i gruppi socialista e popolare in Europa. In sostanza, un partito unico che mira a consolidare il processo imperialista neoliberista. Questo partito unico è ciò a cui mirano le riforme istituzionali del PD in Italia.

Queste sono forse ovvietà che non conviene neanche ripetere, tanto sono assodate fra i compagni? Non crediamo, visto che le prime mosse della Lista Tsipras sono state quelle di aprire al PD proponendo un’unità d’intenti. Qualcuno, gente del “calibro” di Migliore e altri maggiorenti del partito vendoliano, si è anche spinto oltre augurandosi l’entrata di SEL e della Lista dentro il PD. Tralasciamo poi le dichiarazioni di Vendola stesso, entusiasta della vittoria di Renzi che, a detta sua, “catalizza una speranza di cambiamento e che può autorevolmente fronteggiare le politiche d’austerity in Europa”. Insomma, la lista che avrebbe dovuto rappresentare un’alternativa al PD si sta dimostrando per quello che è sempre stata, almeno nelle sue propaggini italiane: la stampella a sinistra del PD stesso, forza politica filo-UE, movimento d’opinione che raccoglie una intellettualità parolaia che momentaneamente – e per ragioni di visibilità – si pone fuori dal recinto “democratico” per tornarvi presto a far parte.

Torniamo però a noi e alle vicissitudini di casa nostra. Nonostante l’aumento considerevole dell’astensione, questa continua a non essere intercettata dalle forze della sinistra antagonista. E’ evidente che il solo dato freddo della percentuale del non voto non può renderci contenti. Il fenomeno astensionista, che sottintende un rifiuto sempre più maggioritario delle classi lavoratrici verso questo sistema politico, è il classico terreno fertile su cui puntare per ricostruire una presenza di classe nelle contraddizioni sociali. Se però questo terreno non viene arato e concimato, continuerà si ad aumentare, ma rimarrà al tempo stesso fine a se stesso, in sostanza irrilevante. Il sistema politico economico va cioè avanti benissimo anche con percentuali astensioniste elevate. Non c’è nulla, nel solo dato statistico, che metta in allarme le classi dominanti. L’aumento dell’astensione è allora un fatto potenzialmente positivo, dove però la differenza la fa quel potenzialmente. E questo aumento non può che confermarci molte delle analisi che da anni portiamo avanti, ma questo, evidentemente, non può bastare.

Continuiamo a pensare che per questa massa sempre più consistente serva la proposta di un’alternativa politica, che parta dalle lotte sociali che si sviluppano nei territori e nei posti di lavoro, ma che poi sia riconoscibile anche per chi in queste lotte non ci partecipa. Infatti, nonostante tutto, sono lotte che coinvolgono una estrema minoranza, in sostanza le popolazioni direttamente interessate. Oggi invece bisogna avere il coraggio di costituire un punto di riferimento, che faccia parlare di sé, che sia presente nel dibattito pubblico e che sia considerato, da queste masse non votanti, un’alternativa valida allo stato di cose presenti. Non è una cosa che si costruisce dall’oggi al domani, ma almeno iniziamo a pensare allo strumento per intercettare questo pezzo di società disponibile alla lotta e al cambiamento. Cerchiamo, cioè, di tornare a ragionare politicamente di come essere egemoni nella classe, tornando a produrre linguaggi comprensibili, proponendo una nuova cultura di classe, che sia il segno distintivo dell’alternativa. Non abbiamo alcuna soluzione da proporre, ma delle domande che continuano a rimanere evase. L’affermazione elettorale del PD rende urgente trovare delle risposte.

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