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alfabeta

Dietro alle parole. Vent’anni senza Gilles Deleuze

Federico Francucci

Vent’anni fa – il 4 novembre 1995 – moriva Gilles Deleuze. Per continuare a pensare con lui l’editore nottetempo ha ripubblicato (una prima edizione era uscita nel 1999 da Cronopio) uno dei suoi saggi degli ultimi anni, uno dei più alti: quell’Esausto (épuisé) che Deleuze scrisse nel ’91 su richiesta delle Éditions de Minuit per accompagnare la traduzione francese dei quattro drammi per la televisione composti da Samuel Beckett tra il 1975 e l’82 (Quad, Trio del fantasma, …nuvole… e Nacht und träume), ma che in realtà rappresenta una lettura deleuziana di tutto Beckett, abbordato dal versante di uno dei problemi principali posti dalla sua opera, problema che secondo Deleuze arriva, nei teledrammi, a riformularsi e a risolversi in maniera nuova. Lo si potrebbe stenografare così: com’è possibile fare di una situazione soggettiva di estrema impotenza, malattia e tormento, di vita sul bordo della morte, la condizione di un pensiero che affermi la vita e la creazione con potenza inaudita? E cosa può essere la vita, che concetto si può darne, se sperimentata in un quadro simile, persino un passo più in là dell’«irresistibile salute precaria» di cui il filosofo parla in un altro scritto coevo (La letteratura e la vita, in Critica e clinica), quando proprio la malattia in ogni momento può intervenire a vanificare lo sforzo del pensiero? Come sempre in Deleuze, l’impulso teoretico più ardito lavora immerso in situazioni concrete (ammirevole l’ironia nei confronti degli scrittori ancora «troppo beneducati» che, diversamente da Beckett, si limitano a dichiarare la morte dell’io e l’opera totale, senza far vedere «come è» e «come si fa») e, in questo caso, vissute in prima persona dall’autore – sfinito dai problemi respiratori che da tanti anni lo accompagnavano, e che si andavano facendo sempre più gravi.

Proprio associando la sua esperienza di malato alla lettura dei testi beckettiani Deleuze crea, come ricorda Ginevra Bompiani, il suo ultimo «personaggio concettuale»: quell’esausto, appunto, che sin dall’inizio del saggio, punto per punto, viene contrapposto alla figura dello stanco. Così facendo, Deleuze riprende ancora una volta i suoi concetti di sempre (le sue «intuizioni sovrane», ha scritto Alain Badiou: teoria del senso come incorporeo, virtualità, immanenza…) e dà loro un’ultima piega drammatica, nello stile contratto, perentorio e difficilissimo (anche da tradurre) del suo periodo ultimo: esempio straordinario di cristallizzazione verbale di un tempo, e un respiro, che vengono meno.

Lo stanco ha esaurito la messa in atto ma l’esausto esaurisce – vuole disperatamente esaurire – tutto il possibile: anche quanto nel possibile «non si realizza». Vuole arrivare al punto in cui non si può più «possibilizzare». L’esausto, seduto e impossibilitato a muoversi, vuole farla finita, ma non in qualunque modo. Se si è «stanchi di qualcosa», ma «esausti di niente», allora l’esausto utilizza il proprio stato come frontiera paradossalmente privilegiata sulla quale condurre una sperimentazione: anziché aspettare passivamente il «colpo» finale, lavorare alla produzione di un’entità che lo propizi, ma facendo accadere qualcosa subito prima. Ed è su questo bordo estremo che l’incontro con Beckett fa scintillare il pensiero deleuziano. Il Beckett di Deleuze infatti si dedica accanitamente a superare le impasses in cui cade questa ricerca (il proverbiale «fallire meglio»): se il regime di permutazione nella lingua dei nomi (Watt ne è l’esempio sommo) fallisce nell’esaurire il possibile (perché può sempre sopravvenire un nuovo nome per un oggetto che ne è privo), e se gira a vuoto pure il tentativo di esaurire le voci persecutorie, i flussi che veicolano e distribuiscono i nomi (perché occorre sempre che il personaggio si dica in una voce e in questa tornino a risuonare tutte le altre: nella grande trilogia romanzesca), allora nel «quartetto» televisivo giunge a compiutezza un terzo protocollo sperimentale, quello che Beckett e Deleuze chiamano «fare un’immagine». Si «fa un’immagine» per farla finita colle parole (non a caso l’immagine è «sonante» e «colorante», non verbale, e nelle opere analizzate hanno tanta importanza gli spazi da percorrere e «estenuare», e i frammenti musicali di Beethoven e Schubert come ponti sottili protesi sul vuoto) e vedere «cosa c’è dietro», per allargare gli interstizi del linguaggio e affacciarsi sulla potentissima, irrespirabile Vita.

L’immagine non è una rappresentazione ma un processo di natura esplosiva e dissipativa: «si fa un’immagine», si apre una finestra, per far percepire la Vita che volatilizza tutte le determinazioni soggettive e oggettive. L’immagine «si fa» sempre un istante prima della fine. Ma questo non vuol dire correre a testa bassa verso la catastrofe: l’esausto è immobile, non va confuso con un volgare nichilista affamato di distruzione. L’artista, dice Deleuze, non è mai sicuro di aver fatto l’immagine, perché il tempo in cui l’immagine si presenta, il suo momento giusto, cade al di fuori della serie continua del tempo ordinario, anch’essa in un buco o in un frammezzo cronologico, non assegnabile a nessun «posto»: immagine forse già «fatta» da sempre, forse per sempre a venire. «Cominciò ch’era finita», scrive da qualche parte Carmelo Bene.

Forse qualche schiarimento può venire dal confronto con uno scritto testamentario di Deleuze come L’immanenza: una vita… (in Conversazioni, ombre corte 1998). In quelle poche, commoventi pagine, soggetto e oggetto vengono definiti come trascendenti rispetto al puro piano d’immanenza, e questo viene identificato a una vita, con l’articolo indefinito: «potenza e beatitudine completa». L’esausto è l’ultima figura del soggetto, la più dolorosa e terribile, ma anche la più spoglia, quella che più delle altre può lavorare per percepire, e soprattutto dare a percepire, questa beatitudine – la beatitudine di una vita – nel tempo di un’immagine. «Un istante» – dice la voce in chiusura di Mal visto mal detto – «non più di uno. Conoscere questo vuoto. Assaporare la felicità».

Gilles Deleuze, L’esausto, a cura di Ginevra Bompiani, con un testo di Giorgio Agamben, nottetempo, 2015, 92 pp., € 7,50

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