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Modernità e finzioni del tempo

di Jacques Rancière

Pubblichiamo il testo della conferenza che Jacques Rancière, uno dei più importanti filosofi francesi contemporanei, terrà a Firenze oggi (29 giugno) nella Sala Altana di Palazzo Strozzi alle ore 17:00. La conferenza, promossa dall’Institut Français Italia, in collaborazione con la Scuola Normale di Pisa, il Gabinetto Vieusseux e il Gruppo Quinto Alto, si svolge nell’ambito della rassegna di presentazioni e seminari «Prospettive critiche». Jacques Rancière ne discuterà con i Proff. Mario Citroni e Paolo Godani. Ringraziamo la casa editrice DeriveApprodi per l’aiuto nella realizzazione di questa pubblicazione

0DSC 4523 1024x682Per delucidare questo titolo partirò da una definizione molto generale: chiamo finzioni del tempo i modi di strutturazione dei rapporti di temporalità e le forme di razionalità della catena temporale che strutturano le nostre percezioni della politica e della storia, come della letteratura e dell’arte. Una definizione che implica a sua volta la ridefinizione del concetto di finzione. Si continua a opporre la finzione, intesa come invenzione di situazioni immaginarie, alla solida realtà con la quale sono alle prese, con modalità differenti, coloro che lavorano la materia, coloro che intendono penetrare la struttura delle cose e coloro che agiscono per cambiare le situazioni. Eppure, lo sappiamo almeno fin da Aristotele, la finzione è ben di più dell’invenzione di esseri immaginari. È una struttura di razionalità. È una modalità di presentazione che rende cose, situazioni o eventi percepibili e intelligibili. È una modalità di connessione che costruisce forme di coesistenza, di successione e di concatenamento causale tra eventi e conferisce a tali forme la modalità del possibile, delle reale o del necessario. Una duplice operazione necessaria ovunque occorra produrre un certo senso della realtà. È necessaria lì dove si tratta di definire le condizioni, gli strumenti e gli effetti di un’azione, ovvero, in sostanza, il senso stesso di ciò che significa agire.

È necessaria, poi, quando si intendono definire gli oggetti e il carattere di una conoscenza, ovvero il senso stesso di ciò che significa e di ciò che effettua l’azione di conoscere. L’azione politica che identifica delle situazioni e indica degli attori, che lega degli eventi e che da questo legame deduce dei possibili e degli impossibili, utilizza delle finzioni, esattamente come i romanzieri. E vale lo stesso per la scienza sociale, proprio quando ha la pretesa di mostrare la connessione razionale che lega degli eventi e delle situazioni all’insaputa stessa dei loro attori. Da qui ne deriva una conseguenza importante: i discorsi che riferiscono la finzione letteraria alla realtà politica e sociale, come l’effetto alla propria causa, sono di fatto dei discorsi che riferiscono una finzione a un’altra, una forma di razionalità causale a un’altra. Questo significa anche che le trasformazioni all’opera nella costruzione delle finzioni esplicitamente tali possono gettar luce su trasformazioni meno visibili, attinenti ai modi in cui costruiamo la razionalità della politica, della società e della storia.

La finzione è dunque una struttura di razionalità. E all’interno di questa razionalità il tempo svolge un ruolo essenziale: è contemporaneamente una materia da ordinare e una forma strutturante. Costruire la visibilità di una situazione significa costruire un presente come luogo di coesistenza e di interrelazione tra un insieme di elementi. Costruire un concatenamento tra eventi significa definire una omologia tra rapporti di successione e rapporti di causalità. Il grande modello di questa strutturazione temporale del disordine temporale è stato fissato dalla Poetica di Aristotele: il tempo dell’azione tragica è per lui il concatenamento degli eventi necessario e sufficiente a compiere il duplice passaggio dall’ignoranza al sapere e dalla fortuna alla sfortuna. Questa costruzione razionale presuppone a sua volta la distinzione tra due tempi: c’è il tempo della cronaca, che dice come le cose accadono le une dopo le altre, nella loro successione empirica, e c’è il tempo della razionalità poetica, che dice come le cose possono aver luogo, come accadano in conseguenza della loro stessa possibilità. Ma questa distinzione tra due tipi di connessione temporale è a sua volta una connessione tra due modi di abitare il tempo, tra due forme di vita. Il tempo della cronaca è il tempo degli esseri racchiusi nel mondo della quotidianità, il mondo degli esseri che all’epoca erano chiamati uomini passivi o meccanici, perché le loro attività non erano altro dalla messa in atto dei mezzi capaci di rispondere alla necessità immediata. È insomma il tempo degli uomini che non hanno tempo. Il tempo del legame razionale è il tempo degli uomini cosiddetti attivi, perché vivono nel tempo dei fini prescelti e dei concatenamenti delle cause e degli effetti attraverso i quali perseguire tali fini. È il tempo degli uomini che hanno tempo. La razionalità della finzione poetica va così ad articolarsi a quella delle finzioni della politica e della storia.

A questa articolazione l’epoca moderna ha fornito due risposte divergenti. Le teorie moderne della storia, in particolare il marxismo, hanno rivoltato a proprio vantaggio la distinzione tra successione empirica e concatenamento razionale e hanno fatto di questo ribaltamento il principio di una razionalità storica che rende possibile al maggior numero di passare dalla sfortuna alla fortuna. Ma, nel farlo, hanno conservato la gerarchia tra le forme di vita, così trasformate nell’opposizione tra coloro che possiedono la scienza del processo storico e coloro che vivono nelle illusioni anastoriche dell’ideologia. La finzione letteraria moderna, da parte sua, ha messo in discussione la gerarchia delle temporalità, opponendo con Virginia Woolf la pioggia indisciplinata degli atomi agli intrighi ben serrati, dove l’ordine di successione degli eventi traduce quello dei dignitari nelle cerimonie ufficiali, e privilegiando la democrazia dei microeventi sensibili che tessono in modo simile la vita di coloro che l’ordine delle condizioni sociali separa. Ma, nel fare questo, la finzione moderna ha separato la democrazia degli istanti di vita dalle prospettive dell’emancipazione sociale.

Le finzioni del tempo operano allora a un duplice livello. Vi sono le logiche di finzione che organizzano le strutture temporali delle storie. E vi sono quelle che organizzano le forme di temporalità della storia all’interno delle quali le prime sono percepite. Parlare di finzione moderna significa parlare dell’uso del tempo nelle finzioni romanzesche, teatrali o cinematografiche che hanno rotto con la distinzione aristotelica. Ma significa anche parlare delle forme di coesistenza e di concatenamento temporale all’interno delle quali esse sono prodotte, percepite, sentite e pensate, all’interno delle quali sono inoltre articolate alle trasformazione della storia e della società. È su questa articolazione che vorrei soffermarmi oggi, concentrando la mia analisi su alcuni concetti che sono serviti a pensare la storicità delle forme della letteratura e dell’arte e il rapporto di questa storicità alla storicità delle trasformazioni politiche e sociali, in particolare i concetti di modernità,, modernismo e avanguardia. Concetti che spesso sono stati oggetto di interpretazioni semplificatrici. Vi si è vista la semplice volontà di adattarsi all’evoluzione di una modernità intesa come epoca della tecnica, della vita urbana e delle masse. Descritta come la fascinazione per gli incantamenti dell’elettricità, il ritmo delle macchine, la velocità delle automobili, la grezza nudità dell’acciaio e del cemento… Vorrei mostrare come i concetti di modernità, di modernismo e di avanguardia implichino in realtà un intreccio ben più complesso delle temporalità, un gioco contraddittorio di relazioni tra presente, passato e futuro, tra quotidiano e lungo termine, anticipazione e ritardo, frammentazione e continuità, movimento e immobilità. Una esplosione dei tempi che può essere a sua volta intesa unicamente a partire dal rovesciamento dei rapporti tra i possibili del tempo e la distribuzione delle forme di vita, tra il tempo di coloro che hanno tempo e il tempo di coloro che non ce l’hanno. È ciò che vorrei mostrare, concentrandomi sul caso di un’opera esemplare del progetto modernista. Ma, per metterne in evidenza la posta in gioco, devo anzitutto porre i termini del problema a partire da due testi che sono due straordinarie messe in scena della modernità in quanto rapporto paradossale tra tempi.

Partirò dal più recente dei due testi, perché è questo ad aver dato una formulazione canonica a una certa vulgata modernista, ovvero l’articolo Avanguardia e kitsch pubblicato nel 1939 da Clement Greenberg. Un testo passato per non poche esegesi, favorevoli o ostili. Ma gli esegeti hanno prestato scarsa attenzione al carattere paradossale del ragionamento di Greenberg. Il quale fonda l’affermazione modernista sull’impossibilità di sfuggire a una necessità storica da lui descritta nei termini del declino: quando lo sviluppo di una formazione sociale arriva a un punto in cui essa non è più capace di giustificare le proprie forme specifiche, essa distrugge, dice lui, «i concetti condivisi dai quali gli artisti e gli scrittori in gran parte dipendono per comunicare con il loro pubblico». «Le verità connesse alla religione, all’autorità, alla tradizione e allo stile sono rimesse in discussione, e gli artisti non sono più capaci di valutare la risposta del loro pubblico ai simboli e ai riferimenti che sorreggono il loro lavoro». Questa drammaturgia è chiaramente l’erede della messa in scena hegeliana della morte dell’arte: quando l’arte non è più la fioritura di una forma di vita comune, essa diventa una semplice dimostrazione di virtuosismo, una mera affermazione di sé. L’arte diventa imitazione dell’arte, il che significa la sua fine. Ma è, appunto, questa diagnosi sulla fine dell’arte che Greenberg trasforma in prescrizione per il suo futuro. L’avanguardia artistica, dice lui, collima sempre di più con la situazione degli artisti e degli oratori greci di epoca alessandrina, la cui arte si era esaurita perché non più fondata sulla vita della polis democratica. L’avanguardia non può più attingere ispirazione dall’imitazione delle forme della vita comune. Ciò che le resta, è imitare il fatto di imitare. Questa deduzione è sorprendente: come chiamare avanguardista una pratica «alessandrina» che è il puro risultato del declino di una forma di civiltà? La risposta di Greenberg accentua il paradosso: la differenza tra l’avanguardia di oggi e l’alessandrinismo antico sta nel fatto che la prima va avanti mentre l’altro restava immobile. Il che equivale a dire che l’avanguardia è obbligata a essere ancor più decadente dell’alessandrinismo. Se questa necessità si fa virtù, è perché essa consente di resistere al progresso di un’altra arte, un’arte che Greenberg chiama di retroguardia, benché sia essa del tutto in consonanza con lo sviluppo dell’industria capitalistica: l’arte kitsch che offre prodotti culturali di fabbricazione industriale al consumo dei figli e delle figlie dei contadini che ormai nelle città industriali dispongono di un tempo di svago al quale non li ha preparati alcuna tradizione culturale. L’avanguardia artistica deve allora accelerare gli effetti della decadenza capitalistica per vincere in velocità la gara contro quest’arte kitsch che è l’espressione viva del progresso capitalistico.

Questo strano scenario della modernità può essere inteso solo se lo si pensa come il bilancio retrospettivo di un’altra avanguardia e di un’altra modernità. Attraverso la stravagante combinazione di declino e progresso, Greenberg dichiara la fine di un’altra combinazione e di un altro conflitto tra temporalità che aveva sorretto il progetto modernista e al quale intende mettere la parola fine. Per capire questa complessità, occorre forse fare un salto indietro e fermarsi sulla diagnosi formulata cent’anni prima di Greenberg da un altro pensatore americano, a sua volta preoccupato di rispondere alla sfida hegeliana, ovvero Emerson. Cito un passaggio della sua conferenza del 1841 dal titolo Il poeta: «Il tempo e la natura ci offrono certo dei doni, ma non ancora l’uomo di questo tempo, la religione nuova, il riconciliatore che tutte le cose attendono. La gloria di Dante è l’aver scritto un’autobiografia a caratteri cubitali, o meglio universali. Non abbiamo ancora avuto in America un genio dall’occhio tirannico dal quale riconoscere il valore dei nostri incomparabili materiali e cogliere nella barbarie e nel materialismo dell’epoca un altro carnevale di quegli stessi dèi, dei quali così tanto ammira il ritratto in Omero […]. Tariffe e banchetti, giornali e comitati elettorali, metodismo e unitarismo sono cose banali e tristi per gente triste, ma poggiano sulle stesse prodigiose fondamenta della città di Troia e del tempio di Delfi e passano altrettanto alla svelta. Il nostro logrolling, i nostri palchi e i loro dibattiti politici, i nostri pescivendoli, i nostri Negri e i nostri Indiani, le nostre vanterie e i nostri ripudi, la rabbia delle canaglie e la pusillanimità della gente onesta, il commercio del Nord, le piantagioni del Sud, gli aratri dell’Ovest, l’Oregon e il Texas ancora non sono decantati. Eppure l’America è ai nostri occhi un poema; la sua grande geografia abbaglia l’immaginazione e non dovrà attendere a lungo la propria metrica».

Se ricordo questo manifesto non è solo perché la sua fede nell’avvenire sembra inaugurare quell’epoca della «modernità» che la paradossale giustificazione dell’avanguardia fatta da Greenberg sembra chiudere. È per il suo modo di costruire la temporalità complessa di questa modernità. Vi è innanzitutto l’affermazione di un privilegio del presente, che è il privilegio del tempo della coesistenza. La poesia a venire dovrà trovare la propria ispirazione nel caos dei fenomeni materiali eterogenei che formano il presente dell’America. Il compito del poeta moderno si oppone chiaramente al compito aristotelico di costruire una storia che sussuma una successione temporale in una legge causale. Il tempo che gli fa da materia è la temporalità democratica della coesistenza, che esclude qualunque gerarchia dei tempi e delle forme di vita. Compito del poeta è dare a questa coesistenza un’espressione spirituale, tracciando un filo comune che leghi tutti questi fenomeni; suo compito è esprimere il potenziale di vita che corre attraverso la loro diversità.

Ma questo presente non è semplicemente un presente della diversità, è un presente diviso. Non è presente a se stesso. Il tempo presente non ha ancora prodotto il timely man, l’uomo di questo tempo. L’espressione non significa solo che non è ancora giunto il tempo in cui la novità troverà adeguata espressione. Più profondamente, significa che il tempo non è contemporaneo a se stesso. Questa questione di non-contemporaneità è cruciale per la definizione del modernismo. La diagnosi hegeliana riposava su una affermazione di contemporaneità. La modernità era compiuta. La vita collettiva del popolo era ormai incarnata nelle forme istituite dell’economia politica, dello Stato e dell’amministrazione razionale. E lo spirito che aveva animato il progresso della storia di era fatto cosciente a se stesso nella scienza. Ecco perché l’arte che era stata l’espressione di questo spirito estraneo a se stesso, nella materialità esteriore della pietra scolpita, della superficie dipinta o della metrica poetica, aveva perso il proprio contenuto sostanziale ed era condannata al mero virtuosismo formale. Hegel aveva così posto un semplice dilemma: o l’arte o la modernità. Per confutare questa diagnosi, occorreva confutare lo scenario temporale che lo fondava. È esattamente ciò che fa Emerson quando dichiara: noi non siamo moderni, noi non abbiamo ancora trovato lo spirito immanente alla nostra forma di vita. Noi non siamo nel tempo del dopo, nel tempo alessandrino in cui l’arte ha perso il proprio contenuto vitale. Noi siamo nel tempo di prima, nel tempo pre-omerico del «non ancora».

Ma questo «non ancora» deve essere a sua volta diviso. Da un lato, è la constatazione di un difetto. La prosa del nuovo continente non ha ancora trovato un’espressione spirituale. Guardiamo questi fenomeni nuovi come cose, situazioni e personaggi volgari, racchiusi in una relazione economica egoista fatta di un valore d’uso immediato e di un valore di scambio astratto. Occorre dargli un nuovo valore, quello dei simboli di una forma collettiva di vita. Il problema moderno è quello di costruire un nuovo senso di comunità, un nuovo sensorium capace di dare alle cose prosaiche la dimensione poetica attraverso la quale esse compongono un mondo comune. Non è dalla semplice evoluzione del tempo che dobbiamo aspettarci questo adeguamento tra la prosa degli interessi materiali e il senso spirituale del mondo nuovo. Occorre anticiparla. Questo è il compito del poeta a venire, per il quale quindici anni dopo si presenterà un giornalista newyorchese di nome Walt Whitman.

Ma se questa anticipazione è possibile, è in virtù del ritardo stesso della modernità su se stessa. È perché l’America vive in quel tempo pre-omerico o barbaro in cui la razionalità economica e amministrativa non ha ancora disciplinato il caos degli interessi materiali e delle attività prosaiche. È in questo ritardo della modernità che possiamo ritrovare il filo che ci consente di tessere in anticipo il sensorium di un mondo nuovo. È dalla discordanza del presente che occorre ricavare la musica del futuro, la pulsazione selvaggia della vita nuova. Benché il termine gli fosse sconosciuto, penso che la formulazione di Emerson del compito del poeta a venire ci offra la concezione più corretta di avanguardia artistica. L’avanguardia non è il distaccamento proiettato in avanti delle truppe, meno ancora l’ultimo battaglione che resiste all’invasione della cultura delle merci. È la forza che trova nel ritardo del tempo rispetto a se stesso il modo per anticiparne l’evoluzione.

Ciò che rende importante questa diagnosi è la sua vicinanza con quella formulata nello stesso momento da un pensatore che più volentieri associamo all’idea di avanguardia, ovvero Karl Marx. Nei suoi testi del 1843 costui confutava la tesi hegeliana di una modernità definita attraverso l’adeguamento tra il pensiero e il suo mondo. La realtà tedesca, diceva, testimoniava al contrario una perfetta discordanza. La filosofia tedesca aveva elaborato una teoria dell’emancipazione umana che non aveva alcuna corrispondenza nella miseria feudale e burocratica della Germania dell’epoca. È per questa stessa ragione che la Germania poteva realizzare una rivoluzione di tipo nuovo, una rivoluzione umana che avrebbe saltato la tappa della semplice rivoluzione politica. Ma poteva farlo a una condizione: appropriarsi di quella energia della trasformazione effettiva del mondo che i rivoluzionari francesi avevano dispiegato senza poterle dare una formulazione teorica all’altezza delle esigenze del tempo. Utilizzare per costruire un mondo a venire il potere di anticipazione ricavato dal ritardo stesso del presente, questo è lo scenario temporale comune a Marx e a Emerson. L’arte non ha alcun posto nello scenario di Marx. Ma l’analisi di Emerson sembra anticipare con una certa esattezza il ruolo di anticipazione che gli artisti marxisti daranno alla propria arte all’epoca della rivoluzione sovietica. Un ruolo del quale vorrei mostrare come si sia venuto a trovare allo stesso tempo necessario e ripudiato dalla combinazione marxista tra scienza tedesca e azione politica alla francese.

Questo conflitto tra due modernità, ovvero due sfasature della modernità rispetto a se stessa, vorrei analizzarlo attraverso un’opera che è un esempio della combinazione tra politica marxista e poetica emersoniana o whitmaniana. Penso al film emblematico di Dziga Vertov, L’uomo con la macchina da presa. Un film che è parte di un progetto largamente condiviso tra gli artisti sovietici, a partire dalle loro stesse divergenze: creare non più delle opere d’arte destinate all’universo separato dei consumatori borghesi, ma delle forme della nuova vita comune; anticipare sull’avvenire di questa vita nuova, creando un mondo sensibile comunista, un nuovo tessuto dell’esperienza collettiva. Ecco perché il film non racconta una storia, non vi sono né personaggi né dialoghi. Si dà il compito di creare un legame tra le attività che compongono il presente dell’Unione Sovietica e si dota per questo di una forma di temporalità specifica: quella che racconta una giornata della vita di una città moderna dal risveglio al mattino fino agli svaghi della sera, passando per le ore di lavoro in fabbrica, in ufficio o per le diverse attività. Ma non per questo si tratta di un documentario sulla vita quotidiana nell’Urss. La storia di una giornata in una grande città è una forma di finzione in senso pieno, una forma emblematica della finzione moderna. Prima che Dziga Vertov in Russia o Walter Ruttman in Germania la utilizzassero al cinema, fu illustrata da due capolavori letterari quali l’Ulisse di Joyce e Mrs Dalloway di Virginia Woolf. Perché il racconto di una giornata, prima di essere uno spazio di tempo, è un modello di temporalità. Porta a compimento la rivoluzione della finzione proclamata da Virginia Woolf nel suo testo On Modern Fiction, nel quale denunciava la tirannia della trama e opponeva al privilegio aristotelico della relazione causale la pioggia di atomi che cadono incessanti, non solo gli uni dopo gli altri ma a milioni gli uni a fianco degli altri, contemporaneamente agli altri. La successione dei momenti è la cornice che consente di dispiegare il tempo di questa molteplicità di eventi sensibili che dissolve la personalità dei caratteri di finzione nel mezzo della vita anonima. Il film di Vertov appartiene a questa logica della finzione moderna che oppone un tempo della coesistenza egualitaria al tempo del concatenamento delle cause e degli effetti.

Si dirà forse che ce ne passa tra le impressioni che attraversano la mente di Clarissa Dalloway e gli anonimi che incrociano il suo cammino per le strade eleganti di Londra e le attività del lavoro sovietico che l’operaio del cinema Dziga Vertov cerca di unire in uno stesso tessuto sensibile. Per tutto il film la telecamera appare come una macchina tra altre macchine, mentre l’operatore della cinepresa e la montatrice vengono mostrati fare gli stessi gesti di quelli delle operaie alla catena di montaggio, delle dattilografe in ufficio, delle manicuriste o delle addette alla centralina telefonica. Tutte queste attività vengono ricondotte a pochi gesti essenziali, tutte sono ritagliate in brevi frammenti e montate in alternanza a un ritmo veloce. Per questa ragione si è creduto di vedere nel film, come in molti altri progetti futuristi dello stesso periodo, l’adesione ingenua ai nuovi idoli moderni della macchina, della velocità, dell’automatismo e del taylorismo. Soprattutto, è facile assimilare l’estrema frammentazione e il montaggio accelerato delle attività presentate ai principi tayloristi tanto apprezzati all’epoca in Urss. Eppure l’efficacia estetica del montaggio di Vertov va nel senso esattamente contrario dell’efficacia economica della frammentazione taylorista. Non scompone un lavoro in molteplici operazioni complementari. Bensì crea un tempo comune a una molteplicità di attività che non hanno niente in comune, se non l’essere tutte l’opera di mani industriose, come vediamo nel frammento che segue (proiezione 1: L’uomo con la macchina da presa).

Ciò che ci mostra il montaggio non è il concatenamento delle attività, bensì la loro uguaglianza come unità di movimento e la loro compenetrazione all’interno di uno stesso concerto d’insieme. Il suo ritmo accelerato non è la celebrazione del lavoro taylorizzato o della produzione sovietica. È la celebrazione del comunismo in quanto tale, dell’equivalenza di tutte le attività all’interno della sinfonia comunista. O meglio è il film a creare questa sinfonia, che non è altro che il comunismo come tessuto sensibile comune. In questo modo ricopre il ruolo che Emerson attribuiva al poeta a venire: traccia il filo spirituale che collega tutte le attività, nobili o volgari, moderne o retrive, borghesi o proletarie. È difficile considerare l’attività della manicurista che fa le unghie a una cliente in un salone di bellezza o quella del lustrascarpe per strada come illustrazioni del nuovo mondo comunista. Ma d’altra parte ciò che conta non sono queste attività in quanto tali, bensì i gesti che le rendono paragonabili ad altre centinaia. Del resto occorre ricordare ciò che Emerson diceva dei tempi «barbari»: è dal caos stesso tra questi conflitti di tempo e di mondi che occorre ricavare il filo spirituale del legame comunista. A questo proposito Vertov era stato ancor più radicale nel suo film Un sesto del mondo. Dove aveva mostrato la realtà del comunismo nelle repubbliche asiatiche con immagini di carovane di cammelli o di renne, di pescatori calmucchi alle prese con le reti, di cacciatori siberiani intenti a tirare i loro archi e di nomadi che giocano a polo con crani di capre o che mangiano selvaggina cruda intrisa del sangue ancora caldo. Ciò che è comunista non è la natura delle attività. È il ritmo del montaggio a creare un tempo nuovo, proprio a partire dall’eterogeneità di pratiche che appartengono a epoche differenti. Il tempo comunista è il tempo della compenetrazione e dell’uguaglianza dei movimenti. È questo tempo a essere un’anticipazione del comunismo a venire. Ma tale anticipazione ha una condizione: che il contenuto di queste attività sia indifferente, che ciascuna sia semplicemente trattata come una unità di movimento che occupa una medesima unità di tempo. Il comunismo in fin dei conti si identifica alla pura celebrazione del movimento, celebrazione che conosce l’apoteosi alla fine del film. La quale ci colloca in una sala di proiezione dove gli spettatori non sono altro che i personaggi filmati per l’intera giornata e ai quali le loro attività vengono rimandate come elementi della vita comunista nuova. Per questo queste attività si trovano condensate attraverso un numero limitato di sequenze visive, che non sono il ricordo del giorno trascorso quanto, piuttosto, dei simboli che ne fanno la sintesi (proiezione 2: L’uomo con la macchina da presa).

Tra i simboli del movimento comune ce n’è uno ad avere un ruolo estremamente emblematico: la danza. La danza delle tre ballerine ha un duplice ruolo. Da un lato, essa è il simbolo dell’energia collettiva condensata nella ruota della macchina e nel sorriso dell’operaia; dall’altro, essa è il simbolo del montaggio cinematografico che connette tutti questi movimenti rotatori. In questa congiunzione del cinema e della danza si riassume la nuova arte del movimento che ora interpreta il ruolo un tempo destinato al «poeta a venire», il ruolo dell’arte che dà espressione spirituale ai tempi nuovi e il suo respiro comune alla comunità nuova. Ma la danza delle tre ballerine non ha niente a che vedere con quelle danze delle macchine così popolari all’epoca in Unione Sovietica, né con le danze «espressive» di Mary Wigman, destinate a manifestare le forze inconsce dei corpi. La loro danza non esprime altro se non il movimento, il movimento puro o il movimento libero privo di finalità altra che non se stesso, un movimento che è comune alla libertà estatica dei loro gesti e all’automatismo delle macchine, come testimoniano eloquentemente i famosi manifesti composti dai fratelli Stenberg per la pubblicità del film.

Per capire cosa unisca il libero movimento delle ballerine e l’automatismo delle macchine, la performance dell’arte e quella del lavoro, la produzione dell’elettricità nelle centrali sovietiche e i giochi di luce sullo schermo cinematografico, occorre forse guardare nella direzione di un poeta francese che all’apparenza non ha niente a che spartire con la rivoluzione socialista, Stéphane Mallarmé. Nel 1893, Mallarmé assisteva allo spettacolo allestito in un music-hall parigino da una compatriota di Emerson, Whitman e Clement Greenberg, Loïe Fuller, e formulava i principi dell’«estetica restaurata» messa in scena nei movimenti girevoli che essa eseguiva con le pieghe della propria gonna. Riassumeva questi principi in tre punti che erano tre forme di intreccio di tempi. In primo luogo, l’immagine girevole è insieme un’ebbrezza dell’arte e una esecuzione industriale. In secondo, viene dagli Stati Uniti ma è greca. In terzo, è classica nella misura in cui è interamente moderna. Partiamo da quest’ultima frase. La danza di Loïe Fuller è moderna perché non racconta alcuna storia e non esprime alcun sentimento. Consiste solo in un movimento girevole amplificato dal velo della gonna. Essa crea un ambiente sensibile attraverso la semplice espansione di questo movimento. È in questo senso che questa danza moderna è classica. E il classicismo significa identità della forma e del contenuto. Questa identità – guardando l’arte greca se ne aveva il modello – è presentata come la risoluzione di un duplice adeguamento: tra natura e cultura, ma anche tra la volontà individuale degli artisti e la vita collettiva di un popolo. Hegel vedeva questo classicismo compiuto nella perfezione plastica delle sculture greche. Mallarmé lo vede incarnato nella girandola dei veli della ballerina: la pura vertigine traduce per lui il battito dell’apparire e dello scomparire attraverso il quale i fenomeni naturali si trasformano in un mondo sensibile condiviso. Questa nuova Grecia è americana, perché la danzatrice ne ha trovato l’ispirazione nell’energia selvaggia del Nuovo Mondo. Lo è anche per la congiunzione tra ebbrezza dell’arte ed esecuzione industriale. Il movimento girevole si mischia di fatto ai giochi di luce dei proiettori che irradiano la gonna e le conferiscono l’intensità del fuoco o i colori dell’arcobaleno. Proiettori che non sono un modo per illuminare la performance, bensì ne fanno parte e sanciscono l’unione tra arte e industria che è l’unione moderna tra spirito e materia, tra luce e movimento.

È questa unione a tradurre in Vertov l’accoppiata della macchina e della ballerina sullo schermo luminoso. Ma forse il movimento che simbolizza la danza delle tre ballerine lo si può ancor meglio pensare attraverso un concetto chiaro a un’altra innovatrice della danza: il «libero movimento» celebrato da Isadora Duncan, quel movimento che intende sposare il ritmo stesso della vita universale, il ritmo di una vita che non è mai cominciata e non ha mai fine. Il libero movimento, quale la Duncan lo pensa e lo pratica, è un movimento continuo che genera costantemente nuovo movimento. E con ciò annulla l’opposizione stessa tra movimento e riposo. La nuova Grecia americana, quella di Emerson, di Whitman e di Edison, respinge l’opposizione tra la forma apollinea e l’agitazione dionisiaca. La calma della linea ondulatoria che non ha fine esprime il flusso caotico della vita universale. Oltre l’opposizione nietzschiana tra Apollo e Dioniso, la calma agitazione del libero movimento ritrova la definizione di Schiller del libero gioco estetico che rovescia le coordinate abituali dell’esperienza sensibile, unendo il perfetto riposo e l’estrema agitazione e annullando la stessa opposizione di attivo e passivo. Risalendo un po’ oltre nella genealogia del libero movimento, incontriamo la descrizione fornita da Winckelmann del Torso del Belvedere, torace di un Ercole inattivo nel quale il pensiero dell’eroe è espresso dalle sole ondulazioni dei muscoli della schiena che si fondono gli uni con gli altri allo stesso modo in cui le onde del mare si alzano e ricadono incessanti le une sulle altre nella permanenza del loro movimento. Sono queste onde che la nuova danza vuole esprimere. Quelle stesse onde che possono simboleggiare i vortici astratti che invadono lo schermo all’inizio dell’episodio. Per capire il senso di questa equivalenza tra movimento e riposo, tra attività e passività, occorre probabilmente risalire più lontano nel tempo e ritrovare con questo il nostro punto di partenza: l’opposizione tra il tempo degli uomini attivi e il tempo degli uomini passivi che sorreggeva l’opposizione tra la razionalità di finzione e l’empiricità della cronaca. Questa gerarchia dell’attività era anche una gerarchia dell’inattività. Nel libro VIII della Politica, Aristotele opponeva così il riposo, ovvero la necessaria distensione tra due sforzi per i corpi destinati al lavoro, e lo svago, ovvero il tempo libero di coloro che non sono sottoposti all’obbligo del lavoro utile. Il movimento delle onde di pietra della statua, il libero gioco estetico e il movimento incessantemente generato dalla nuova danza annullano questa gerarchia delle temporalità e delle attività che dividono l’umanità in due.

È questo rifiuto sensibile della distribuzione gerarchica delle temporalità che sta al centro della nuova arte della luce e del movimento. È questo rifiuto a predisporre l’arte alla riconciliazione della modernità con se stessa e a dare all’avanguardia il compito di costruire il tessuto sensibile del comunismo, collegando attività che appartengono a tempi e a mondi eterogenei e riconducendole a frammenti equivalenti di uno stesso movimento globale: quel libero movimento che non è subordinato ad altro fine se non se stesso. In un certo senso il comunismo sensibile realizzato da Vertov risponde all’idea della rivoluzione umana espressa dal giovane Marx: il comunismo è la condizione nella quale il lavoro è la manifestazione dell’essenza umana, anziché essere il mezzo per guadagnarsi da vivere. È la forma di vita nella quale gli «uomini meccanici» diventano uomini in tutto e per tutto, perché i mezzi e i fini dell’azione sono diventati una sola e stessa realtà. È questo comunismo a unire i movimenti delle ballerine, il meccanismo rotatorio della filatura e i gesti delle operaie alla catena di montaggio o delle centraliniste in uno stesso movimento d’insieme. Ma la condizione di questa uguaglianza in movimento è che ciascuna di queste attività sia scollegata dalla propria temporalità specifica e dai fini che essa persegue. Il ritmo comune della sinfonia presuppone che tutte le attività che vi si compenetrano condividano la stessa caratteristica: quella di non obbedire ad alcuna volontà, ad alcun fine esterno. Purtroppo questo comunismo dell’identità dei mezzi e dei fini si oppone chiaramente al comunismo dei costruttori dell’economia socialista: per costoro il movimento delle macchine, i gesti delle operaie e le performance degli artisti non sono dimostrazioni equivalenti del libero movimento. Sono mezzi diversi per costruire le condizioni di possibilità del comunismo a venire. Anziché vedere qui l’immemoriale conflitto tra libertà artistica e costrizione politica, meglio sarebbe vedervi un conflitto tra due comunismi, conflitto a sua volta fondato su due modi diversi di costruire la relazione tra l’anticipazione della modernità e il suo ritardo. Per l’avanguardia di Stato il comunismo non può essere anticipato. Avverrà solo quando le sue fondamenta materiali saranno state posate. Per l’avanguardia artistica, può esistere solo se è a sua volta anticipato con la costruzione di un nuovo sensorium. La qual cosa può essere riassunta come il conflitto tra un paradigma della modernità franco-tedesco e uno greco-americano.

Un conflitto che è sfociato in diversi tipi di regolazioni. Le autorità sovietiche hanno chiesto agli artisti di rinunciare alla pretesa di anticipare la modernità creando il nuovo tessuto della vita comune; li hanno pregati di inscrivere il loro lavoro nella sola temporalità dei mezzi e dei fini che è anche quella del lavoro e del riposo. Ciò che gli artisti sovietici dovevano fare era servire la strategia del partito, rappresentando gli sforzi e le difficoltà degli operai e distrarli dopo il lavoro. A questa repressione empirica del progetto di un’arte comunista che anticipa le forme di una nuova vita comune è seguita la repressione teorica: Clement Greenberg e i suoi pari hanno seppellito questa storia imponendo un modernismo retrospettivo che invitava gli artisti a chiudersi nell’autonomia della loro arte per preservarla dal fatale pericolo con il quale la grande catastrofe dei tempi moderni la minacciava: l’esistenza di queste masse di figlie e figli di contadini ai quali i ritmi moderni del lavoro industriale concedevano l’esperienza di quel tempo di svago per il quale non erano fatti. Sottoponendo questo modernismo a derisione, la polemica postmoderna ha di fatto convalidato la leggenda che aveva forgiato ignorando il fondo del problema: il conflitto delle temporalità e delle forme di vita inscritto nel cuore dell’idea di modernità. Un conflitto che la letteratura, tra l’epoca di Madame Bovary e quella di Mrs Dalloway, aveva messo al centro delle proprie finzioni. La grande sinfonia sovietica del movimento aveva inteso neutralizzarlo nella grande uguaglianza del montaggio dei gesti equivalenti. A quel punto il cinema ha forse dato il cambio alla letteratura. Ha dilatato i movimenti della sinfonia e creato intervalli tra quei gesti che Vertov faceva penetrare gli uni negli altri, tra le mani delle centraliniste e i volti delle operaie in fabbrica che con il suo montaggio collegava a grande velocità. Al centro delle proprie finzioni il cinema ha messo il nuovo svago delle operaie, lì dove il modernismo greenberghiano vedeva la grande minaccia per l’arte.

Per concludere, propongo che si guardi ad alcune immagini di un film di un regista tedesco esiliato negli Stati Uniti, The Blue Gardenia di Fritz Lang (proiezione 3).

In poche sovrimpressioni, eredi dell’epoca di Dziga Vertov, Lang redistribuisce gli elementi della sinfonia: la macchina da scrivere, il telefono, le rotative di stampa e il volto della centralinista. Le macchine della sinfonia felice semplicemente diventano altrettanti elementi della manipolazione del desiderio e dell’angoscia della giovane donna. Il regista confonde così di nuovo le fughe in avanti e i ritardi del tempo. Ricolloca le macchine moderne e il tempo della sinfonia macchinica all’interno del tempo delle storie sentimentali. Ma utilizza anche la cornice delle storie per rimettere in scena una collisione tra tempi che è anche una storia della dominazione maschile. Ciascuno è libero di fare il computo dei passi avanti e dei passi indietro. Il conflitto delle temporalità comunque continua.

Traduzione dal francese di Ilaria Bussoni

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