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Quando la guerra è “giusta”

Stefano Di Ludovico

Il recente ritiro dall’Iraq e quello prossimo annunciato dall’Afghanistan da parte delle forze americane e dei loro alleati segnano per molti aspetti la fine di un ciclo ventennale di guerre, quello apertosi nel 1991 con la guerra del Golfo o quanto meno la fine di una sua fase - quella più recente legata al presunto pericolo islamo-terrorista –, in vista di guerre prossime venture che già sembrano profilarsi all’orizzonte (vedi le continue minacce e i preannunciati attacchi all’Iran in merito alla questione nucleare). Si tratta delle cosiddette guerre “umanitarie”, delle cosiddette guerre “giuste”, ovvero delle guerre “moderne” per eccellenza, le guerre figlie del tramonto del nomos che per secoli, almeno fino all’Ottocento, aveva retto le sorti dei rapporti tra gli Stati europei e che nel secolo XX solo il bipolarismo della Guerra fredda aveva per molti versi congelato per poi esplodere in modo dirompente a partire dagli anni Novanta con il crollo di uno dei due blocchi.

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fatto quotidiano

La globalizzazione dei furbetti

Vladimiro Giacchè

Non passa giorno senza che una nuova voce si aggiunga al coro: “Chi lavora deve privarsi di qualche diritto. È la globalizzazione che lo impone”. Sul tema l’accordo è bipartisan. “La globalizzazione costringe ad abbandonare alcune conquiste sindacali ottenute in circostanze più favorevoli”: così Michele Salvati, economista di area Pd. Fiorella Kostoris, economista più vicina al governo, invece sentenzia: “C’è chi ancora crede che si possa stare nella globalizzazione senza cambiare nulla”. E lei, che non ci crede, cosa propone? Di lavorare di più a parità di salario: si deve “abbassare il costo del lavoro per dipendente e per unità prodotta, lavorando più ore e in più persone per produrre di più… Per aumentare la produttività, il mezzo più appropriato è l’incremento delle ore lavorate”. Le fa eco Guidalberto Guidi, presidente delle imprese elettroniche di Confindustria: “Nei Paesi che crescono si lavora dieci ore al giorno… Non è tirannia, sono le leggi del mercato”.

È stato questo il tam tam che ha accompagnato la vertenza di Mirafiori e, prima, quella di Pomigliano. Con l’inevitabile variazione sul tema: la Cina. John Elkann, ad esempio, ha sentenziato con aria grave: “La Cina esiste, è una grande realtà con la quale dobbiamo confrontarci”. Vero: e allora perché la società di cui è il principale azionista, la Fiat, non ci si confronta? Perché il fatto è che, mentre di automobili cinesi in Italia non se ne vedono, la Cina è invece inondata di auto occidentali. Tranne quelle della Fiat, che da quel mercato è assente.

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L'impatto sociale delle politiche europee

Bruno Amoroso*

L’occasione di questa riflessione è stata una delle tante iniziative per la celebrazione del primo anno di entrata in vigore del Trattato di Lisbona e l’urgenza di fare un bilancio sull’impatto sociale delle politiche europee. Sul Trattato mi limito ad osservare che per nostra fortuna non è diventato una Costituzione come i più si aspettavano. Altrimenti, con la sacralità che avvolge le costituzioni nella tradizione giuridica latina, sarebbe oggi impossibile introdurre le non poche e centrali modifiche che si rendono necessarie. Un dato innegabile nonostante la ripetitività con la quale se ne nega l’esigenza con esercizi verbali che somigliano più a pratiche di esorcismo che a ragionamenti logici. Forse ha portato sfortuna il luogo fondativo del Trattato, già noto per l’ “Accordo di Lisbona” che nel 2000 lanciò lo sfortunato quanto famigerato obiettivo di fare dell’Europa “la regione più competitiva del mondo”.

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Cina e crisi: chi ha paura dell’agnello cattivo?

Alberto Bagnai

Crisi e guerra delle valute: tutta colpa della Cina? Contestazione di alcuni luoghi comuni sui cattivi cinesi che spendono poco e risparmiano troppo

Dopo la crisi per un po’ siamo diventati (quasi) tutti keynesiani, e tutti esperti di Cina, e i risultati si vedono. Ad esempio, vorrei commentare un recente intervento di Luigi Zingales sulla "guerra delle valute" pubblicato dall’Espresso. Secondo Zingales dall’inizio della crisi “ogni paese vuole svalutare la sua moneta per aumentare le esportazioni e ridurre la disoccupazione”, ma questa “è una politica miope ed egoista” perché “scarica il costo della crisi sui partner commerciali”. La Cina tiene lo yuan “artificialmente basso rispetto al dollaro”, ma “la soluzione non è in una rivalutazione dello yuan”, poiché “il vero problema è che la Cina nel suo complesso consuma molto meno di quello che produce”. Mentre “nello scorso decennio l’eccesso di consumo negli Usa ha compensato l’eccesso di risparmio in Cina”, ora “gli Usa non possono più permettersi” di assorbire l’eccesso di produzione cinese. Questo genera quindi “un eccesso di offerta a livello mondiale, che forza una deflazione”.

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La spirale perversa delle delocalizzazioni

Guglielmo Forges Davanzati

I commenti critici alle recenti dichiarazioni dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, in ordine alla scarsa redditività degli stabilimenti Fiat in Italia e alla conseguente necessità delle delocalizzazioni, si sono - per lo più - concentrati sulle capacità gestionali del management dell’azienda e sulla censurabilità di quelle dichiarazioni alla luce dei cospicui finanziamenti pubblici ricevuti in passato da Fiat.


Si tratta di rilievi condivisibili che, tuttavia, sembrano non tener conto di una considerazione che prescinde dal singolo caso e che può porsi nei seguenti termini: l’accelerazione dei processi di delocalizzazione industriale conferma che il capitalismo contemporaneo è sempre più caratterizzato dalla piena sovranità della grande impresa. Una piena sovranità che si manifesta anche mediante il potere che essa esercita sulle scelte di politica economica e, in particolare, di politica del lavoro[1]. Sono in molti a ritenere che gli assetti istituzionali e decisionali ereditati dal Novecento siano oggi inadeguati e che le norme giuridiche debbano adeguarsi alle ‘nuove’ esigenze di competizione delle imprese nell’economia globale. A ben vedere, si tratta di una opzione ideologica; d’altronde, non sempre ciò che è nuovo è necessariamente meglio di ciò che lo ha preceduto[2].

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Grande crisi nella globalizzazione

Ernesto Screpanti

Le cause di fondo della crisi attuale sono di natura reale e vanno rintracciate negli effetti prodotti dalla globalizzazione sullo sviluppo economico e la distribuzione del reddito nei principali paesi capitalistici. L’imperialismo globale contemporaneo è basato su un patto implicito tra il grande capitale dei paesi avanzati e il grande capitale dei paesi emergenti. Il primo ha ottenuto gli accordi TRIPS, con cui si è assicurato un potere monopolistico sui prodotti della ricerca scientifica e tecnologica, per la quale si trova all’avanguardia rispetto al resto del mondo. Questo potere monopolistico è stato usato per ridistribuire reddito dal Sud al Nord del mondo. Il grande capitale dei paesi emergenti ha ottenuto la liberalizzazione dei mercati e l’abbattimento di gran parte delle barriere protezionistiche dei paesi più ricchi. In questo modo ha potuto sfruttare il vantaggio competitivo sul costo del lavoro e avviare dei processi di sviluppo trainato dalle esportazioni.

La concorrenza ha spinto molte imprese tradizionali dei paesi avanzati a ridurre la produzione e a delocalizzare gli investimenti.

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Sguardi cinesi – ovvero, la Cina come metodo

di Sandro Mezzadra e Gigi Roggero

 If these factory strikes continue, China may have to go communist
(William Pesek, Mainland Workers Flex Their Muscles, in «South China Morning Post», Hong Kong, June 29, 2010)

1. Molti sguardi si rivolgono oggi alla Cina. In Italia come negli Stati Uniti questi sguardi sono del resto, e ormai da anni, parte dello scontro politico interno: mentre al di là dell’Atlantico, nella corsa verso le elezioni mid term di inizio novembre, governatori e politici repubblicani e democratici hanno fatto a gara nel proporre misure protezionistiche in funzione anti-cinese, in Italia siamo da tempo abituati alle sortite di leghisti e “tremontiani” contro la minaccia che viene da Oriente. Sullo sfondo, c’è il duro scontro sul valore del renminbi e sul protagonismo globale dei fondi sovrani e di altri attori economici cinesi. Tutto ciò non ha impedito, evidentemente, la corsa di imprenditori “occidentali” ad approfittare dell’“apertura” dei mercati cinesi e soprattutto del lavoro cinese. Per limitarci a una battuta: esisterebbero l’Ipod, l’Iphone e l’Ipad senza gli stabilimenti della Foxconn nelle zone economiche speciali del Sud della Cina? C’è da dubitarne… Neppure ha impedito, del resto, la corsa di Paesi, regioni e città a occupare un posto all’Expo di Shanghai, dove la Repubblica Popolare Cinese ha messo a punto (con risultati di immagine migliori rispetto alle Olimpiadi del 2008) lo sguardo che essa stessa rivolge al mondo. Ed è uno sguardo ammiccante e suadente, impregnato di modernità e tradizione. Better city, better life era lo slogan dell’Expo. E chi non sarebbe d’accordo? Guardando i palazzi del “Bund” (vera e propria esposizione universale dell’architettura modernista europea di inizio Novecento) specchiarsi, oltre le acque del fiume Huangpu, nelle pareti degli avveniristici grattacieli di Pudong (l’area in cui si è concentrata l’espansione urbanistica della città negli ultimi vent’anni), più di un visitatore avrà anzi pensato che Shanghai abbia le carte in regola per candidarsi a divenire il paradigma della «città migliore» del futuro globale.

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Dopo il neoliberismo. Il nuovo ruolo del Sud del mondo*

di Giovanni Arrighi e Lu Zhang

[Un'anticipazione dal cap. 5 di Capitalismo e (dis)ordine mondiale, raccolta degli scritti di Giovanni Arrighi a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta, in uscita presso Manifestolibri]

Questo capitolo analizza quel che si può chiamare la “strana morte” del Washington consensus, con particolare riferimento al rafforzamento economico della Cina e a un cambiamento fondamentale nelle relazioni tra il Nord e il Sud del mondo1. Ciò che è “strano” riguardo questa morte è che essa sia avvenuta in un momento in cui le dottrine neoliberiste promosse dal consensus godono di un’autorità apparentemente incontrastata. Proprio per questa ragione, questa morte è stata poco notata, e le sue cause e conseguenze rimangono avvolte in una gran confusione.


Parte della confusione sorge dalla persistente influenza sulla politica mondiale di vari aspetti del defunto consensus. Come notato da Walden Bello, “il neoliberismo [rimane], semplicemente per forza d’inerzia, il modello standard per molti economisti e tecnocrati che... non hanno più fiducia in esso”.

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Contro i'apertura indiscriminata dei mercati

Emiliano Brancaccio 

Marchionne non è né “buono” né “cattivo”: egli è solo una equazione, è una mera funzione del meccanismo di riproduzione del capitale. Se non si mette in discussione la piena apertura dei mercati non vi saranno le condizioni per un rilancio del movimento dei lavoratori

La globalizzazione dei mercati abbatte la forza rivendicativa, politica e sindacale, dei lavoratori. Numerosi studi del Fondo Monetario Internazionale, dell’OCSE, della Commissione Europea, segnalano da tempo l’esistenza di una correlazione statistica tra l’apertura di un paese ai movimenti internazionali di capitali, di merci e in parte anche di persone, e il corrispondente declino degli indici di protezione dei lavoratori, della quota salari sul reddito nazionale e dei livelli di protezione sociale. I dati segnalano che la globalizzazione dei mercati indebolisce i lavoratori in tutte le fasi del ciclo capitalistico, sia nel boom che nella recessione. Tuttavia, quando si attraversa una crisi, la piena apertura dei mercati può condurre a una vera e propria capitolazione delle rappresentanze del lavoro, e a un conseguente, precipitoso declino  delle tutele normative e sindacali e della quota di prodotto sociale destinato ai lavoratori.

Queste statistiche non fanno che confermare quel che già si evince dalla cronaca quotidiana.

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Il new deal impossibile

La crisi economica dopo il G20 di Toronto

di Andrea Fumagalli

La conclusione del vertice del G20 a Toronto era pressoché scontata. Il risultato principale è stato non aver ottenuto nessun risultato, se non l’obiettivo (irraggiungibile) di dimezzare il rapporto deficit/pil entro il 2013. Non poteva essere altrimenti, nonostante tutte le dichiarazioni in senso contrario, dal momento che, dopo oramai tre anni dall’inizio della crisi, non è all’orizzonte una strategia comune che consenta una governance mondiale dell’economia. In altre parole, pur estendendo il summit dai tradizionali 8 paesi a 20, a conferma della multipolarità imperiale di oggi, non è pensabile una sorta di “new deal istituzionale” in grado di traghettare l’economia mondiale al di là del guado della crisi. Diversi sono infatti gli interessi in gioco, non solo fra loro inconciliabili, ma anche inerenti a diversi piani di analisi. Proviamo a analizzare velocemente i fattori di instabilità oggi presenti:

1. Instabilità del rapporto Cina-Usa. Qui si gioca la partita più importante. La Cina sta diventato un vincolo sempre più stringente per l’economia Usa, stretta da un lato dall’instabilità dei mercati finanziari e dall’elevato indebitamento pubblico (causa protrarsi guerre in Afganistan e in Iraq) e privato (causa insolvenza) e, dall’altro, dalla necessità di sviluppare un tasso di crescita in grado di richiamare capitali dall’estero e sostenere i mercati borsistici.

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La rivalutazione del renminbi fra mito e realtà

Alberto Bagnai

Il tasso di cambio del renmbimbi è un falso problema economico: ecco perché non sarà la rivalutazione della moneta cinese a salvare gli Usa e l'Europa

arti marzialiI giornali plaudono alla promessa di Hu Jintao di lasciar fluttuare il cambio del renminbi in risposta alla lettera di Barak Obama, che il 16 giugno si è rivolto ai “colleghi” del G-20 richiamando la loro attenzione sul fatto che “tassi di cambio determinati dal mercato (nota del traduttore: liberi di fluttuare) sono essenziali per la vitalità dell’economia globale”. Il commento più lucido mi sembra quello di Federico Rampini: “Bel colpo, Hu Jintao!". In effetti, dimostrando disponibilità alla soluzione di un falso problema economico, Hu Jintao ha spostato la pressione politica di Obama (leader del principale importatore mondiale) sull’altro grande esportatore mondiale, la Germania, creando a quest’ultima un vero problema politico.

Ho detto falso problema economico? Come? Ma se gli economisti concordano sul fatto che il disallineamento del cambio cinese è il motore primo degli squilibri macroeconomici globali? Veramente questa è la visione del problema tramandata dai media italiani, che si allineano, in questo come in altri casi, alle posizioni espresse dalle istanze più conservatrici degli Usa. Le indicazioni della letteratura scientifica sono tutt’altro che unanimi. Vale la pena di richiamarle succintamente.

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cigno nero

L'ODORE DELLA FINE

Leon Zingales

Sento di dover dedicare qualche riga per rispondere al quesito di un lettore che mi chiedeva delucidazioni sull’apparente buon risultato della aste dei titoli sovrani del grande malato dell’Euro: la Spagna.

Effettivamente l’asta non è andata malissimo, ma il motivo è semplice: i titoli sono stati comprati da banche spagnole che, nel mese di maggio, hanno aumentato di ulteriori 11 Miliardi di Euro le richieste di finanziamento presso la BCE. In parole povere i 3.5 Miliardi di titoli a 10 anni ed a 30 anni sono stati comprati con i soldi della BCE. Si è trattato di una classica asta a libertà vigiliata.

Non susciti particolare entusiasmo neanche la restrizione dello spread, sceso dal record dei 238 punti base, tra i titoli spagnoli decennali e quelli tedeschi di pari duration. Potrebbe sembrare una buona notizia: ma non è un indice dell’aumento di fiducia verso la Spagna (nessuno ha fiducia visto i crescenti problemi delle casse di risparmio locale), ma viceversa è il segnale che la medesima Germania ha seri problemi di credibilità.

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L'impossibilità di gestire l'Euro

di Samir Amin

1. Non c'è moneta senza Stato. Insieme, Stato e moneta sono nel capitalismo i mezzi per gestire l'interesse generale del capitale, trascendendo gli interessi particolari dei segmenti del capitale in concorrenza tra loro. Il dogma attuale che immagina un capitalismo gestito dal "mercato", addirittura senza uno Stato (ridotto alle sue funzioni minime di tutore dell'ordine), non si basa né su una lettura seria della storia del capitalismo reale, né su una teoria che si pretende "scientifica" in grado di dimostrare che la gestione del mercato produce - anche tendenzialmente - un equilibrio qualsiasi (a fortiori "ottimale").

Ma l'euro è stato creato in assenza di uno Stato europeo, che sostituisse gli Stati nazionali, le cui principali funzioni di gestori degli interessi generali dei capitali erano esse stesse in via di abolizione. Il dogma di una moneta "indipendente" dallo Stato esprime questa assurdità.

L’"Europa" politica non esiste. Nonostante si immagini ingenuamente di superare il principio di sovranità, gli Stati nazionali restano gli unici legittimi. Non c'è la maturità politica che farebbe accettare al popolo di una qualsiasi delle nazioni storiche che costituiscono l’Europa il risultato di un "voto europeo”. Lo si potrebbe desiderare, ma resta il fatto che ci vorrà molto tempo perché emerga una legittimità europea.

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punto rosso

I campi di battaglia prescelti dall’imperialismo contemporaneo: condizioni per una risposta efficace dal Sud del mondo

Samir Amin

Nell’arte della guerra ogni belligerante sceglie il terreno di battaglia più favorevole per sferrare l’attacco e cerca di imporlo al suo avversario perché questo si metta sulla difensiva. Lo stesso avviene in politica, a livello nazionale e nelle battaglie di carattere geopolitico.

Attualmente, più o meno negli ultimi 30 anni, le potenze che costituiscono la Triade dell’imperialismo collettivo (Stati Uniti, Europa Occidentale e Giappone) hanno individuato due campi di battaglia: “la democrazia” e “l’ambiente”.

Questo scritto vuole prima di tutto esaminare dal punto di vista concettuale e sostanziale i due temi scelti dalla Triade, analizzandoli criticamente dal punto di vista dei popoli , delle nazioni e degli stati a cui essi sono indirizzati, i paesi del Sud, dopo quelli dell’ex-Oriente. Ci occuperemo, inoltre, del ruolo degli strumenti utilizzati dalle strategie imperialiste per condurre la loro battaglia: la globalizzazione ‘liberale’, con l’ideologia che ne è alla base (l’economia tradizionale), la militarizzazione della globalizzazione, ‘il buon governo’, ‘gli aiuti’, ‘la guerra al terrorismo’ e la guerra preventiva con l’ideologia che ne è al seguito (il post-modernismo culturale). Di volta in volta indicheremo le condizioni per una risposta efficace, da parte dei popoli e degli stati del Sud, alla sfida della ristrutturazione dell’imperialismo della “Triade”.

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Un attacco (finanziario) preventivo

di Samuel

“Va bene , la lotta di classe c’è, ma è la mia classe, quella dei ricchi, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”.  Warren Buffet, citato dal The New York Times, 26 novembre 2006.

È bastato che qualcuno ottenesse qualche beneficio e rinforzasse la propria situazione – col denaro pubblico – a far sì che i banchieri tornassero all’ovile di Davos, dove tra le varie cose han dimenticato qualsiasi pretesa di cambiare i dettami e di rinunciare ad alcuni privilegi. Quando di fronte alla pressione pubblica i governi osano parlare di Tobin Tax e simili, i “mercati” devono dare una mano. Come dice Nicolas Sarkozy, dobbiamo “moralizzare il capitalismo”, cosa che, a quanto pare, viene vista come una demonizzazione del deficit pubblico – come ai vecchi tempi di Maastricht -, come una colpevolizzazione degli anziani che osano vivere senza svolgere più un lavoro retribuito e dei lavoratori che rifiutano l’ennesima riforma del mercato lavorativo, e come una criminalizzazione di determinate categorie di immigranti.