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infofreeflow

Socializzazione della Finanza e Crisi Economica Globale

Intervento di Info Free Flow

"Indietro non si torna"

Punto di partenza di questa discussione è l'assunzione di due ipotesi di ricerca della sociologia del lavoro contemporanea: il muoversi di pari passo del paradigma produttivo con l'evoluzione tecnologica e la centralità del linguaggio nella valorizzazione capitalista contemporanea, come flusso che contemporaneamente attraversa e determina sia la sfera della produzione industriale che quella del mercato finanziario. Vedremo come la complementarità di questi elementi, riflessa nell'irrompere del modello di rete (che sia a livello infrastrutturale che organizzativo modifica il paradigma fordista) e della nuova determinazione dell'informazione (come vettore di conoscenze, competenze, relazioni, pubblicità ed investimenti trasversalmente agli ambiti lavorativi e del tempo libero) modifichi radicalmente le dinamiche di controllo capitalista sui versanti della produzione e del consumo, fino ad accomunare l'economia finanziaria e quella (cosiddetta) reale, ed a rendere fallimentari i tentativi di scindere le due nella proposizione di un progetto sostenibile di governance economica per il dopo-crisi.

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nazione indiana

I tortuosi sentieri del capitale

David Harvey intervista Giovanni Arrighi 

arrighi1Giovanni Arrighi, dall’inizio degli anni Sessanta fino al giorno della sua scomparsa, il 18 giugno scorso, è stato qualcuno che ha creduto, con tenacia illuministica, nella possibilità di penetrare nel fatum capitalistico. Per questo suo sforzo è considerato, a livello mondiale, uno dei massimi studiosi del capitalismo in un’ottica storico-comparativa. Avendo lasciato l’Italia per gli Stati Uniti, nel 1979, il nostro paese lo ha ricambiato prestando poco interesse alla sua opera. Non credo che questo sia mai stato per lui un dispiacere. Gli era perfettamente chiaro che gli strumenti intellettuali che aveva elaborato sarebbero stati usati da generazioni di intellettuali asiatici, africani o americani piuttosto che europei. Un bel ricordo di Arrighi da parte di Piero Pagliani qui. A. I.


[Presentiamo alcuni brani dall’ultima intervista di Arrighi, rilasciata a David Harvey e apparsa sul numero 56 (mar.-apr. 2009) della New Left Review. Ringrazio David Harvey, Beverly Silver, Kheya Bag per la disponibilità, Nicola Montagna per i pareri sulla traduzione e la Fondazione Istituto Gramsci Emilia-Romagna per le indicazione bibliografiche. Gh. B.]

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infoaut

Copenaghen: Seattle cresce

Naomi Klein

naomi kleinL’altro giorno ho ricevuto una copia pre-stampata di The battle of the story of the Battle of Seattle, di David Solnit e Rebecca Solnit . La pubblicazione è fissata a dieci anni da quando una storica coalizione di attivisti arrestò il vertice del World Trade Organization di Seattle, la scintilla che infiammò un movimento globale anticorporativo.

Il libro è un resoconto affascinante di ciò che accadde realmente a Seattle, ma quando parlai con David Solnit, il guru dell’azione diretta che contribuì ad architettare la chiusura del vertice, lo trovai meno interessato a rievocare il 1999 che a parlare dell’imminente summit delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico di Copenaghen e le azioni di “giustizia climatica” che sta aiutando ad organizzare da una parte all’altra degli Stati Uniti per il 30 Novembre. “Questo è sicuramente un momento stile-Seattle”, mi disse Solnit. “La gente è pronta a lanciarsi”.

Vi è certamente un fattore Seattle nella mobilitazione di Copenaghen: la vasta gamma di gruppi che vi prenderà parte, le tattiche diverse che verranno messe in campo e i governi dei paesi in via di sviluppo pronti a portare le richieste degli attivisti dentro il summit. Ma Copenaghen non è una mera replica di Seattle. Appare, invece, come se le placche tettoniche progressive si stiano spostando, creando un movimento che si basa sui punti di forza di un’epoca passata, ma che impara anche dai suoi errori.

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contropiano

Il posto della Cina “rossa” nell’ordine economico internazionale

di Giorgio Gattei


cina1. A mezzo degli anni ’60 del Novecento Mario Tronti aveva spedito Marx a Detroit perchè «solo negli USA le relazioni tra capitale e lavoro si presentano come oggettivamente marxiane» (M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, p. 30). Oggi però sappiamo che Marx a Detroit non c’è mai arrivato, è rimasto nel vecchio continente dove ha finito (almeno così sembra) per perdersi. All’inizio del XXI secolo Giovanni Arrighi ci riprova spedendo questa volta, con più robuste ragioni, Adam Smith a Pechino (Feltrinelli, 2008). L’invocazione è consegnata ad un libro bello, ma impossibile. Troppo lungo (più di 500 pagine), troppe divagazioni, troppe citazioni, troppe note. Tutto congiura per renderlo odioso ad un lettore che non sia più che paziente. Invece quel libro va letto (io l’ho perfino riletto) perchè ciò di cui tratta è importante. E così nel poco spazio che mi ritrovo proverò a darne una “scorciatoia di lettura”.

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liberazione

“Global Tax”

La "Global Tax"? Va bene, ma non basta a fermarli

Fabio Sebastiani intervista Emiliano Brancaccio

dollar squeezedLord Ardair Turner è il presidente della FSA, la Consob  inglese. Turner ha proposto di tassare le transazioni finanziarie allo scopo di ridimensionare il mercato dei capitali. La sua proposta è  stata ribattezzata “Global  Tax”, una specie di Tobin tax applicata agli scambi finanziari. Liberazione ha intervistato Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica presso l’Università del Sannio a Benevento.  
 
Cosa pensi di questa proposta?

Turner parte da una giusta constatazione: grazie alle deregolamentazioni di questi anni i mercati finanziari si sono paurosamente “gonfiati”. Il risultato di questa enorme espansione è che oggi gli intermediari finanziari, le banche e i brokers, assorbono una quota colossale e ingiustificata del reddito nazionale. Tra l’altro, è una massa di reddito che attira i migliori cervelli, i quali finiscono per specializzarsi in finanza anziché per esempio in medicina o ingegneria.

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 manifesto

Contraddizioni estreme del rapporto Usa-Cina

di Joseph Halevi

china usaAl vertice Cina-Usa che si apre a Washington Pechino ha inviato una delegazione di 150 persone. Si incontrano da un lato un paese, la Cina, assolutamente bismarckiano, ove l’accumulazione industriale capitalistica però non è un fatto nazionale bensì avviene con il concorso voluto ma vieppiù obbligato del capitalismo mondiale. Dall’altro abbiamo gli Stati Uniti, fulcro e leva dell’espansione cinese all’estero per via dell’accumulo delle passività finanziarie Usa nelle casse delle istituzioni cinesi. La Cina è fortemente colpita dalla crisi. Ormai le persone rispedite alle zone rurali superano di molto la cifra di 20 milioni stimata agli inizi di quest’anno e vi sono delle vere e proprie rivolte contro i licenziamenti. La crisi viene fronteggiata rilanciando l’industria pesante ed attraverso l’uso, nonchè il rigetto, indiscriminato della forza lavoro fluttuante ed immigrata dalle zone arretrate. Ciò comporta un ulteriore schacciamento dei redditi salariali sul valore del prodotto nazionale (in Cina il salario come quota del prodotto è in calo da circa venti anni). Questo significa che il ruolo della Cina come area di massima produzione di scala a basso costo monetario sul piano mondiale si sta ampliando nel corso stesso della crisi.

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manifesto

Lo Stato della Globalizzazione

 

Benedetto Vecchi intervista Saskia Sassen

Un'intervista con Saskia Sassen, in Italia su invito de Il Mulino e alla vigilia dell'uscita del suo ultimo libro «Territori, autorità, diritti». Il mutamento dello stato nazionale e l'emergere di una terra di nessuno «né globale né locale» dove si sviluppa l'azione dei movimenti sociali

Un testo ambizioso quello di Saskia Sassen su Territorio, autorità, diritti tradotto da Bruno Mondadori (pp. 596, euro 42. Quando il libro uscì negli Stati Uniti ne scrisse Sandro mezzadra il 3 Febbraio 2007). Ambizioso perché l'autrice si pone due obiettivi: da una parte spiegare la formazione dello stato moderno; dall'altra cercare di definire i contorni e le forze operanti in quel processo che vede lo stato-nazione essere uno dei maggiori protagonisti della globalizzazione, all'interno però di un paradosso: rimanere un protagonista rinunciando ad alcuni aspetti della sovranità nazionale. Per la studiosa di origine olandese vanno quindi respinte le tesi che annunciano la prossima e irreversibile scomparsa dello stato nazionale, ma allo stesso tempo muove forti critiche verso le posizioni che considerano lo stato-nazione l'ultima trincea per respingere l'attacco del capitalismo neoliberista, salvaguardando così le specificità economiche, sociali e politiche «locali», che comprendono gli istituti del welfare state. Né crede, come afferma in questa intervista, che l'attuale crisi economica favorisca una brusca frenata alla globalizzazione. Anzi, considera i provvedimenti presi dai vari governi nazionali, dagli Stati Uniti all'Inghilterra, dalla Germania all'Italia, propedeutici al mantenimento dello status quo, accelerando tuttavia quelle forme di coordinamento sovranazionale che individuano nei governi nazionali lo strumento per applicare localmente decisioni prese a livello globale.

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liberazione

Quei discreti pirati del commercio globale

Come ti frego (per sempre) i Paesi poveri

di Sabina Morandi

wtoprotestC'era una volta il Wto. Ricordate? Ogni volta che si è riunito per imporre al mondo i diktat dell'ultra-liberismo c'è stata una sollevazione. E' successo a Seattle, a Cancun e a Hong Kong dove, alla fine del 2005, attivisti provenienti da tutto il mondo hanno bloccato la città per un'intera settimana. Cosa è successo da allora? Quasi niente, secondo i media ufficiali. Eppure, mentre in Occidente si fa il mea culpa su certi eccessi della globalizzazione liberista, la sua marcia è continuata indisturbata nel resto del mondo, lontano dall'occhio indiscreto delle telecamere e dei contestatori. Nessuno infatti si è preso la briga si riportare le conclusioni di un rapporto stilato nel marzo scorso da Oxfam, intitolato Signing Away the Future (letteralmente: firmando via il futuro), da dove si evince che Stati Uniti e Unione Europea, sempre più protezionisti in casa propria, continuano a perseguire una strategia ultraliberista fatta di accordi sempre più distruttivi per le economie meno sviluppate.

La firma di tali accordi comporta infatti una quantità enorme di concessioni irreversibili da parte dei paesi poveri, ai quali praticamente non viene offerto niente in cambio.

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contropiano

Geoeconomia? Piuttosto imperialismo

di Giorgio Gattei

geopolitica1Per tenere a bada i “competitori geopolitici” (vedi i tre Avvisi precedenti) George Bush “il piccolo” ha dovuto portare le spese militari dai 370 miliardi di dollari del 2000 ai 621 miliardi del 2006, «un aumento degno di un Presidente di guerra» (M. Nobile, Armamenti e accumulazione nel capitalismo sviluppato, “Giano”, 2007, n. 56, p. 19). Non è però soltanto con la forza che gli Stati Uniti cercano di mantenere la supremazia planetaria guadagnata senza colpo ferire al termine della seconda guerra mondiale per l’esaurimento materiale dell’imperialismo britannico. C’è infatti un’altra modalità geopolitica più “morbida”, che Edward Luttwak ha denominato geoeconomia, a contenuto prevalentemente commerciale e finanziario.

Essendo finita la grande contrapposizione in due “blocchi” della Guerra Fredda, il mondo si è ritrovato “uno”, con perfino la Cina (comunista o meno che sia) coinvolta nella logica generale degli affari. Si è ricostituito quel mercato mondiale che era già stato all’opera prima della rottura del 1917, quale conseguenza migliore del “lungo Ottocento” della borghesia.

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manifesto

La lunga marcia alla società di mercato

 Sandro Mezzadra

La via non capitalista dell'Oriente. Una discussione a partire dal volume «Adam Smith a Pechino» di Giovanni Arrighi edito da Feltrinelli La tesi dello studioso italiano sull'eclissi dell'egemonia statunitense come sintomo della fine del capitalismo storico andrebbe problematizzata alla luce dei tanti conflitti sociali esplosi nella Cina contemporanea

mao1È un libro importante, quello di Giovanni Arrighi. Ed è un libro che spiazza, fin dal titolo: Adam Smith a Pechino (Feltrinelli, pp. 464, euro 38). Chi lo prendesse in mano reduce dalla lettura di Shock Economy, di Naomi Klein (Rizzoli editore), potrebbe in verità trovarlo perfino banale: l'Adam Smith che compare nel titolo, penserebbe probabilmente quel lettore, sarà certo il mandante morale di Milton Friedman, il genio del male che, invitato da Deng Xiaoping in Cina nel 1980 e nel 1988, piantò pure lì il seme della malapianta del neoliberismo, germogliato in Cile nel 1973 e destinato negli anni successivi a fiorire un po' ovunque sul pianeta.

Ma certo quel lettore strabuzzerebbe gli occhi di fronte alle tesi presentate in particolare nel secondo capitolo del libro di Arrighi, dedicato alla «sociologia storica di Adam Smith»: l'autore della Ricchezza delle nazioni non gioca qui la parte del «cattivo» della storia, ma addirittura quella del «buono», del teorico di una via «naturale» nello sviluppo dell'economia di mercato che sarebbe stata radicalmente negata nei decenni successivi dalla traiettoria seguita dall'Europa, e in primo luogo dalla Gran Bretagna. Di più: quest'ultima traiettoria sarebbe stata quella analizzata e criticata come capitalistica da Marx, mentre la via «naturale» nello sviluppo dell'economia di mercato teorizzata da Smith sarebbe stata una via «non capitalistica».

Ancora di più: questa via «non capitalistica» era quella che stava dipanandosi in Asia orientale nel XVIII secolo, all'insegna di una «rivoluzione industriosa» dai caratteri del tutto diversi dalla «rivoluzione industriale» inglese. E infine: la Cina di oggi, proprio quella che ha le sue origini nelle «riforme» di Deng Xiao Ping, potrebbe ricollegarsi a quel modello «virtuoso» e far coincidere la fine dell'egemonia statunitense nel sistema-mondo del capitalismo storico nientemeno che con la fine del capitalismo stesso.