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rete dei com

Lo Stato Italiano molla il Mezzogiorno

di Biagio Borretti e Italo Nobile

PrimailnordIl 15 febbraio – a Roma – in occasione della probabile approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri, del Decreto sull’Autonomia Differenziata, è stato convocato un presidio di lotta a Montecitorio per protestare contro questo dispositivo normativo che accentuerà gli squilibri territoriali del nostro paese, aumenterà il divario Nord/Sud, le disuguaglianze sociali ed il complesso degli strumenti deregolamentazione dell’unità politica e materiale dei settori popolari.

Si pone, quindi, di nuovo, la necessità di una ripresa della discussione su una nuova “Questione/Contraddizione Meridionale/Mediterranea” che sappia descrivere le attuali dinamiche del corso della crisi e delle conseguenti trasformazioni che stanno configurando la nuova mappa del comando economico e sociale del paese dentro le convulsioni che l’Azienda/Italia vive nel gorgo della competizione internazionale.

Ripubblichiamo – per favorire il dibattito dei compagni e degli attivisti – una scheda, redatta da Biagio Borretti ed Italo Nobile, su un libro che ha segnato la qualità del dibattito sul Sud e sulle trasformazioni della forma/stato nel Mezzogiorno d’Italia.

Nei prossimi giorni daremo conto di altri contributi che stanno giungendo al nostro sito[La redazione del sito della Rete dei Comunisti].

* * * *

Il lavoro di Ferrari Bravo, di cui di seguito si offre una scheda sintetica, è per molti versi superato dalle modifiche profonde che si sono susseguite sul piano materiale, della formazione economico-sociale negli ultimi decenni e, di conseguenza, anche nel campo del politico. L’analisi della forma-stato, di una particolare forma-stato, storicamente e socialmente determinata, risulta oggi, a tratti, addirittura “incomprensibile”, tali sono stati i cambiamenti, anche sul piano istituzionale.

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sbilanciamoci

Crescita o recessione, narrazioni e prospettiva storica

di Roberto Romano

Se la crescita è “misurabile”, stagnazione e recessione si prestano a diverse interpretazioni. Ma come mai le stime della Commissione tra il 2015 e 2018 per l’Italia sono sistematicamente più basse rispetto alla crescita effettiva? E a prendere sul serio le previsioni Bankitalia 2019 sarebbe da suonare un allarme rosso. Perché non scatta?

fac8f736e77499e3ffba7f0a21192aPreambolo

La discussione relativa alle prospettive economiche del Paese e dell’Europa, con tutte le implicazioni dal lato della sostenibilità dei conti pubblici, è viziata da un approccio ragionieristico dei conti pubblici. Sebbene i conti pubblici siano legati all’andamento del reddito1, i compiti dell’economia pubblica non possono essere piegati alla sola sostenibilità dei conti pubblici. Se questa è poi vincolata ai così detti vincoli del Fiscal Compact, l’economia pubblica rinuncia al suo ruolo storico di governo dello sviluppo. Le recenti stime della crescita del PIL, particolarmente severe per il 2019, dovrebbero suggerire più di una cautela. Infatti, se la dinamica del PIL per il 2019 è caduta in soli due mesi da una prospettiva di crescita dell’1% a 0,6% (Banca Italia), più che di sostenibilità economica dei conti pubblici, la politica (economica) dovrebbe predisporre delle misure tese a sostenere la crescita per evitare l’avvitamento di tutto il sistema produttivo, industriale e del lavoro. In altri termini, le proiezioni di crescita per il 2019 così basse sono un allarme per il sistema economico e non per i conti pubblici. Sebbene Banca Italia e Commissione Europea abbiano segnalato un significativo rallentamento del PIL, l’esito di questa proiezione non può essere quella di prefigurare delle manovre correttive per garantire i saldi finanziari. Se le Istituzioni del Capitale europee e nazionali registrano un avvitamento del sistema economico così veloce, con dei sospetti rispetto alla tempistica2, dovrebbero essere le prime a prefigurare e suggerire delle misure espansive. Il 2007 e il 2011 dovrebbero aver ben insegnato qualcosa circa gli effetti negativi dell’austerità espansiva. Sebbene caduta nel dimenticatoio la lezione di R. A. Musgrave, padre di tutti gli economisti pubblici, i compiti della pubblica amministrazione sono ancora validi.

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economiaepolitica

Regionalismo differenziato: cos’è e quali rischi comporta

di Sergio Marotta

Dal debito pubblico alla rottura dell’unità nazionale. Tutti i rischi del Regionalismo differenziato

Regionalismo differenziatoDalle Regioni al federalismo differenziato

Che le Regioni fossero troppo costose per il bilancio dello Stato italiano lo aveva già detto, in Assemblea costituente, Francesco Saverio Nitti che certo di conti pubblici se ne intendeva, essendo stato uno dei massimi studiosi di scienza delle finanze noto e apprezzato in tutta Europa. Eppure lo statista di Melfi non fu ascoltato, come non lo furono Benedetto Croce e Concetto Marchesi, Pietro Nenni e Palmiro Togliatti, Luigi Preti e Fausto Gullo, tutti uniti nell’opposizione all’ordinamento regionale.

Passò la linea del siciliano Gaspare Ambrosini che introduceva una forma di Stato organizzato in Regioni in cui si teneva insieme l’unità della Repubblica e l’autonomia degli enti locali. Alla fine la formula dell’art. 5 dei Principi fondamentali risultò la seguente: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento»[1].

Impiegati gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso per passare all’attuazione, con vent’anni di ritardo, degli ordinamenti regionali, si procedette, poi, a un quindicennio di riforme della pubblica amministrazione che iniziarono con la legge sull’ordinamento degli enti locali, la 142 del 1990, che prese il nome dell’allora potentissimo ministro dell’Interno, il democristiano Antonio Gava.

Venne, quindi, il turno delle varie leggi Bassanini dal nome del ministro della Funzione pubblica che le elaborò e, a più riprese, le portò all’approvazione del Parlamento. La prima fu la legge 59 del 1997 che doveva realizzare il federalismo a Costituzione invariata. Era il tempo in cui imperava il verbo della sussidiarietà come forma di avvicinamento del luogo della decisione pubblica al livello più prossimo alla collettività di riferimento. ‘Sussidiarietà’ era la parola magica per realizzare un’azione amministrativa più efficiente, più efficace e più economica.

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economiaepolitica

Protezionismo e delocalizzazioni: perché la politica di Trump è sbagliata

di Fabrizio Antenucci

I dazi introdotti da Trump non contrastano le delocalizzazioni perché non colpiscono le imprese con residenza fiscale negli USA. Sarebbe meglio agire su un altro aspetto: controlli dei movimenti di capitale

protezionismo 640x427Da quando Trump si è insediato alla Casa Bianca, il protezionismo è tornato ad essere un argomento di estrema attualità. Fin dall’inizio della sua campagna elettorale, il nuovo presidente degli Stati Uniti si è rivolto ai lavoratori della manifattura promettendo di recuperare posti di lavoro nel territorio nazionale, affermando che ogni decisione riguardante commercio, tasse, immigrazione, e affari esteri sarebbe stata “presa a vantaggio dei lavoratori americani e delle famiglie americane”. Stando alle sue intenzioni, le misure protezionistiche avrebbero dovuto da un lato disincentivare le aziende a delocalizzare la produzione, e dall’altro ad imporre barriere al commercio internazionale. Cosa è successo dall’inizio del suo mandato?

Le misure commerciali prese dalla nuova amministrazione vedono coinvolte soltanto indirettamente la Cina e l’Unione Europea: si tratta di dazi imposti su alcune categorie di beni, senza alcun riferimento a specifici paesi. Tali misure, che rivelano preoccupazione per una eccessiva sofferenza dell’economia statunitense nella competizione internazionale, non sono affatto una novità. D’altronde, il saldo delle partite correnti risulta perennemente in negativo dall’amministrazione Reagan. È opinione diffusa, a tal riguardo, che un saldo commerciale negativo rifletta un peggioramento dello stato di salute delle imprese, contribuendo inoltre alla perdita di posti di lavoro. In effetti, a partire dalla fine degli anni ’70, il settore manifatturiero statunitense ha registrato una forte contrazione occupazionale, coinciso di fatto con il peggioramento del saldo delle partite correnti (Borjas et al., 1992). Si tratta di fenomeni entrambi verificati in concomitanza di un progressivo processo di apertura al commercio estero avviato con la ratifica di diversi accordi internazionali tra cui il GATT (Tokyo Round 1973-79, Uruguay Round 1986-1994) e il NAFTA (1994), fino alla costituzione della World Trade Organization (WTO) nel 1995.

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sinistra

I saggi di interesse sono la variabile cruciale nell’economia italiana. Attenzione!

di Salvatore Biasco

Intervento di Salvatore Biasco Sabato 29 settembre 2018 a Lanciano. Convegno “Le Mani Visibili”: Le giornate di economia Marcello De Cecco 2018. Seconda giornata. Summary: L’intervento segue l’aumento dei tassi di interesse dopo l’accordo di governo. Fa vedere quanto fosse dannosa per vari settori dell’economia anche quella che sembrava essere una fiammata temporanea. Col varo della finanziaria non è più solo una fiammata. Lo scopo dell’analisi è di cogliere, su piccola scala, le sequenze che si potrebbero avere, su scala parossistica, se si uscisse dall’euro. Anche in quel caso, il livello cui si porterebbero i tassi di interesse è il perno su cui ruotano le conseguenze. Se ne fa una stima e si segue l’incontrollabile dinamica che farebbe seguito

1 682Innanzitutto ringrazio gli organizzatori per questo invito e rivolgo un saluto commosso a Giulia.

Penso che il titolo di questo incontro non poteva essere più felice: Le Mani Visibili. Le vicende economiche per De Cecco non sono rapporti tra aggregati dell’economia, ma vicende dell’agire umano, degli interessi organizzati, dei rapporti di forza, delle volontà politiche ed anche dei retaggi e dei condizionamenti storici, e vanno studiate in quest' ottica. Nulla per lui è ovviamente predeterminato, perché poi si scontrano visioni e strategie differenti e perché non sempre si è in grado di dominare il mercato. Ma anche questo è parte dell’'analisi.

Accanto a queste categorie, una rientrava spesso nelle conversazioni private è quella dei “ciucci”, perché c’è anche un agire umano che esercita influenza perversa nella storia, per pura ignoranza o cecità. Una categoria, che usava spesso anche in riferimento alla vita quotidiana e a persone di comune conoscenza.

Ecco: questa categoria mi è ritornata in mente a proposito della salita di tassi di interesse, che si è determinata negli ultimi quattro mesi e mezzo dal momento della firma del contratto di governo. Pensavo di venire qui a raccontare le conseguenze di una fiammata inutile dei saggi di interesse (che anche Draghi aveva stigmatizzato affermando che “le parole possono far danni”). In realtà oggi, dopo il varo ieri della finanziaria, dobbiamo parlare di fatti, non di parole. Oggi forse quella che mi sembrava una fiammata dovuta a dichiarazioni incaute, diventa linea politica e mi costringe a integrare l’intervento che avevo preparato fino a due giorni fa.

Perché scegliere questo tema? Perché ritengo che seguendo le conseguenze di ciò che ha comportato l’aumento fin qui dei tassi di interesse troviamo una prefigurazione in sedicesimo di quello che potrebbe succedere se domani i tassi dovessero scalare a livelli ben più alti e noi uscissimo dall’euro.

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economiaepolitica 

Su austerità e precarietà

Documento della consulta economica per il Congresso FIOM-CGIL 2018

di Riccardo Realfonzo

Sottoinvestimenti, deindustrializzazione e bassa competitività del Mezzogiorno e del Paese. Una vertenza per una nuova stagione di politiche industriali. Riccardo Realfonzo interviene come coordinatore della consulta economica della FIOM al Congresso della FIOM-CGIL tenutosi a Riccione dal 12 al 15 dicembre 2018. L’analisi mostra quale sia stato il drammatico sottofinanziamento delle politiche industriali nel decennio successivo alla crisi scoppiata nel 2008 ed anche gli effetti negativi delle politiche di deflazione salariale. Occorrerebbe una svolta di politiche industriali e del lavoro che è assente nella nuova manovra del governo in carica

fiom cgil bandiera1. Premessa

Questo documento è stato realizzato dalla Consulta economica della FIOM-CGIL (coordinata da Riccardo Realfonzo), a seguito di numerosi momenti di confronto con le segreterie regionali e i lavoratori organizzati dalla FIOM nel corso del 2018 e nel dialogo continuo con la Segreteria Nazionale che ne ha condiviso i contenuti. Emerge la necessità di una nuova stagione di politiche industriali che, a partire dal Mezzogiorno, ponga le basi per un rilancio dell’industria e dell’intero sistema produttivo del Paese, al fine di arrestare i processi di declino in atto e garantire le condizioni per una crescita occupazionale e una più equa distribuzione dei redditi. Le politiche industriali dovrebbero sostanziarsi in una strategia unitaria, sovraregionale, dotata di finanziamenti ben maggiori rispetto a quelli messi in campo negli ultimi anni e dal governo in carica. Una strategia da attuare mediante nuovi investimenti pubblici in infrastrutture materiali e immateriali, un articolato sistema di incentivi e aiuti alle imprese che permetta loro di compiere un salto tecnologico-dimensionale e che le spinga a investire sulla qualità del lavoro, un adeguato sistema di ammortizzatori sociali che sostenga le imprese e i lavoratori nelle fasi di rallentamento della produzione e nelle crisi industriali. Questa nuova stagione di politiche industriali dovrebbe prendere le mosse dalla consapevolezza del drammatico sottoinvestimento pubblico e privato realizzato dal Paese negli scorsi anni, almeno a partire dalla crisi del 2007-2008. Un sottoinvestimento che ha favorito la deindustrializzazione, ha impoverito drammaticamente l’Italia e ha assecondato i processi di distruzione di capacità produttiva innescatisi dopo la crisi, e che a fine 2017 vede il Paese, e in misura ancora più radicale il Mezzogiorno, ancora molto lontano dai livelli di produzione di dieci anni prima.

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economiaepolitica

Manovra 2019: problema di spread o di qualità?

La tesi dell’espansione restrittiva di Blanchard e Zettelmeyer e tutti i suoi limiti

di Felice Roberto Pizzuti

Manovra 2019. Spread e reazione dei mercati possono compromettere l’efficacia della manovra economica italiana? Felice Roberto Pizzuti contesta questa nuova tesi di Blanchard e Zettelmeyer e spiega che quello che conta non è lo spread ma la qualità delle misure previste

manovra 2019 italia spread oggi 640x4261. Nel dibattito sulla Nota aggiuntiva al documento di economia e finanza (Nadef) 2018 si evidenziano contributi anche autorevoli che, tuttavia, rischiano di aumentare gli elementi di confusione che lo caratterizzano. La manovra, anche per come viene presentata dal Governo nelle trattative con l’Unione europea (UE), presenta delle criticità che ne pregiudicano l’efficacia e, nel suo insieme, mostra di non avere la visione di lungo respiro necessaria ad affrontare i problemi organici della nostra economia, approccio che sarebbe particolarmente congruo all’inizio di una legislatura “di cambiamento”. Tuttavia, le critiche che la manovra merita non dovrebbero distogliere l’attenzione dalla maggiore pericolosità insita in altri ingiustificati rilievi che le sono rivolti con i quali si cerca di riproporre la stessa concezione economica della “austerità espansiva” già rivelatasi molto dannosa non solo per il nostro paese, ma per la stessa costruzione europea la quale, peraltro, è resa sempre più necessaria dall’evoluzione degli equilibri economici e politici globali.

 

2. In un articolo tradotto sulla Voce.Info del 27 ottobre[1], O. Blanchard (tra l’altro, ex capo economista del FMI) e J. Zettelmeyer (tra l’altro, ex direttore generale per le politiche economiche del Ministero tedesco degli Affari economici e l’energia), attualmente entrambi membri del Peterson Institute for International Economics, sostengono che l’obiettivo della crescita del Pil perseguito dal governo italiano con l’aumento del deficit di bilancio al 2,4% non sarà raggiunto poiché l’intento espansivo sarà più che compensato dall’effetto contrario derivante dall’aumento dei tassi d’interesse provocato dalla stessa manovra.

I due autori (B&Z) concordano che “Nonostante ”strette fiscali espansive” e “espansioni fiscali restrittive” siano teoricamente possibili, una politica fiscale espansiva generalmente aumenta la produzione e una restrittiva la rallenta – anche in paesi con un alto debito pubblico”.

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jacobin

Autostrade ai privati. Come invertire la marcia

di Simone Gasperin

La storia delle principali infrastrutture stradali italiane è l'emblema dell'interesse pubblico che cede il passo alla rendita. Ma esistono alternative alla speculazione dei privati

181109 autostrade jacobin 990x361Al minuto 25:55 di un compiaciuto documentario sulle autostrade italiane si intravede il ponte Morandi con un “buco” a metà. Ma il fotogramma appare in uno sgranato bianco e nero. Si tratta di un filmato degli anni Sessanta, quando il viadotto Polcevera doveva ancora essere ultimato. Queste le parole trionfanti del narratore: “La Società Autostrade ha completato il raddoppio e l’ammodernamento della Genova-Serravalle, che allacciandosi alla Serravalle-Milano, ha sbloccato le correnti di traffico provenienti dal nord e ha ormai portato a termine anche l’autostrada che arriva a Savona”. Una rasserenante musichetta stile-jazz in sottofondo sembra persino banalizzare un elemento di eccezionale significato per l’economia italiana.

La rete autostradale in Italia evoca una storia di orgogliosa ricostruzione e di progresso materiale, successivamente mutata nello sconforto tipico delle fasi di decadenza e recentemente culminata con il tragico crollo del ponte genovese. Per questi motivi, la vicenda delle autostrade italiane non può essere esclusivamente ricondotta a specialistiche questioni di natura ingegneristica. Essa intreccia innanzitutto il susseguirsi delle strategie di sviluppo economico, o presunte tali, adottate delle autorità pubbliche nel corso degli ultimi decenni.

Fino agli anni Settanta, parlare di autostrade in Europa era semplicemente sinonimo di Italia. Come aveva potuto questo paese ancora semi-arretrato costruire una moderna rete di autostrade su un complesso territorio nazionale, collegando il nord al sud, il Piemonte al Friuli, il litorale adriatico a quello tirrenico? Questo si chiedevano gli osservatori ed esperti di tutto il continente. La risposta, tanto scontata quanto annacquata dalla distanza storica, conduce a individuare un attore protagonista: la Società Autostrade Concessioni e Costruzioni Spa.

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economiaepolitica

Deficit strutturale italiano: una questione di stime

di Davide Cassese

La Commissione europea ha bocciato la manovra italiana perché considera il deficit troppo alto, ma si tratta di giudizi frutto di stime contestatissime nel mondo scientifico che però, di fatto, ostacolano qualunque politica di crescita per il Paese

neosurreal.24Da qualche settimana va avanti lo scambio di battute tra l’esecutivo italiano e la Commissione Europea sul contenuto della Manovra economica. La Commissione ha respinto la manovra, rimandandola indietro al governo perché ne rivedesse la sostanza, in quanto manifesta una deviazione significativa dai parametri del Patto di Stabilità e crescita e un allontanamento dal percorso di aggiustamento dei conti pubblici.

Secondo la Commissione il maggiore deficit indicato nella NADEF 2018 dal governo rispetto al deficit tendenziale, diversamente da quanto prevede il governo, non apporterà benefici alla crescita e non contribuirà a ridurre il rapporto debito/PIL secondo quanto stabilito dai Trattati.

Nello specifico, la lettera della Commissione indica che a fronte dello sforzo strutturale dello 0.6% del PIL raccomandato dalla Commissione, il governo italiano presenta un deterioramento strutturale pari allo 0.8% del PIL. Tutto ciò rappresenta una deviazione dal rispetto del Patto di Stabilità e crescita senza eguali nella storia.

 

Il deficit strutturale e il PIL potenziale

Il termine “strutturale” accoppiato alla parola “deficit” identifica una specifica fattispecie: la differenza tra le entrate e le spese dello Stato al netto delle circostanze cicliche (peggioramento della congiuntura) e delle misure una tantum (misure imprevedibili come catastrofi naturali o emergenze sociali come l’immigrazione). Il deficit strutturale, dunque, rappresenterebbe la condizione dei conti pubblici di un Paese in corrispondenza del PIL potenziale, vale a dire in corrispondenza di una situazione in cui l’economia riesce ad impiegare tutte le risorse di cui dispone – lavoro e capitale – senza generare pressioni inflazionistiche. Per l’Italia, che è un Paese con elevato debito pubblico, le regole europee prescrivono un deficit strutturale pari a zero.

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econopoly

È il tasso di interesse, bellezza!

di Sergio Cesaratto e Antonino Iero

Pubblichiamo un post di Sergio Cesaratto, professore ordinario di Politica monetaria e fiscale nell’Unione Monetaria Europea, Università di Siena, e Antonino Iero, staff Direzione Regolamentazione e Studi Economici gruppo Unipol* 

http 2F2Fd1e00ek4ebabms.cloudfrontNel pieno della polemica di queste settimane, il commissario europeo Pierre Moscovici ha affermato: “Una manovra che aumenta il debito pubblico che è già 132%, il cui rimborso annuale ammonta a 65 miliardi l’equivalente del bilancio per l’istruzione, e che pesa 1.000 euro a italiano, non è bene per il popolo. È il popolo che paga ed è il popolo che rimborsa. Sono i più vulnerabili” (La Repubblica, 26 ottobre 2018). La ricetta di Moscovici, presentata come puro buon senso dalla maggior parte degli opinionisti, consisterebbe nell’abbattere il debito pubblico per abbattere la mole di interessi. O viceversa? Due cose oltre a tasse e funerale sono certe: le manovre di abbattimento del rapporto fra debito pubblico e PIL sono una fatica di Sisifo, in quanto spesso deprimono il denominatore più che il numeratore. La spesa per interessi non è una “variabile indipendente”, un fattore ineluttabile: i tassi di interesse li fanno le banche centrali e non i mercati, a meno che questi vengano lasciati operare liberamente.

Un altro commentatore, Carlo Bastasin (2018), nel passato spesso molto lucido, ha scritto che alla tesi che l’austerità sia stata responsabile dell’”aumento di circa 33 punti percentuali del debito pubblico tra il 2008 e il 2016, non corrisponde a un’analisi appena approfondita. Sono sufficienti pochi calcoli per verificare che l’aumento del debito è in larghissima parte attribuibile all’incremento della spesa per interessi sul debito stesso. Altri fattori più tecnici (tra cui quasi 4 punti di Pil in aiuti italiani ai Paesi europei in difficoltà) possono aver contribuito, ma è stata la tensione sui tassi d’interesse, causata soprattutto dall’incertezza sulla permanenza dell’Italia nell’euro, a far esplodere il debito”.

Più che con elevatezza del debito, Bastasin sembra prendersela con il timore di una Italexit. Ma il timore dell’Italexit dipende proprio dall’aumento dei tassi, gli spread ormai ben noti anche alla casalinga di Voghera: una volta superata una qualche soglia fatidica – i “pundit” dell’economia nel 2012 parlavano di un rendimento sui decennali al 7%– per un Paese non ha più senso ricorrere ai mercati, ma la solvibilità e la possibilità materiale di pagare stipendi e pensioni potranno essere garantite solo riappropriandosi della stampa della propria moneta.

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senzasoste

Lo spread sul filo del rasoio tra mito e realtà

di Redazione

Spread IT DLo spread oltre la propaganda, la retorica e la campagna elettorale permanente. "Ricordate lo spread del 2011? Bene, chi ha comprato allora, nel 2011, i Btp, alla data di oggi, tra cedole e apprezzamento ha guadagnato oltre il 50% cumulativo. Per pagare il tutto il paese non è fallito ma è stato, semplicemente, tosato. Il governo Conte sta facendo una scommessa simile, offrire un titolo appetibile senza entrare in una zona dove lo stato finisce sbancato, coltivando sostanzialmente il proprio elettorato". "l’Italia in pratica è l'unico paese Ocse che paga rendimenti sui titoli di stato superiori all'inflazione". "Il conto si pagherà. A spese della società italiana, ovvio, ma niente è gratis".

* * * *

Come ampiamente prevedibile la vicenda spread ha catturato l’attenzione politica. Non solo dei soggetti istituzionali ma anche di chi, da differenti posizioni, si occupa di politica. Non è la prima volta che accade, nel 2011 lo spread in poche settimane passò da quota 150 a oltre 500 causando il crollo del governo Berlusconi. E’ la prima volta che accade con un uso consolidato dei social media. Quindi con un radicamento microfisico del tema e della criticità sociale che l’accompagna. Certo, per diversi trader, lo spread a 500 rappresenta solo lo scrollone di un albero che sta comunque in piedi ma, dal punto di vista politico e sociale, è un grosso elemento di fibrillazione.

Nei mesi scorsi, a livello di mainstream, erano circolate due tesi differenti. La prima è che lo spread non era così importante per valutare le finanze di un paese. La seconda, di tipo opposto, è che si stava preparando il grande complotto contro l’Italia.

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coniarerivolta

Pensioni: pensavamo fosse ‘quota 100’ e invece era l’apocalisse (almeno per Boeri)

di coniarerivolta

apocalypse now2Non pago delle infinite dichiarazioni rilasciate negli ultimi anni sui presunti e inesistenti dissesti dell’INPS e le inevitabili riforme pensionistiche restrittive da attuare a raffica, il presidente dell’Istituto previdenziale Tito Boeri, nella sua audizione alla Camera dell’11 Ottobre, torna alla ribalta in veste di guardiano privilegiato del dogma dell’austerità pensionistica. Oggetto del suo inquieto allarmismo è ora il provvedimento annunciato e inscritto nel DEF varato dal governo, noto come quota 100. Di cosa si tratta? Della possibilità di anticipare la pensione rispetto ai criteri oggi vigenti in base alla Legge Fornero approvata nel 2012, usufruendo di una combinazione tra età e numero di anni contributivi, la cui somma ammonterebbe a 100. Ricordiamo che sulla base della legge Fornero, ad oggi, un lavoratore potrebbe accedere alla pensione o tramite vecchiaia ad un’età di 67 anni o, indipendentemente dall’età, con 43 anni di contributi. Criteri ultra-restrittivi rispetto a soli pochi anni fa che, al tempo dell’approvazione della Legge suddetta, provocarono un repentino aumento dell’età pensionabile a gravissimo detrimento di tutti quei lavoratori in procinto di accedere alla pensione negli anni successivi alla riforma. Quota 100, peraltro, non farebbe altro che riportare il sistema, a partire dal 2019, ad un livello di quota che risulterebbe persino più elevata di quella che sarebbe entrata a regime con la precedente Legge Sacconi già pesantemente restrittiva, secondo cui al decorrere dell’anno venturo il sistema avrebbe viaggiato a quota 99, persino un anno sotto la famigerata e temuta quota 100. La Riforma Sacconi prevedeva, infatti, un meccanismo di adeguamento automatico delle quote all’aspettativa di vita e per il 2019 si prevedeva il raggiungimento di quota 99. Non è ancora del tutto chiaro, peraltro, se nel provvedimento del governo quota 100 sia affiancata o meno all’abolizione del meccanismo di adeguamento automatico nel tempo dell’età pensionabile alla vita media attesa stimata.

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eticaeconomia

Gli equilibristi sul filo del deficit che fa scendere il debito

di Roberto Tamborini

dimaio tria governo economia lapresse 2018 thumb660x453La “Finanziaria del popolo” delineata nella Nota di aggiornamento al DEF del nuovo governo suscita molte preoccupazioni e critiche da parte dei partiti di opposizione, esponenti dell’industria e della finanza, numerosi economisti ed esperti, la Commissione europea. La ragione principale riguarda l’impatto del deficit programmato del 2,4% per il 2019 sul già elevatissimo debito pubblico italiano (sebbene nell’ultime dichiarazioni si parli di una successiva riduzione). Ci sono numerosi altri aspetti (più importanti?) della politica fiscale giallo-verde che possono essere discussi, tuttavia qui esamineremo solo questo problema, che al momento appare come il più caldo.

La Commissione europea potrebbe bocciare il piano in quanto, pur rimanendo entro il limite del 3% di disavanzo, esso vìola l’impegno dei paesi ad alto debito a farlo diminuire in maniera adeguata. Il famigerato Fiscal Compact, sottoscritto dall’Italia, richiederebbe un taglio del rapporto debito/Pil di un ventesimo all’anno per la parte eccedente il 60% , vale a dire circa 3,5 punti di Pil per l’Italia. Una cifra del tutto irrealistica, che la Commissione potrebbe non mettere in conto, ma ciò non significa che potrà far passare una manovra che faccia aumentare il debito/Pil. La gran parte dei paesi europei non è disposta a convivere con un condòmino che può far crollare l’intero edificio da un momento all’altro. Alcuni esponenti della maggioranza di governo sono convinti, e vogliono convincere il resto del mondo, che la manovra in disavanzo non avrà effetti sul debito, o potrà ridurlo, grazie al suo effetto sulla crescita del Pil (altri esponenti invece oppongono un ducesco “me ne frego”). L’idea è che se il deficit fa crescere il Pil più del debito, il rapporto debito/Pil scende, i creditori dello Stato italiano si rassicurano sulla sua solvibilità, il famigerato spread non sale, e tutto andrà benissimo. Il miracolo del deficit che fa scendere il debito può succedere davvero?

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micromega

Lo Stato può emettere titoli fiscali senza downgrading per finanziare l'economia

di Enrico Grazzini

10273224L'autunno si profila molto caldo per l'Italia. Il nuovo governo vorrebbe realizzare manovre espansive per contrastare l'austerità ma i mercati finanziari puniscono l'aumento del deficit pubblico. Di fronte ai rischi incombenti di crisi della finanza pubblica, cercherò di dimostrare che l'emissione di Titoli di Sconto Fiscale da parte del governo non solo NON creerebbe un aumento del deficit ma rilancerebbe l'economia nazionale e rafforzerebbe anche il sistema bancario e assicurativo attualmente penalizzato dai rendimenti crescenti dei Titoli di Stato. Inoltre mi propongo di spiegare perché i Titoli di Sconto Fiscale verranno prevedibilmente promossi come investment grade dalle Agenzie di Rating, e quindi saranno accettati dalla Banca Centrale Europea e dai mercati finanziari e, da ultimo ma non per ultimo, potrebbero complessivamente rafforzare il sistema dell'euro[1].

Il governo, il Parlamento e le forze politiche e sociali, i sindacati e la Confindustria, dovrebbero discutere e approfondire questa proposta innovativa, controcorrente ma concreta, e promuovere rapidamente l'introduzione di questa nuova tipologia di titoli di stato. I Titoli di Sconto Fiscale non rappresentano certamente la panacea per tutti i mali ma possono costituire la soluzione più efficace e meno rischiosa per ridare liquidità e ossigeno all'economia reale.

In Italia non mancano le industrie e le capacità di produrre – come testimonia il saldo commerciale positivo verso l'estero -: mancano invece le risorse monetarie per fare ripartire l'economia. Manca il combustibile liquido per fare ripartire gli investimenti pubblici e privati, e i consumi. Il problema contingente è innanzitutto di natura monetaria e creditizia. Per questo motivo lo stato deve assumersi la responsabilità di introdurre strumenti di politica monetaria, pur restando pienamente nel campo dell'euro. Si tratta di mettere benzina in un motore che marcia troppo lentamente per mancanza di carburante.

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coniarerivolta

Contro il ricatto del debito pubblico

di coniarerivolta

Pubblichiamo di seguito il nostro contributo al testo “Giovani a sud della crisi”, curato dai compagni di Noi Restiamo, dove sono raccolti gli interventi del festival Collision // Rompere l’equilibrio. Nel ricatto del debito pubblico trovano una sintesi tutte le lotte che attendono i giovani della periferia d’Europa oggi: che fare?

mito di Sisifo Albert CamusI giovani a sud della crisi lottano ogni giorno per coltivare le loro aspirazioni, rivendicando un presente e un futuro che l’Europa della grande recessione sembra aver affossato definitivamente. Gli studenti medi si ribellano alla beffa dell’alternanza scuola/lavoro – che li vuole sfruttati fin dalla tenera età – mentre i più grandi combattono per sottrarsi al ricatto della disoccupazione, chiedono lavoro, una formazione universitaria di qualità, diritto allo studio e servizi sociali. La risposta che ricevono suona più o meno così: “Bellissime aspirazioni, ma c’è un problema: ognuno di voi nasce con 38.000 euro di debito pubblico sulle spalle, quindi scordatevi il presente, lasciate perdere il futuro e inventatevi qualcosa per iniziare a ripagarlo!”

È la narrazione dominante sul debito pubblico, che ci viene presentato come un mostro che cresce di 70.000 euro al minuto e sembra capace di divorare i sogni e le prospettive dei giovani, fomentando uno scontro intergenerazionale tra padri e figli: quel debito sarebbe il lascito dei nostri padri, che avrebbero vissuto al di sopra delle loro possibilità lasciando a noi il conto salato della loro dissipatezza.

 

Se il problema è il debito pubblico, quale è la soluzione? Che fare?

Due sembrano essere le possibili risposte politiche. Una è la risposta del potere, l’austerità: dovete ripagare tutto, fino all’ultimo centesimo, con tagli alla spesa pubblica, lacrime e sangue sacrificando sull’altare del risanamento dei conti lo stato sociale ed i diritti conquistati. Dall’altra parte della barricata si fa strada l’idea che si debba combattere il mostro anziché arrendersi ad esso e finire schiavi: il ripudio del debito appare come l’unica reazione politica coerente con le lotte sociali di chi combatte per riprendersi il presente e il futuro. Piuttosto che sdebitarci rimpinguando le tasche di banche e speculatori, rispediamo il debito al mittente e andiamo avanti – come se il debito non ci fosse.