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Diritto all’insorgenza

Militant

Solidarietà a tutti gli arrestati di sabato, a tutti i perquisiti nei giorni seguenti e soprattutto alle strutture politiche e sociali colpite dalla magistratura o criminalizzate dai media. Le lotte sociali non si processano, per il diritto all’insorgenza di tutte e tutti!

Le infinite discussioni avviate dopo i fatti di sabato hanno sviscerato fino all’ultima postilla tutto ciò che è accaduto. Eppure rimane ancora la sensazione di qualcosa che non torna, che non convince.

Partiamo dal corteo. Prendiamo come cifra simbolo della manifestazione quei trecentomila di cui tanti hanno parlato. Bene, al di là delle strutture organizzate, specie di movimento, che avranno portato in piazza sì e no diecimila o ventimila persone (e ci teniamo molto larghi), la stragrande maggioranza dei manifestanti erano singoli individui che manifestavano, non organizzati in nessuna struttura politica – partito, sindacato o centro sociale che fosse. Questo è un dato di cui tenere conto.

Altra considerazione è che non si trattava di una manifestazione di classe. Non sono scesi in piazza i lavoratori, variamente intesi, o il precariato; non si trattava neanche di una manifestazione che partiva da una piattaforma di appoggio a una qualche lotta sindacale, lavorativa, sociale, ambientale o territoriale. Certo, in piazza c’era anche questa componente, ma era, questa sì, minoritaria, non tanto o non solo nei numeri, ma soprattutto nelle rivendicazioni e nella visibilità politica.

Ma allora cos’è sceso in piazza sabato? Sabato la piazza è stata caratterizzata da un vasto movimento d’opinione, che da qualche settimana si va radunando e si descrive come movimento degli indignati. Un movimento d’opinione che racchiude tutto ciò che ha partecipato alle proteste in questi ultimi due o tre anni.

Studenti, tantissimi, e poi il Popolo Viola, anch’esso presente in massa; cittadini più o meno democratici, lettori di Repubblica, gente esausta del ventennio berlusconiano. Poi ancora, quel vasto mondo del precariato cognitivo, laureato ma disoccupato o, appunto, precario. Questo costituiva il grosso della manifestazione. C’erano i lavoratori, ovvio, e ce n’erano tanti, ma in rapporto al corteo assolutamente marginali (quantomeno marginali politicamente). C’erano i centri sociali e le organizzazioni della sinistra radicale, ma anch’esse assolutamente minoritarie numericamente e politicamente.

Insomma, il corteo di sabato e le proteste delle scorse settimane sono state attraversate da tutto il mondo della politica, dall’API di Rutelli ai CARC o ai centri sociali più radicali, ma l’impronta politica, numerica e sociale che ne ha caratterizzato la composizione e le rivendicazioni politiche era formata senza dubbio da quella componente appena descritta. Sinceri democratici, lettori di Repubblica o del Fatto Quotidiano, assolutamente eterogenei socialmente ma uniti da uno spirito di indignazione, appunto, verso il mondo della politica italiana. Infastiditi dalle banche e dall’invasione della finanza nelle nostre vite, ma assolutamente compatibili a questo modello di sviluppo; sfiniti da Berlusconi ma poi sostanzialmente elettori del PD, o dell’IDV o al massimo di SEL; tutt’al più, grillini. E infatti l’area politica di Repubblica è proprio quella rimasta più scandalizzata da questi fatti, che ne ha più da perdere e che in questi giorni si è caratterizzata del più feroce accanimento verso chi non ha scelto la via della manifestazione pacifica. E’ Repubblica ad essere colpita politicamente da questi scontri, più di ogni altro quotidiano, partito, sindacato o centro sociale. E, con Repubblica, quelle componenti politiche che le ruotano attorno: PD, IDV e SEL.

Qual è il problema di tutto questo? Il problema non sussisterebbe, se le strutture di movimento e della sinistra radicale interagissero con questo variegato movimento d’opinione “attraversandolo” e cercando di carpirne il buono che sicuramente porta questa ventata di partecipazione, senza esserne condizionati. E invece è accaduto proprio questo: invece di condizionare con i propri (con i nostri) contenuti le opinioni dei manifestanti, molte strutture ne sono rimaste impelagate, facendosi condizionare, politicamente e non solo.

Una volta si diceva che le “avanguardie” non avrebbero dovuto mai perdere il contatto con le masse, e anzi cercare di esserne il più possibile influenzate e condizionate. Ma le masse a cui si faceva riferimento facevano parte della classe che si voleva “guidare”, e se esisteva una frattura fra le organizzazioni e la classe erano le strutture che dovevano capire dove e quale era il problema. Ed è un discorso che vale ancora oggi, anzi oggi più che mai.

Oggi, o almeno sabato, non c’è stata però nessuna classe che è scesa in piazza, ma un eterogeneo e variegato insieme di persone che manifestava il proprio sdegno nei confronti della politica. C’era il precario, certo, ma accanto al cameriere precario manifestava il precario della conoscenza in attesa di divenire professore associato. C’era il lavoratore, ma a fianco all’autista dell’ATAC c’era l’architetto, o il magistrato. C’era lo studente, ma a fianco a quello del tecnico industriale della Tiburtina c’era lo studente del Mamiani o del Tasso. Cosa accomuna tutta questa gente? Nulla, se non un insieme incoerente di opinioni contro il PDL e l’egemonia della finanza, e con un insieme di proposte assolutamente velleitarie e incolori.


A questo punto si apre un ulteriore problema. Tutte le analisi, i commenti, le discussioni e i comunicati post 15 Ottobre partono dal presupposto di come non perdere tutto ciò che si è mobilitato in queste settimane, che oggi è spaventato e deluso dalla violenza di piazza. Di come continuare a lavorare con questa partecipazione mobilitata, senza perdere percorsi e progetti in fieri. Insomma, come tenere dentro tutto, senza operare dei discernimenti. I chiarimenti e i “regolamenti di conti” (come qualcuno continua a minacciare) non vengono fatti fra una parte delle organizzazioni e quella piazza, ma fra soggetti politici in scazzo fra loro per chi vuole preservare l’unità di quella manifestazione.

L’unità di classe era, ed è, una risorsa cui tendere sempre. Ma l’unità d’opinione no. Per fare il passo avanti bisognerebbe chiedersi: cosa di quella piazza può continuare ad essere il nostro soggetto di riferimento, e cosa invece dovrà adeguarsi, oppure lasciar perdere e manifestare in altri posti e con altri argomenti? E’ possibile che per tenere dentro il Popolo Viola e la magistratura perdiamo interi pezzi di organizzazioni che portano avanti tutti i giorni le lotte sociali, quelle vere, non quelle d’opinione? Quelle lotte che poi finiscono per essere colpite da quegli stessi magistrati che poi si “indignano” insieme a noi? E’ possibile che per tenere dentro De Magistris si perda il valore e la solidarietà della lotta contro la TAV? Gli specchi su cui si sta arrampicando chi oggi criminalizza gli scontri di sabato, ma cerca di salvare gli scontri in val di Susa, sono sempre più inclinati. Certo, quella conflittualità ha un enorme appoggio popolare assolutamente diverso da ciò che è avvenuto sabato, ma chi porta avanti quelle lotte è lo stesso soggetto che sabato praticava il conflitto. Così come porta avanti le lotte sociali a Roma, a Napoli e altrove. Nessun infiltrato era presente sabato, lo ripetiamo per l’ennesima volta, e nessun soggetto politico estraneo allo spirito di quel corteo. Operare oggi questi distinguo significa solo facilitare la repressione, e, di passaggio, non capirci un cazzo di movimenti e di politica.

E’ un segno anche dei tempi, quello di non avere la forza di orientare le opinioni dei manifestanti, ma lasciarsi contaminare dagli “opinionisti”. E’ una lettura fallace e deleteria del concetto d’egemonia, per cui tutto ciò che tende alla maggioranza, o proviene dalla maggioranza delle persone, è buono e giusto. E’ il concetto di Berlusconi e della Lega, quella per cui non sono le organizzazioni politiche a unire la classe, o la cittadinanza, ma la cittadinanza a influire politicamente sulle strutture politiche. Il tutto, lo ripetiamo, senza avere a che fare con una classe di riferimento, ma con una massa indistinta di opinioni contrastanti, e che socialmente non potrebbero essere le più distanti.

Dunque il nostro dibattito non dovrebbe essere influenzato da come ha reagito la massa di manifestanti sabato, semplicemente perché quella massa di manifestanti è la stessa che si indigna per le occupazioni delle case, per i picchetti davanti alle fabbriche, per gli scioperi, per la conflittualità sociale, per le  manifestazioni antifasciste, insomma, per tutto ciò che contraddistingue il nostro modo di fare politica, per tutto ciò che tende al cambiamento e al miglioramento sociale.

Non è la classe che ci condanna e prende le distanze da noi, ma soggetti sociali a noi contrapposti e a cui stavamo sulle palle già prima. Che, per una certa contingenza politica, abbiamo voluto ascoltare e attraversare, ma che non sono il nostro punto di riferimento sociale (e men che meno politico). Continueremo ad attraversarle, ovviamente, e bisognerà anche tenere presente le loro opinioni, ma non possiamo rimanerne succubi, cercando nelle nostre analisi di rimanere aggregati a quella componente, perdendo però interi pezzi di lotte sociali e di organizzazioni che praticano la lotta politica e organizzano la conflittualità sociale. La linea di tenuta oggi è sulla solidarietà alle strutture e ai compagni coinvolti nella repressione. Chi non ci sta e si smarca, favorendo o augurandosi la criminalizzazione di parti del movimento, per noi è fuori dal perimetro del dialogo possibile.

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