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Il caos planetario

[Ho da poco pubblicato la seconda edizione, ampiamente riveduta e aggiornata, del mio La tribù occidentale, che apparve da Bollati Boringhieri nel 1995. Il nuovo libro, edito da Rosenberg&Sellier nella collana “La critica sociale”, si intitola Un illuminismo autocritico. La tribù occidentale e il caos planetario. Presento qui un ampio estratto dall’introduzione (rg)]

Il presente caos storico è una congerie ormai conclamata di storie frammentarie, al cui interno un Occidente che in quanto concetto geopolitico non si sa più nemmeno dove cominci e dove finisca, gioca un ruolo particolare tra altri. La condizione contemporanea è quella in cui l’universalismo di stampo illuministico cede non nell’urto con una contestazione nel suo stesso ambito (come durante il processo di decolonizzazione negli anni sessanta del Novecento, critica e insieme autocritica del «mondo illuminato»), quanto sotto una dinamica implosiva indotta dall’esterno, originata soprattutto dalla ripresa islamica che, nelle sue pur varie forme, ha i tratti di un universalismo uguale e contrario.

Ma due universalismi sono soltanto due particolarismi. Dall’11 settembre 2001, e da quel che ne è seguito, niente meglio che il cattolicesimo conservatore di Ratzinger illustra questa riduzione dello spirito dell’Occidente spinto a chiudersi su se stesso, a opporre il particolarismo al particolarismo, facendo della religione né più né meno che il rito della «tribù occidentale». D’altronde c’è, si può trovare, una logica nel caos? Se c’è, non può che essere quella del paradosso. A differenza della contraddizione, infatti, il paradosso implica un movimento immobile, un’oscillazione costante e infinita tra i corni di un dilemma che si ripropone ogni volta di nuovo: non c’è soluzione ma un’impasse che si autoalimenta di continuo. Il caos non sembra lasciarsi pensare altrimenti che bloccato dalla sua stessa altissima indeterminazione, dalla stessa sovrabbondanza dei possibili al suo interno.

Nel caos storico il dilemma di volta in volta oscillante (e bloccante) è quello tra possibilità equivalenti che, poste in precario equilibrio reciproco, restano altrettanto irrealizzate o solo parzialmente realizzate. Una filosofia della storia che ne faccia propria la logica sarebbe un’antifilosofia della storia del tutto contraria a una prospettiva come quella di Hegel, incentrata invece sulla razionalità intrinseca a uno svolgimento temporale unilineare e, tutto sommato, pur nelle sue asperità, ordinato. Che l’Africa sia fuori dalla storia e ci resti, che la Cina, con l’antico dispotismo patriarcale, sia un mondo immobile, o che l’India con la sua religione sia fissata nell’immaginazione e nel sogno, sono in Hegel tutte formulazioni tese a mostrare che lo «spirito del mondo», se anche in tempi lontani transitò per quei lontani paesi, non è riuscito a mettervi le tende come in Europa. Lo spirito può essere bloccato solo quando riprecipita nella sua dimensione naturale, o se a questa semplicemente si giustappone, come avviene però soltanto nelle culture «altre». Universalità dello svolgimento storico e alterità naturale particolare sono in Hegel la contraddizione dialettica stessa: ed è grazie all’esaltazione di uno spirito capace di dominare la natura che l’Occidente la spunta risolvendo la contraddizione. Un modo, quindi, per scaricare sull’«altro» un’impasse che può essere invece considerata costitutiva della storia stessa dell’Occidente moderno.

Proprio in questa alberga ciò che è bloccato. Lo sforzo di ridurre il mondo a un’unica dimensione che si vuole universale, sia con la dominazione coloniale sia con quello che oggi si chiama soft power (ossia con la propria capacità d’influenza), non ha condotto al successo di quel tentativo (e in questo senso sotto il termine molto usato di «globalizzazione» si cela piuttosto il fallimento della storia universale che il suo compimento) ma a qualcosa di molto diverso: al compromesso di una storia particolare con altre storie particolari, all’ibridazione di tempi storici eterogenei – arcaico-tradizionali e moderni – e, in definitiva, alla mescolanza caotica del presente con il passato in una maniera che, dal punto di vista progressista classico, può segnare soltanto la chiusura di ogni futuro e di ogni progresso. In altre parole, la vanificazione del sogno «giacobino» (intendendo con questo termine, nel senso più ampio, la radicalità di uno spirito attivistico collegabile direttamente all’illuminismo storico).

Oggi gli aneliti di libertà e rivoluzione radicale nascono già catturati dal paradosso. Finanche autentici momenti di rivolta sono presi nella simbiosi con il passato, contaminati dalla presenza di una cultura egemonica di tipo per così dire neotradizionale, che ripropone l’antico come soluzione per il futuro: il che non accadeva, o almeno non era manifesto, ai tempi della liberazione dell’Algeria dalla dominazione francese, per esempio. Tunisia, Libia, Egitto, Siria: quattro figure odierne, diversamente conflittuali, del perdurante paradosso introdotto nella storia in primis dalla modernità occidentale e dalla sua pretesa universalistica. Quale il significato dei sollevamenti che – a partire dal 17 dicembre 2010, giorno del suicidio con il fuoco di Mohamed Bouazizi che dava inizio alla ribellione tunisina – hanno determinato, con un rapidissimo contagio, mutamenti di ampia portata in paesi da tempo chiusi al cambiamento?

È un significato che va attentamente analizzato. Parlare di un’affermazione pura e semplice della democrazia sarebbe semplicistico. In Tunisia, il paese più occidentalizzato tra quelli in cui sono avvenuti i mutamenti, un movimento di tipo sindacale, duramente represso, aveva aperto le ostilità contro il regime di Ben Alì già nel 2008. Il contesto sociale era quindi preparato alla rivolta. Ma nelle prime elezioni libere il successo del partito islamista Ennahda, che ha conquistato la maggioranza relativa nell’assemblea costituente, come dev’essere interpretato, specialmente se si considera che una tendenza più radicale salafita preme su questo partito dall’esterno con disordini e violenze? Siamo di fronte a un progresso o a un regresso? O forse a un progresso-regresso (espressione, questa, di evidente imbarazzo)? Sul carattere regressivo di questo «progresso» non hanno avuto dubbi le donne andate in piazza a protestare contro il progetto di nuova costituzione (non ancora adottata nel momento in cui scrivo) in cui la «parità» era stata sostituita dalla «complementarità» tra l’uomo e la donna. Questa formulazione, successivamente abbandonata grazie alla mobilitazione delle donne, avrebbe condotto la Tunisia indietro rispetto all’eguaglianza di genere sancita dalla costituzione del 1956, varata all’indomani dell’indipendenza dalla Francia. Si direbbe che l’alternativa, come nell’Algeria del 1992, sia tra un regime corrotto ma laico, che affonda comunque le radici nel processo di decolonizzazione (lo stesso Ben Alì non era che un generale golpista proveniente dall’ambiente politico del presidente deposto, il vecchio leader Bourguiba), e il baratro islamista, con tutto quanto comporta in materia di revoca, parziale o totale, della differenziazione delle sfere sociali, in particolare tra quella religiosa e quella giuridica. È il paradosso arabo-musulmano contemporaneo. Né le istanze progressive di libertà e democrazia né quelle puramente regressive sembrano al momento prevalere in Tunisia: ed è prevedibile che, nell’immediato, la situazione resterà di stallo. Del resto la probabilità di un arretramento della condizione femminile, pur essendo una minaccia grave, non è neppure il criterio di giudizio ultimo. Dirigenti e militanti del partito Ennhada hanno conosciuto l’esilio e anni di carcere: a giusto titolo sono da considerare degli eroi – non soltanto per la loro fede religiosa, ma anche per la tenace capacità di resistenza –, mentre la laicità filoccidentale del clan di Ben Alì consisteva in una corrotta subalternità postcoloniale, che di fatto aveva cancellato un’indipendenza faticosamente conquistata.

La prevalenza di élite di potere, militari o dinastiche, nei paesi del Maghreb e dell’area mediorientale, per lo più legate allo sfruttamento delle risorse petrolifere, è l’esempio di una sostanziale eterogenesi dei fini. Il processo di decolonizzazione non ha dato i risultati sperati: e questo sia in un’ottica occidentale liberale sia in una più radicale come quella di Frantz Fanon, teorico della liberazione dei popoli oppressi e militante della causa algerina. Il rapporto padrone-servo, già indagato da Fanon a proposito della relazione di potere coloniale, si è trasformato in quello tra un liberto che spadroneggia, spesso collaborando con gli antichi padroni, e un servo rimasto servo. È il significato dei Gheddafi, dei Mubarak, prima ancora dei Saddam, oggi di Bashar al-Assad: tutti questi personaggi, folcloristici e mostruosi, sono il risultato non di una occidentalizzazione pura e semplice dei rispettivi paesi (come ritengono molti e tra questi, in primo luogo, i militanti islamisti), ma di una cattiva e imperfetta decolonizzazione, di una determinata risposta creolizzante della cultura locale all’Occidente, che ha comportato una modernizzazione distorta e uno sviluppo economico (del resto relativo) staccato da una ridistribuzione del reddito e dal progresso sociale. […]

Il mondo contemporaneo – lo si osserva anche altrove, per esempio nella Russia di Putin o in Cina – non presenta un movimento proteso verso un avanzamento di marca otto-novecentesca, con l’eccezione, forse, di quel gruppo di paesi dell’America latina in cui negli ultimi anni si sono affermati governi classicamente progressisti. Che ciò sia potuto avvenire, del resto, va messo sul conto di un certo sganciamento di quell’area dagli interessi strategici degli Stati Uniti dopo la fine della guerra fredda. Il che non è avvenuto per la zona mediorientale, che resta la maggiore produttrice mondiale di petrolio. Da qui l’Occidente potrebbe ritirarsi, infatti, solo se fosse capace di riconvertire completamente il proprio modello di sviluppo e le fonti energetiche di cui si serve: in breve, soltanto con una rivoluzione ecologica. Fino a quel momento i destini arabo-musulmani resteranno, in un modo o nell’altro, intrecciati con quelli dell’Occidente: e ciò avrà l’effetto di restringere gli spazi delle istanze di libertà e democrazia, perché, in reazione agli interessi occidentali, l’islamismo non potrà che rafforzarsi. Se invece l’Occidente allontanasse i propri interessi vitali da quella regione del mondo, la sua influenza culturale indiretta non potrebbe che aumentare: e sarebbero le tendenze liberali e di sinistra interne a quei paesi a giovarsene.

S’intravede così con chiarezza il paradosso dell’Occidente contemporaneo, in via d’indebolimento ma ancora troppo forte per riuscire a riguadagnare in altro modo una forza che ormai solo una definitiva debolezza potrebbe dargli. Tramontare sarebbe la maniera di risorgere: significherebbe acquistare un’apertura al mondo grazie a una nuova consapevolezza circa il carattere fallimentare della pretesa di una proiezione universalistica sul mondo.

È un po’ la quadratura del cerchio che si propone come compito utopico all’Occidente: non essere più se stessa, trasformarsi in qualcos’altro, promuovere una sorta di esperanto globale in cui la prospettiva di una società mondiale diventi per la prima volta effettiva perché liberata dall’universalismo illuministico e dall’idea di una conciliazione finale della storia entro un impero planetario: non un unico governo mondiale, dunque, ma una confederazione di tempi storici arcaico-tradizionali e moderni, che, anche senza assumere la figura di una federazione di Stati (secondo il progetto kantiano), avrebbe quella di una coesistenza di forme di vita nella loro differenza reciproca. Sarebbe il compito di un’approssimazione all’infinito, di un’utopia che per definizione non può mai conchiudersi. E sarebbe il momento di un pensiero scettico-relativistico capace di porre non tanto la verità, con i suoi dogmi, quale punto di riferimento del movimento storico, quanto l’impensato come un indeterminato di volta in volta pensato. Ciò significa tenere d’occhio non il progresso in generale, come in una visione storicistica della storia, ma i progressi al plurale, quelli che possono derivare da situazioni di sovrabbondanza dei possibili in modo spesso inaspettato: da un aumento della speranza di vita al momento della nascita (nel senso, quindi, di uno sviluppo economico che abbia una ricaduta come benessere diffuso), alla presa di coscienza collettiva da parte delle donne di una comunità africana in ribellione contro l’usanza delle mutilazioni sessuali femminili.

A ben vedere, consiste proprio nel ridefinire i costumi di qualsivoglia cultura, nel rifiuto di sottoporvisi passivamente, la caratteristica comune dell’esperanto da costruire. A questo fine sarebbe del tutto fuorviante, com’è ovvio, l’idea di un consesso di dotti che scegliessero il «meglio» delle varie culture per proporne una unificazione a tavolino. È piuttosto attraverso una pluralità di conflitti sociali determinati, non riducibili a unità, che un nuovo esperanto potrebbe farsi strada. È un socialismo relativistico mondiale, quello che una siffatta congerie di lotte potrebbe arrivare a esprimere: dove «socialismo» sta per «contributo occidentale moderno alla (presunta) storia del mondo» e «relativistico» indica, con una tensione di segno opposto, l’apertura a tutte le storie particolari. Il pensiero politico liberaldemocratico, per tacere di quello conservatore, ha dimostrato nei fatti di non sapersi districare nel caos odierno; soltanto una rinnovata idea di socialismo potrebbe contribuire a uscirne.

In primo luogo il socialismo – la sua stessa storia lo dimostra – non è, non è mai stato, piattamente universalistico. Nato dal cuore della questione sociale europea otto-novecentesca, esso è la componente che, dall’interno dell’universalismo illuministico,  sottolinea il carattere particolare cui questo si riduce se non riesce a oltrepassare il carattere ristrettamente borghese della sua prospettiva. Ma nella proposta iniziale di un ampliamento dell’universalismo – anche attraverso la lotta per il riconoscimento dei diritti sociali e per un allargamento delle basi della democrazia – il socialismo fa valere a sua volta una sensibilità per il particolare, appunto per la specificità della questione sociale. In quest’ottica può darsi universalismo solo grazie alla contestazione di un particolare contro un altro particolare. È questa dinamizzazione introdotta nella storia europea l’antefatto del passaggio ulteriore, che resterebbe da compiere, verso la presa in carico della particolarità di tutte le identità culturali come formazioni da rompere non nel segno della costruzione di un universale più ampio, ma in quello di un relativismo che faccia di ciascuna cultura, evitando di elevare quella occidentale ad abc della civiltà, il punto di appoggio teorico di una pluralità di conflitti sociali svincolati dalla pura tautologia delle identità che affermano e riaffermano se stesse.

In secondo luogo una prospettiva socialista, non ridotta in senso economicistico, è l’unica capace di confrontarsi da pari a pari con le religioni. Il suo materialismo integrale è quanto di più vicino si possa immaginare alla dimensione teologica della redenzione. Nel momento in cui polemizzava con la religione (che oggi, anziché l’oppio dei popoli, è diventata la loro cocaina se si pensa agli effetti di effervescenza politica che provoca), il socialismo ne assumeva l’eredità come utopia concreta, nei termini di un’alternativa che era anche una forma di concorrenza. L’odierna ripresa religiosa su scala mondiale è in fondo proprio la conseguenza del venir meno di un socialismo servito male, in salsa burocratica e dispotica. Il tempo di un rilancio del socialismo, su basi democratiche partecipative, sarebbe giocoforza quello in cui le religioni indietreggerebbero, a iniziare dalle correnti che sembrano avere fatto della guerra perpetua il loro credo.

Nell’attesa, che rischia tuttavia di durare a lungo, ci sarebbe da coltivare lo spirito di tolleranza mediante le armi della politica democratica e della diplomazia internazionale. La tolleranza – come intendono mostrare le ultime pagine di questo libro – non è un espediente puramente liberale per cavarsi d’impaccio di fronte alla potenziale violenza di un interlocutore fanatico; è la precondizione stessa di un internazionalismo oggi – da basare non più, come in passato, su un universalismo affermativo ma su uno negativo, cioè consapevole del fatto che, denominatore comune delle culture, è soltanto la circostanza che tutte escludono alcuni aspetti assumendone altri come elementi di un’autoconsistenza olistica. Dinanzi a quest’arroganza identitaria sempre in agguato, l’idea di una società mondiale, costruita a partire da una pluralità di conflitti sociali che spezzino le culture dall’interno, è l’antidoto alla minaccia che esse costituiscono. È un’idea occidentale ma al tempo stesso non lo è. La prospettiva di un conflitto interno riguarda infatti lo stesso Occidente, e ne riprende la volontà d’influenza solo a patto di assecondarne in maniera autocritica il lento declino. Palese il paradosso di questo tentativo estremo: così, tuttavia, i corni del dilemma di una cultura particolare, tra il sopravvivere negandosi e il perire affermandosi, si lasciano pensare nella loro oscillazione. Se è soprattutto altrove, nel mondo segnato sulle antiche carte con un hic sunt leones, che il paradosso è una bilancia con i piatti del progresso e del regresso in equilibrio reciproco, in Occidente esso prende la forma di un’autodistruzione mitridatizzata, a piccole dosi, che può aprire alla speranza.

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