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moneta e credito

Kindleberger e l’instabilità

Pierluigi Ciocca*

Affinità elettive: la mia “simpatia” verso il Kindleberger economista[1] nasce, oltre che dalla ammirazione per l’erudito, dalla condivisione di almeno due dei criteri di metodo da cui egli muoveva.

L’economia politica è interessante, nelle sue stesse espressioni più astratte, nella misura in cui effettivamente aiuta a comprendere ciò che è accaduto, accade, potrà accadere al benessere materiale degli uomini riuniti in società. Questo è il senso vero della disciplina, il suo principio ispiratore.

Il secondo criterio coincide con la constatazione che “non c’è una teoria economica, o un modello che siano buoni per tutti gli usi, che illuminino l’intera storia economica”[2]. L’eclettismo teorico è quindi preferibile al monoteismo teorico allorché ci si pone di fronte ad accadimenti o a tratti strutturali d’ordine economico della società con la dichiarata intenzione di spiegarli. Penso a un eclettismo critico, dei distinguo, capace di sceverare fra gli strumenti offerti dalle diverse, spesso confliggenti, famiglie di teorie i più idonei ad affrontare la specifica questione fatturale a cui l’indagine si rivolge. Un eclettismo, quindi, che presuppone padronanza e cognizione di potenzialità e limiti di più d’una teoria, se non dell’intero “libro” della economia politica, e che sia alieno dal tentare improbabili mediazioni fra esse.

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Tempus fugit

Bimbo Alieno

Il tempo è una dimensione sorprendentemente elastica: può essere dilatato, compresso, esteso talvolta addirittura fermato. Le dimostrazioni scientifiche e le spiegazioni teoriche ci sono arrivate dalle più brillanti menti della Fisica del ‘900. Le dimostrazioni in campo finanziario si sono preoccupati di regalarcele, con particolare generosità, prima Alan Greenspan e ora Ben Bernanke.

Attraverso l’utilizzo della leva dei tassi, del QE, delle agenzie di rating, degli editoriali di influenti media finanziari, della pochezza del Congresso su tematiche strettamente “tecniche”, della “printing press”, ecc. ecc. Greenspan e Bernanke hanno rimandato, e qualcuno ritiene addirittura eliminato, il momento di quel collasso di sistema che alcuni pronosticavano come prossimo, inevitabile.

Chiaramente qualunque opzione è valida quando il tema è “c’è un guaio enorme che chiede di essere risolto qui e ora” e la risposta di Alan e di Ben più o meno è sempre stata orientata a far sì che il “qui” diventasse “anche laggiù e là in fondo” e “ora” diventasse un “magari dopo”.
Buchi? stampando denaro li coprirò, pagheranno le generazioni future con l’inflazione (non ora).

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Vizi metodologici e ideologie neoliberiste

Gennaro Zezza*

Il recente articolo di Roberto Perotti (Il Sole 24 Ore, 18 luglio) a commento dell’intervento di Canale e Realfonzo (Il Sole 24 Ore, 15 luglio) accentua una visione caricaturale del dibattito tra gli economisti, creando forse qualche confusione [1]. Perotti inizia affermando – giustamente – che identificare il “neo-liberismo” con una metodologia di analisi basata sull’ipotesi che gli individui siano razionali, e i mercati efficienti è una caricatura della realtà, in quanto gli sviluppi moderni della teoria economica sono dedicati allo studio delle situazioni in cui i mercati non funzionano ed è quindi necessario un intervento correttivo. Adottare la metodologia “dominante” non vuol dire essere neo-liberista, tanto che tale metodologia è usata dalla “scuola di Chicago” quanto dai neo-Keynesiani. Che questa sia la metodologia dominante lo ha argomentato autorevolmente Olivier Blanchard, in un articolo del 2008 sullo “stato della macroeconomia” che, sosteneva, “is good”. Ma a conclusione del suo articolo, in modo a mio avviso caricaturale, Perotti divide il mondo degli economisti tra i “neo-liberisti”, che verificano con i dati le loro ipotesi, e i loro critici, che, guidati solo dall’ideologia, volutamente ignorano il funzionamento del capitalismo moderno perché ritengono che vada soppresso.

A me sembra invece che, prescindendo – ma non troppo! – dalle ideologie, vi sia un problema con la metodologia dominante, e un problema del “neo-liberismo”. Che lo stato della macroeconomia non sia buono lo ha rilevato già Paul Krugman (New York Times Magazine, 2.9.2009) a commento dell’articolo di Blanchard.

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Il pluralismo che blocca il pensiero critico

Riccardo Bellofiore

AA. VV. IL CAPITALISMO INVECCHIA?, MANIFESTOLIBRI, PP.140, EURO 22

Nel mezzo della crisi il manifesto intervistò 14 economisti. Con altri interventi, l'iniziativa è ora un libro a cura di Cosma Orsi, con prefazione di Alberto Burgio, postfazione del curatore, e un testo prezioso di Paolo Sylos Labini commentato da Giorgio Lunghini. Il volume «naviga» tra molte interpretazioni. Il titolo, Il capitalismo invecchia?, è singolare. Il capitale è un «morto vivente»: si rianima succhiando lavoro vivo, ringiovanendo (lo ricorda Vladimiro Giacché) proprio grazie alle crisi. Il quesito è: che crisi è questa, di quale capitalismo? Il manifesto non è nuovo a dibattiti del genere, né si è accorto con ritardo della crisi (come molti degli intervistati). Parlato, presentando le interviste, scrisse che il manifesto «sa poco di economia». In realtà la pagina capitale e lavoro ha coperto esemplarmente lo tsunami finanziario e reale dall'agosto 2007. Lo stesso Parlato pubblicava nel 1974 Spazio e ruolo del riformismo. Oggi leggiamo punti di vista che si affiancano senza dialogare davvero. Allora la discussione partiva un punto di vista definito. Oggi, pluralismo eclettico di monologhi. Ieri, pluralità di punti di vista dialoganti.

Com'era il dibattito, da metà Novanta sino al 2007? Si contendevano il campo due letture. Una, stagnazionistica, si appoggiava o sulla caduta del saggio del profitto (da aumento della composizione del capitale) o sul sottoconsumo (da bassi salari). L'altra insisteva sulla dinamicità di un Impero esente da crisi, l'economia della conoscenza e una cooperazione sociale immediata. Entrambe duramente smentite. Si è proceduto come se niente fosse, a furia di seconde globalizzazioni e golpe nell'Impero. Il pensiero critico è così arrivato impreparato alla crisi.

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marx xxi

Crisi economica e derive autoritarie.

Vladimiro Giacché

I presupposti economici dell’attacco alla Costituzione

 Relazione per il Convegno dell’Associazione Marx XXI “
Neoliberismo, crisi e attacco alla Costituzione” (Roma, 12 giugno 2010)
 

1. Cominciamo dalla fine

Cominciamo dalla fine: cioè dalla proposta di Tremonti di stravolgere l’art. 41 della Costituzione per favorire la libertà d’impresa e d’intrapresa.
Vale la pena di farlo non soltanto per restare legati all’attualità.
Ma perché gli slogan con cui questo attacco è stato condotto ci dicono molto.

L’opposizione è, da un lato, tra:

- libertà (d’impresa)
- semplificazione
- mercato.

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Debito pubblico, l'unica razionalità

Riccardo Bellofiore

La crisi mette in difficoltà anche le teorie economiche. Con risultati singolari, come ad esempio l'intervento di Jeffrey Sachs sul Financial Times («È ora di fare un piano per il mondo dopo Keynes»), che sembra cancellare una serie di fatti.

La crisi del debito «sovrano» è dovuta alla semplice circostanza che il debito privato (dopo il caso Lehmann) è stato trasferito all'operatore pubblico, a cui si è chiesto senza limiti di salvare il sistema bancario e finanziario. L'esplosione dei disavanzi non è stata affatto «keynesiana», perché le misure di stimolo all'economia reale sono state compresse ed effettuate in minima parte, per salvare l'economia di carta. Anche in Europa, e persino in Germania, ci sono state misure anticicliche, in buona misura grazie alla presenza di stabilizzatori automatici, in parte per sostegni temporanei a imprese e lavoro, abbandonati ai primi germogli di una supposta ripresa. Questo abbandono e le misure di selvaggia restrizione dei bilanci pubblici in Europa sono un errore che tutti pagheranno caro. Far finta di non sapere che l'indebitamento irlandese, spagnolo o greco è l'altra faccia degi avanzi tedeschi e olandesi, poi, più che ignoranza, pare un crimine. Irlanda e Spagna erano gli allievi modelli dell'Europa sul piano fiscale, quando le cose andavano bene.

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cigno nero

Inflazione virtuale e crollo reale

di Leon Zingales

(di seguito Quel che resta del giorno di Giuseppe Sottile)

Bernanke, tramite il processo di Quantitative Easing, ha dato fiato al sistema finanziario ormai malato terminale acquistando asset tossici. Tenendo sotto controllo la massa M1 ha impedito che l’economia reale fosse spazzata da una iperinflazione distruttrice. Forse crede di aver determinato una valida exit strategy, ma non ha valutato la creazione di un’inflazione virtuale sui mercati finanziari.

Nell’ambito dell’attuale crisi sistemica necessita un radicale mutamento del paradigma di riferimento. Gli stessi concetti di inflazione e deflazione devono essere interpretati in una nuova luce. Sembra incredibile, ma i dati rivelano chiaramente che siamo di fronte ad una pericolosa coesistenza tra inflazione (nei mercati finanziari) e deflazione (nell’economia reale).

Bernanke durante la propria carriera accademica si è dedicato allo studio della crisi del 1929 ed ha chiaramente compreso come tale crisi sia stata enfatizzata dalla lentezza con la quale reagirono le autorità monetarie dell’epoca. Talvolta la vita gioca brutti scherzi: è divenuto presidente della FED in prossimità proprio dell’avvento di una possibile apocalisse finanziaria. Tutto può dirsi, eccetto che Bernanke non si sia mosso rapidamente (a prescindere dal giudizio sul suo operato). Non mi riferisco alle mosse sui tassi note al grande pubblico, ma ai comportamenti evidenziabili in base a quanto traspare dai bilanci della FED [1].

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L’italica debolezza  

di Massimo D'Antoni

Ho trovato molto stimolante la lettura dell’articolo apparso ieri in prima pagina del Corriere, a firma Michele Salvati. Salvati punta il dito sulla bassa crescita della nostra economia, che non nasce certo con la recente crisi, e dichiara la sua meraviglia per il fatto che su questo problema centrale “non rimanga permanentemente concentrata l’attenzione dei media e del governo, per non dire degli economisti italiani, che dovrebbero considerarla come la più grande sfida interpretativa da affrontare”.

Credo che dovremmo, tutti quanti, ciascuno dall’angolo offerto dalla propria sottospecializzazione disciplinare, raccogliere questa sfida. Qual è la natura della “malattia” dell’economia italiana? Quali le prospettive? Quali le possibili cure?

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Dall'euforia al panico

di Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli

[In occasione dell'uscita del volume di André Orléan, Dall'euforia al panico Pensare la crisi finanziaria e altri saggi (Ombre Corte, Verona 2010, pp. 160, € 15,00) anticipiamo parte dell'introduzione]

1. André Orléan è uno degli scienziati sociali più interessanti nel panorama attuale. Le sue ricerche e i suoi interventi pubblici appaiono svincolati dalle costrizioni cognitive che oggigiorno contraddistinguono gran parte delle posizioni assunte dagli economisti; sono infatti caratterizzati da rigore argomentativo, rilevanza, autonomia e capacità divulgativa. Tuttavia i suoi studi sono scarsamente noti agli scienziati sociali italiani.

Pare dunque utile accompagnare ai quattro testi qui raccolti - tutti molto recenti e tutti dedicati a pensare l’attuale crisi finanziaria - un’introduzione in cui cerchiamo di tracciare il percorso di ricerca che Orléan ha seguito a partire dagli anni Ottanta; una ricerca che ha i propri punti cardinali nei concetti di incertezza, mimetismo, convenzione e autoreferenzialità dei mercati. Si tratta di concetti-limite per la scienza economica che, nella sua accezione ortodossa, riduce l’incertezza al rischio probabilistico, risolve i problemi di comportamento degli agenti affidandosi all’individualismo metodologico, si concepisce come una scienza che deve decidere dell’allocazione di risorse scarse per fini alternativi, e tratta il mercato come un luogo al di fuori del tempo storico in grado di individuare i valori di equilibrio necessari affinché tutti gli scambi giungano a buon fine (salvo imperfezioni). 

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apertacontrada

L’impresa e le sorti dell’economia

di Pierluigi Ciocca

20080626 eco stagnanteDal dopoguerra l’economia italiana ha attraversato tre fasi, stilizzate:

- 1950-1969: crescita rapidissima e stabile, dovuta solo per un terzo ad aggiunte di capitale e di lavoro e per ben due terzi al contributo della produttività: dinamismo d’impresa, innovazione, progresso tecnico, ottenuto anche imitando, importando, adattando le tecnologie delle economie più avanzate.

- 1969-1992: inflazione forte, prevalentemente da costi (del lavoro, dell’energia, della P.A.). I costi salivano a ritmi pari a tre – quattro volte quello della produttività. La produttività, pur rallentando, aumentava ancora, più che altrove in Europa.

Segnatamente, negli anni Ottanta la produttività del lavoro nella manifattura progrediva del 4,5 per cento l’anno (contro il 3 per cento in Francia e il 2 per cento nella Germania federale). Si continuava a innovare, ma meno intensamente. Soprattutto si sostituiva capitale alla manodopera, il cui utilizzo veniva “razionalizzato”.

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economiaepolitica

L’impresa pubblica competitiva. Una proposta

Ernesto Screpanti*

RomeSAngelsGliAngeliDiRomaPonteSantAngeloCastelSantAngeloRomeL’entrata o la mera minaccia di entrata di una impresa pubblica nei diversi settori industriali e finanziari potrebbe servire ad indurre le imprese private già operanti ad evitare pratiche monopolistiche.

L’impresa pubblica competitiva (IPC) è definibile come un’impresa di proprietà pubblica che opera in competizione con imprese private. I suoi manager sono esposti a un vincolo di bilancio duro, nel senso che il governo non sarà pronto a ripianare qualsiasi perdita, e hanno l’obbligo di pareggiare il bilancio entro un arco temporale di medio periodo, pena il licenziamento. Nei costi può essere incluso un profitto normale da utilizzare per l’autofinanziamento della crescita e delle innovazioni. Non è tenuta a distribuire profitti, ma può finanziarsi sul mercato del credito, prendendo a prestito tutto quello che vuole, se riesce  a persuadere i prestatori.

Produce beni privati in settori caratterizzati da relativa omogeneità dei prodotti e delle tecnologie. La relativa omogeneità dei prodotti assicura la sensibilità dei ricavi alla competizione di prezzo. La relativa omogeneità delle tecnologie, intesa come una situazione in cui tutte le imprese del settore hanno facile accesso alla stessa tecnologia, assicura l’uniformità del saggio di profitto se c’è uniformità dei prezzi.

Lo scopo principale dell’IPC è di costringere le imprese private a praticare prezzi concorrenziali, impedendo comportamenti collusivi e sfruttamento oligopolistico dei consumatori.