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Introduzione alla storia delle teorie sulla crisi

di Anwar M. Shaikh

Schermata del 2023 07 03 18 23 39Presentazione. La crisi e le teorie delle crisi è una raccolta monografica tratta delle teorie sulla crisi ed intende contribuire all’approfondimento di un tema che viene continuamente affrontato da molti ma con una superficialità disarmante. A grandi linee, quando useremo il termine “crisi” ci riferiremo ad un insieme generalizzato di fallimenti nel sistema delle relazioni politiche ed economiche della riproduzione capitalistica. Stando così le cose occorre riprendere un dibattito sulla crisi e le sue tipologie che nel corso del tempo si è sviluppato tra gli studiosi che hanno abbracciato la teoria generale di Marx e di coloro che hanno invece utilizzato il suo metodo per poter analizzare le dinamiche di una economia che, dopo il “miracolo” manifestatosi nel dopoguerra, manifesta regolarmente dei crolli alternati a fasi di ripresa sempre più asfittiche. Occorre ormai rassegnarsi allo stato comatoso in cui versa il modo di produzione capitalistico sul lungo periodo che è stato pesantemente peggiorato dal dramma della pandemia che non vogliamo intenzionalmente affrontare vista la miriade di articoli e studi caratterizzati dalle più svariate impostazioni.

Inizialmente la raccolta si apre con un vecchio articolo di Shaikh che riassume le posizioni più importanti delle teorie delle crisi espresse dalla scuola marxista, mentre Maniatis riprende tali teorie approfondendone la critica. L’intervento intitolato “Una critica alle tesi della finanziarizzazione delle imprese non finanziarie” di Francisco Paulo Cipolla e Paolo Giussani (l’ultimo lavoro che ha prodotto prima di venire a mancare) ha il pregio di criticare alla radice le tesi che imputano la crisi recente esclusivamente alla finanziarizzazione dell’economia ponendo al centro il fattore strutturale della crisi rappresentato dal declino permanente degli investimenti con una spiegazione adeguata.

Gli interventi di Kliman, Freeman, Carchedi, Roberts, Roelandts e Moseley spaziano nell’applicazione della legge fondamentale di Marx sulla caduta tendenziale del saggio di profitto ma con sfaccettature particolari che le rendono interessanti per chi si dedica ad ulteriori approfondimenti. Roelandts ad esempio pone sul tappeto la questione delle crisi causate da fattori di diverso genere sullo sfondo di un declino di lungo periodo del saggio di profitto mettendo in discussione le tesi monotematiche che circolano negli ambienti ristretti della ricerca teorica marxiana. Il breve intervento di Husson ci stuzzica nell’approccio critico alla teoria. L’articolo di Ismael Hossein-zadeh, pur con qualche forzatura, intende dimostrare i limiti della letteratura marxista in merito alla recente crisi del 2007-2008 che ha portato alla Great Recession. La condizione “anomala” della Cina ci viene invece svelata da Hao Qi nell’applicare al paese “socialista di mercato” la teoria marxiana classica, infatti l’autore ritiene che il continuo aumento della pressione salariale e della composizione di valore del capitale hanno contribuito a frenare la profittabilità a partire dal 2008. Completano la raccolta due contributi particolari: “Una riflessione sul capitalismo finanziario e sull’economia ‘dell’informazione’” di Duncan K. Foley che demolisce il mito molto diffuso secondo cui il processo di trasformazione verso una “new economy”, basata sull’ideologia del postindustrialismo [o postfordismo con la critica di F. Macheda “L’ideologia dei “saperi” e gli apologeti del capitalismo (cognitivo)”], garantirebbe una continuità indefinita al capitalismo, mentre Fiona Tregenna propone una interpretazione marxiana della deindustrializzazione legata all’outsourcing dei settori cruciali dell’economia [Antonio Pagliarone].

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Introduzione

Questo articolo analizza la storia delle teorie sulla crisi. A grandi linee, quando useremo il termine “crisi” ci riferiremo ad un insieme generalizzato di fallimenti nel sistema delle relazioni politiche ed economiche della riproduzione capitalistica.

In particolare, le crisi che andiamo ad esaminare sono quelle verso cui il sistema è diretto per ragioni di origine interna. Come vedremo, è nella natura stessa della produzione capitalistica di essere costantemente esposta ad una serie di problemi sia di origine interna che esterna, ma solo in certi momenti questi “shock” fanno esplodere delle crisi generali. Quando il sistema è sano esso si riprende rapidamente da ogni sorta di problema; quando è malato, praticamente qualunque cosa può innescare il suo crollo. Ciò che andiamo ad esaminare sono le diverse spiegazioni di come e perché il sistema periodicamente si ammala.

 

1. Riproduzione e crisi

Si consideri quanto peculiare sia la società capitalistica: è costituita da una rete sociale interdipendente e complessa la cui riproduzione richiede un preciso modello di complementarietà tra diverse attività produttive; e queste attività sono condotte da centinaia di migliaia di singoli capitalisti interessati solamente alla fame di profitto.

È una struttura di classe nella quale l’esistenza della classe capitalista richiede l’esistenza della classe operaia: e ancora, nessuna razza, nessuna tradizione, nessun principio religioso stabilisce chi deve governare e chi deve essere governato. È una comunità umana cooperativa eppure nello stesso tempo oppone incessantemente gli uni contro gli altri: il capitalista contro il lavoratore, ma anche il capitalista contro il capitalista e il lavoratore contro il lavoratore.

La vera domanda su questo tipo di società non è perché non collassi, ma perché continui a funzionare. A questo riguardo è importante rendersi conto che qualsiasi spiegazione su come il capitalismo riproduca sé stesso è allo stesso tempo (in modo implicito o esplicito) una risposta alla domanda di come e perché avvenga la sua “non-riproduzione” e vice versa: in altre parole, l’analisi della riproduzione e l’analisi della crisi sono inseparabili. Questo è vero, anche se tale connessione sia resa esplicita da una particolare teoria o meno.

Nella storia del pensiero economico possiamo distinguere tre correnti di pensiero sulla questione della riproduzione capitalistica. La prima, e la più conosciuta, è la nozione secondo cui il capitalismo è in grado di auto-riprodursi in modo automatico secondo un meccanismo che può essere regolare ed efficiente (teoria neo-classica) oppure imprevedibile e inefficiente (Keynes), ma [il sistema] comunque si auto equilibra.

Soprattutto, non ci sono limiti necessari all’esistenza storica del sistema capitalistico: che sia lasciato sé stesso (teoria neo-classica) o che sia opportunamente gestito (Keynes), esso può durare per sempre.

Naturalmente, questa è sempre stata la concezione dominante nelle teorie borghesi.

La seconda posizione assume l’approccio opposto: in essa si sostiene che, di per sé, il sistema capitalistico è incapace di auto-espansione. Deve crescere per sopravvivere, ma richiede fonti esterne di domanda (come ad esempio la parte non capitalistica del mondo) per continuare a crescere. Questo significa che, in definitiva, la sua riproduzione viene regolata da fattori esterni al sistema: i limiti del sistema sono esterni ad esso. Le diverse scuole sotto-consumiste, incluse quelle marxiste, traggono la loro origine da questa linea di pensiero.

Per ultima, la tesi secondo cui, sebbene il capitalismo venga considerato capace di auto-espansione, il processo di accumulazione approfondisce le contraddizioni interne che sottostanno ad esso, finché queste non scoppiano in una crisi: i limiti del capitalismo sono al suo interno. Questa corrente di pensiero è quasi esclusivamente marxista e include, come spiegazioni della crisi, sia “la caduta [tendenziale] del saggio di profitto” che il “profit squeeze”.

Ognuna delle posizioni citate implica una corrispondente nozione di crisi, perché [questa] avviene e cosa comporta. Le esamineremo quindi una alla volta.

 

2. Il capitalismo è in grado di riprodursi automaticamente

In ciò che segue discuteremo, in sezioni separate, la tradizione del laissez-faire della teoria ortodossa e quella keynesiana.

a. La tradizione del laissez-faire

Sfortunatamente siamo tutti estremamente influenzati dalla definizione di capitalismo come di un sistema capace di autoregolarsi, equilibrato, efficiente e armonioso. Dalle origini con la “mano invisibile” di Adam Smith fino all’inconsistente eleganza delle moderne analisi sull’equilibrio generale, questa concezione ha dominato la teoria borghese. Si assume che la contraddizione fondamentale dell’umanità nasca dall’insaziabilità dei bisogni umani rispetto alla limitata disponibilità di risorse fisiche1. L’avidità insaziabile del capitalismo viene così trasformata in un attributo della Natura Umana; la sua bramosia di depredare il pianeta è quindi solo “naturale”, il risultato inevitabile di una battaglia all’interno della Natura stessa. La Natura Umana incontra la Natura Fisica. In questo modo avidità, competizione ed egoismo sono eterni: non possiamo farci niente, non possiamo eliminarli.

Su questa base, infatti, il capitalismo viene presentato come quell’insieme sociale di norme che consente l’espressione più libera dagli “intrinseci” istinti dell’uomo. Inoltre, poiché rappresenta la soluzione istituzionale ottimale ad un conflitto “naturale” eterno, il capitalismo risulta ottimale [a sua volta] in eterno. Non ha limiti se non a causa di inimmaginabili mutazioni nella Natura Umana o inimmaginabili distruzioni nella Natura Fisica. Lasciato a sé stesso il capitalismo si rigenera in modo regolare, efficiente e probabilmente per sempre. Così va la storia.

Dal momento che il sistema viene concepito come in grado di auto-regolarsi, la questione del processo di regolazione tende ad essere ignorata. La tendenza dominante in questo contesto è quella di concentrarsi sugli equilibri di crescita, statici o bilanciati. Così, sembra trascurabile anche la questione dei processi di aggiustamento. Questa strategia [di trascurare i processi di regolazione e di aggiustamento] è necessaria poiché [il riconoscimento di] una nozione di aggiustamento prolungato mina il concetto di [auto] equilibrio e di conseguenza la tanto desiderata condizione ottimale del sistema.

Nonostante questo, le crisi avvengono comunque, cosa che a volte, tende ad amareggiare gli economisti e a renderli piuttosto intrattabili. Tuttavia, la loro funzione ideologica li costringe (almeno di tanto in tanto) a trattare il problema delle crisi.

Gli economisti che studiano l’andamento dei fenomeni empirici sono inevitabilmente sorpresi non solo dalla frequenza delle crisi, ma anche dalla loro apparente regolarità. Negli Stati Uniti per esempio, Wesley Clair Mitchell conta 15 “crisi” nei 110 anni che vanno dal 1810 al 1920, mentre Paul Samuelson elenca sette “recessioni” nei trent’anni che vanno dal 1945 al 1975. E in mezzo c’è stata la Grande Depressione durata almeno 10 anni!

Ci sono fondamentalmente solo due modi per includere questa evidenza empirica all’interno del corpo principale della teoria senza danneggiarla in modo permanente. Anzitutto, si può sostenere che, in linea di principio, non si verifica mai la necessità delle crisi; il fatto che esse avvengano può allora essere attribuito a fattori esterni al normale funzionamento della riproduzione capitalistica.

Senza alcuna causa interna, il sistema è periodicamente interrotto dalla crisi. In questa tradizione la causa delle crisi viene attribuita alla Natura (macchie solari, raccolti perduti, ecc.) e/o alla Natura Umana (cicli psicologici di ottimismo e disperazione, guerre, rivoluzioni, bestialità politiche)

Ma la regolarità delle crisi prova che è difficile addossare la colpa alle macchie solari o ai bioritmi del consumatore, così come spiegazioni improvvisate come guerre e bestialità politiche non sono per niente adeguate a chiarire fenomeni apparentemente ciclici.

Arriviamo così al concetto di ciclo economico che rappresenta l’altro modo fondamentale di includere i fenomeni delle crisi nelle teorie ortodosse. Secondo questo concetto, il sistema viene ancora visto come capace di auto-regolarsi; solo che adesso il processo di aggiustamento viene visto come ciclico piuttosto che lineare. Diversi fattori interni al funzionamento del sistema danno vita a dei cicli che si auto-generano, in modo tale che l’auto-riproduzione abbia un suo ritmo interno.

È importante notare che nella teoria ortodossa un ciclo non è una crisi. Per essere compatibile con la struttura teorica globale, i cicli devono essere pensati come “piccole fluttuazioni”, variazioni di secondo ordine che in prima approssimazione è giustificato trascurare. In questo modo, la natura ciclica del processo di aggiustamento non rappresenta un limite alla capacità del sistema di auto-riprodursi.

Il ramo dell’economia ortodossa conosciuto come teoria del ciclo economico è una combinazione di questi due approcci fondamentali. Nel sistema ci sono fluttuazioni regolari e non violente: le contrazioni e le espansioni fanno parte del normale ciclo economico. Contrazioni ed espansioni violente o prolungate nascono da fattori esterni che hanno origine dalla Natura o dalla Natura Umana […]. Le crisi perciò rimangono al di fuori del processo normale della riproduzione capitalistica.

Nonostante il servizio che intendeva rendere, la teoria del ciclo economico ha sempre occupato un ruolo minore nell’economia del laissez-faire. La sua tesi era troppo pericolosa e la sua storia troppo contaminata da sentimenti anti-capitalistici per essere integrata tranquillamente nel corpo principale della teoria. Con l’avvento dell’economia keynesiana tutto questo cambiò. A breve vedremo perché.

b. La tradizione Keynesiana (di destra)

Abbiamo fin qui parlato della tradizione del “laissez-faire” nell’ambito della teoria borghese poiché essa è stata quasi sempre quella dominante. Ma il gigantesco crollo del capitalismo mondiale durante la Grande Depressione assestò un colpo spaventoso a tale tradizione. Il crollo stesso venne “facilmente” spiegato dai suoi fedeli in una varietà di modi simili a quelli descritti sopra così risultava inspiegabile il fatto che il sistema non sembrava mostrare alcuna tendenza a ritornare rapidamente al “normale” equilibrio di pieno impiego. Anche le stime ufficiali (per difetto) evidenziano che la disoccupazione negli Stati Uniti si aggirava intorno alla cifra di circa 10 milioni di persone nel 1939 – ben 10 anni dopo il “Grande Crollo”.

Via via che la Grande Depressione si trascinava e il malcontento sociale cresceva, la teoria del laissez-faire si screditava e la teoria keynesiana prendeva rapidamente il suo posto.

Keynes attaccò la nozione ortodossa secondo cui “l’offerta determina la propria domanda” poiché questa nozione portava alla conclusione che il capitalismo tendeva, più o meno spontaneamente, ad utilizzare in modo integrale i mezzi di produzione e la forza-lavoro disponibili. Invece, nella sua analisi, era il livello della spesa per investimenti pianificato dai capitalisti ad essere il fattore cruciale nel determinare i livelli produttivi e occupazionali.

Ma i piani di investimento dipendono significativamente dalle previsioni sui profitti, dalle “aspettative” e dagli “animal spirits” dei capitalisti. Da questo seguono due conclusioni principali. Primo, poiché le “aspettative” sono notoriamente imprevedibili, la riproduzione capitalistica è [a sua volta] necessariamente imprevedibile. Secondo, ed anche più importante, non esiste alcun meccanismo automatico nel capitalismo che possa determinare una pianificazione da parte dei capitalisti capace di generare gli investimenti necessari ad assicurare il pieno impiego. Si noti che si presume ancora che il sistema si auto-equilibri automaticamente: solo che l’equilibrio non evita disoccupazione persistente o inflazione.

La cosiddetta Rivoluzione Keynesiana era comunque ambigua. Gran parte della struttura “profonda” dell’analisi di Keynes era la stessa di quella ortodossa che attaccava: la divisione della società in produttori e consumatori (e non in classi), la stessa fondamentale visione della natura umana, l’importanza cruciale attribuita alle preferenze e alle “propensioni” psicologiche, il ruolo della domanda e dell’offerta e, soprattutto, la fiducia in una analisi basata sull’equilibrio. Non c’è da meravigliarsi dunque che una parte dell’economia ortodossa sia stata capace di assorbire Keynes all’interno di una nuova versione della teoria borghese.

Riconosciuto infatti che non esisteva alcun meccanismo automatico per rendere la riproduzione capitalistica regolare, efficiente e senza crisi , i neoclassici keynesiani (keynesiani bastardi, come li chiamava Joan Robinson) si rivolgevano allo Stato come al meccanismo che avrebbe riportato a nuova vita la società tratteggiata nelle favole del laissez-faire. Se lo Stato avesse svolto bene il proprio compito, avrebbe manipolato la domanda aggregata in modo tale da mantenere [una condizione di] quasi pieno impiego con poca o nessuna inflazione; con questa modifica, “il resto delle tesi dell'(ortodossia) poteva essere ripristinato”

Dal momento che le fluttuazioni economiche sono una parte accettabile della teoria keynesiana, la teoria del ciclo economico diventa un ramo dell’economia molto meno pericoloso. Infatti, poiché lo Stato in linea di principio può eliminare le fluttuazioni, diventa imperativo studiare nel dettaglio i cicli e le crisi al fine di sapere come neutralizzarle. Di conseguenza, dalla cosiddetta Rivoluzione Keynesiana è emersa un’enorme ricchezza di informazioni sulle crisi.

Non c’è da meravigliarsi che i keynesiani tendano a considerare l’erratica e violenta storia dell’accumulazione capitalistica come una serie di errori di “politica economica” e non fanno eccezione le loro opinioni sulla crisi in corso.

Keynes generò anche un altro ramo di seguaci, i cosiddetti “keynesiani di sinistra”, tra i quali Joan Robinson costituisce la figura predominante. I suoi punti di vista, insieme a quelli di Michael Kalecki e Joseph Steindl, saranno discussi nella sezione successiva.

 

3. Il capitalismo è incapace di auto-espansione

Sin dall’inizio, la visione del laissez-faire di un capitalismo armonioso e privo di crisi è stata tormentata da una altrettanto vecchia e persistente visione di un capitalismo strutturalmente incapace di accumulazione. [In questa visione] si assume che le forze interne del sistema possano al più riprodurlo in modo stazionario: ma, se stagnante, il capitalismo degenera rapidamente. La competizione mette gli uni contro gli altri, e non c’è crescita che qualcuno possa realizzare se non a discapito di qualcun altro. Capitale contro capitale, lavoratore contro lavoratore, classe contro classe. O l’antagonismo diventa troppo intenso e il sistema esplode oppure degenera in una società (come la Cina di una volta) nella quale una ristretta élite di potere grava su una condizione di povertà di massa e di miseria umana. In entrambe i casi, un capitalismo che non accumula non dura a lungo.

È interessante osservare come questo argomento a confutazione si basi sullo stesso assunto originario della teoria che attacca. La teoria ortodossa ha sempre sostenuto infatti che lo scopo finale di tutta la produzione capitalistica è quello di produrre per il consumo: ciò che non viene consumato viene ora reinvestito nella produzione allo scopo di garantire un consumo futuro. In tutti i casi è il consumo che detta legge. Nell’oscurità della teoria sotto-consumista, questa stessa nozione dovrebbe diventare un’arma per attaccare il capitalismo.

Attraverso la lunga e complessa storia di questo ramo di teoria della crisi, ricorre di continuo il seguente argomento: sì, il regolatore finale di tutta la produzione è nei fatti il consumo, attuale o futuro; d’altra parte, la produzione capitalistica non risponde ai bisogni, ma al potere di acquisto; non alla domanda, ma alla domanda “effettiva” (cioè a dire, la domanda solvibile). E tale è la natura contraddittoria della produzione capitalistica che, ove lasciata a sé stessa, è incapace di generare sufficiente domanda effettiva per supportare l’accumulazione. I meccanismi intrinseci del sistema, in altre parole, tendono a condurlo verso la stagnazione: esso necessita pertanto di fonti esterne di domanda effettiva — esterne ai suoi meccanismi fondamentali — al fine di continuare a crescere.

a. Il concetto di “demand gap”

Negli ultimi 150 anni, vi sono stati molti tentativi di definire l’esatta natura del problema del sotto-consumo. Nonostante la varietà delle formulazioni è comunque abbastanza sorprendente quanto sia costante la nozione secondo cui è la domanda per beni di consumo il regolatore ultimo dell’intera produzione.

Supponiamo di dividere tutta la produzione sociale in due rami principali o “Sezioni”.

La Sezione I produce mezzi di produzione (materie prime, carburante, impianti, attrezzature, ecc.) mentre la Sezione II produce beni di consumo e servizi (cibo, abbigliamento, divertimento ecc.).

Il principio fondamentale della teoria sotto-consumistica è, quindi, che la domanda di beni di consumo e servizi determina non solo il livello di produzione del Settore II (beni di consumo), ma anche quello del Settore I (mezzi di produzione). La produzione nell’industria dei mezzi di produzione è alla fine regolata dalle richieste dell’industria dei beni di consumo: la domanda di mezzi di produzione è perciò “derivata” dalla domanda per beni di consumo.

Si osservi che questo non afferma semplicemente che la produzione della Sezione II influenza la produzione della Sezione I e viceversa. Dice qualcosa di molto più forte e cioè che la causalità è unidirezionale, che la Sezione II dirige e la Sezione I lo segue.

Parallelamente a questa nozione troviamo quella della circolazione come di un processo in base al quale il prodotto sociale viene ripartito tra i lavoratori e i capitalisti.

Così, del prodotto sociale totale, una parte è concepita come sostituzione delle risorse impiegate nel produrlo e la parte rimanente, il prodotto netto, è concepita come disponibile per la “redistribuzione” tra lavoratori e capitalisti.

Un’analoga dicotomia viene fatta dal lato del reddito. [Del ricavato] delle vendite di tutte le aziende, si dice che una quota di denaro venga accantonata per sostenere le spese in mezzi di produzione sostenute durante la produzione. Il resto è il margine operativo netto delle aziende che viene diviso tra salari e profitti. Questo reddito netto, che gli economisti ortodossi chiamano reddito nazionale netto, sta all’origine della domanda effettiva.

La produzione netta comporta pertanto due lati. Da un lato abbiamo beni e servizi e dall’altro lato abbiamo il reddito netto in denaro che è uguale alla somma di salari e profitti: offerta da una parte e domanda effettiva dall’altra.

Possiamo adesso esporre il problema fondamentale della teoria sotto-consumista. I lavoratori di solito spendono tutti i loro salari. Essi perciò “ri-acquistano” una porzione del prodotto netto, al suo prezzo normale, ma poiché essi non ricevono mai l’intero reddito netto, non possono mai riacquistare l’intero prodotto netto. Il consumo dei lavoratori lascia sempre un “demand gap”; inoltre, più bassa è la quota di salario, più grande è il “demand gap”.

A questo punto dell’analisi il surplus del prodotto è ancora da vendere, e il reddito del capitalista – il profitto – deve ancora essere speso. Se surplus e profitto potessero accoppiarsi, tutto il prodotto sarebbe venduto e il “demand gap” completamente colmato. Ma a quali condizioni questo può accadere?

I primi sotto-consumisti tendevano a concepire il prodotto netto come composto solamente da beni di consumo. Data la loro premessa fondamentale che la produzione della Sezione I è regolata dalle richieste della Sezione II, essi finivano inevitabilmente per ritenere che in qualsiasi momento la produzione della Sezione I fosse appena sufficiente a rimpiazzare le risorse usate complessivamente dal sistema. Ciò significa che, sebbene il prodotto sociale totale sia costituito da mezzi di produzione (Sezione I) e da beni di consumo (Sezione II), il prodotto netto (il totale meno ciò che serve per rigenerare il ciclo) è costituito solamente dai beni di consumo*

Secondo questo punto di vista, dopo che i lavoratori hanno speso i propri salari per “riacquistare la propria parte” del prodotto netto, restano, da un lato, un surplus di prodotto sotto forma di beni di consumo e, dall’altro, profitti non spesi che formano il “reddito” del capitalista. Ne consegue perciò che il “demand gap” sarà colmato solo se i capitalisti spenderanno tutti i loro profitti in consumi personali. Ma allora non ci possono essere investimenti [ulteriori], dunque [non ci può essere] alcuna crescita e alcuna accumulazione generata internamente.

Ciò non significa che i capitalisti non cercheranno di accumulare, ma che, in effetti, i tentativi di accumulazione della classe nel suo insieme saranno contro-producenti. Dopotutto, nella concorrenza accanita tra capitalisti, le dimensioni del patrimonio sono un indice di forza importante.

Un modo importante per aumentare dimensione e potenza è [quello] di risparmiare, investire e perciò crescere. Pertanto i capitalisti continueranno a cercare di accumulare. Si immagini perciò di partire dalla situazione iniziale descritta sopra, nella quale la Sezione I produca il minimo indispensabile di mezzi di produzione per mantenere la capacità produttiva del sistema e la Sezione II produca un quantità di beni di consumo integralmente “ricomprati” dai lavoratori e dai capitalisti che consumano tutto il proprio reddito. Supponiamo ora che la prossima volta i capitalisti spendano solo parte dei loro profitti in beni di consumo; il resto lo investono comprando mezzi di produzione, assumendo [altri] lavoratori e creando aziende nella Sezione I e/o nella Sezione II.

A questo punto accade una cosa curiosa. Poniamo che il profitto totale ammonti a 200.000$ che i capitalisti in un primo momento spendono interamente in consumi personali. Ora supponiamo che [i capitalisti] riducano il proprio consumo [personale] a 150.000$ e che investano i rimanenti 50.000$ usandone 30.000$ per comprare mezzi di produzione (dalle scorte della Sezione I) e 20.000$ per assumere lavoratori (dall’esercito di riserva dei disoccupati). Il calo netto nella domanda di beni di consumo è di 30.000$, dal momento che la diminuzione nei consumi dei capitalisti è parzialmente compensata dal consumo extra [20.000$] dei nuovi lavoratori assunti. Tuttavia, la domanda per beni di consumo diminuirà, cosicché le vendite nella Sezione II cadranno facendo cadere la domanda di mezzi di produzione riducendo così le vendite [anche] nella Sezione I.

Tuttavia, proprio l’azione che porta a tutto questo ha simultaneamente ampliato la capacità produttiva in generale. Il tentativo di espandere la capacità ha perciò reso eccedente, non solo la capacità extra aggiunta, ma anche una parte della capacità che esisteva prima. Inevitabilmente questo porta a ridurre i costi. L’accumulazione generata internamente nega sé stessa.

Dal momento che l’espansione avviene gradualmente e richiede tempo per realizzarsi, si può immaginare che ci voglia un po’ di tempo affinché la carenza di “domanda effettiva” faccia sentire i suoi effetti e ancora altro tempo affinché la contrazione che ne consegue si realizzi. La conseguenza della tentata accumulazione sarebbe perciò un’espansione seguita da una contrazione con una accumulazione netta nel ciclo pari a zero. Questo, secondo la logica della teoria del sottoconsumo, sarebbe il comportamento atteso da una economia capitalistica lasciata a sé stessa.

I cicli di espansione e contrazione non sono estranei alla storia del capitalismo. Allo stesso tempo, [proprio] lo studio della storia rende chiarissimo che questi cicli sono accompagnati da enormi crescite secolari nelle economie capitalistiche reali – un fatto che si pone in netto contrasto con un capitalismo intrinsecamente stagnante come quello sottinteso da una logica sotto-consumista.

Perciò, le teorie sotto-consumiste hanno dovuto inevitabilmente fare ricorso a fattori “esogeni” (esterni) per spiegare questo stridente contrasto tra storia e teoria. Nelle prossime due sezioni che trattano la storia delle teorie sotto-consumiste pre e post Marx, vedremo quale importante posizione occupino questi elementi esterni.

b. Teorie sotto-consumiste conservatrici e radicali

Nella parte precedente ho tentato di presentare sia la logica essenziale che sta dietro le argomentazioni sotto-consumiste, sia le implicazioni che ne derivano e nel fare ciò ho usato strumenti concettuali moderni come quello delle “due sezioni” di Marx e quello dell’analisi dell’offerta e della domanda aggregate di Kalecki. Ma questi [ultimi] concetti sono relativamente nuovi ed è abbastanza naturale che l’argomentazione non appaia precisamente in questa forma nella storia delle teorie sotto-consumiste. In effetti, ciò che colpisce di questa storia è che mentre la nozione di “demand gap” appare ovunque, l’implicazione [ad essa] corrispondente circa l’impossibilità di un’accumulazione capitalistica auto-sostenuta viene colta raramente.

Questa implicazione viene costantemente evitata in particolar modo tra le teorie marxiste. E’ una ben difficile condizione quella di vivere e scrivere nel XIX secolo, in un periodo di crescita capitalistica quasi esplosiva e teorizzare che la crescita non è intrinseca alla produzione capitalistica.

Convinti della validità della loro posizione fondamentale, sebbene ignari su – o poco propensi ad accettare – le sue implicazioni, i primi sotto-consumisti adottarono quasi universalmente la posizione secondo cui troppa accumulazione avrebbe causato la crisi. Partivano dal presupposto che l’economia cresceva ad un certo tasso “sostenibile” e seguendo la logica che ho delineato nella parte precedente, essi quindi presumevano che i capitalisti avrebbero ridotto una parte del consumo e investito l’ammontare così risparmiato in un supplemento di mezzi di produzione e lavoratori. Così, mentre questo investimento avrebbe esteso la capacità produttiva, la riduzione netta della domanda di beni di consumo e il suo effetto successivo sulla domanda di mezzi di produzione si sarebbero risolti nel sottoutilizzo anche della capacità [produttiva] che esisteva in precedenza. “Troppo risparmio” avrebbe portato ad un crollo.

Ma ciò che in realtà implicava la loro logica era che qualsiasi risparmio avrebbe portato a un crollo, un fatto che venne presto fatto notare dai loro avversari. Nel suo eccezionale studio intitolato Le teorie del sottoconsumo, Michael Bleaney riassume così il dilemma dei primi sotto-consumisti:

“la posizione generale di questi autori indicava che esiste un limite oltre il quale il saggio di accumulazione diventa pericolosamente alto, minacciando di accelerare il crollo. Ma la logica dell’argomentazione da essi sviluppata è che questo limite è, in effetti, un saggio di accumulazione pari a zero, come viene fatto notare in modo efficace da Chalmer. Così essi cadono in una trappola dalla quale devono uscirne abbandonando parte dei loro risultati oppure dichiarando apertamente l’assurdità delle loro conclusioni.

Il primo importante economista che approdò a questo dilemma fu Thomas Malthus (anni ’20 dell’800). Fedele alla tradizione del sottoconsumo, Egli sosteneva che è la domanda dei beni di consumo che regola la produzione cosicché solo un certo tasso di crescita è “sostenibile”.

Ovviamente, data la logica della sua argomentazione e l’implicita conclusione in essa contenuta, Malthus non fu mai in grado di dire quale fosse questo tasso di crescita “sostenibile”. Tuttavia egli enfatizzò [il fatto] che risparmiare (troppo) fa sì che il consumo dei capitalisti non possa colmare il “demand gap” lasciato dal consumo dei lavoratori, cosicché le crisi di sovrapproduzione (sotto-consumo) diventano chiaramente possibili nel capitalismo. Nelle mani di Malthus questa tendenza al sotto-consumo diventò un’apologia reazionaria a favore dei proprietari terrieri feudali i cui alti tenori di vita e i cospicui consumi venivano presentati come un gradito contrappeso alla tendenza dei capitalisti all’eccessivo risparmio. (Malthus è anche celebre per il suo attacco alla classe dei lavoratori attraverso la sua cosiddetta teoria della popolazione. Allora, come adesso, queste brutali “leggi naturali” non furono mai destinate a rappresentare il comportamento delle classi dominanti “civilizzate”).

Simonde de Sismondi, contemporaneo di Malthus, vide anche lui nel capitalismo una tendenza al sotto-consumo. Ancora una volta troviamo l’assunzione che il livello di consumo regola la produzione totale cosicché la produzione può crescere solo tanto quanto cresce il consumo. Ma il capitalismo restringe il consumo delle masse tenendole in povertà; i lavoratori sono troppo poveri per ricomprare il prodotto del proprio lavoro (qui [appare] di nuovo l’onnipresente “demand gap”). Inoltre, via via che il capitalismo si sviluppa, la distribuzione del reddito diventa sempre più diseguale, cosicché il consumo delle masse cresce più lentamente della ricchezza totale (si allarga il “gap”). In Sismondi perciò non solo esiste una tendenza sotto-consumista, ma essa peggiore sempre più con la progressiva maturità del capitalismo. Con il tempo le crisi si aggravano e la competizione tra le nazioni per i mercati esteri diventa sempre più violenta.

A differenza del reazionario Parson Malthus, Sismondi era un radicale profondamente impressionato dalle sofferenze dei contadini e dei lavoratori sotto il capitalismo. In questo periodo egli fu a capo di quello che Marx chiamò il socialismo piccolo-borghese impegnato a lottare contro la crudeltà e la distruzione provocata dal capitalismo cercando di riformarlo, così da migliorarne le condizioni [sociali]. Sismondi stesso sosteneva cambiamenti radicali nella distribuzione del reddito a favore dei contadini e dei lavoratori, e guardava allo Stato per realizzare queste ed altre riforme economiche

Tanto la scuola sotto-consumista malthusiana quanto quella sismondiana si riferiscono ai mercati esteri come fonti per la domanda di consumi. In Malthus questo è solo un riferimento di passaggio, in Sismondi, invece, i mercati stranieri sono uno sbocco importante per la sovrapproduzione interna e considera la crescente concorrenza internazionale come derivante dall’aggravarsi del problema del sotto-consumo. Ovviamente, affinché il commercio internazionale sia una soluzione a questo problema, una certa nazione deve esportare verso altre nazioni più di quanto importi da esse. Questo è evidentemente impossibile per il mondo nel suo insieme. Se tutto il commercio è confinato solo alla sfera capitalistica, allora il commercio estero è interno al sistema capitalistico e non offre via d’uscita al problema del sotto-consumo. Di conseguenza Sismondi non concepisce il commercio estero come una soluzione generale del problema.

Tra il periodo di Sismondi (metà dell’800) e il periodo di J.A. Hobson (inizio del ‘900) si verifica la grande svolta nella storia del capitalismo che segna l’inizio dell’era dell’imperialismo. Nel periodo che va dagli anni ’70 al 1914, ad esempio, gli investimenti europei all’estero crebbero di oltre il 700%, molti dei quali verso il cosiddetto Terzo Mondo. Non è quindi affatto sorprendente che dal primo ‘900 il commercio estero, attraverso l’imperialismo, iniziasse a sembrare una soluzione al problema del sotto-consumo. Dopotutto, se si concepisce il mondo in termini di nazioni capitaliste imperialiste e Terzo Mondo sottosviluppato, diventa possibile anche immaginare che questo Terzo Mondo possa assorbire i risparmi in eccesso dei paesi capitalisti sviluppati – sia direttamente nella forma di investimenti esteri, sia indirettamente sotto forma di esportazioni di merci. Sia in Hobson che in Rosa Luxemburg (di cui tratterò nella prossima sezione) il legame tra sotto-consumo e imperialismo diventa molto importante.

Hobson inizia nel modo ormai familiare di tutti i sotto-consumisti identificando esplicitamente l’oggetto ultimo di tutta la produzione, anche sotto il capitalismo, come produzione di beni di consumo. Inoltre, fu il primo a trattare in modo esplicito la Sezione I (l’industria dei mezzi di produzione) come strettamente subordinato alla Sezione II (l’industria dei beni di consumo) cosicché l’intero processo di produzione possa essere trattato come sistema integrato verticalmente che inizia con le materie prime e procede attraverso diversi stadi fino al prodotto finale che consiste solo in beni di consumo. Per ultimo, anche Hobson inizia ipotizzando un tasso di crescita “sostenibile” (che ovviamente non può definire) e va quindi avanti a mostrare che (troppo) risparmio porta a un crollo. Le crisi nascono dal (troppo) risparmio

Hobson introduce anche il concetto di “surplus” che gioca un ruolo importante nella sua successiva analisi. In termini generali, il “surplus” viene definito da Hobson come l’eccedenza di valore dell’output, in termini monetari, rispetto ai costi strettamente necessari per produrre quell’output. Questo concetto comporta la distinzione tra costi di produzione necessari e costi di produzione non necessari, così come tra costi di produzione e altre spese (costi di vendita, tasse sul fatturato, ecc.). E’ un concetto più ampio rispetto a quello che ho definito in precedenza come profitti (ricavi meno costi), ma è necessario puntualizzare qui la differenza.

In ogni caso, la nozione di surplus di Hobson include “costi” non necessari come i profitti di monopolio e la rendita terriera (poiché questi non derivano da nessun tipo di produzione). Via via che il capitalismo si sviluppa, questi “redditi improduttivi” aumentano e poiché i loro beneficiari tendono a consumare poco, finisce per realizzarsi un risparmio eccessivo. C’è quindi un peggioramento del problema del sotto-consumo

Secondo Hobson, il commercio estero fornisce uno sbocco per il risparmio in eccesso e un mercato per la produzione in eccesso, anche nel quadro di un capitalismo competitivo. Comunque, mentre l’industria si concentra e si diffonde il monopolio, il problema del sottoconsumo si sposta ad un livello qualitativamente più elevato, infatti da un lato i profitti monopolistici accrescono il surplus portando ad un risparmio maggiore; dall’altro, poiché i monopoli ottengono questi extra profitti grazie all’aumento dei prezzi tendono a restringere il mercato. Gli stessi fattori che espandono il risparmio riducono così i suoi sbocchi e l’imperialismo si presenta come soluzione: l’imperialismo è la fase suprema del sottoconsumo.

Ma per Hobson le cose non devono andare necessariamente in questo modo. La radice delle crisi e dell’imperialismo sta nella disuguaglianza di reddito e negli eccessivi redditi dei monopolisti e dei rentiers, mentre la soluzione sta in riforme appropriate:

“facciamo in modo che ogni passaggio politico-economico dirotti il reddito in eccesso di questi proprietari per farlo fluire, o verso i lavoratori sotto forma di salari più alti, o verso la comunità sotto forma di riduzione delle tasse, cosicché [questo reddito] venga speso piuttosto che risparmiato servendo, in entrambi i modi, a sostenere la crescita del consumo – e non ci sarà più bisogno di combattere per mercati esteri o aree di investimento straniere”

Un numero sorprendente di tesi avanzate da Hobson all’inizio del ‘900 riappare in analisi marxiste successive. Nel 1916 Lenin enfatizza il legame tra monopolio e imperialismo, sebbene rigetti l’analisi sotto-consumista di Hobson. D’altro canto, negli anni ’20, la rivoluzionaria tedesca Rosa Luxemburg sostenne che le radici dell’imperialismo sono da ricercarsi, in effetti, nel problema del sottoconsumo, sebbene ella rifiutava, ovviamente, le conclusioni che Hobson trae da questo fatto. Più recentemente, negli Stati Uniti, gli autorevoli lavori dei marxisti Paul Sweezy e Paul Baran hanno rilanciato nozioni hobsoniane come quella dell’integrazione verticale della produzione globale, il concetto di “surplus”, la nozione che il monopolio tende ad innalzare il surplus e soprattutto l’argomentazione secondo cui l’assorbimento del surplus rappresenta un problema intrinseco alla produzione capitalista che diventa tanto più acuto con il prevalere del monopolio. Analizzeremo queste teorie più avanti.

c. Teorie marxiste del sottoconsumo e sproporzionalità

Nelle prime teorie sotto-consumiste, il problema è posto invariabilmente in termini di tasso di accumulazione troppo elevato. Secondo la logica di queste teorie qualsiasi accumulazione tende a negare sé stessa, così i sotto-consumisti sono spinti inevitabilmente alla conclusione che il capitalismo tende verso la stagnazione; un’auto espansione del capitalismo è impossibile.

Marx distrusse completamente questo argomento, ma per capire perché, dobbiamo vedere alcune innovazioni concettuali che egli ha formulato.

Abbiamo già familiarità con la prima grande innovazione di Marx che è stata quella di rappresentare la produzione totale in due branche principali o Sezioni, mezzi di produzione (I) e beni di consumo (II). Ciò significa che il prodotto totale, in qualsiasi momento, è composto da questi due tipi di merci.

La seconda svolta operata da Marx è stata quella di chiarire la natura della domanda effettiva. I sotto-consumisti, si ricorderà, identificavano fondamentalmente tre tipi di domanda effettiva: domanda di sostituzione per rimpiazzare i mezzi di produzione consumati, domanda per consumi dei lavoratori per comprare la loro “quota” di ricchezza prodotta e domanda per investimenti e per consumi dei capitalisti per colmare il “demand gap” nel prodotto netto.

Il primo punto di partenza di Marx implica una questione temporale. Supponiamo che il processo di produzione in ogni Sezione necessiti di un dato periodo di tempo, diciamo un anno. Bene, i mezzi di produzione consumati nell’intero processo non possono essere acquisiti in questo anno di produzione, perché il primo prodotto finito che deriva dalla produzione iniziata quest’anno non uscirà dalla catena di montaggio fino alla fine dell’anno. In modo analogo, i lavoratori impiegati durante questo anno non possono “ricomprare” i beni di consumo risultanti dalle loro presenti attività perché questi beni non saranno pronti fino alla fine dell’anno; neppure i capitalisti possono consumare ciò che non è ancora disponibile.

Ritorniamo all’inizio dell’anno. Per mantenere l’esempio il più semplice possibile, ipotizziamo che tutti i mezzi utilizzati nell’anno siano comprati all’inizio (è solamente un artificio espositivo). I capitalisti decidono il livello di produzione che vorrebbero [realizzare] nell’anno che comincia. Essi acquistano perciò una certa quantità di mezzi di produzione e assumono un certo numero di lavoratori; i lavoratori, a loro volta, usano i salari per comprare beni di consumo. Allo stesso tempo, anche i capitalisti devono comprare una certa quantità di beni per il proprio consumo personale relativamente a quell’anno. Si noti che la domanda effettiva ha origine interamente dalla classe capitalista: i salari dei lavoratori fanno parte delle spese di investimento lorde annuali dei capitalisti. Non è quindi lecito trattare il consumo e l’investimento come se fossero funzionalmente indipendenti poiché la maggior parte dei consumi deriva dai salari, che sono essi stessi un aspetto necessario delle spese di investimento.

All’inizio dell’anno, perciò, è la classe capitalista che determina la domanda effettiva attraverso i propri consumi e investimenti. Ma chi vende i beni? La classe capitalista ovviamente! L’inizio di quest’anno è anche la fine dell’anno precedente; è perciò anche il momento in cui il prodotto finito del processo produttivo dell’anno precedente diventa disponibile. La produzione dell’anno precedente fornisce alla classe capitalista l’offerta di merci disponibile per la vendita durante quest’anno; le spese di quest’anno della classe capitalista in investimenti e consumi personali determinano la domanda effettiva per quell’offerta di merci.

Se ciò sembra bizzarro, si ricordi che bizzarra è la riproduzione capitalistica. Le decisioni su produzione e consumi vengono prese da centinaia di migliaia di capitalisti individuali senza alcun tipo di considerazione per la riproduzione complessiva del sistema. Benché sia la classe capitalista a determinare entrambi gli aspetti della relazione offerta-domanda, i capitalisti non si comportano come classe, ma piuttosto come individui. Il difficile è spiegare perché riescono sempre a “venirne fuori bene”. Ma ritorneremo su questo punto a breve.

Non è difficile proseguire da qui per mostrare che una crescita stabile è facilmente realizzabile, con la domanda effettiva che ogni anno è appena sufficiente a comprare l’offerta disponibile a prezzi “normali” Se gli investimenti crescono del 10%, allora la produzione cresce del 10%. Se perciò anche i consumi dei capitalisti crescono del 10%, la produzione annuale troverà ad aspettarla la domanda effettiva per comprarla. Dopo Marx, la possibilità della “crescita equilibrata” è diventata un luogo comune.

Crescita equilibrata significa che capacità produttiva e domanda effettiva possono crescere approssimativamente alla stessa velocità. Di per sé stesso, tuttavia, questo non implica necessariamente che il capitalismo realizzi qualcosa di simile anche solo lontanamente, comunque il fatto che la riproduzione allargata sia possibile, rappresenta una chiara minaccia alle teorie sotto-consumiste ed è alla luce di questa sfida che incontriamo le versioni marxiste della teoria del sottoconsumo.

È utile fare ora un piccolo approfondimento sugli scritti di Marx. Durante il periodo 1858-1865, Marx scrisse e riscrisse il grosso dei manoscritti che formano la sua grande opera in tre volumi, il Capitale. Il volume I venne pubblicato nel 1867, ma il volume II – nel quale appare l’analisi del processo della riproduzione capitalistica – non raggiunse mai la stesura finale, anche se venne rivisitato agli inizi degli anni ’70 e di nuovo alla fine dello stesso decennio. Marx non visse abbastanza per completare il suo lavoro e gli ultimi due volumi vennero compilati e pubblicati da Engels. Durante la vita di Marx, perciò, le parti pubblicate del suo lavoro non trattavano della riproduzione e della crescita

Nel I Volume Marx dimostra che può realizzarsi un surplus solo se i lavoratori nel loro insieme lavorano più ore, in un dato giorno, di quanto necessario per produrre i beni [di consumo] che essi stessi consumano e i mezzi [di produzione] che servono per sostituire quelli usati nel processo di produzione.

È questo tempo di pluslavoro, che va ben oltre quello necessario a mantenere i lavoratori e il sistema produttivo, a fornire il surplus di cui si appropria la classe capitalista.

Nella Russia zarista, questo provocò una reazione. Il capitalismo aveva iniziato a distruggere le [vecchie] forme sociali ed in particolare la vecchia comunità contadina, il mir. Negli anni ’50, i populisti sostenevano che il mir poteva servire come base per una transizione diretta al socialismo, senza dover passare per gli orrori dell’industrializzazione capitalistica. Dal 1880, il primo volume del Capitale aveva fornito ai populisti marxisti non solo una critica devastante del capitalismo in generale, ma anche – con una certa estrapolazione – un’importante arma teorica contro il capitalismo in Russia

I marxisti populisti vedevano l’enfasi attribuita da Marx al tempo di pluslavoro come la prova che in Russia fosse impossibile il capitalismo e secondo il classico stile sotto-consumista, sostenevano che il mercato interno non sarebbe mai stato sufficiente per consentire la crescita visto che i lavoratori producevano più di quello che consumavano. Le nazioni capitaliste occidentali sviluppate avevano superato questo dilemma trovando mercati stranieri; ma la Russia, sostenevano, era troppo sottosviluppata per competere in modo efficace sul mercato mondiale, per cui il capitalismo non era realizzabile in Russia. La via del socialismo era l’organizzazione dei contadini.

Il Volume II del Capitale venne pubblicato nel 1885, due anni dopo la morte di Marx. Nonostante questo, quindici anni dopo, i marxisti populisti insistevano ancora che “è impossibile per un paese capitalista esistere senza mercati esteri”. Ma a questo punto si era già sviluppata una contro-argomentazione all’interno del marxismo russo, con nomi autorevoli dalla sua parte: Bulgakov, Tugan-Baranowsky, Struve, Lenin.

Questo ultimo gruppo di marxisti rivolse due critiche fondamentali all’argomentazione del sotto-consumismo populista. In primo luogo, essi notarono che era un fatto la rapida crescita in tutta la Russia dei capitalisti e dei rapporti mercantili. Il primo libro di Lenin, Lo sviluppo del Capitalismo in Russia (1899) aveva lo scopo di sostenere proprio questo punto. In secondo luogo, Lenin e gli altri attaccavano la base logica degli argomenti dei populisti affermando che l’errore di fondo stava nell’immaginare che anche nel capitalismo il consumo fosse l’obiettivo della produzione. Ma il capitalismo produce per il profitto, non per il consumo, e l’analisi di Marx della riproduzione allargata dimostrava senza alcun dubbio che questa produzione guidata dal profitto era interamente capace di generare il suo stesso mercato interno. Il sottoconsumo non era un problema intrinseco ed il capitalismo era già lì, vitale e in espansione, per cui un compito urgente era quello di organizzare il proletariato urbano.

Quel dibattito venne decisamente vinto da Struve, Bulgakov, Tugan-Baranowsky e Lenin, ma la loro vittoria stabilì solo la base per un’altra, ancora più importante, serie di questioni: se il capitalismo è capace di auto generare la propria crescita, che cosa gli impedisce di crescere all’infinito? In altre parole, quali sono i suoi limiti? Inoltre, come possiamo comprendere le devastanti crisi alle quali esso è periodicamente soggetto?

Tugan-Baranowsky sosteneva la posizione estrema che il capitalismo era totalmente indipendente dal consumo, purché le Sezioni I e II crescessero nelle giuste proporzioni l’una rispetto all’altra, ma sosteneva che, considerata l’anarchia della produzione capitalistica, questa esatta proporzionalità era un terno al lotto. La natura “per tentativi e aggiustamenti” della riproduzione capitalistica avrebbe perciò periodicamente portato a squilibri di tali proporzioni che la riproduzione si sarebbe bloccata facendo esplodere la crisi. Lenin rifiutò l’affermazione di Tugan-Baranowsky secondo cui il consumo fosse irrilevante, ma in quella fase non andò oltre all’enfatizzare l’anarchia della riproduzione capitalistica come fonte di crisi e non fornì una teoria della crisi chiara e inequivocabile e non tornò mai più su questo tema. Circa dieci anni dopo, in Germania, emerse nuovamente la teoria delle crisi per sproporzionalità, questa volta nell’enorme opera di Rudolph Hilferding sul capitalismo monopolistico. Sia Tugan-Baranowsky che Hilferding convennero sul fatto che, essendo l’anarchia del capitalismo a provocare le crisi, la pianificazione avrebbe eliminato le crisi e la soluzione, nella terminologia di Hilferding, era il “capitalismo organizzato” ed il mezzo la via parlamentare per il controllo dello Stato

Rosa Luxemburg rifiutò di accettare questa conclusione del dibattito ed essendo una attivista rivoluzionaria si opponeva al riformismo che la teoria della sproporzionalità sembrava legittimare. Se si ammette che “lo sviluppo capitalistico non va nella direzione della propria rovina”, dichiarava, “il socialismo cessa di essere oggettivamente necessario”. Abbandonare la teoria del crollo del capitalismo significava abbandonare il socialismo scientifico e si iniziò così a rivitalizzare il dibattito marxista sul sottoconsumo.

Dal momento che proprio gli esempi di Marx sulla riproduzione allargata (crescita bilanciata) rappresentavano l’elemento decisivo del dibattito originario tra i marxisti russi, la Luxemburg attaccò direttamente questi esempi. Marx ha dimostrato chiaramente la possibilità astratta della riproduzione allargata, ammetteva la Luxemburg, ma non si rendeva conto che, d’altro canto, essa era impossibile nella realtà perché, dal punto di vista sociale, il comportamento del capitalista necessario [per realizzarla] non ha alcun senso

Immaginiamo che alla fine di un ciclo di produzione l’intero prodotto sociale venga depositato in un magazzino. A questo punto i capitalisti si presentano e ritirano una parte del prodotto totale per sostituire i mezzi di produzione consumati nell’ultimo ciclo, mentre i lavoratori si presentano a ritirare i propri beni di consumo. Rimane il prodotto in surplus del quale i capitalisti ritirano una parte per il proprio consumo personale. Ora, chiede la Luxemburg, da dove vengono gli acquirenti per il prodotto rimanente? (si presenta ovviamente il tradizionale problema sotto-consumistico del riempimento del “demand gap”). Se Marx ha ragione, dice, allora è la classe capitalista che compra il resto del prodotto per investirlo ed espandere così la capacità produttiva.

Ma questo non ha alcun senso perché “chi sarebbero i nuovi consumatori per la soddisfazione dei quali la produzione dovrebbe aumentare sempre più?”. Se i capitalisti fanno ciò che dice Marx, nel ciclo successivo la capacità produttiva sarà ancora maggiore e così pure il gap da riempire; il problema sarà così ancora più difficile da trattare. “Lo schema dell’accumulazione di Marx non risolve il problema di chi alla fine debba beneficiare della riproduzione allargata…”. La riproduzione allargata è algebricamente possibile, ma socialmente impossibile

Ne consegue che l’accumulazione capitalista può essere spiegata solo grazie ad alcune forze esterne alle “pure” relazioni capitalistiche. La Luxemburg osserva che la soluzione malthusiana di una terza classe di consumatori improduttivi non ha alcun senso poiché il reddito di questa può derivare solo da profitti o salari.

Analogamente, il commercio estero tra nazioni capitaliste non fornisce alcuna soluzione per il capitalismo nel suo insieme, poiché [tale commercio] è interno al sistema [capitalistico] mondiale. Ella sostiene perciò che l’accumulazione capitalistica richiede un segmento di compratori che sta al di fuori del mondo capitalistico e che compra continuamente più quanto essa non venda. Così il commercio tra mondo capitalistico e mondo non capitalistico è una necessità primaria per la sopravvivenza storica del capitalismo; e l’imperialismo sorge con la lotta tra le nazioni capitalistiche per il controllo di quelle importanti fonti di domanda effettiva.

Inoltre, via via che il capitalismo si espande sul pianeta, l’ambito non capitalistico di conseguenza si restringe e con esso si restringe anche la prima sorgente dell’accumulazione. La tendenza verso le crisi aumenta e si intensifica la competizione tra le nazioni capitaliste per [il controllo] delle aree non capitalistiche rimanenti ed i risultati inevitabili di tale processo sono le crisi mondiali, le guerre e le rivoluzioni.

Anche se la Luxemburg avesse avuto ragione circa l’impossibilità dell’accumulazione, la sua soluzione non poteva comunque funzionare poiché richiede un “Terzo Mondo” che compra continuamente più di quanto venda. [In questo caso] da dove sarebbero venute le entrate in eccesso?

Ma nei fatti si sbagliava anche a proposito della possibilità di accumulazione. Per comprenderlo dobbiamo tornare brevemente all’analisi presentata all’inizio di questa parte. Ricordiamo che alla fine del ciclo di produzione i capitalisti sono in possesso del prodotto sociale totale e al tempo stesso sono i loro investimenti lordi e le loro spese per il consumo personale che stanno alla base della domanda effettiva di questo prodotto (dal momento che i salari dei lavoratori sono una parte degli investimenti globali). Ora, a parte il consumo personale dei capitalisti, la spesa rimanente (gli investimenti lordi) non è in alcun modo motivata dal consumo in quanto tale ma è motivata integralmente dall’aspettativa di profitto. Ciò che mostrano gli esempi di Marx è che se i capitalisti fanno investimenti quantitativamente appropriati, allora sono appunto in grado di vendere il prodotto e ricavare i profitti attesi.

Se questo successo li stimola a reinvestire nuovamente, nell’aspettativa di profitti ancora maggiori, saranno ricompensati ancora una volta, e così via. Il consumo si espanderà continuamente grazie al crescente impiego di lavoratori e alla crescente ricchezza dei capitalisti. Ma questa espansione del consumo sarebbe una conseguenza, non la causa

Ora, [anche] se questo confuta la critica di Rosa Luxemburg nei confronti della riproduzione allargata, non risponde ancora alle due domande cruciali con le quali [ella] ha iniziato. Primo, quali forze, se ve ne sono, rendono possibile la riproduzione allargata nella realtà? E secondo, non è vero che se la riproduzione allargata è effettivamente possibile, allora “lo sviluppo del capitalismo non va nella direzione della propria rovina?”

Ciò che la teoria discute, la realtà decide. Nel 1929 scoppiò una devastante crisi capitalistica mondiale seguita da oltre 10 anni di profonda depressione e disoccupazione. Con questo background, i problemi della riproduzione capitalistica divennero ancora una volta immediatamente rilevanti.

Il primo importante tentativo per rivisitare la teoria del sottoconsumo come spiegazione delle crisi venne fatto da Paul Sweezy nel suo autorevole libro La teoria dello sviluppo capitalistico (1942). Sweezy si accinse a formulare una teoria del sottoconsumo esplicitamente “libera dalle obiezioni che erano state avanzate alle versioni precedenti”

In questo primo tentativo Sweezy è ancora stretto nella morsa della nozione tradizionale di sottoconsumo secondo la quale la domanda per beni di consumo regola la produzione totale. Da questo punto di vista la Sezione I appare come parte dell’apparato produttivo verticale della Sezione II cosicché i cambiamenti nella produzione della Sezione I (mezzi di produzione) sono nei fatti cambiamenti nella capacità di produrre beni di consumo. Inoltre, Sweezy sostiene che “l’evidenza empirica” dimostra come una variazione dell’1% nella produzione della Sezione I aumenti la capacità di produrre beni di consumo dell’1%. Questa è una virtuale risposta ad Hobson, che abbiamo analizzato in precedenza.

Consideriamo la domanda effettiva che, come abbiamo visto, è composta dal consumo dei capitalisti e dalle spese totali di investimento (queste a loro volta sono composte dalle spese per mezzi di produzione e dall’assunzione di lavoratori). Sweezy osserva che, con lo sviluppo del capitalismo, la meccanizzazione procede rapidamente e sono necessarie sempre più macchine e materie prime per far lavorare un singolo lavoratore; ciò significa che le spese di investimento capitalistico in mezzi di produzione aumentano più velocemente di quelle in salari. Data la sua analisi della produzione, le spese di investimento in mezzi di produzione comportano un proporzionale aumento della capacità di produzione di beni di consumo, mentre le spese in salari, che aumentano molto più lentamente, si traducono come è ovvio in consumo dei lavoratori. Sembra perciò che la capacità di produrre beni di consumo si espanda più velocemente della domanda di beni di consumo da parte dei lavoratori, così si manifesta un “demand gap”. Naturalmente la domanda di consumo dei capitalisti può riempire il gap, ma con lo sviluppo del capitalismo i capitalisti tendono ad investire proporzionalmente un parte maggiore ed a consumare proporzionalmente un parte minore dei loro profitti, cosicché il loro consumo resta indietro rispetto alla [crescita della] capacità produttiva della Sezione II. Sweezy conclude

“…ne consegue che vi è una tendenza naturale della crescita dei consumi a restare indietro rispetto alla crescita della produzione di beni di consumo… questa tendenza può sfociare in crisi, in stagnazione, o in entrambe”

Quello di Sweezy è l’errore sotto-consumista tradizionale di ridurre la Sezione I al ruolo di [semplice] “input” della Sezione II. Una volta fatta questa ipotesi ne consegue necessariamente che un aumento nella produzione di mezzi di produzione deve espandere la capacità [di produrre] beni di consumo. Ma ciò è falso: i mezzi di produzione possono essere usati anche per produrre [altri] mezzi di produzione ed [anzi], come abbiamo notato nella critica della Luxemburg, la riproduzione allargata esige che essi siano utilizzati così. Contrariamente al ragionamento di Sweezy, è perfettamente plausibile avere un tasso in aumento di macchinari e materie prime per lavoratore e una crescita proporzionale nelle produzioni di entrambe le Sezioni, avendo ancora riproduzione allargata.

Il secondo tentativo di Sweezy, fatto assieme a Paul Baran, arrivò vent’anni dopo ne “Il capitale monopolistico”. Nel primo tentativo, come abbiamo visto, Sweezy sosteneva che il capitalismo aveva una tendenza intrinseca ad espandere la capacità produttiva della Sezione II più velocemente rispetto alla domanda di consumo. “Il capitale monopolistico”, scritto tenendo conto di Marx, Keynes e Kalecki, non si limitava più alla Sezione II o alla sola domanda dei consumatori, ma sosteneva, piuttosto, che il capitalismo moderno ha una tendenza ad espandere la capacità produttiva totale più velocemente rispetto alla domanda effettiva generata internamente – cosicché, in assenza di fattori esterni, “il capitalismo monopolistico sarebbe affondato sempre più profondamente nella palude di una depressione cronica”

Da questa diagnosi si evince che, “i periodi piuttosto lunghi durante i quali il (reale) processo di accumulazione è proseguito in modo vigoroso con […] la domanda di forza lavoro in rapida espansione e la capacità produttiva utilizzata alla piena, o vicino alla piena, capacità” deve essere spiegato attraverso fattori esterni Quindi Baran e Sweezy suggeriscono come fattori cruciali per il superamento della congenita natura stagnante del capitalismo monopolistico, le principali innovazioni (motore a vapore, ferrovie, automobili), l’espansione imperialistica, le guerre e in generale lo stimolo della domanda in generale attraverso pubblicità, politiche governative, ecc…

L’associazione del monopolismo con crescita lenta e capacità [produttiva] in eccesso non è nuova. Molte teorie (come vedremo) tentano di spiegare questa correlazione. Lo specifico contributo di Baran e Sweezy è stato quello di sostenere che questi fenomeni emergono dalla persistente tendenza del capitalismo monopolistico ad espandere eccessivamente la propria capacità produttiva e pertanto di dirigersi verso la crisi e/o la stagnazione. Dobbiamo perciò scoprire le basi logiche di questo argomento.

Si ricordi che nell’analisi di Marx sono l’investimento totale e le spese per il consumo capitalistico a determinare la domanda effettiva (gli investimenti totali includono le spese sui salari, che a loro volta determinano il consumo dei lavoratori). Inoltre, dal momento che il consumo personale della classe capitalista risponde più o meno in modo passivo ai profitti presenti e passati, è l’investimento totale che nei fatti rappresenta la variabile cruciale.

Supponiamo ora che all’inizio di un certo anno, le spese totali per gli investimenti relativi alla produzione dell’anno successivo siano abbastanza grandi da espandere la capacità produttiva, ma non abbastanza per comprare tutto il prodotto sociale esistente. In questo modo i capitalisti avranno iniziato, da un lato, un’espansione della propria capacità produttiva futura e, dall’altro, avranno una domanda insufficiente anche per la loro capacità presente.

Data la natura anarchica della produzione capitalista, tale risultato ricorrerà abbastanza spesso, il punto è se questa sia semplicemente una caratteristica delle normali fluttuazioni della riproduzione capitalistica o qualcosa di più. Marx, per esempio, sostiene che i capitalisti sono spinti ad accumulare il più rapidamente e concretamente possibile, cosicché una discrepanza come quella di cui sopra tenderebbe ad auto-correggersi. Ma se si dovesse in qualche modo rilevare che in ogni periodo l’investimento tende a rimanere nel range descritto – abbastanza grande da espandere la capacità, ma non così grande da comprare l’offerta del periodo precedente – allora è chiaro che la capacità produttiva supererà la domanda effettiva e il sistema si troverà di fronte ad un “demand gap” cioè ad un “problema di realizzazione”.

L’argomento contenuto implicitamente nelle asserzioni di Baran e Sweezy si riferisce proprio al (potenziale) surplus [produttivo] che si espande più rapidamente della capacità del sistema di assorbirlo. Inoltre, sebbene essi tendano ad attribuire gran parte della responsabilità di questo problema al monopolismo, non spiegano perché i monopolisti dovrebbero persistere nell’espandere in eccesso la capacità produttiva nonostante una domanda insufficiente. L’elemento cruciale della loro intera tesi resta perciò non spiegato. Nella sua recente ricognizione sulle teorie marxiste della crisi, Erik Olin Wright nota questa carenza di vitale importanza:

“La debolezza più grave in (questa) posizione sotto-consumista è che in essa manca una qualsiasi teoria sulle determinanti del tasso di accumulazione reale… Molti scritti sotto-consumisti hanno, almeno implicitamente, optato per la soluzione di Keynes relativa a questo problema concentrandosi sulla soggettiva previsione di profitto dei capitalisti quale elemento chiave del tasso di accumulazione. Da un punto di vista marxista è una soluzione inadeguata. Non ho ancora visto un teorico marxista sotto-consumista che abbia scritto una completa teoria degli investimenti e del tasso di accumulazione e pertanto, ad oggi, la teoria rimane incompleta”.

Nel loro libro, Baran e Sweezy citano contributi di Joan Robinson, Michael Kalecki e Joseph Steindl. Poiché questi autori sono anche parte integrante della tradizione teorica della sinistra keynesiana, ci aiuterà l’analizzare le implicazioni delle loro analisi sulla questione delle crisi.

Gli investimenti giocano un ruolo cruciale sia nell’analisi keynesiana che in quella marxista, ma nella teoria keynesiana l’enfasi è [posta] soprattutto sulle determinanti di breve termine nelle scelte di investimento. Da come gli autori sopra citati trattano le scelte di investimento deriva il fatto che essi tendono a concentrarsi principalmente sui cambiamenti strutturali di breve termine e solo secondariamente su quelli di lungo termine. La prima parte dell’opera di Joan Robinson tratta solo en passant i cambiamenti strutturali, mentre le sue opere più mature fanno riferimento principalmente a Kalecki che, a sua volta, quando tratta – e brevemente – dei cambiamenti di lungo termine, postula semplicemente che, in assenza di fattori esterni, il capitalismo tende alla stagnazione. L’innovazione rappresenterebbe dunque il principale fattore che spinge gli investimenti sopra il livello necessario alla sola riproduzione del sistema e sostiene che sarebbe [proprio] la declinante intensità delle innovazioni nel capitalismo monopolistico che spiegherebbe la sua bassa crescita recente. Tutto questo è molto “ad hoc” e nel suo ultimo lavoro importante (1968) Kalecki enfatizza [il fatto] che manca ancora una spiegazione soddisfacente sulle scelte di investimento nel lungo periodo.

Per ultimo, Steindl inizia osservando l’incompletezza dell’analisi di Kalecki sul lungo periodo e si propone di porvi rimedio, ma alla fine anche egli è ricondotto a postulare il declino nell’intensità dell’innovazione come fattore primario nella lenta crescita del capitalismo moderno benché sottolinei il fatto che il monopolismo tenda ad esacerbare gli effetti di questo declino. Come Kalecki prima di lui, anch’egli conclude con l’ammettere che una spiegazione soddisfacente deve ancora essere trovata Non è sorprendente, perciò, che Baran e Sweezy abbiano preferito esporre una propria versione del problema.

 

4. Il capitalismo auto limita l’accumulazione

Le teorie sotto-consumiste radicali e marxiste tendono a concentrarsi sulla domanda effettiva quale fattore limitante dell’accumulazione capitalistica. D’altra parte, nell’analisi di Marx la domanda effettiva non è un problema intrinseco, al contrario, dal suo punto di vista i capitalisti sono stimolati ad accumulare il più rapidamente possibile, cosicché è l’auto espansione della riproduzione, e non la stagnazione, ad essere la normale tendenza del sistema. Ciò non significa che il processo di accumulazione sia regolare o che crisi parziali non possano avvenire lungo la strada a causa di raccolti perduti, ecc.. Significa invece che i limiti al processo di accumulazione non emergono dalla scarsità della domanda.

Questo significa, come sosteneva eloquentemente Rosa Luxemburg, che se si rifiuta la teoria del sotto-consumo poi si è obbligati ad accettare il principio che l’accumulazione (e quindi il capitalismo stesso) sia capace di espansione illimitata? Per niente. Secondo Marx i limiti all’accumulazione sono completamente interni al processo. “Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso”

L’accumulazione capitalista è motivata dal profitto, ma, come spiega Marx, il processo di accumulazione fa diminuire progressivamente il saggio di profitto, cosicché [l’accumulazione] tende ad indebolire sé stessa. Si tratta della famosa legge della caduta tendenziale del saggio di profitto che analizzeremo tra breve. Nello stesso tempo, l’accumulazione comporta l’estensione dei rapporti sociali capitalistici, l’aumento del proletariato e della sua forza.

Il declino della profittabilità implica tassi di accumulazione declinanti e aumento della concorrenza spietata tra capitalisti per i mercati (a livello nazionale e internazionale), le materie prime e la forza-lavoro a basso costo. I capitali più deboli vengono eliminati ed aumenta la concentrazione e la centralizzazione economica (diciamo, i “monopoli”). Inoltre, per i capitalisti diventa sempre più necessario attaccare i salari, sia direttamente attraverso la meccanizzazione, sia attraverso l’importazione di forza-lavoro a basso costo e/o l’esportazione di capitale nei paesi più poveri.

Contemporaneamente cresce di continuo la massa della classe lavoratrice e l’entità della sua esperienza collettiva nella lotta contro il capitale. Così, il crescente attacco del capitale al lavoro incontra una crescente resistenza e un contro-attacco (nel lungo periodo). La lotta di classe si intensifica.

È importante comprendere che la tendenza alla caduta del saggio di profitto (come si ricava da Marx) non è causata da alti salari, sebbene un aumento dei salari reali possa aggravarla. Questo significa che le crisi periodiche derivate dalla caduta del saggio di profitto non possono essere attribuite alle richieste [economiche] dei lavoratori o alla loro resistenza sebbene, naturalmente, le diverse fasi storiche e situazioni politiche siano molto importanti per spiegare come reagisce il sistema, nel suo insieme, ad ogni crisi. Fintanto che prevalgono i rapporti capitalisti, dunque, continueranno ad agire le tendenze generali [del capitalismo] e di conseguenza, Marx enfatizza che l’obiettivo del proletariato non è solo quello di resistere al capitale, ma di rovesciarlo.

Da questa breve descrizione dovrebbe risultare chiaro che la crescita dei “monopoli”, la caduta del saggio di accumulazione e l’approfondirsi della lotta di classe devono essere spiegate come conseguenze delle leggi fondamentali dello sviluppo capitalistico piuttosto che come fattori che danno origine a nuove leggi – come tentano di fare, ad esempio, Baran e Sweezy. Poiché la legge della caduta [tendenziale] del saggio di profitto è centrale in questa esposizione, dobbiamo esaminarla ulteriormente.

a. La teoria della caduta del saggio di profitto di Marx

Il problema della profittabilità ha due aspetti importanti. Primo, su cosa si fonda la profittabilità e che cosa determina la sua grandezza? Secondo, come sviluppa il capitalismo questo fondamento e, a sua volta, quale effetto ha sulla sua grandezza?

Per rispondere alla prima domanda Marx inizia dal processo lavorativo. In tutte le società, osserva, gli oggetti necessari per soddisfare i bisogni e i desideri umani comportano una certa allocazione di tempo di lavoro sociale, delle sue attività produttive, in determinate proporzioni e quantità. Diversamente, la riproduzione della società è impossibile.

Mentre la ripartizione del lavoro sociale è fondamentale per tutte le società, l’estrazione di pluslavoro sta alla base delle società classiste e questo pluslavoro costituisce la base materiale e sociale dei rapporti di classe. L’estrazione del pluslavoro deve essere imposta dal momento che fornisce alla classe dominante, non solo i mezzi di consumo, ma anche i mezzi di dominio.

Nella maggior parte delle società, la ripartizione del tempo lavoro sociale e l’estrazione del pluslavoro sono regolati socialmente dalla tradizione, dalla legge, dalla forza, ma nella società capitalista l’attività produttiva viene intrapresa privatamente da capitalisti individuali sulla base di un profitto atteso. La riproduzione non è una preoccupazione esplicita [dei singoli capitalisti] eppure deve avvenire ed avviene.

A prima vista, sono i prezzi e i profitti a fornire il “feedback” quotidiano che determina le decisioni dei capitalisti, ma, sostiene Marx, in realtà è il tempo di lavoro totale (il valore del lavoro) coinvolto nella produzione delle merci a regolare il fenomeno del denaro. Questa regolazione dei prezzi e dei profitti tramite il valore del lavoro e quello del surplus [plusvalore] è in effetti il modo nel quale nella società capitalista si manifestano le necessità della riproduzione. D’ora in poi, quindi, tratteremo direttamente con valore del lavoro e plusvalore poiché questi sono i veri elementi regolatori.

Durante il processo lavorativo, i lavoratori usano strumenti di lavoro (impianti e attrezzature) per trasformare le materie prime in prodotti finiti. Il tempo di lavoro totale richiesto per il prodotto finito è dunque composto da due parti: la prima, il tempo lavoro implicito nei mezzi di produzione usati (materie prime, impianti e attrezzature); la seconda, il tempo di lavoro speso dai lavoratori nel processo produttivo stesso. Marx chiama il primo elemento “capitale costante” (C) poiché si ripresenta (integralmente) nel prodotto finale, mentre chiama il secondo “valore aggiunto dal lavoro vivo” (L). Il valore totale di qualsiasi prodotto è perciò C+L.

Del prodotto finale, una parte è proprio l’equivalente dei mezzi di produzione consumati ed il suo valore sarà perciò C poiché questo è il valore dei mezzi di produzione utilizzati. Questo ci lascia il prodotto netto da una parte e il valore aggiunto dal lavoro vivo (L) dall’altra. Il prodotto netto è l’equivalente materiale del tempo di lavoro vivo (L).

Se ci deve essere un surplus, allora solo una parte del prodotto netto deve andare a rimpiazzare i beni consumati dai lavoratori. Il valore aggiunto dal lavoro vivo (L) è quindi composto da due parti, una delle quali corrisponde al valore relativo alle necessità in beni di consumo dei lavoratori (V) mentre l’altra corrisponde al valore del prodotto in surplus (S). In altre parole, è la differenza tra il tempo che in realtà i lavoratori impiegano (L) e il tempo necessario per riprodurre loro stessi (V) – il loro tempo di pluslavoro (S) – che fa nascere il prodotto in surplus e da esso i profitti:

La suddivisione del tempo di lavoro vivo in necessario (V) e in surplus (S) è perciò la base nascosta della società capitalistica e Marx chiama il rapporto S/V “saggio di plusvalore” o “saggio di sfruttamento”. A parità di altri fattori, maggiore è il saggio di sfruttamento maggiore è la quantità di plusvalore e, da qui, maggiore è il profitto.

Il tempo che i lavoratori impiegano complessivamente (L) è determinato dalla durata della giornata lavorativa. Il tempo necessario per riprodurre loro stessi (V) è determinato, d’altro canto, dalla quantità di beni che essi consumano (il loro “salario reale”) e dal tempo di lavoro che serve per produrre questi beni. La massa di plusvalore (S) e il saggio di sfruttamento (S/V) possono perciò essere aumentati in due modi: direttamente, allungando la giornata lavorativa cosicché il tempo pluslavoro sia aumentato direttamente; e indirettamente, diminuendo il tempo di lavoro necessario (V) cosicché un parte maggiore della giornata lavorativa venga spesa in tempo di pluslavoro. Quest’ultimo metodo per aumentare S e S/V richiede che i salari reali dei lavoratori siano ridotti, che la produttività del loro lavoro sia aumentata cosicché sia necessario meno tempo per produrre i loro beni di consumo, o entrambe le cose.

I capitalisti cercano costantemente di aumentare in tutti i modi il saggio di sfruttamento, ma nel tempo la forza crescente dei lavoratori ha fortemente ridotto i tentativi di allungare la giornata lavorativa e di abbassare il salario reale e, di conseguenza, l’aumento della produttività del lavoro è diventato il mezzo principale per aumentare il saggio di sfruttamento. Ma la cosa paradossale del capitalismo, come spiega Marx, è che proprio i mezzi usati per aumentare il saggio di sfruttamento tendono ad abbassare il saggio di profitto. L’aumentata produttività del lavoro si manifesta in una caduta della profittabilità del capitale

Il saggio di plusvalore S/V esprime la suddivisione della giornata lavorativa in tempo di lavoro necessario e pluslavoro e misura il grado di sfruttamento dei lavoratori produttivi, ma, per i capitalisti, l’elemento cruciale è il grado di profittabilità del capitale. Dal loro punto di vista, essi investono denaro in mezzi di produzione (C) e in [salari dei] lavoratori (V) con l’intento di realizzare profitto (S). L’ammontare di profitto (S) relativamente al proprio investimento (C+V) costituisce la misura capitalistica del successo. In altri termini, è il saggio di profitto S/(C+V) che regola l’accumulazione del capitale.

Ed è qui che emerge il paradosso. Nella loro continua guerra gli uni contro gli altri i capitali individuali sono costantemente obbligati ad abbassare i costi unitari così da guadagnare punti sui loro concorrenti (la battaglia attuale sulle calcolatrici tascabili è un esempio eccellente di questo processo). Fin tanto che si tratta di vincere la battaglia delle vendite sarà utile qualunque cosa che faccia abbassare i costi unitari.

Ma i capitalisti sono costantemente impegnati anche in un’altra battaglia – la battaglia della produzione nel processo lavorativo. Ed è qui che la meccanizzazione diventa il mezzo principale per aumentare la produttività del lavoro e, di conseguenza, abbassare i costi unitari. I capitalisti assumono lavoratori per un certo periodo e il loro obiettivo è quello di spremere da loro, durante il processo lavorativo, la massima produttività possibile al costo più basso possibile ma ciò comporta non solo lotte sul salario reale e sulla durata e intensità della giornata lavorativa, ma anche sulla natura stessa del processo lavorativo. Fin dall’inizio i capitalisti hanno cercato di “perfezionare” il processo lavorativo suddividendolo in mansioni sempre più specializzate e di routine. Con il controllo capitalista del processo lavorativo l’attività produttiva umana è stata resa sempre più meccanizzata, automatica, così non è una sorpresa che queste funzioni umane meccanizzate vengano progressivamente rimpiazzate da macchinari reali. Via via che le macchine sostituiscono alcune funzioni umane, altre funzioni siano sempre più soggette alla tirannia della meccanica, fino a che anche queste funzioni non vengano sostituite da macchinari, e così via.

La tendenza verso la meccanizzazione è pertanto il principale metodo capitalistico per aumentare la produttività sociale del lavoro e va al di là del controllo capitalistico sul processo lavorativo, sull’attività produttiva umana e come tale, né la resistenza crescente dei lavoratori, né l’aumento reale dei salari sono cause intrinseche della meccanizzazione, sebbene esse possano amplificare questa tendenza.

L’incremento della meccanizzazione è ciò che Marx chiama incremento della composizione organica del capitale in crescita, così una massa sempre più grande di mezzi di produzione e di materie prime viene messa in funzione da un certo numero di lavoratori. Secondo Marx, questo implica, a sua volta, che il valore totale del prodotto finale (C+L) proviene sempre più dai mezzi di produzione consumati e sempre meno dal lavoro vivo. In altre parole, la crescita della composizione organica è riflessa in termini di valore come crescita della quota di lavoro morto su quello vivo, di C su L.

Il saggio di profitto, come abbiamo visto, è S/(C+V). Ma S=L-V, dal momento che il tempo di pluslavoro (S) è uguale al tempo di lavoro totale (L) meno il tempo necessario per la propria riproduzione (V). Perciò, anche se “i lavoratori vivessero d’aria” (V=0), S potrebbe corrispondere, al massimo, ad L. Di conseguenza, L/C è il limite massimo del saggio di profitto, mentre quello minimo è, naturalmente, zero. Ora, se una composizione organica crescente si riflette in un crescente rapporto C/L – e di conseguenza in un rapporto L/C in diminuzione – allora il saggio di profitto corrente sarà progressivamente schiacciato tra un estremo superiore che si abbassa e un estremo inferiore fisso, cosicché esso deve manifestare una tendenza verso il basso. Questo è ciò che Marx intende per caduta tendenziale del saggio di profitto.

La tendenza “alla caduta” sopra descritta è indipendente da come L sia suddiviso tra V e S, e dunque è indipendente dal tasso di sfruttamento S/V. Infatti, se il salario reale dei lavoratori fosse costante, la crescente produttività del lavoro derivante dalla meccanizzazione farebbe aumentare continuamente il rapporto S/V; maggiore è la produttività del lavoro, minore il tempo necessario ai lavoratori per produrre un certo numero di beni di consumo, cosicché una quota maggiore della giornata lavorativa diventa tempo di pluslavoro. Anche quando i salari reali aumentano, posto che essi aumentino meno rapidamente della produttività, il tasso di sfruttamento continuerà ad aumentare pertanto è sicuramente possibile avere sia un aumento del salario reale che un aumento del tasso di sfruttamento. Questa è infatti la situazione generale tratteggiata da Marx dal momento che i lavoratori non possono mai prendersi tutta la produttività creata attraverso la meccanizzazione senza fermare l’accumulazione e quindi uccidere la gallina dalle uova d’oro. Per Marx, la lotta di classe sui salari funziona entro certi limiti oggettivi, i limiti dati dall’accumulazione del capitale e tali limiti sono intrinseci al capitalismo stesso e possono essere superati solo rovesciandolo.

Quasi tutti gli opinionisti marxisti accettano come dato di fatto che la meccanizzazione sia una realtà dominante della riproduzione capitalistica. D’altra parte, un’importante scuola di pensiero considera la meccanizzazione, non tanto come controllo capitalistico del processo produttivo, come fa Marx, quanto piuttosto come reazione del capitale alla crescente resistenza dei lavoratori e/o all’aumento dei salari reali (nel lungo periodo). Di solito essi iniziano presupponendo un aumento dei salari reali in certe condizioni produttive che porta ad una caduta del saggio di profitto che, a sua volta, obbliga i capitalisti a sostituire i lavoratori con le macchine. Da questo punto di vista ovviamente, la meccanizzazione e l’aumento della produttività del lavoro che ne discende sono gli strumenti principali per aumentare la redditività, diminuita dall’aumento dei salari. Essi sostengono che a seconda di quale fattore prevarrà, il saggio di profitto potrà andare in una o nell’altra direzione. Paul Sweezy e Maurice Dobb, per esempio, condividono entrambi questo punto di vista.

Questa analisi è corretta – finché funziona. L’aumento dei salari reali spinge infatti alla meccanizzazione e [l’effetto di] questa potrà compensare o meno l’effetto dei più alti salari sulla redditività, ma in Marx la crescita dei salari è resa possibile da una causa precedente, vale a dire dalla meccanizzazione che sorge dalla battaglia nella produzione. Di conseguenza, l’effetto che Sweezy e Dobb analizzano è un effetto secondario, sovrapposto su (e nei fatti possibile solo grazie a) quello primario. Considerato che ignorano la causa primaria, non è sorprendente che essi non riescano a trovare alcuna ragione particolare affinché il saggio di profitto debba diminuire.

Un’altra tra le principali obiezioni alla legge sostiene che la meccanizzazione (qualunque ne siano le cause) non comporta necessariamente una caduta tendenziale del saggio di profitto. Si consideri un certo numero di lavoratori cosicché L sia dato. Meccanizzazione implica un aumento della massa dei mezzi di produzione impiegati da questi lavoratori, ma tale [aumento] è accompagnato anche da un aumento della produttività del lavoro e quindi da una caduta del valore delle merci, poiché adesso è necessario meno tempo per produrre una determinata merce. Perciò il valore dei mezzi di produzione (C) non aumenterà così velocemente come la loro massa che può addirittura diminuire. Marx sostiene che tuttavia C aumenterà, cosicché C/L aumenterà e si verificherà la caduta tendenziale, ma, dicono i critici, supponiamo che il valore dei mezzi di produzione cada altrettanto o anche più velocemente di quanto aumenti la sua massa? In questo caso C/L rimarrà costante o diminuirà e nessuna spinta a decrescere verrà esercitata sul saggio di profitto.

Si deve dire subito che questa è una obiezione valida poiché evidenzia una lacuna nell’argomentazione della caduta del saggio di profitto. Nella letteratura attuale, vi è la forte convinzione che un crescente rapporto tra macchine e lavoratori debba comportare anche un crescente rapporto tra “lavoro morto” e lavoro vivo (ovvero di C rispetto ad L), ma i tentativi per specificare la correlazione esatta tra i due (come quello di Yaffe) non sono risultati soddisfacenti cosicché rimane aperta la possibilità dello scenario tratteggiato dai critici. Questo tema rappresenta ancora un elemento molto dibattuto e viene trattato in modo esteso nell’articolo a cui si riferisce la nota precedente (*).

Un’altra obiezione diffusa è quella che i capitalisti non sceglierebbero mai di impiegare una tecnica di produzione che faccia abbassare il loro saggio di profitto, perciò un saggio declinante è escluso a priori. Questo argomento viene spesso esposto matematicamente, come nel cosiddetto “Teorema di Okishio” ma il suo presupposto fondamentale sta alla base di una cornice analitica ampiamente condivisa che va dai keynesiani di sinistra, come Joan Robinson, a marxisti come Bob Rowthorn. Nei termini della discussione sopra esposta, qui l’errore cruciale risiede nel presupporre che il progresso tecnico sia una semplice questione di “scelta” da parte del capitalista e non di necessità. Marx osservò, molto tempo fa, che nel capitalismo è la necessità dettata dalla concorrenza ad obbligare i capitalisti a scegliere la tecnica che consente costi unitari più bassi, anche quando comporta un saggio di profitto minore. Chiunque faccia questa mossa per primo, può vendere a prezzi più bassi degli altri e l’unica “scelta” che questi dovranno affrontare sarà dunque tra quella di fare profitti ad un saggio inferiore rispetto a prima oppure non fare affatto profitti perché il loro prodotto costa troppo

Infine, alcuni marxisti rifiutano la nozione di un aumento di C/L su base empirica. Poiché C è il valore dei mezzi di produzione e L è il valore aggiunto dal lavoro vivo, i loro equivalenti in denaro sono K – il valore monetario dei mezzi di produzione – e Y – il valore monetario aggiunto o “prodotto nazionale netto” -. Su questa base viene esaminato il “rendimento del capitale” K/Y e, poiché le statistiche ufficiali indicano che esso tende ad essere costante nel lungo periodo, pare che questo si opponga alla nozione di un rapporto C/L in aumento.

E’ interessante notare che questi stessi marxisti rifiutano con forza di accettare la validità delle statistiche ufficiali su disoccupazione, entità della povertà, incidenza della malnutrizione, ecc.- in base all’argomento che le concezioni borghesi di queste categorie ne dominano la costruzione al punto tale da renderle praticamente inutilizzabili. Le statistiche sulla disoccupazione, ad esempio, non tengono conto di coloro che hanno smesso di cercare lavoro, di coloro che non hanno mai trovato un lavoro (come gli adolescenti di colore) e di coloro che non entrano affatto nelle forze di lavoro perché non hanno più speranze (come le casalinghe). Non è perciò insolito che radicali e i marxisti calcolino una “disoccupazione reale” da due a tre volte superiore rispetto alle stime ufficiali. Invece, quando si arriva a categorie assolutamente fondamentali come quelle di “capitale” e “valore aggiunto”, le statistiche ufficiali vengono improvvisamente accettate senza alcun problema.

Ritorneremo su questo importante punto nella discussione sulle teoria delle crisi chiamata “profit squeeze”. Per il momento è sufficiente osservare come l’unico statistico marxista che si sia preoccupato di esaminare come queste statistiche siano redatte e di correggerle tenendo conto delle differenze concettuali tra categorie marxiste e ortodosse, abbia scoperto precisamente che il rapporto “capitale-output” sembra crescere progressivamente.

b. Storia della teoria della caduta del saggio di profitto

La tendenza del saggio di profitto a cadere con lo sviluppo del capitalismo era diffusamente accettata dagli economisti classici, il problema consisteva nel come veniva spiegato questo fenomeno.

Adam Smith (1770) per esempio, osservò che quando i capitali si concentrano in un particolare ramo dell’industria essi espandono l’offerta, abbassano i prezzi e, di conseguenza, i profitti ed allo stesso modo, sosteneva, via via che si sviluppa il processo di accumulazione, che il capitale nel suo complesso diventa sovrabbondante e questo fa abbassare il saggio di profitto.

I critici chiarirono immediatamente che i capitali si concentrano in una particolare industria solo quando essa ha un saggio di profitto sopra la media e così facendo finiscono semplicemente per riportare quel saggio di profitto verso il suo valore medio. Il tasso medio, di conseguenza, non viene spiegato e Smith non fornisce alcuna ragione per cui l’accumulazione dovrebbe in qualche modo alterarlo.

Circa quarant’anni dopo, David Ricardo (anni ’10 dell’800) offrì una spiegazione alternativa, infatti egli sosteneva che con lo sviluppo della società, deve essere coltivata sempre più terra per sostenere una popolazione in crescita. Questo significa che terra meno fertile viene via via sottoposta a coltivazione e che dunque diventa sempre più costosa la produzione del cibo. In termini marxisti, il valore del cibo aumenta, quindi per una data giornata lavorativa, il tempo di lavoro necessario aumenta e il tempo di pluslavoro diminuisce in modo proporzionale. Così, via via che la società di sviluppa, il saggio di plusvalore diminuisce e, con esso, cade il saggio di profitto – non perché aumentano i salari reali dei lavoratori – ma perché la produttività del lavoro agricolo diminuisce.

La conclusione cruciale di Ricardo è che in agricoltura la produttività tende a declinare. Nella sua critica alla teoria ricardiana della rendita, Marx dimostra che questa conclusione non è vera, né dal punto di vista logico, né dal punto di vista empirico, infatti, tutta la storia del capitalismo è caratterizzata da una crescente produttività della forza-lavoro, tanto nell’industria quanto nell’agricoltura. Come abbiamo visto nella parte precedente, la spiegazione di Marx della caduta del saggio di profitto si basa sulla crescente produttività del lavoro sociale e sul crescente saggio di plusvalore.

“Il saggio di profitto cade, non perché il lavoro diventa meno produttivo, ma perché diventa più produttivo. Non perché il lavoratore è meno sfruttato, ma perché è più sfruttato.”

Marx considerava la propria spiegazione della “tendenza del saggio di profitto a cadere con il progredire della società (capitalistica)” come “uno dei maggiori trionfi sugli ostacoli posti dall’economia precedente”. Essa costituisce il fulcro della sua analisi delle leggi di movimento del sistema capitalistico, e, d’altra parte, è abbastanza curioso che questa legge giochi un ruolo abbastanza limitato in gran parte della storia del pensiero marxista ed è’ completamente assente, per esempio, nelle teorie del sottoconsumo e, come vedremo nella sezione successiva, è altrettanto assente nella teoria del “profit squeeze”.

Parte delle ragioni di questa trascuratezza deriva dalle obiezioni, precedentemente esaminate, che sono state mosse alla logica delle conclusioni di Marx sulla tendenza alla caduta del saggio di profitto. Ma un altro, motivo, forse anche più importante, che porta a rifiutare questa legge è di natura politica Concepire il capitalismo come soggetto a “leggi di sviluppo”, equivale a trattare un complesso umano sociale come se fosse una macchina o un processo fisico, cosa che minimizza e svilisce il ruolo degli esseri umani nel determinare il corso degli eventi. Le persone, non le leggi di sviluppo, fanno la storia. Inoltre, si afferma, concordare con l’asserzione che il saggio di profitto tende a declinare conduce ad un comportamento fatalistico e passivo nei confronti dell’obiettivo di rovesciare il capitalismo. Per ultimo, talvolta si aggiunge anche il fatto che, in ogni caso, l’analisi delle cause delle crisi è un tema troppo astratto per essere usato nella pratica della lotta di classe.

Non c’è alcun dubbio che Marx concepisse la storia del capitalismo in termini di leggi di sviluppo e la storia umana in generale in termini di forze oggettive che agiscono limitando l’azione degli uomini, ma d’altra parte è lo stesso Marx che ha elevato la lotta di classe al livello più alto, che ha sostenuto attivamente il rovesciamento immediato del capitalismo (dunque non in qualche fatalistico futuro) e che ha partecipato alla più pratica attività politica sulla base della propria analisi teorica. C’è una contraddizione tra questi due aspetti di Marx? Per niente. Al contrario, come sostengono Henryk Grossman (Germania), Paul Mattick (USA) e David Yaffe (Gran Bretagna), è precisamente dalla struttura teorica [del pensiero] di Marx che sorge la [sua] politica rivoluzionaria.

Grossman fu il primo importante marxista a spostare la discussione sulla crisi dalle teorie del sottoconsumo e della sproporzionalità. Fortemente critico di queste teorie sia dal punto di vista logico che politico, Grossman enfatizzò invece la centralità della legge della caduta del saggio di profitto come teoria delle crisi. Egli osservò che in Marx era di particolare importanza il fatto che quando il saggio di profitto diminuisce, la crescita della massa totale di profitto deve rallentare e alla fine arrestarsi. Nel momento in cui i nuovi investimenti non generano più profitti addizionali essi saranno ridotti e scoppierà una crisi. All’aggravarsi della crisi, i capitali più deboli e meno efficienti saranno spazzati via e quelli più forti saranno in grado di comprare in blocco i loro asset a prezzi estremamente bassi. Con l’aumento della disoccupazione la forza dei lavoratori si indebolisce, i salari reali tendono a cadere mentre il processo produttivo tende ad intensificarsi cosicché aumenta il saggio di sfruttamento. Tutti questi fattori fanno aumentare il saggio di profitto. In questo modo, ogni crisi pone le condizioni per la ripresa e per il prossimo ciclo di crescita-decrescita.

Nessuno sa quando scoppierà una particolare crisi poiché molti fattori possono ritardare o accelerare gli effetti della caduta del saggio di profitto. In questo senso, la lotta di classe è cruciale, non solo per quanto riguarda il “quando” delle crisi, ma anche per il “dove”, l’arena entro cui combattere i loro effetti. Ancora più importante per Grossman è che le crisi sono “situazioni oggettivamente rivoluzionarie”. Mostrare la necessità delle crisi all’interno del capitalismo significa quindi mostrare la necessità di prepararsi in anticipo per cogliere il momento di questi periodi oggettivamente rivoluzionari. Per ultimo, basandosi sulle proprie letture di Marx, stabilisce un collegamento importante tra teoria e pratica:

“…nessun sistema economico, non importa quanto indebolito, collassa da solo in modo automatico. Deve essere “rovesciato”. L’analisi teorica delle tendenze oggettive che conducono ad una paralisi del sistema serve a scoprire gli “anelli deboli”. Il cambiamento avverrà solo attraverso l’operare attivamente dei fattori soggettivi”

Paul Mattick rielaborò il lavoro di Grossman in diversi modi. Di particolare importanza è il punto in cui Mattick sostiene che la ragione per cui Marx parla della società capitalistica in termini di leggi di sviluppo è precisamente perché il capitalismo è regolato non da decisioni umane consapevoli, ma piuttosto da “rapporti basati sulle cose” – i rapporti che regolano mercato, prezzi e profitti. Come Grossman prima di lui, Mattick enfatizza (il fatto) che le crisi forniscono opportunità rivoluzionarie e reazionarie, ma solo la lotta di classe può determinare quale via verrà imboccata. Se il capitalismo si trasformerà in fascismo o in socialismo non è stabilito a priori.

Negli ultimi anni, David Yaffe ha presentato nuovamente l’analisi economica di Marx e applicandola alle crisi attuali. L’ampiezza della sua analisi va oltre l’ambito di questa discussione. Per quanto riguarda la teoria della crisi, oltre ai punti analoghi a quelli espressi da Grossman e Mattick, Yaffe aggiunge i seguenti. Primo, dal momento che una crisi si manifesta in termini di prezzi e profitti, vi è la tendenza a considerare prezzi e profitti quali cause delle crisi. Per esempio, dal momento che, per definizione, il profitto è la differenza tra le vendite e i costi, qualunque cosa provochi una caduta della redditività [cioè delle vendite] comporterà necessariamente una caduta dei profitti. Ma una parte dei costi è costituita semplicemente dal prezzo di alcune merci, come le materie prime ecc. (e, di conseguenza, dalle vendite di altre industrie), perciò, qualsiasi declino nella profittabilità tende a essere attribuito alla parte rimanente dei costi, ossia ai salari, e da qui si arriva velocemente alla tesi secondo cui gli “alti” salari sono la causa del declino. In questo modo un effetto si trasforma in una causa.

Analoghe considerazioni possono essere sviluppate per la stagnazione, la disoccupazione crescente, l’inflazione, l’aumento della spesa statale e l’inasprirsi delle lotte di classe in tutto il mondo. Ognuna di queste, sostiene Yaffe, è una manifestazione dello sviluppo della crisi, non una causa. Via via che il saggio di profitto cade, l’accumulazione rallenta e la disoccupazione aumenta. I capitalisti aumentano i prezzi per cercare di mantenere la propria profittabilità, dando così vita a una spirale inflazionistica. Contemporaneamente, lo Stato è obbligato ad intervenire, da un lato per mantenere l’occupazione a livelli politicamente accettabili e, dall’altro, per sovvenzionare o anche per rilevare le industrie in via di fallimento. La spesa dello Stato, quindi, aumenta rapidamente. Ma il debito dello Stato accelera solamente l’inflazione, mentre il sostegno ai livelli occupazionali impedisce che i salari diminuiscano abbastanza da ristabilire la profittabilità. In questo modo la contraddizione si approfondisce e diventa sempre più difficile inventarsi politiche [economiche] che “funzionino”. Questo è, secondo Yaffe, lo stadio in cui ci troviamo adesso, in tutto il mondo capitalistico.

c. Lotta di classe e Profit Squeeze

Ogni crisi evidenzia l’importanza dei profitti nella produzione capitalistica e solleva nuovamente il problema di cosa regola la profittabilità. Ogni declino della profittabilità, a sua volta, tende, prima o poi, ad essere ricondotto agli alti salari. Ora, è certamente vero che una riduzione dei salari, a parità di altre condizioni, farà aumentare i profitti, ma ciò non significa che un declino dei profitti sia necessariamente dovuto a salari eccessivi. Il problema è, come possiamo distinguere la causa dall’effetto?

Nell’analisi di Marx ci si aspetta che un aumento del salario reale sia accompagnato da un aumento nel tasso di sfruttamento, cosicché, da solo, l’aumento del salario non contribuirà alla caduta della profittabilità. In termini marxisti perciò, solo quando l’aumento dei salari reali è abbastanza elevato da abbassare realmente il tasso di sfruttamento possiamo dire che la caduta della profittabilità sia dovuta (in parte, almeno) ad “alti salari”.

Marx, ovviamente, rifiuta questa spiegazione sulla base del fatto che l’accumulazione di capitale stessa definisce i limiti oggettivi entro i quali le lotte per il salario sono confinate cosicché, in generale, il saggio di sfruttamento aumenta. Infatti, egli osserva che il saggio di profitto cade perché i lavoratori sono più sfruttati, non [perché lo sono] meno.

A livello più astratto l’equivalente in denaro del saggio di plusvalore S/V è il rapporto tra “profitti” e “salari” Π/W, per cui una caduta del rapporto profitti/salari potrebbe essere vista come prova di un eccessivo aumento dei salari reali. Ma questo ragionamento è falso.

Anzitutto, è assolutamente possibile che i lavoratori siano più sfruttati e che, di conseguenza, producano un maggiore plus-prodotto, mentre, allo stesso tempo, i capitalisti siano incapaci di vendere questo maggior prodotto e di tradurlo in profitti. Per esempio, in una crisi causata dalla caduta del saggio di profitto (“a la Marx”) mentre alcuni capitali escono dal mercato altri perderanno compratori per parte dei loro prodotti così i prezzi diminuiranno e con essi diminuiranno i profitti e il rapporto profitti/salari. Per compensare questo, i capitalisti che sopravvivono faranno lavorare più duramente i lavoratori e li sfrutteranno di più, nel tentativo di abbassare i costi [di produzione] e di restare sul mercato. Negli spasimi di una crisi, perciò, un rapporto profitti/salari in diminuzione sarà accompagnato da un aumento del saggio di sfruttamento, inoltre, in questo contesto, entrambi sono sintomi, non cause, della crisi.

Ma il modello descritto non può darsi prima dello scoppio di una crisi. Non potrebbe, quindi, essere legittimo vedere il rapporto profitti/salari come indice del saggio di sfruttamento durante periodi non di crisi? Se così fosse, una diminuzione del rapporto profitti/salari precedente una crisi, sarebbe la prova evidente che i lavoratori hanno avuto successo nell’aumentare i propri salari reali abbastanza velocemente da abbassare il saggio di sfruttamento e, di conseguenza, da accelerare la crisi. E’ precisamente questa identificazione teorica di Π/W come indice di S/V che definisce la branca delle teorie marxiste della crisi nota come “profit squeeze”, come stabilito da Glyn, Sutcliffe e Rowthorn in Gran Bretagna e da Bobby e Crotty negli Stati Uniti.

Apparentemente la loro tesi si basa sull’osservazione empirica che le crisi sono precedute da una caduta nel rapporto profitti/salari, ma questa stessa osservazione viene fatta frequentemente anche dagli economisti borghesi, come nel caso, recentemente, di William Nordhaus del Brooking Institute, comunque, a differenza di Nordhaus, i marxisti fanno un passo in avanti identificando il rapporto profitti/salari osservato con il saggio di sfruttamento. Da questo consegue che il declino nella profittabilità è effettivamente un’espressione della caduta del saggio di plusvalore che, a sua volta, può essere dovuta solo ad un aumento sufficientemente elevato dei salari reali. Ironicamente, laddove l’economista borghese Nordhaus assegna la responsabilità del declino al “costo del capitale” i marxisti lo attribuiscono a “questioni del lavoro”!

In un certo senso, gli argomenti [dei sostenitori] del “profit squeeze” sono vecchi tanto quanto il capitalismo. Nessuno sa meglio dei capitalisti quanto siano importanti i profitti per il sistema e per ovvie ragioni nessuno è stato più rapido di loro nell’indicare nei salari troppo elevati la causa dell’accelerazione della crisi. In questo senso ad ogni crisi emerge una versione capitalistica del “profit squeeze”.

Ad un livello leggermente più astratto, gli economisti borghesi hanno a lungo sostenuto che una profittabilità decrescente sia dovuta al fatto che i lavoratori sono in grado di aumentare la loro “quota” di prodotto nazionale netto (a spese della “quota” dei capitalisti, ovviamente). Commentando due suoi contemporanei, il francese Frederic Bastiat (anni ’40 dell’800) e l’americano Henry Carey (anni ’60 dell’800), Marx osserva che benché “essi accettino il fatto che il saggio di profitto diminuisce… essi [in modo erroneo] lo spiegano come dovuto semplicemente e interamente alla crescita di valore della quota che va ai lavoratori…”

Da molti punti di vista, l’attuale teoria marxista del “profit squeeze” è simile a quella di Bastiat e Carey. Erik Olin-Wright, nella sua indagine sulle teorie marxiste della crisi, riassume la versione moderna nel modo seguente:

“La questione fondamentale è molto semplice: la quota relativa di reddito nazionale che va ai lavoratori e ai capitalisti è quasi interamente una conseguenza delle rispettive forze nella lotta di classe. Nella misura in cui la classe dei lavoratori sviluppa un movimento abbastanza forte da ottenere aumenti di salario che superano gli aumenti di produttività, il saggio di sfruttamento avrà la tendenza a diminuire e così pure il saggio di profitto (sarà “ristretto” dal costo dei crescenti salari). Tale declino nei profitti conduce ad un corrispondente declino degli investimenti e così anche a minori aumenti della produttività. Il risultato finale è la crisi economica”.

La versione marxista moderna del “profit squeeze” perciò, segue la logica economica di Bastiat e Carey nel considerare la caduta tendenziale del saggio di profitto come conseguenza della caduta del saggio di sfruttamento, ma vi è una differenza politica cruciale tra le due versioni perché, laddove gli economisti borghesi denunciano questa situazione, i marxisti la celebrano. La teoria marxista del “profit squeeze” rende la lotta di classe sulle condizioni di lavoro il fattore cruciale che (in ultima istanza) determina il corso della riproduzione capitalistica. Per questi marxisti è segno di speranza il fatto che lo sviluppo del sistema abbia raggiunto una fase in cui i lavoratori sono abbastanza forti da far precipitare le crisi. Se la classe dei lavoratori è capace mettere in ginocchio il sistema attraverso le proprie richieste salariali, allora può essere già abbastanza forte da resistere agli attacchi al salario reale che sono parte integrante del processo di “recupero” [del sistema]. Essi forse possono essere abbastanza forti anche per “risolvere” la crisi subentrando nel potere politico.

Il grande vantaggio di questa teoria è la sua semplicità. Anche nel capitalismo abbiamo “al comando” la politica, così, per capire la storia del capitalismo, dobbiamo analizzare le politiche concrete della lotta di classe e non qualche astratta legge di sviluppo. L’accumulazione capitalistica è infatti limitata internamente, ma è il lavoro e non “il capitale stesso” (come sostiene Marx) che rappresenta la prima barriera all’accumulazione.

(Ma) la semplicità è davvero un vantaggio solo se la spiegazione semplice è anche quella corretta. Se fosse sbagliata, lo svantaggio sarebbe, alla fine, il suo fallimento. E così torniamo al punto teorico centrale e ci chiediamo: possiamo davvero parlare di saggio di sfruttamento in diminuzione a fronte di una caduta verificata del rapporto profitti/salari? In altre parole, Π/W è davvero un indice di S/V? Per rispondere a queste domande, dobbiamo delineare le forme monetarie di S e V.

Poniamoci alla fine di un ciclo di riproduzione del capitale totale. A partire dalle entrate ricavate dalle vendite possiamo progettare come spendere questa somma di denaro. Supponiamo che le vendite totali (M’) ammontino a 100.000$. Di questa somma i capitalisti mettono da parte 40.000$ per rimpiazzare i costi delle materie prime e dei macchinari utilizzati (C*) per produrre le merci che sono state vendute, e 20.000$ per rimpiazzare i salari anticipati (V*) ai lavoratori impiegati nel processo di produzione.

La somma rimanente – 40.000$ – è quello che i capitalisti stessi chiamano profitto lordo sulle vendite (S*) costituito dalle entrate delle vendite delle merci, meno le materie prime e i costi della manodopera per produrrle. Dal punto di vista del sistema nel suo insieme, questi profitti lordi rappresentano l’equivalente in denaro del prodotto in surplus.

Dal punto di vista marxiano, i “profitti lordi” (S*) rappresentano l’equivalente in denaro del tempo di pluslavoro dei lavoratori produttivi, mentre i salari (V*) di questi lavoratori rappresentano l’equivalente in denaro del tempo di lavoro necessario. L’indice reale dello sfruttamento dei lavoratori nella produzione – ovvero il saggio di plusvalore – è pertanto

S*/V*= 40.000/20.000 = 200%

Ma ai capitalisti le cose sembrano molto diverse. Dai profitti lordi essi devono ancora togliere il denaro speso per cercare di vendere le merci. Queste spese di vendita, come le chiamano i capitalisti, consistono nei costi dei materiali (C*j) e della forza-lavoro (V*j) [impiegati] per trasformare le merci prodotte in denaro derivante dalle vendite. Inoltre, essi devono anche dedurre le tasse indirette T (sulle vendite, licenze e tasse di proprietà, ecc.) perché dal loro punto di vista anche queste sono una “spesa” dell’attività.

Ciò che resta dopo tutte queste deduzioni, viene chiamato reddito aziendale netto * (T T). Se le spese di vendita (sono)

C*j +V*j = 15.000$ + 10.000$

e le tasse indirette T = 5.000$, allora il reddito aziendale netto è Π = 10.000$.

Dal punto di vista della classe capitalista tanto le spese di vendita quanto le tasse indirette sono spese vive dell’attività. Del resto anche dal punto di vista del sistema nel suo complesso esse possono essere considerate spese strettamente necessarie dal momento che, sia il capitale commerciale (commercianti all’ingrosso e al dettaglio), che lo Stato, svolgono funzioni indispensabili, ma il fatto che queste siano spese indispensabili non altera in alcun modo il fatto che esse siano forme derivate di plusvalore. È necessario produrre il surplus prima che esso possa essere venduto; il venderlo cambia solamente il titolo di proprietà di questo prodotto, non la sua entità [di valore]. La misura in cui parte del prodotto in surplus viene assorbito dalle attività relative al cambio di titolo di proprietà (comprare e vendere) e dalle attività dello Stato è solo un indice delle spese di distribuzione e legittimazione del sistema.

Sfortunatamente, i teorici del profit-squeeze non colgono questo punto cruciale. Immancabilmente essi identificano il tasso di plusvalore con Π/W, come rapporto tra reddito aziendale netto e [l’insieme di] tutti i salari.

Nei termini di quanto illustrato sopra, Π = 10.000$ e W = salari dei lavoratori produttivi + salari e retribuzioni dei venditori, ecc. = 20.000$ + 10.000$ = 30.000$ cosicché Π/W = 10.000/30.000 = 33,3%. Questo è molto diverso dal reale saggio di plusvalore S*/V* = 200%.

Nel confondere Π/W con S*/V*, il vero saggio di sfruttamento in qualsiasi arco di tempo viene ampiamente sottostimato, come mostrano gli esempi di cui sopra (i cui ordini di grandezza corrispondono abbastanza da vicino agli effettivi ordini di grandezza reali che ho ricavato sulla base di un’analisi molto più complessa e dettagliata dell’economia statunitense.

La cosa peggiore è che, Π/W ha una tendenza a decrescere nel corso del tempo, relativamente al vero tasso S*/V*, in quanto, in tutte le economie capitalistiche, tanto le spese di vendita quanto le tasse indirette sono aumentante considerevolmente e ciò è particolarmente vero dalla Seconda Guerra Mondiale. È ingannevole, perciò, spiegare la caduta osservata nel rapporto profitti-salari (Π/W) con una presunta caduta del saggio di sfruttamento. Al contrario, è possibile piuttosto che un saggio di sfruttamento in aumento, accompagnato da un saggio di profitto in declino “a la Marx”, si combini con un saggio di accumulazione decrescente ed un aumento della disoccupazione.

Alla luce di questo, la crescente rivalità capitalistica e il crescente intervento dello Stato appaiono come risposte al peggioramento della crisi, non cause di essa. Empiricamente, tali risposte si manifestano come aumento delle spese di vendita e delle imposte, che sembrano far diminuire Π/W anche se S*/V* sta aumentando. Questa, in effetti, è la spiegazione di Yaffe dell’attuale crisi mondiale.

Vale la pena ripetere che un declino osservato nel rapporto profitti/salari (Π/W) non fornisce, di per sé, alcuna spiegazione. Per andare oltre la pura osservazione, serve una teoria delle determinanti del profitto per capire quali fattori sono responsabili dell’andamento empirico, ma dobbiamo anche sapere in che modo le categorie empiriche corrispondono a quelle teoriche, perché altrimenti finiremo per indicare la causa sbagliata. Questo è proprio l’errore compiuto dalla scuola del “profit squeeze”: essa si basava sulla teoria del plusvalore, ma sbagliava completamente nel considerare la differenza tra questa complessa e potente categoria marxiana e la categoria borghese di “profitto” (margine operativo netto). In questo modo attribuiva erroneamente il declino secolare della profittabilità – e di conseguenza l’attuale crisi mondiale – ad una contrazione dei profitti derivante dai salari [alti].

 

Conclusioni

La storia ci insegna che il capitalismo è periodicamente soggetto a rotture nel suo tessuto economico e sociale ed in questi periodi le tensioni sociali proprie del sistema si stagliano in forte contrasto. Le banalità borghesi delle varie ortodossie iniziano ad andare strette, ad assumere un’aria disperata e la lotta tra le classi irrompe allo scoperto.

Ancora una volta impariamo questa lezione della storia del capitalismo. Il boom del dopoguerra che ci avrebbe dovuto condurre attraverso porte dorate nel XXI secolo è ora ufficialmente morto ed in tutto il mondo capitalistico abbondano le crisi economiche e politiche. La concorrenza internazionale si intensifica a causa della lotta dei capitalisti per sopravvivere; banche e giganti industriali falliscono, il sistema monetario internazionale stesso passa barcollando da una crisi all’altra; la disoccupazione aumenta mentre i prezzi continuano a salire e ovunque si intensifica la lotta di classe.

Come facciamo a comprendere questa ultima crisi del capitalismo? Certamente dobbiamo studiarla ed analizzarla in dettaglio, non solo a livello locale o nazionale, ma su scala mondiale, ma questo, di per sé, non sarà mai abbastanza. Dobbiamo capire allo stesso tempo che le crisi non sono nuove per il capitalismo. Le loro periodiche e devastanti apparizioni sono state riconosciute, analizzate e comprese teoricamente da tanti altri molto prima che noi ci facessimo queste domande. Capire questo significa capire la necessità di studiare le spiegazioni dei nostri predecessori, affinché se ne possa beneficiare e costruire a partire da esse. Se l’obiettivo è rovesciare il sistema, allora è imperativo comprenderlo. Il prezzo dell’ignoranza è il fallimento.

L’obbiettivo di questo documento era quello di presentare e analizzare le posizioni fondamentali che sono emerse storicamente sulla questione delle crisi capitalistiche. Ho cercato di essere il più rigoroso possibile in questo compito e allo stesso tempo non ho dato per scontata alcuna conoscenza pregressa sulla questione. Ho cercato di presentare non solo ciò che viene affermato da un particolare tipo di teoria, ma anche perché si sostiene quella determinata argomentazione, come tale argomentazione si sia sviluppato storicamente e quali posizioni politiche sono state associate ad essa nelle varie fasi.

Piuttosto che riassumere ciò che è stato trattato nel corpo di questo documento, vorrei invece concentrarmi su tre lezioni che credo siano implicite nella storia delle teorie sulla crisi.

La prima lezione riguarda il rapporto tra teoria e politica. Ogni posizione teorica suggerisce un certo modo di cambiare il sistema e in tal senso, ogni teoria ha implicazioni politiche per la pratica che si basa su di essa. Ma è importante rendersi conto che non può essere fatta alcuna connessione semplicistica tra un particolare insieme di concetti teorici e le posizioni politiche che ci si aspetta siano ad essi collegate. Prendiamo, per esempio, il caso della teoria del sottoconsumo. Tra chi la propone ci sono reazionari come Parson Malthus, socialisti piccolo-borghesi come Simone de Sismondi, attivisti rivoluzionari come Rosa Luxemburg e l’intera scuola moderna del “capitalismo monopolistico” basata sul lavoro di Paul Sweezy e Paul Baran. D’altro canto tra coloro che si oppongono alla teoria del sottoconsumo vi sono teorici borghesi di tutti i tipi, da Ricardo in avanti, ma anche Marx e Lenin. Né tra i sostenitori, né tra gli oppositori della teoria del sottoconsumo si può evidenziare una posizione politica comune e gli stessi argomenti possono essere usati per ogni altra teoria della crisi.

La seconda lezione importante riguarda la teoria e i “fatti”. E’ un errore molto serio supporre che i “fatti” siano in qualche modo dati a prescindere da qualsiasi cornice concettuale. Anche un breve studio del calcolo storico del reddito nazionale dimostra rapidamente che i dati con i quali ci confrontiamo, in qualsiasi arco di tempo, non sono che la rappresentazione numerica di particolari categorie teoriche e questi dati si basano ovviamente su eventi del mondo reale, ma il modo in cui questi eventi vengono letti ed elencati dipende da una teoria sul mondo. Il modello che emerge sulla base delle categorie keynesiane (che sta alla base dell’attuale calcolo del reddito nazionale) non è per niente lo stesso di quello che emerge sulla base delle categorie marxiste. Nella discussione sulle teorie del “profit squeeze”, ad esempio, abbiamo visto quanto fosse importante non confondere il rapporto profitti/salari (Π/W) con il saggio di sfruttamento (S/V). Sarebbe quindi una terribile perdita abbandonare una teoria corretta [solo] perché non corrisponde a “fatti” basati su categorie completamente differenti.

La terza lezione è stata già discussa all’inizio di questa parte. In sintesi, nell’analizzare la crisi non è sufficiente studiare solo la sue manifestazioni fenomeniche, è ugualmente necessario studiare le spiegazioni delle crisi, sia passate che presenti. Altrimenti è molto probabile reinventare ciò che, semplicemente, era già stato inventato e fare gli stessi errori che altri prima di noi hanno [già] fatto. Si dice spesso che coloro che ignorano la storia sono condannati a ripeterla. A questo bisognerebbe forse aggiungere che coloro che ignorano la teoria sono condannati a ricostruirla.


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Comments

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Pantaléone
Tuesday, 04 July 2023 18:45
Non sappiamo se Ammurabhi conoscesse il tasso di profitto dell'impero, ma aveva notato
che i prestiti a interesse finivano per creare una povertà di massa, e che diventava sempre più complicato reclutare guerrieri forti, e così promulgò il codice di Hamurabi, in cui disponeva che i debiti dovevano essere aboliti ogni x anni, e la stessa cosa accadde ai faraoni d'Egitto e ai greci,
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AlsOb
Tuesday, 04 July 2023 17:30
Gli autori della presentazione della rassegna di articoli sulla crisi, sottolineando l'intervento probabilmente più interessante e stimolante, di Cipolla e del compianto Giussani (che non ne vide la stesura finale), scrivono: “ “Una critica alle tesi della finanziarizzazione delle imprese non finanziarie” di Francisco Paulo Cipolla e Paolo Giussani (l’ultimo lavoro che ha prodotto prima di venire a mancare) ha il pregio di criticare alla radice le tesi che imputano la crisi recente esclusivamente alla finanziarizzazione dell’economia ponendo al centro il fattore strutturale della crisi rappresentato dal declino permanente degli investimenti con una spiegazione adeguata.”. Purtroppo involontariamente creano un apparente piccolo equivoco per la sinteticità.
Cipolla e Giussani non sostengono direttamente quella tesi, ma, come avvertono, in primo luogo si limitano a aspetti della finanziarizzazione che riguardano le imprese e società non finanziarie e in secondo luogo investigano e problematizzano una diffusa credenza relativamente all'ordine di causalità in merito al loro processo di finanziarizzazione.
Il processo di finanziarizzazione, (che comunque di per sé, come osservano rifacendosi a uno scritto di un professore brasiliano del 2013, è strettamente immanente alla dinamica e crescita capitalistica e produttiva), specie nelle sue forme più deformi e speculative, è la manifestazione e conseguenza di un cedimento strutturale dell’accumulazione, sulle cui ragioni politiche, di rapporti di forza e imposizione di ideologie si dovrebbe ampliare l’analisi.
La loro provvisoria conclusione si riassume nella constatazione che la parallela presenza e interazione di due fenomeni, il cedimento dell’accumulazione e la finanziarizzazione speculativa, porta a una situazione di instabilità e di autodistruzione.
Il che, per inciso, è probabilmente il rischio che la classe dominante ha voluto correre per bloccare il tasso di crescita dei salari, con l’imposizione del neoliberalismo fascista e delle sue false ideologie e con la ricerca di rendite neofeudali.
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Pantaléone
Tuesday, 04 July 2023 18:18
In un certo senso, si potrebbe dire che l'iperclasse è socialista nel senso di socializzare le perdite e privatizzare i guadagni.
Quindi è socialismo per l'1% e capitalismo per noi poveri debitori.
Il neoliberismo è semplicemente un sistema che arricchisce i più ricchi spazzando via l'intero sistema sociale e le sue strutture, in nome del sacro debito, le cui leggi economiche sono state manipolate dai faccendieri della finanza, i quali hanno fatto in modo che, prima di tenere in ostaggio la popolazione, sia assolutamente necessario creare il debito, in altre parole incatenare la popolazione per le generazioni a venire.
Ma le forze produttive non si lasceranno fregare per sempre.
La società capitalista è un insieme organico.
Quando il mondo avrà superato il fascismo magico...
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Pantaléone
Monday, 03 July 2023 22:25
Circa 1.700 anni fa, i Donatisti del Nord Africa proclamarono, molto prima di Proudhon, che "la proprietà è un furto".
Praticavano il vero socialismo.
Ognuno lavora e si serve di se stesso.
Ma molto prima dei Donatisti, Clistene dovette eliminare gli oligarchi di Atene e abolire il debito per far nascere l'età dell'oro di Pericles.
Da qui è relativamente facile capire che la polarizzazione economica, la concentrazione del capitale, é gli monopoli è l'intero problema,
Normalmente, se ho capito bene, la caduta del tasso di profitto ci costringe a produrre in massa sempre di più a prezzi sempre più bassi,
Ma nel capitalismo al culmine della crisi sta accadendo esattamente il contrario,
Piuttosto che fare grandi passi verso il conflitto 3, sarebbe saggio lavorare per cancellare il debito planetario,
Non è molto diverso dall'aspettare il collasso del capitalismo per tornare alla servitù della gleba digitale,
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