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Il marxismo-keynesismo di Giovanni Mazzetti: una proposta per uscire dalla crisi

di Lorenzo Palaia

marx keynes capitalismo 2014.jpgL’ esegesi e la sintesi tra il pensiero di Marx e quello di Keynes, per mano del già professore di economia presso l’università della Calabria Giovanni Mazzetti, non costituiscono un’oziosa operazione speculativa ma vogliono rispondere ai problemi concreti con cui la nostra società si trova a confrontarsi quotidianamente, cruccio di tanti intellettuali: perché questa disoccupazione e stagnazione strutturali continuano senza soluzioni, nonostante i tanti tentativi di mettervi mano? Perché le nostre società dei paesi sviluppati sono in una crisi che, nonostante i tentativi di dissimulazione, non è affatto contingente e sembra non presentare sbocchi? L’immagine eloquente in quarta di copertina del libro di Mazzetti, Dieci brevi lezioni di critica dell’economia politica, pubblicato dal sempre attento e interessante editore triestino Asterios (con cui l’autore ha pubblicato diversi altri libri), raffigura un robot alla catena di montaggio che licenzia il lavoratore umano e ne prende il posto. Si tratta del problema epocale con cui economisti e sociologi si trovano a dover fare i conti, dai quali l’autore prende ad esempio alcuni argomenti tipici – tra gli altri le tesi di Riccardo Staglianò, Domenico De Masi e Yuval Noah Harari – per confutarne le diverse impostazioni finora adottate. Sintetizzando, potremmo dire che l’atteggiamento più errato è quello di chi non concepisce affatto il problema perché non ne vede la novità: per costoro, l’innovazione tecnologica si trova oggi a produrre ciò che ha fatto sempre, distruzione di posti di lavoro e creazione di nuovi; così il capitalismo si auto-riprodurrebbe sempre ponendo esso stesso le condizioni per uscire dalle crisi in cui si caccia, che sono dunque in ogni caso crisi congiunturali.

Ma per l’autore (e non solo per lui ovviamente)[1] questa volta è diverso, come dimostrerebbe la crisi del keynesismo negli anni ’70: essa mise in luce un problema che non era più risolvibile nei modi in cui era sempre stato affrontato, in quanto la riproduzione del rapporto di lavoro salariato aveva cominciato a diventare irreversibilmente problematica, prova ne è il fatto che le ricette di politica economica tradizionalmente keynesiane messe in atto nella seconda metà degli anni ‘70 nei paesi sviluppati (Wilson, Moro, Mitterand ecc.) per affrontare la stagflazione, non produssero i consueti risultati benefici. Ecco quindi che i conservatori hanno avuto gioco facile, a partire dagli anni ‘80, a riacquisire credito con le loro vecchie ricette sconfitte dal keynesismo precedentemente, perché non hanno trovato dall’altra parte un avversario che avesse compreso quel passaggio cruciale in grado di contrastarli, ma anzi hanno incontrato spesso (persino in buona parte della sinistra) condiscendenza sui loro assunti di fondo.

Proviamo quindi a spiegare brevemente, tentando di seguire l’autore, in cosa consistono le due contrapposte ideologie (intese nel senso di coscienza della realtà), quella keynesiana e quella liberale o conservatrice; la prima dominante tra la seconda guerra mondiale e la metà degli anni ‘70, la seconda dopo e prima di questa breve finestra. Il merito dell’autore in questo sta nel mostrare, con evidente impostazione marxista, come la coscienza della realtà, corretta o contraddittoria (cioè erronea) che sia, venga dalle esigenze stesse di una certa fase di sviluppo della società. Prendiamo ad esempio uno dei mantra dei conservatori, usato nella crisi del ‘29 come anche dagli anni ‘70 fino a oggi: la crisi è data dal fatto che mancano i soldi, che sono la ricchezza, e l’unico modo per uscirne è smettere di spendere, risparmiare, fare sacrifici, poiché a ogni risparmio corrisponde un investimento che farà ripartire il ciclo produttivo, mentre la spesa consiste in uno scialacquamento di risorse. Non è difficile ritrovare in questo il pensiero dominante che oggi si ascolta in bocca a politici, operatori dell’informazione e intellettuali: non esistono pasti gratis, ogni servizio ha un costo, ogni bene ha un prezzo anche quando fornito dallo Stato, perciò ogni bilancio (pubblico o privato che sia) deve sempre cercare il pareggio tra entrate e uscite perché lo sperpero di moneta, cioè di risorse, porta a mancati investimenti che potrebbero invece far ripartire la crescita. Tali asserzioni non cambiano di fronte all’evidenza empirica che, dopo anni di rigore, la crescita è sostanzialmente stagnante e la disoccupazione (quella reale, non quella camuffata con trucchi statistici) in Italia si presenta stabilmente attorno al 25%, non tanto più alta di quella europea.[2] I lettori più attenti ricorderanno gli anni in cui prendeva piede la teoria dell’austerità espansiva di Alesina e Giavazzi, un vero e proprio ossimoro che ispirò anche le politiche del governo Monti. Come abbiamo visto anche nel caso dei vaccini anti-covid, quando una teoria viene prodotta o fatta propria dalla classe al potere, essa viene presentata come un dogma e a nulla servono le confutazioni che la realtà stessa le pone davanti. Cercando di risalire quindi al contesto in cui queste credenze economiche austeritarie si sono formate – contesto nel quale originariamente per Mazzetti erano coerenti, ma che nella realtà odierna si mostrano contraddittorie – secondo l’autore esse scaturirono dalla fase proto-capitalistica, in cui il risparmio consentì di accumulare i capitali necessari all’avvio del nuovo modo di produzione; tuttavia, come evidenzierà bene Keynes, in una società in cui ormai il modo di socializzazione prevalente è lo scambio di merci attraverso il denaro, la spesa di qualcuno è il reddito di qualcun altro, e il risparmio di qualcuno (per esempio in una fase di crisi) è la perdita del posto di lavoro di qualcun altro. Keynes aveva quindi compreso che se lo Stato si sostituiva ai privati, che per timore si astengono dall’investire in una fase di crisi, esso poteva creare una domanda di beni sostitutiva in grado di dare uno sbocco all’offerta, la qual cosa fu chiaramente dimostrata a tutti solo dopo la prosperità esibita dagli Stati Uniti come risultato del finanziamento pubblico della produzione bellica nella seconda guerra mondiale. Prima della crisi del ‘29 era stato infatti il credito bancario – primo rozzo tentativo secondo Mazzetti di insignorirsi del denaro – a mediare la crescita capitalistica, in quanto anticipando capitali inesistenti la banca consentiva all’investitore di riavviare il ciclo produttivo prima di incassare il profitto monetario.[3] Ma dopo la crisi del ’29 le banche non facevano più credito per paura di non vederselo restituito, perciò quella rozza forma di signoria sul denaro doveva essere sostituita da quella dello Stato, che spendendo creava la domanda e quindi il mezzo di pagamento mancante. I conservatori infatti tendono a identificare la ricchezza con il denaro e diranno sempre perciò che una fase di crisi (in cui non circola moneta) è una fase di penuria, ma è noto che Keynes – che considerava invece ricchezza i fattori produttivi (capitale e lavoro) e le merci prodotte – li irrideva, facendo notare loro che non mancavano i lavoratori, i materiali, le macchine o i bisogni da soddisfare, ma solo appunto la domanda intesa come mezzo di pagamento disponibile. Ma proprio poiché i conservatori concepiscono il mezzo di pagamento quale ricchezza, essi inorridiscono all’idea che possa essere creato senza un lavoro che gli corrisponda: questa è la ragione dell’atteggiamento sospettoso di molti di loro verso l’attività bancaria, non tanto diverso in questo – ci sembra – dal pensiero teologico medievale.

La grande trasformazione keynesiana, che il lettore della Fionda conosce bene e che ha prodotto circa 30 anni di sviluppo e benessere mai visti prima, secondo Mazzetti costituisce una fase di netta rottura con il capitalismo precedente: con quella capacità di spesa messa direttamente nelle mani dei lavoratori, infatti, essi si riappropriavano indirettamente di parte del plusvalore che producevano, e allo stesso tempo la società nel suo complesso poté soddisfare bisogni mai soddisfatti prima in quanto realizzabili solo da un’entità che non ha il lucro come finalità (cibo, salute, igiene, abitazione, vestiario, istruzione ecc.). Quella spesa pubblica doveva quindi avvenire, come insegna Beveridge, in deficit, senza pretendere un pagamento per il bene fornito (ad esempio sotto forma di prelievo fiscale) poiché altrimenti sarebbe stata vanificata da un prelievo che l’avrebbe almeno in parte annullata.[4] Nonostante ciò tale spesa non produceva debito, o lo faceva in maniera irrisoria, grazie al noto meccanismo del moltiplicatore, per il quale una cifra di denaro pari a n produce, ogni volta che viene spesa, una serie di altri redditi che a loro volta ne producono altri e così via… Questa moltiplicazione di denaro spinta dal consumo intenso permise un indebitamento (pubblico e privato) e una pressione fiscale minimi per circa trenta anni, fino all’inizio degli anni ’80 in cui entrambi gli indicatori hanno cominciato a crescere – la pressione fiscale addirittura raddoppiando tra il 1980 e il 2012.[5] Questo sviluppo inaudito permise anche l’istituzione dello Stato sociale keynesiano, diverso da quello bismarckiano che impera di nuovo oggi e che consiste invece in una mera redistribuzione di soldi precedentemente prelevati ai contribuenti. La disoccupazione, già dalla metà degli anni ’70, cominciò a crescere e la produzione a ristagnare, non secondo Mazzetti per cause contingenti (ad esempio il prezzo del petrolio) bensì strutturali, a cui si sono aggiunte le politiche austeritarie che (cominciate in Inghilterra e Stati Uniti negli anni ’80) hanno aggravato nel tempo la situazione, culminando – aggiungiamo noi perché l’autore non ne tratta – nel furto di sovranità economica ordito dall’UE, che ha vanificato quel traguardo del dominio collettivo sul denaro.

Il punto centrale è che, secondo Giovanni Mazzetti, la crisi degli anni ’70 e tutte quelle che le sono seguite non erano congiunturali, ma la manifestazione che qualcosa di strutturale era cambiato e che quelle politiche keynesiane prima di successo non potevano più produrre gli stessi effetti, anche se tutta la classe dirigente fosse stata concorde nel riportale in auge; uno scenario che secondo l’autore Keynes stesso aveva previsto. Anche in questo Mazzetti è marxista: sono certe condizioni oggettive, di struttura, che determinano quali politiche sono possibili in una determinata fase, le quali quindi più che giuste o sbagliate possono essere coerenti o contraddittorie con quella fase in cui si trovano; corollario è che la disoccupazione dilagante non sarebbe frutto di corruzione o cattiva volontà di qualcuno (tanto meno colpa dei cinesi, o di altre economie emergenti, o dei processi di delocalizzazione di qualche industriale in particolare), ma un impedimento oggettivo che va affrontato con una mutazione del modo di affrontare il problema, ostacolata tuttavia dall’incapacità soggettiva di comprenderlo. Ma il fatto che la coscienza del problema sia inadeguata, aggiungiamo noi forse con una nota di complottismo, può precisamente venire a volte dall’intenzione che i vertici della classe dirigente hanno di mantenerla tale, dato che l’uomo è mosso anche da interessi egoistici che spesso possono dominarlo. Non sono pochi infatti, e lo abbiamo visto nei momenti di crisi più acuta, coloro che guadagnano mentre gli altri soffrono: così ad esempio le big tech e le big pharma durante il covid, o l’industria bellica in guerra ecc. Inoltre, l’autore sottovaluta l’aspetto politico e non considera il fatto che le politiche economiche vengono decise nella capitale dell’Impero (Washington), tanto quelle keynesiane per il trentennio in cui furono attuate quanto quelle liberiste per il periodo immediatamente successivo! Vogliamo pensare che a Washington non abbiano capito la difficoltà che il capitalismo sta affrontando? Ma veniamo dunque al motivo per cui secondo Mazzetti il keynesismo non sarebbe più applicabile tale e quale: una volta infatti soddisfatti tutti quei bisogni essenziali e di più, di cui la società un tempo era priva e che inizialmente avevano prodotto una enorme domanda di merci, la propensione al consumo sarebbe scesa, diminuendo grandemente l’effetto del moltiplicatore e vanificando quindi quella spesa aggiuntiva statale fatta per mettere a frutto le ingenti risorse inutilizzate di cui la società disponeva. È innegabile infatti che oggi la gran parte delle persone abbiano di che vestirsi, mangiare, curarsi, dove abitare ecc., nonostante le politiche conservatrici stiano riproducendo una situazione di artificiale penuria. Inoltre, come abbiamo accennato, quei bisogni sono riproducibili con molto meno lavoro grazie all’innovazione tecnologica, la quale perciò provoca una perdita di posti di lavoro e di valore delle merci (e quindi di profitti) che Marx aveva previsto come risultato della tendenza del capitalista a eliminare il costo del lavoro. Per questo il sistema economico si è evoluto alla ricerca di nuovi ambiti produttivi per compensare la perdita di valore: l’ingente sviluppo del terziario (oggi anch’esso arrivato al massimo secondo l’autore) ma anche forme di remunerazione sganciate da ogni attività produttiva (la borsa, la rendita immobiliare ecc.). Ciò non vuol dire che non esistano più bisogni da soddisfare, ma sono bisogni più evoluti, sganciati dalla necessità materiale che ormai può continuare a essere soddisfatta con poco lavoro e quindi con una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario: Keynes li chiamava bisogni relativi, potenzialmente insaziabili e contrapposti ai bisogni assoluti dovuti alla necessità materiale.[6] In quanto bisogni che richiedono un rapporto personale e cooperativo, sono per Mazzetti naturalmente in contraddizione con lo scambio di denaro che invece è proprio dei rapporti impersonali: si pensi alle professioni di medico, insegnante, educatore, psicologo, infermiere, badante ecc., tutte figure di cui la società ha una grande necessità ma che vengono tagliate perché non producono valore facilmente misurabile in misura monetaria, quel valore che presuppone il rapporto di lavoro salariato per essere prodotto. Tale nuovo compito di lavoro cooperativo implica un ruolo della collettività di pianificazione dell’attività economica, specialmente laddove si tratta di bisogni non coerenti con l’interesse privato di singoli imprenditori; implicherebbe inoltre – aggiungiamo noi pensando di interpretare l’autore – un dominio statale della moneta, anche se Mazzetti preannuncia una società in cui lo scambio sarà un rapporto residuale (ma questo scenario, va detto, appare vago e poco chiaro). L’autore critica infine, terreno sul quale sarebbe ora troppo lungo dilungarsi, sia le soluzioni fantasiose, transumanistiche, di chi pronostica un mondo in cui le macchine non solo sostituiranno l’uomo ma ne prenderanno il controllo (á la Harari), sia di chi propone un denaro sganciato dalla produzione, come se la ricchezza fosse nelle banconote emesse dalla banca centrale. L’impostazione marxista cui più volte abbiamo fatto riferimento porta l’autore a trascurare gli aspetti sovrastrutturali della società (la politica, la cultura, il diritto ecc.), se non sporadicamente quali esempi apportati alla trattazione: l’ideologia del risparmio e del sacrificio, dell’orrore per il debito e per la spesa cosiddetta improduttiva, l’avversità verso il concetto di moneta fiduciaria, verso una spesa creata dallo Stato ecc.; ma anche le forme culturali e giuridiche create dai trent’anni di keynesismo applicato nei paesi sviluppati, sotto forma ad esempio di diritti sociali quali diritti inalienabili della persona, possibili solo ed esclusivamente in virtù del successo di quelle politiche economiche e della raggiunta fase di sviluppo capitalistico. Con lo stesso procedimento sporadico finiscono per essere presentate come derivate dallo sviluppo anche quelle idee che da esso sono più lontane, idee ad esempio religiose, secondo un’impostazione progressista in cui una nuova forma di coscienza sarebbe sempre e comunque migliore di quella precedente, come fa Mazzetti quando cita il passaggio della riforma luterana, valutata positivamente per l’apporto dato all’eliminazione del clero sacerdotale, non considerando tuttavia le conseguenze dovute alla dottrina del servo arbitrio, ampliata da quella della predestinazione di Calvino, che Max Weber pone all’origine dello spirito del capitalismo. Ma se l’uomo è in un continuo cammino di progressiva liberazione da ogni struttura o processo sociale da egli stesso creati, ma da cui poi finisce hegelianamente per essere dominato, ogni avanzamento risulta essere una miglioria anche quando produce il male: esso infatti risulta in un certo senso necessario. E se l’ethos proprio del capitalismo è l’individualismo, come sarebbe possibile ora superarlo per reintrodurre quella mentalità cooperativa che lo stesso Mazzetti si augura per gestire la società futura? È chiaro che secondo una impostazione hegelo-marxista essa dovrebbe sorgere spontaneamente, ma da dove e in che modo? I problemi di fondo rimangono tutti sul tappeto, ma la ricostruzione di Mazzetti consente almeno (e non è poco) di spiegare – tramite fattori oggettivi – la recessione delle politiche di pieno impiego che tanto successo avevano avuto dopo la seconda guerra mondiale; consente di spiegare inoltre – sempre tramite fattori parzialmente indipendenti dalla forza e dalla volontà delle organizzazioni della classe lavoratrice – il ritorno dei conservatori, l’istituzione dell’Unione Europea e il cambiamento della nostra costituzione formale e materiale. Consente di spiegare infine la disoccupazione e la stagnazione strutturali e la difficoltà a uscirne, leggibile anche nelle attuali vicende dell’ennesima legge di bilancio restrittiva e dei generali provvedimenti di questo governo, che oltre a tagliare sussidi e altre forme di spesa punta a far pagare all’erario la riduzione del cuneo fiscale, per consentire agli industriali di racimolare qualche briciola in più di ciò che ormai è il fondo del barile del capitalismo. Ma di fronte al problema dell’uscita da questo stato di cose, i fattori oggettivi devono essere accantonati perché la decisione politica riprenda voce.


Note
[1] Cfr. tra tutti J. STIGLITZ, La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino, Einaudi, 2002 (ed. orig. Londra, 2002).
[2] Come è noto e ricorda lo stesso Mazzetti, i criteri di misurazione del tasso di disoccupazione sono alquanto restrittivi, giacché in esso non figurano gli inattivi (chi non ha cercato concretamente lavoro nelle ultime tre settimane), ma neanche vi rientra chi ha lavorato anche una sola ora nell’ultima settimana. Similmente sono stati messi a punto artifici per non esagerare a ribasso la misurazione del PIL: si veda G. MAZZETTI, Dieci brevi lezioni di critica dell’economia politica: la rivoluzione culturale per capire e affrontare la disoccupazione, Trieste, Asterios, 2018, pp. 198 e ss.
[3] Altra credenza dei conservatori infatti, forse oggi meno diffusa che nel ’29, è che il credito che la banca concede non sia altro che una intermediazione tra un risparmiatore e un investitore; ma in realtà la banca crea denaro fiduciario, cioè concretamente prima inesistente in quanto eccedente rispetto ai depositi, contando sul fatto che i correntisti non preleveranno le loro sostanze tutti allo stesso momento. Nel sistema attuale poi, dove la moneta è in gran parte elettronica, le banche creano dal nulla la valuta, che non è però corrispondente a un deposito reale in quanto il coefficiente di riserva obbligatoria (il rapporto tra il denaro prestato e quello da tenere a riserva presso la banca centrale) nel sistema bancario europeo è pari al 1%. Su questa rivista è stato affrontato diverse volte l’argomento della creazione di denaro fiduciario da parte delle banche commerciali.
[4] La tassazione è sempre stato un mantra di conservatori come Von Hayek. Viene da mettersi le mani nei capelli pensando che oggi è la sinistra a proporla, insieme al rigore di bilancio, come panacea delle disuguaglianze e volano per la crescita, condendo tale ricetta di pubblico moralismo! Ma la destra, che invece tradizionalmente propone meno tasse (e più evasione) ma anche meno spesa, propone una soluzione che è assolutamente identica anche se speculare nella forma.
[5] G. MAZZETTI, Op. cit., p. 104.
[6] Cfr. ivi, pp. 154 e ss.

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