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L’Europa dopo Angela Merkel

di Alfonso Gianni

indexjkuo8y43Le elezioni tedesche del 26 settembre sono probabilmente destinate a cambiare le cose più in Europa che non in Germania. Un acuto osservatore della situazione internazionale, come Lucio Caracciolo, intervenendo in un webinar il giorno dopo, le ha persino definite come le più importanti elezioni italiane degli ultimi tempi.

Naturalmente questo non significa che nel grande paese tedesco tutto possa rimanere come prima. Sarebbe impossibile in ogni caso. Per quanto Olaf Scholz, il candidato socialdemocratico uscito vincitore dalla tenzone elettorale fosse da tempo “volato sul nido del cuculo”, ossia avesse moderato le proprie posizioni da non renderle così diverse dalla politica incarnata da Angela Merkel, con sempre maggiore evidenza man mano che si avvicinava le urne. Malgrado che sotto i suoi manifesti di propaganda affissi in tutto il paese vi fosse il singolare – ma fortunato – slogan “Sa fare la Cancelliera”. Malgrado che la sua postura, perfino la posizione delle mani durante i dibattiti televisivi fossero stati studiati appositamente per richiamare la figura della Merkel, fino a dar vita al neologismo “merkelare” riferito all’insieme delle sue parole e dei suoi comportamenti. Malgrado tutto ciò, i sedici anni nei quali Angela Merkel ha ricoperto il ruolo di Cancelliera sono per chiunque irripetibili e neppure imitabili se non nel tragitto di una pur lunga campagna elettorale. Che tale è stata se non si considerano i tempi formalmente e strettamente destinati ad essa, ma quelli del lungo addio all’alta carica da parte della Merkel.

Il suo cancellierato ha aperto e probabilmente concluso un’epoca. Nel 2005 la Germania era considerata dai mass media internazionali più autorevoli come il grande malato d’Europa, sia per i costi della riunificazione tedesca che, e soprattutto, per la recessione nel quale il paese entrò nel 2003.

La Merkel si avvalse dell’opera del suo predecessore, il socialdemocratico Gerard Schroeder, che spalancò la strada alla liberalizzazione del mercato del lavoro con le quattro (contro)riforme Hartz tra il 2003 e appunto il 2005. L’applicazione del piano Hartz comportò la frammentazione del sistema occupazionale e retributivo, favorendo le varie forme di precarietà, fra cui il lavoro interinale, derogando i diritti acquisiti, in sostanza puntando tutto sulla flessibilità estrema. Inventando i minijobs, se retribuiti a 400 euro al mese, poi elevati a 450 e i midijobs pagati 850 euro mensili. Un piano che come si sa ha fatto scuola in Europa. L’obiettivo della (contro)riforma era quello di trasformare i quasi cinque milioni di disoccupati di allora in occupati, anche se si trattava di lavori marginali e mal pagati o di disoccupati di lunga durata semplicemente “assunti” dalla Agenzia del Lavoro, mentre si rendeva più semplice alle aziende la possibilità di licenziare.

 

Retorica e realtà dei tre lustri della Merkel

Di tutto ciò ha beneficiato la Merkel, permettendole di abbattere le statistiche sulla disoccupazione. La sua propensione assai marcata a privilegiare gli interessi commerciali del suo paese, di puntare sulla capacità esportativa tedesca, l’ha portata a superare, senza pagare pegno alcuno, gli stessi vincoli del Trattato di Maastricht. E’ bene forse tornare a ricordare che formalmente non esiste solo il parametro del 3% nel rapporto fra deficit annuale e Pil che non si dovrebbe superare, ma anche quello che vorrebbe contenere volumi di esportazioni eccessivi rispetto alle importazioni, perché inevitabilmente, comprimendo gli spazi per gli altri paesi dell’area comunitaria, li spingerebbe verso il deficit commerciale. Per questa ragione i parametri europei chiedono agli Stati di mantenere il saldo fra il -4% e il +6% del Pil nella media triennale. Parametri che la Germania ha sforato ininterrottamente dal 2012, in un crescendo continuo che ha trovato limiti ed ostacoli solamente con l’avvento della pandemia e la conseguente crisi economica e degli scambi internazionali. Il mercantilismo cui è improntata l’economia tedesca è stato così rinominato con un facile neologismo Merkentelism.

Ma se analizziamo più nel dettaglio la situazione socio-economica del paese, vediamo come sia da mettere in discussione quanto tutto ciò sia effettivamente servito a rilanciare con forza l’economia tedesca, al di là delle troppo facili lodi piovute sul capo della Cancelliera. Che la Germania sia in Europa il paese dotato della struttura economica più forte non vi è dubbio. Ma già alla vigilia della crisi pandemica, quindi dal 2005 al 2019, si è manifestato un indebolimento della crescita tedesca.1 Il suo Pil è aumentato solo dell’1,4%, inferiore a quello degli Stati uniti e perfettamente in linea con quello europeo, mentre la mitica produttività tedesca ha lasciato a desiderare. Il che spiega, almeno in buona parte, l’insuccesso del partito della Cancelliera.

Il Financial Times tracciando un bilancio dei suoi sedici anni di governo ha soprattutto messo in luce “l’ossessione di Merkel di fare gli interessi commerciali e geoeconomici della Germania” subordinando a questi qualunque preoccupazione etica o di posizionamento nelle relazioni internazionali (in ciò non dimostrando per la verità una particolare originalità)2. Il che vale per Ungheria e Polonia, paesi entrati strutturalmente nell’orbita del sistema produttivo allargato tedesco, ma anche nei confronti della Russia, rideclinando in modo strettamente economicista e utilitarista la vecchia Ostpolitik di brandtiana memoria. Ne fa fede da ultimo il via libera al raddoppio del gasdotto, il Nord Stream 2, che attraverso il Mar Baltico porta il gas russo direttamente in Germania, tagliando fuori l’Ucraina, malgrado l’aperta avversione degli Usa.

Nel 2020 la Cina è diventata il principale cliente e il principale fornitore della Germania, mentre quest’ultima è il principale cliente della Cina tra i paesi dell’Unione Europea. Ben si comprende perché la Merkel ha fatto tutto il possibile per raggiungere la firma del trattato sugli investimenti tra Ue e Cina, superando senza fatica i moniti statunitensi, anche se tale trattato, per diventare operativo, deve essere approvato dal Parlamento europeo e dagli Stati membri, cosa per ora improbabile, non tanto per la sensibilità verso la questione dei diritti umani nel paese del Dragone, quanto per i legami di molti paesi europei con gli Stati uniti. Anche se il congelamento della ratifica del Trattato, deciso dal Parlamento europeo lo scorso 20 maggio, è stato motivato e assunto fintanto che non verranno revocate le sanzioni assunte dalla Cina nei confronti di alcuni esponenti politici dell’Ue. Insomma la Merkel ha saputo con abilità indubbia barcamenarsi tra gli interessi economici della Germania ed i legami politici atlantici.

Il dilemma posto da Thomas Mann nel 1953 agli studenti di Amburgo, cioè se si andasse verso una “Germania europea o una Europa tedesca” non appare ancora sciolto, al termine dei tre lustri di cancellierato della Merkel la cui abilità temporeggiatrice e mediatoria ha fatto agio sulla nettezza delle scelte. Il che ha permesso al ministro degli esteri socialdemocratico Heiko Maas di affermare che con la Merkel la società tedesca “era in coma vigile discorsivo”, ma comunque convinta che tutto sommato sicurezza, un relativo benessere e stabilità di governo potessero essere assicurate. Difficile che quella condizione si mantenga. Neppure con la merkelizzazione di Scholz. Non sarà così per diverse convergenti ragioni, politiche, geopolitiche ed economiche. Per spiegarne i motivi è bene riflettere anche sui dati quantitativi del voto del 26 settembre.

 

I risultati del voto del 26 settembre

Le elezioni tedesche sono state onorate da una partecipazione al voto che conferma, a differenza di altri paesi, in primo luogo il nostro, un trend di crescita. Anche se nel raffronto con il 2017 l’aumento calcolato in percentuale dei votanti è stato lieve, il 76,4% contro il 76% del 2017. E’ necessario sottolineare l’aumento, questo sì assai consistente, del voto postale. Mentre nel 2017 era pari al 28,6 è salito in questa tornata elettorale al 47,3 per cento. In Baviera si è registrata una quota percentuale addirittura del 62,4. Dal 1957 ad oggi c’é stato un aumento progressivo ma mai un balzo di queste dimensioni, il che è evidentemente dovuto alla pandemia, come si era già visto in primavera-estate in alcune elezioni dei Länder. Va anche notata una seppur molto lieve flessione nei voti validi. Nella parte maggioritaria nel 2017 si ebbero 46.389.615 espressioni di suffragio valide che sono scese di circa 50mila in questa tornata. Nella parte proporzionale i voti validi nel 2017 furono 46.515.492 che sono scesi di oltre 95mila lo scorso 26 settembre. Forse i numeri sono troppo bassi per cavare un senso da questa differenza tra voti validi e no. Anche perché non sappiamo il numero delle schede bianche rispetto alle nulle. Si può solo ipotizzare che la critica verso l’offerta politica sia maggiore della disaffezione verso le istituzioni.

L’esito elettorale ci consegna un paese nel quale nessun partito supera il 30%. Il che è certamente una novità per la Germania nel dopoguerra. Per la Cdu e la Csu si tratta del peggiore risultato di sempre. Complessivamente Cdu-Csu flettono nella parte maggioritaria di 4.052.763 voti e nella parte proporzionale di 4.153.538. Ma i due partiti gemelli collezionano tassi di sconfitta alquanto diversi fra loro. Infatti se l’ Unione cristiano-sociale della Baviera lascia sul campo solo l’uno per cento del proprio tesoretto elettorale, l’Unione cristiano-democratica della Germania ci rimette il 7,7% dei propri voti nella parte maggioritaria e il 7,9% nella parte proporzionale. Il colpo al prestigio della Merkel è assai sensibile e la candidatura del loffio Armin Laschet ha approfondito la ferita.

Per quanto riguarda i socialdemocratici il loro incremento è stato di 799.132 voti nella parte maggioritaria e di 2.410.375 in quella proporzionale. Cosa che però non consente loro di risalire al livello del 2013. Il fatto che il maggiore aumento si verifichi in modo molto evidente nella parte proporzionale, sembrerebbe sottolineare il carattere politico della scelta degli elettori che potrebbe anche entrare presto

in contraddizione con la piattaforma moderata con cui la Spd ha costruito la sua vittoria e, più nell’immediato, pare escludere, qualora qualcuno ancora ci pensasse, una riedizione della Grosse Koalition.

L’incremento ottenuto dai Verdi è stato senz’altro rilevante (più 2.474.580 voti nella parte maggioritaria; più 2.848.215 nella parte proporzionale), ma non si può dire che siamo di fronte ad una “valanga verde”, che da più d’uno era invece attesa. Inoltre, pur non potendo qui fare una disamina compiuta sulla base dei flussi elettorali, una parte non trascurabile di voti provengono dalla Cdu-Csu, il che autorizza a ritenere che non siamo certamente di fronte ad una radicalizzazione del voto ecologista.

La crescita dei liberali della Fdp non è molto forte, con 791.545 voti in più nella parte maggioritaria, ma meno in quella proporzionale (più 317.249). Tuttavia, come vedremo, tale incremento fa sì che, anche per le debolezze altrui, la Fdp diventi il classico ago della bilancia per la formazione di un governo di coalizione a tre.

Anche la destra dell’Afd perde voti e non pochi (più di un milione nel proporzionale), ma con un conseguente maggiore concentrazione nei territori della ex Ddr, stabilendo quasi una connessione con i paesi della Ue governati da formazioni di destra e apertamente reazionari, in una zona dell’Europa particolarmente investita dai flussi migratori.

Si è anche registrato, particolarmente nelle zone rurali della Germania meridionale, un aumento di voti per i cd. Liberi Elettori, ovvero associazioni registrate ma senza riferimenti partitici espliciti, legati a questioni di governo locali, che probabilmente hanno sottratto non pochi voti a Verdi e a Fdp, pur non raggiungendo la soglia di sbarramento del 5%.

Netta e dolorosa è stata la sconfitta della Linke che ha perso la metà del proprio elettorato: meno 1.659.882 voti nella parte maggioritaria, meno 2.269.277 in quella proporzionale. Di questi ultimi si stima che circa 180mila sono andati alla Spd, 130mila ai Verdi, 90mila alla Cdu (questi ultimi in controtendenza rispetto al “voto utile” per battere la Merkel andato alla Spd), 50mila ai liberali e ben 70mila ai fascio-populisti della Afd soprattutto nell’Est del paese, mentre 200mila si sono rifugiati nell’astensione. Una sconfitta che pesa anche in ambito Ue, visto che la Linke rappresentava un modello riuscito di aggregazione a sinistra e il perno del Partito della sinistra europea. Un risultato disastroso, come impietosamente lo definisce anche la Fondazione Rosa Luxemburg,3 che non le ha impedito di entrare nel Bundestag, pur non avendo scavallato il 5%, in virtù dei cd. mandati diretti ottenuti a Leipzig e a Berlino con 39 deputati, perdendone quindi 30, in un parlamento che è lievitato a 735 membri rispetto ai 709 della passata legislatura, data la sua struttura flessibile. Le due co-segretarie Susanne Hennig-Wellslow e Janine Wissler parlano della necessità di un nuovo inizio per il partito. Un percorso di discussione interna certamente indispensabile che si preannuncia tutt’altro che facile, visto anche le prevedibili bordate che giungono dall’opposizione di interna rappresentata in particolare da Sahra Wagenknecht.

 

L’alternanza senza alternativa

Quale sarà, quindi, l’ipotesi più probabile di conformazione del nuovo governo tedesco? Sulla base degli esiti del voto una coalizione a tre appare come inevitabile, Tra le varie soluzioni quella che ad horas ottiene maggiore credito, e sulla quale le forze interessate stanno già attivamente lavorando, è quella formata dai Socialdemocratici, dai Verdi e dai Liberali. La fase esplorativa tra i leader di queste formazioni si è già conclusa e infatti hanno raccomandato ai loro rispettivi partiti l’avvio formale dei negoziati per quella che, se riuscirà, si chiamerà una Ampelkoalition (“coalizione semaforo”). L’enfasi posta sull’incontro dai suoi protagonisti non fa sconti. Anzitutto si sottolinea la possibilità di giungere alla formazione del governo prima di Natale, smentendo le previsioni che, sulla base delle esperienze passate, inducevano i commentatori a ritenere almeno di sei mesi il periodo di gestazione del nuovo governo. Ma ciò è comprensibile data la crisi pandemica ed economica in atto.

Per favorire i tempi brevi della nascita dell’esecutivo pare che si voglia abbandonare la tradizione di programmi molto dettagliati, limitandosi alla indicazione di linee guida. In effetti la prima riunione ha partorito un opuscolo di 12 pagine suddiviso in dieci capitoli. Ciò non ha evitato che gli autori proclamassero che si tratta “del più grande progetto di modernizzazione industriale della Germania degli ultimi 100 anni”4. Già il richiamo alla modernizzazione mostra che siamo di fronte a un’alternanza senza alternativa. Ogni singolo leader si limita ad occupare il suo campo d’azione, vero o presunto che sia, sommando i vari elementi tra loro.

Al centro del miniprogramma è posto il richiamo alla “economia socio-ecologica di mercato”. Come è ben noto la terminologia e il concetto che è sotteso sono tutt’altro che originali. Vi è solo una operazione di maquillage evidenziata dalla parolina “eco”. Per il resto siamo di fronte a un classico dell’ordoliberalismo tedesco. L’economia sociale di mercato, appunto. Senza dovere risalire proprio alle fonti, costituite dalla scuola di Friburgo e dall’elaborazione del suo animatore, Walter Eucken, fondatore nel 1936 della rivista Ordo, basta ricordare che poco prima della riunificazione, avvenuta nell’ottobre 1990, venne firmato dalle due Germanie un trattato sull’unione monetaria, economica e sociale, ove si sottolineava l’orientamento verso una economia sociale di mercato fondata su “proprietà privata, libera concorrenza, libera formazione dei prezzi, e circolazione fondamentalmente libera di lavoro, capitali, beni e servizi”5.

Come si può ben leggere la stessa definizione non fa affatto riferimento ad una economia di mercato temperata da principi e istanze sociali. Anche Angela Merkel utilizzò l’espressione “nuova economia sociale di mercato” rinverdendone i fasti all’epoca del cancellierato Schroeder, sulla base dell’elaborazione di un think tank che portava proprio quel nome. Tutto ciò influenzò la stessa stesura del Trattato di Lisbona del 2007, ove si legge un esplicito richiamo alla economia sociale di mercato con la rilevante puntualizzazione che essa deve essere “fortemente competitiva”, come recita l’articolo 3 del Trattato Ue.6

 

I punti programmatici della “coalizione semaforo”

Nella griglia programmatica si riconoscono i cavalli di battaglia di ciascuno dei tre partiti, ma non si può ancora comprendere come saranno amalgamati tra loro e quale sia la tempistica della realizzazione dei vari obiettivi.7 La parte più specificatamente sociale è naturalmente parto dei socialdemocratici che, al di là del loro appannamento a causa della sudditanza al merkelismo conservano alcuni tratti di una forza che non ha del tutto abbandonato le proprie radici sociali (a differenza, per fare solo un esempio, del Pd italiano). Infatti compare la salvaguardia delle pensioni che si prevede di non ridurre malgrado i sensibili mutamenti demografici; si parla di un aumento a 12 euro del salario minimo orario (precisando in questo caso che avverrà entro il primo anno di governo); l’housing sociale punta alla creazione di 440mila nuove abitazioni l’anno di cui più di 100mila con sovvenzioni statali (probabilmente pungolati anche dall’esito del referendum vittorioso di Berlino tenutosi sempre il 26 settembre per l’esproprio di 240mila appartamenti sfitti e per l’abbassamento dei canoni degli affitti); ma non si prevede di intaccare l’impianto della riforma Hartz, rimanendo i minijobs e una sorta di salario di cittadinanza; mentre per le immigrazioni si punta su quelle qualificate.

I Verdi hanno infilato nella bozza di programma l’anticipazione dell’uscita dal carbone dal 2038 al 2030, nonché investimenti pubblici per le fonti di energia rinnovabili; inoltre contano di portare la Germania ad essere leader mondiale nell’ e-mobility. D’altro canto già la precedente coalizione di governo aveva nominato un’apposita commissione per elaborare un complesso e articolato documento che venne presentato il 3 giugno scorso dal titolo impegnativo: Combattere le conseguenze del coronavirus, assicurare la prosperità, rafforzare la redditività futura. Nel testo si legge, tra le altre diverse cose, un impegno particolare sul tema della mobilità “garantendo nel contempo maggiore sostenibilità e protezione del clima” e soprattutto l’ambiziosissimo obiettivo di “rendere la Germania il fornitore mondiale di tecnologia all’avanguardia per l’idrogeno”.8 Per la verità la dichiarazione congiunta firmata da Carlo Bonomi e dal suo omologo tedesco Siegfried Russwurm, presidente della Bdi, la Federazione delle industrie tedesche, presentata a Draghi nei primi giorni di settembre, nomina l’idrogeno un paio di volte, di passaggio, non certo come il principale obiettivo su cui puntare.9Vedremo dunque se il futuro governo saprà mantenere le promesse del precedente.

Naturalmente gli aspetti economico-finanziari del programma sono di competenza dei liberali della Fdp, per i quali andrà accelerata la sburocratizzazione, gli investimenti pubblici potrebbero essere aumentati purché entro i confini costituzionali che concernono il debito pubblico e senza ricorso all’aumento delle tasse. Viene lodata la flessibilità mostrata dal Patto di stabilità e crescita (non diversamente da quanto detto dallo stesso Scholz), che dunque non meriterebbe modifiche o revisioni di sorta, anzi dovrebbe tornare a vegliare sulla sostenibilità del debito pubblico. Non è un mistero che il leader della Fdp, Christian Lindner, aspiri a diventare ministro delle finanze nel nuovo governo.

Proprio quest’ultimo elemento – ma non certo il solo - è destinato ad avere una grande rilevanza nel dibattito da tempo aperto sulle eventuali modifiche da apportare al Patto di stabilità, che dovrebbe ritornare in vigore dal 1° gennaio 2023. E’ vero che le dimissioni del “falco” per eccellenza, Jens Weidmann, da presidente della Deutsche Bundesbank, e conseguentemente dal Consiglio della Bce, sono state lette da molti commentatori come una vittoria delle “colombe” e quindi come un allontanamento del ritorno alle politiche restrittive e di austerità. Ma esse possono rappresentare più semplicemente la conseguenza dell’effetto di incertezza e instabilità che l’esito elettorale ha prodotto nel sistema di governance tedesca ai suoi vari livelli. In questo senso il bilancio dello scontro tra falchi e colombe dopo queste dimissioni andrebbe quantomeno ridimensionato e certamente su di esso avrà un peso la scelta del futuro ministro delle finanze.

 

Il dibattito sulla revisione del Patto di stabilità e crescita

Il dibattito internazionale sulle sorti del Patto di stabilità e crescita si fa sempre più intenso non solo perché si avvicina il momento nel quale potrebbe rientrare in funzione, ma anche in ragione dei segnali non certo entusiasmanti che provengono sullo stato dell’economia mondiale. Il “rimbalzo”, dopo il crollo dello scorso anno, dovuto non ancora alla sconfitta, certamente a un contenimento della pandemia, non garantisce di per sé nulla rispetto all’andamento negli anni futuri. Specialmente quelli dopo il 2026, quando cesserà l’intervento del Recovery plan, a meno che non se ne prolunghi la durata o addirittura lo si renda permanente. Cose che, allo stato delle cose, non sono precisamente le più probabili.

Finora un’inflazione da eccesso di moneta in circolazione, come alcuni temevano, non si è verificata, sia perché quest’ultima è rimasta in gran parte prigioniera del circuito finanziario, sia perché la produzione di merci a basso costo del lavoro da parte dei paesi emergenti o del Sud del mondo ha prodotto una concorrenza al ribasso che ha costretto i prezzi dei beni prodotti nei paesi a capitalismo maturo a rimanere contenuti.10

Gli effetti della pandemia sull’economia reale stanno però cambiando le cose sulle stime dell’inflazione e soprattutto sulla sua evoluzione. Alcuni respingono nettamente la minaccia,11altri, pur non mirando alla introduzione di politiche restrittive come i “falchi”, ne sottolineano invece le possibili evoluzioni e conseguenze. Tra questi ultimi si colloca ad esempio l’economista Nouriel Roubini, che seppe prevedere la grande recessione del 2008, e che ha lanciato l’allarme sul perverso annodarsi di stagnazione e di aumento dell’inflazione, tristemente nota come stagflazione.12 In effetti se mettiamo in fila l’aumento già esistente e crescente dell’inflazione, non solo negli Usa, ma anche in diversi paesi della Ue, fra cui il nostro, dove l’inflazione si è portata in settembre al 2,5% (dato in sé non sconvolgente, ma già indicativo secondo l’Istat di una crescita dei prezzi al consumo su base annua quale non si verificava dal novembre 2012)13, con le conseguenze di una crisi che si è manifestata contemporaneamente dal lato della domanda e da quello dell’offerta, vediamo una serie di segnali del volgersi al peggio della situazione. Quali l’interruzione delle forniture di alcune materie prime e semilavorati strategici, come i semiconduttori; costi di trasporto elevati grazie alle misure di sicurezza anti Covid (le navi cargo ferme di fronte a Los Angeles forniscono un’immagine potente); le tensioni geopolitiche sul fronte dell’approvvigionamento energetico e dei mezzi necessari alla transizione ecologica (da cui non sono estranei la situazione in Afghanistan e la tensione Usa-Cina riguardo a Taiwan; la drastica diminuzione della occupazione accompagnata dall’incremento della precarietà dei nuovi e vecchi posti di lavoro; l’appiattimento della curva dei tassi di rendimento tra titoli a breve e a lunga durata negli Usa, e non solo; l’improvvisa frenata della crescita cinese e il disastro, seppure finora contenuto, ma potenzialmente esplosivo a livello mondiale, di Evergrande, il colosso immobiliare del Dragone; l’enorme e rapido incremento del debito pubblico a livello mondiale. Se si tiene conto di tutti questi fattori contemporaneamente presenti si può ben comprendere come, nel contesto europeo, la sorte del Patto di stabilità rappresenti un elemento determinante. Soprattutto in un quadro mondiale ove la prospettiva di una stagnazione, dopo il rimbalzo, accompagnata da una ripresa di inflazione, è qualcosa di più di un’ipotesi teorica.

 

Le varie posizioni in campo

E’ evidente che le stesse decisioni italiane sono e saranno condizionate dall’esito del confronto europeo sul Patto di stabilità. Valdis Dombrovskis, vicepresidente della Commissione europea, sostiene che il Patto “ha funzionato bene” e che la flessibilità di cui è già dotato ha retto la tempesta, per cui non servirebbe una modifica legislativa, ma al massimo “una comunicazione interpretativa”14. L’opinione di Paolo Gentiloni, commissario europeo per gli affari economici e monetari, è che il Patto “ha ottenuto risultati ambivalenti” e dunque richiederebbe aggiustamenti pur senza cambiamento dei Trattati e delle regole fondamentali. “Sappiamo che il disavanzo medio non tronerà sotto il 3% del Pil nel 2021 e nel 2022 – ha detto recentemente Gentiloni –, ma mi sembra che nel breve-medio periodo questa possa essere una regola che con qualche flessibilità non sia impossibile da rispettare … Non è possibile confrontare debito e deficit. L’aumento del disavanzo è probabilmente temporaneo. Lo stesso non può dirsi per l’incremento del debito”15 Poi i due si sono accordati per una dichiarazione congiunta anodina, sterilizzando lo scontro tra falchi e colombe.16

Le principali ipotesi di modifica del Patto, tra quelle ammesse al tavolo di partenza, sono sostanzialmente tre: una revisione dell’entità annua della riduzione del debito sopra il 60%; una sorta di patto à la carte, proposto tra gli altri da Jean-Paul Fitoussi e benvisto dal ministro francese Bruno La Maire, per cui ogni paese, sulla base di una certificazione di un organismo indipendente (come il nostro Ufficio parlamentare di bilancio) stabilirebbe un proprio piano di rientro dall’extradebito, sottoposto all’approvazione della Commissione e del Consiglio europei; una revisione, considerata la più improbabile, del tetto del 60% del rapporto debito/Pil, vista la sua inadeguatezza, pur senza modificare i Trattati ma solo i protocolli, con l’unanimità degli Stati, ma saltando la ratifica dei parlamenti nazionali. Le ipotesi più forti come quella di un abbattimento o cancellazione del debito, almeno per quanto riguarda la parte accumulata durante la pandemia, sono naturalmente considerate eretiche e neppure prese in considerazione, se non in ambienti accademici.

Su questa discussione, già troppo timida in partenza, peserà la formazione e il programma del nuovo governo tedesco. Non c’è da stare allegri. Scholz ha recentemente detto che il Patto “sarà utile anche nel futuro” e se il leader dei liberali Lindner diventerà ministro delle finanze in una “coalizione semaforo” c’è da aspettarsi un ulteriore irrigidimento. Il dibattito intergovernativo nell’Unione appare arretrato non solo rispetto all’andamento dell’economia reale, ma persino rispetto alle posizioni di personalità non ascrivibili al credo keynesiano. Per fare solo qualche esempio, l’ex ministro Giovanni Tria è stato netto nel dire, ora che ha le mani libere, che il fiscal compact era sbagliato fin dall’inizio (ma venne addirittura

messo in Costituzione con la modifica dell’articolo 81).17 Per Klaus Regling, ex braccio destro di Theo Waigel il “padre dell’Euro”, e ora direttore del famigerato Mes, la regola della riduzione dell’extradebito al 60% nel giro di venti anni (che costringerebbe l’Italia a surplus di bilancio del 6/7% annui) è del tutto irrealizzabile e insensata. Dietro allo scontro su cifre e algoritmi, si nasconde il grande tema della conversione ecologica dell’economia. E non è un tema da lasciare in mano agli attuali governi europei.

 

Il Consiglio europeo del 20 e 21 ottobre

Se se ne vuole una prova basta guardare agli esiti del Consiglio europeo del 20-21 ottobre. Oltre ai dieci Paesi che avevano insieme assunto una posizione a favore del nucleare già da qualche settimana (Francia, Romania, Repubblica Ceca, Croazia, Slovacchia, Bulgaria, Slovenia, Polonia, Ungheria e Finlandia) anche altri Stati si sono espressi favorevolmente a questa opzione. Dal canto suo Draghi ha sottolineato che qualunque sia la tecnologia del nucleare che si vorrebbe inserire nel codice di tassonomia europea, “ci vuole moltissimo tempo prima che diventi produttivo di energia” quindi sarebbe bene continuare su una strategia fondata sulle rinnovabili, ma è “difficile rinunciare immediatamente al gas”18. Non è certo eccesso di malizia concludere che i paesi fautori del nucleare e quelli posizionati sull’uso del gas si sono dati vicendevolmente la mano per inquinare e intralciare i tempi della transizione energetica. Il Consiglio non ha partorito decisioni formali e ufficiali. Non tutti i dossier portati in discussione sono citati negli atti finali della riunione, Specialmente dove sono emerse le divergenze più laceranti, come sulla questione della rule of law in Polonia. Comunque, sulla questione energetica, Ursula von der Leyen ha così potuto affermare che “Abbiamo bisogno di rinnovabili. Abbiamo anche bisogno però di una fonte stabile, il nucleare e, durante la transizione, del gas”. Riciclando in versione europea il famoso “ma anche” di marca veltroniana.

 

Il caso polacco

La vicenda polacca è emblematica rispetto a nodi irrisolti nella costituzione della Ue e allo stesso tempo evidenzia quanto poco nobile – per usare un eufemismo – sia la logica che muove i governi dell’area sovranista, disposti a scambiare questioni presentate come di principio con vantaggi economici e sostegni alle loro politiche antimigratorie. La Corte costituzionale polacca aveva sentenziato che l’articolo 1 e l’articolo 19 del Trattato sul funzionamento dell’Ue non sono compatibili con la Costituzione della Polonia19. In questo modo veniva aperta una sfida diretta, senza mezzi termini nei confronti di Bruxelles, tanto che alcuni commentatori, avevano parlato di una probabile Polexit. Prima del Consiglio europeo il premier polacco Mateusz Morawiecki aveva cercato di difendere le scelte del suo Tribunale costituzionale di fronte al Parlamento europeo sostenendo la supremazia della costituzione nazionale sui Trattati europei. Il Parlamento ha approvato con 502 voti a favore e 153 contro una Risoluzione nella quale si dice “che il Tribunale costituzionale polacco è una camera illegale” essendo che i suoi membri sono indicati dal governo in carica, e che “i fondi dei contribuenti europei non dovranno essere dati ad un governo che sta demolendo i fondamentali valori della Ue”. Come si vede una contrapposizione molto netta. Nella stessa occasione il premier polacco ha esplicitato la sua posizione in merito alla rule of law, sostenendo che sono gli Stati ad essere i Signori dei Trattati e pertanto non potrebbe essere la Corte di giustizia della Ue (Cgue) a definire i modi con cui gli Stati possono regolare la rispettiva rule of law. In sostanza da parte polacca si risolleva il caso già verificatosi con la decisione della Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe, quando contestò la legittimità della sentenza della Cgue sul programma di acquisto dei titoli di Stato della Bce. In realtà la mossa del governo polacco, accompagnata naturalmente da dichiarazioni di fedeltà alla Ue, puntava su un obiettivo se possibile ancora peggiore, cioè quello di vedere finanziato dalla Ue il muro anti-immigrati lungo il confine Est- Una richiesta peraltro sostenuta da altri 11 paesi.

La questione dei migranti è stata in effetti uno dei centri della confusa discussione del Consiglio europeo, ove si è aperto un vaso di Pandora da dove sono emerse le peggiori proposte. Al punto che anche l’esito finale delle cinque ore di discussione era esposto a possibili interpretazioni del tutto negative. Tanto da costringere Ursula von Leyen ad una puntualizzazione di non poco peso: “Si è parlato di infrastrutture fisiche, ma sono stata chiara sul fatto che non ci saranno finanziamenti di reticolati di filo spinato o muri”20. Solamente il fatto che ci sia il bisogno di esplicitare con tanto di ulteriore precisazione che il bilancio comune della Ue non intende finanziare misure contrarie ai più elementari principi di umanità, la dice lunga di quanto in basso sia precipitata questa nostra Europa, sul terreno della civiltà, prima ancora che su quello politico o istituzionale.

 

L’esito delle elezioni tedesche non migliora le prospettive dell’Europa

Una volta separato il loglio dal grano, per quanto poco quest’ultimo ci sia con queste miserabili vicende, resta però il problema della natura dell’Unione europea, in altri termini di giungere ad una vera costituzione di un’Europa federale e solidale. Ed è difficile immaginarsi che ciò possa avvenire senza una Carta Costituzionale condivisa, non solo da esperti giuristi, ma da interi popoli. Individuare la strada da percorrere per raggiungere questo obiettivo è assai difficile e complesso. Spero non impossibile. Intanto sappiamo quali soluzioni non vanno riproposte. Il disegno di affidare la stesura di un testo a giuristi, molti dei quali ottimi, è stato seppellito dal referendum francese e olandese del 2005. L’elaborazione del Trattato di Lisbona e la sua entrata in vigore non può coprire quella falla. E infatti le contraddizioni si ripresentano attorno al tema della superiorità delle Costituzioni nazionali rispetto a quelli che sono semplici trattati all’interno di una costruzione intergovernativa. Le ultime riunioni degli organi dirigenti della Ue hanno ampiamente messo in luce i limiti profondi della impalcatura intergovernativa che regge la costruzione europea. Il fallimento della concezione funzionalista di Jean Monnet per chi l’Europa poteva costruirsi pezzo a pezzo, partendo dagli interessi economici dei vari Stati dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti, una volta che la Ue è stata messa alle prova da crisi mondiale economiche e sanitarie di inconsueta violenza. Eppure sembra di tronare indietro a quanto sosteneva lo storico inglese Alan Mirward nel 1992 secondo cui l’integrazione europea era partita nel secondo dopoguerra con lo scopo di salvare lo stato nazionale non di superarlo. Il contrario del Manifesto di Ventotene.21

Con queste premesse anche le possibili attese nei confronti della Conferenza sul futuro dell’Europa rischiano di venire compromesse in partenza. Era forse esagerato sperare che dalle urne tedesche potesse uscire con nettezza una rappresentanza parlamentare e una soluzione di governo che facesse fare un balzo in avanti all’Europa. Ma per quello che si è fin qui visto così non sarà. Anzi il rischio sono diversi passi indietro. Alla fine del summit europeo Angela Merkel ha commentato “lascio ora questa Unione europea sotto la mia responsabilità di Cancelliera in una situazione che mi preoccupa”22. Come darle torto?


L’Autore ringrazia Paola Giaculli e Franco Astengo per la fornitura di dati e considerazioni sulle elezioni tedesche

Note
1 Per approfondire l’analisi del periodo merkeliano si vedano Angelo Bolaffi-Pier Luigi.Ciocca, Germania/Europa, Donzelli 2017; Giangiacomo Nardozzi Una nuova Germania per l’Europa? Brioschi, 2021
2 Alan Beattie “Germany’s unhelpful stance om trade will take time to shift” in Financial Times, 9 settembre 2021
3 Si veda il paper della Rosa Luxemburg Stiftung del 27 settembre 2021: Horst Kahrs Breaking Down the 2021 German Federal Election. A reshuffling of the political centre and a disaster for the Left
4 Isabella Bufacchi “In Germania prende forma la coalizione Semaforo” in Il Sole 24 Ore del 16 ottobre 2021
5 Citato in Somma, A. (2017). Economia sociale di mercato e scontro tra capitalismi. DPCE Online, 24(4).
6 Il terzo comma dell’articolo 3 del Trattato Ue (ex articolo 2 del Tue) infatti recita “3. L'Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico.”
7 Isabella Bufacchi cit.
8 Citato in Giuseppe Berta “Italia-Germania: vincolo o risorsa? In Alternative per il Socialismo n.58
9 “Transizione green, le politiche Ue non penalizzino la competitività” in Il Sole 24 Ore del’8 settembre 2021
10 Come giustamente ha osservato Tonino Perna nel suo “Perché la ‘ripresa’ è a rischio di stagflazione” in il manifesto del 13 ottobre 2021
11 Come ad esempio Domenico Siniscalco “L’inflazione non ci minaccia” in la Repubblica dell’8 ottobre 2021.
12 Come riferisce Roberto Mania “Le nubi nere sulla ripresa” in la Repubblica del 7 ottobre 2021, anche Tonino Perna, cit. delinea un possibile, per non dire probabile, quadro di stagflazione.
13 Istat, Comunicato Stampa Prezzi al consumo-settembre 2021
14 Francesca Basso “Dombrovskis: ‘Il Patto di stabilità ha funzionato, i trattati Ue non si cambiano. Serve un aggiornamento realistico’” Intervista al vicepresidente della Commissione europea, in Corriere della Sera del 20 ottobre 2021
15 Beda Romano, intervista a Paolo Gentiloni, “Adattare il Patto alle necessità d’investire nell’economia” in Il Sole 24 Ore del 20 ottobre 2021
16 Valdis Dombrovskis e Paolo Gentiloni “Cambiare per crescere” in la Repubblica del 20 ottobre 2021
17 Giovanni Tria “Le due scommesse della Nadef e le scelte future di bilancio” in Il Sole 24 Ore, dove l’ax ministro scrive in conclusione dell’articolo “Anche perché lo stesso piano Next Generation Eunon risponde a esigenze di stabilizzazione congiunturale ma di trasformazione strutturale delle economie europee che erano preesistenti alla pandemia, e ciò vuol dire che le regole di bilancio europee, rappresentate dal Fiscal compact, che hanno ostacolato in passato questa risposta, erano sbagliate da prima.
18 Beda Romano “La Ue: sulla transizione verde nucleare e gas restano in gioco” in Il Sole 24 Ore del 23 ottobre 2021
19 Ne riferisce Angela Mauro “La Polonia tira la corda con l’Ue, ma non è Polexit “ in Huffpost dell’8 ottobre 2021
20 Vedi Gerardo Pelosi “No di Draghi ai muri anti migranti nella Ue” in Il Sole 24 Ore del 23 ottobre 2021
21 Citato anche da Sergio Fabbrini “I dilemmi di Bruxelles e di Berlino” in Il Sole 24 Oredel 3 ottobre 2021
22 Citata in Claudio Tito “Niente soldi per I muri. Bruxelles divisa sui migranti” in la Repubblica del 23 ottobre 2021

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