Un’opera classica di straordinaria attualità: i Grundzüge di Johann Gottlieb Fichte
di Eros Barone
Come i pretendenti di Penelope, già avvolti dalla fine che era stata loro preparata, imperversavano nei palazzi oscuri e ridevano d’un riso inconsulto,1 così anche costoro [gli esponenti prototipici della “terza epoca”] ridono avventatamente, perché nel loro riso è l’arguzia eterna dello spirito universale che ride di loro stessi. Noi tutti vogliamo concedere loro questo piacere, e ci guardiamo dal togliere la benda dai loro occhi.
J. G. Fichte, I tratti fondamentali dell’epoca presente, Quinta lezione.
1. Il periodo storico
Quando pubblicò nel 1798 un suo saggio dove Dio veniva fatto coincidere con l’ordinamento morale del mondo, la reazione degli ambienti conservatori e reazionari tedeschi nei confronti di Fichte, considerato allora, insieme con Schelling, il massimo rappresentante dell’idealismo trascendentale, fu immediata e si tradusse in una serie di accuse di ateismo e in un’accesa polemica che, alla fine, costrinse il filosofo a dimettersi dall’università di Jena e a trasferirsi in quella di Berlino. Si chiuse così in modo burrascoso e sfortunato un periodo molto importante della vita di Fichte, caratterizzato tra l’altro dall’incontro, estremamente fecondo per il romanticismo allora in via di formazione, con alcuni dei suoi primi protagonisti, come Novalis e i fratelli Schlegel.
Recatosi quindi a Berlino nel 1799, Fichte entrò in contatto per breve tempo con l’ambiente massonico, mentre duraturo e intenso fu il suo rapporto con i circoli romantici. A questo periodo appartengono tre opere che costituiscono le trattazioni più limpide e accessibili della sua concezione della filosofia e dei suoi rapporti con la vita: La missione del dotto, Lo Stato commerciale chiuso e un’ampia esposizione divulgativa della sua “dottrina della scienza”, il cui titolo prometteva, per l’appunto, un Rapporto chiaro come il sole al gran pubblico sulla vera natura della filosofia più recente. Frutto di conferenze tenute a Berlino nei primi anni dell’Ottocento è l’opera di cui si cercherà di riassumere e commentare le linee portanti in questo articolo: Die Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters, vale a dire I tratti fondamentali dell’epoca presente (1806). 2
Il titolo stesso dell’opera rivela come l’autore fosse ben certo di colpire con la sua critica le fondamenta della cultura del suo tempo, che egli riteneva di aver colto e magistralmente descritto. Del resto, il suo istinto pedagogico e riformatore non gli consentiva di filosofare “sine ira et studio”, essendo il suo pensiero caratterizzato da un moralismo di tipo attivistico che non contempla freddamente l’oggetto, ma lo include istintivamente nella sfera dell’azione morale. Considerato da questo angolo visuale, il campo della storia diviene per Fichte l’àmbito del progressivo incivilimento del genere umano, di cui solo il filosofo, che vede il fine della vita umana, può descrivere con certezza le fasi e le epoche. L’“a priori”, che costituisce il punto di partenza del filosofo, è allora il piano del mondo che si dispiega attraverso le cinque epoche delineate nei Grundzüge. L’assunto di Fichte è che il reale svolgimento della storia corrisponde a uno schema di sviluppo del genere umano, che può essere determinato concettualmente, laddove è da relegare nell’empiria e nell’“a posteriori” tutto ciò che non rientra nel quadro così tracciato. In altri termini, di ciò che accade nel mondo il filosofo mette in luce il significato e il valore universale, limitandosi a far notare che è accaduto, nel mentre lascia allo storico empirico l’esame di come ciò sia accaduto. E la ragione è che al filosofo spetta studiare e riconoscere il fine della storia, ma non interessarsi alla struttura e alla composizione del mondo storico: in ciò consiste, appunto, la differenza tra la filosofia della storia e la storia.
2. L’epistemologia paradossale del filosofo della storia
Indubbiamente, se si considera il rapporto di contemporaneità tra il filosofo e il suo oggetto, i Grundzüge delineano una situazione paradossale: quella situazione in cui normalmente viene a trovarsi una teoria che, anticipando l’esperienza, ritiene di poter prefigurare il senso globale del processo storico al fine di comporne l’apparente frammentarietà in un tutto organico; una situazione dove colui che pone il problema dell’attualità all’attenzione dei contemporanei, non può fare a meno di rivendicare una posizione di eccedenza per potervi rinvenire quei tratti di verità che ne fanno di necessità uno stadio di passaggio. Egli vi appartiene così nel momento in cui riflette sull’età presente, ma nel contempo se ne pone fuori in nome della ragione che lo ha spinto a farlo.
Egualmente, le sue considerazioni si rivolgono a ciò che in senso proprio è prodotto di questo dato tempo e in cui «questo tempo si esprime nel modo più chiaro» 3; con esclusione, pertanto, non solo di tutti quei fenomeni e individui che sono in ritardo o, viceversa, in anticipo sul proprio tempo, ma della stessa scienza di cui egli si avvale, nella misura in cui questa «supera ogni tempo ed epoca, in quanto coglie il tempo uno e uguale a sé medesimo come il fondamento superiore di tutti i tempi, sottoponendoli alla sua libera considerazione». 4 Applicandosi a stabilire l’elemento unitario del gegenwärtig – che in tanto è termine correlativo dei Grundzüge, in quanto designa e comprende tutto ciò che rientra nella dimensione sincronica della contemporaneità – il filosofo assegna alla propria osservazione del mondo e degli individui un carattere essenzialmente speculativo e sovrastorico, che, per il fatto di «descrivere a priori l’intero tempo e tutte le possibili epoche che vi sono comprese» 5, non è esso stesso oggetto di descrizione.
3. Il “divenire cosciente” della ragione e le cinque epoche
A questo proposito, giova rammentare che Fichte è un platonico e, in quanto tale, scorge la verità nell’idea eterna di origine divina e definisce il tempo come “mobile immagine dell’eternità” 6. In tal senso, la filosofia della storia raggiunge idealmente la filosofia della religione e si fonde con essa. Da questo punto di vista, è assai netta la differenza tra la visione di Fichte e il modo in cui il pensiero contemporaneo pone il problema del significato della storia. Per quest’ultimo il problema non è quello di oltrepassare la storia e negarla in una teologia, bensì quello di accertare la struttura del mondo storico e delle diverse forze che lo attraversano e lo determinano. Fichte, dal canto suo, di questa complessa struttura non vedeva che l’aspetto finalistico e teologico, né poteva vedere diversamente, date le premesse teoretiche da cui partiva.
Da questa impostazione scaturiscono, quindi, le domande chiave a cui Fichte intende rispondere. A quale epoca, nello sviluppo dell’umanità, corrisponde l’epoca attuale? Quali epoche la precedono e quali la seguono? E qual è il punto di vista unitario che permette di abbracciare la totalità del processo storico?
Già nella Dottrina della scienza, che rappresenta, pur attraverso le successive rielaborazioni, la ‘summa’ del suo pensiero filosofico, Fichte afferma che la meta di ogni esistenza è quella di realizzare la libertà razionale, e non diversa è la meta che guida lo svolgimento dell’umanità. La storia è progresso, attuazione graduale di quello che è il principio costitutivo dell’essere umano, la vita razionale, sicché lo scopo della vita umana è quello di orientare tutti i rapporti umani, con libertà, verso la ragione.
Si ha dunque un processo che comincia con uno stadio di innocenza, attraversa una fase di peccaminosità e termina, in ultimo, nel superamento del peccato e nell’avvento del regno della ragione. Sennonché, tenuto conto della prospettiva etica sotto cui è posta la storia, è da notare che il progresso non è rettilineo ma antitetico. Il peccato sta con l’innocenza nel rapporto dell’antitesi alla tesi, talché la ragione costituisce per entrambi la sintesi. In questa ottica il processo è rettilineo solo se lo si considera come il processo per cui diviene cosciente la ragione. Lo schema completo delle epoche necessarie e a priori si ottiene allora inserendo ogni volta uno stadio di transizione, nello svolgimento dall’innocenza al peccato da una parte, e dal peccato alla ragione dall’altra. La storia risulta così suddivisa in cinque epoche.
Riassumendo, vi sono cinque epoche fondamentali della vita del genere umano, che Fichte caratterizza mediante espressioni in cui il linguaggio filosofico si mescola con il linguaggio teologico. 7
L’epoca del dominio incondizionato della ragione in virtù dell’istinto: lo stato di innocenza del genere umano;
l’epoca in cui l’istinto razionale si muta in una autorità esteriormente costrittiva, che esige cieca fede e obbedienza incondizionata, senza però riuscire a persuadere: lo stato della incipiente peccaminosità;
l’epoca della liberazione, immediatamente dall’autorità imperante, mediatamente dal dominio della ragione in generale e in qualsivoglia forma; l’età dell’assoluta indifferenza verso ogni verità, della “libertà vuota” e della completa licenza senza alcuna inibizione: lo stato della compiuta peccaminosità;
l’epoca della ragione come scienza: l’età in cui la verità è riconosciuta come il valore più alto ed è amata sopra ogni cosa: lo stato della giustificazione incipiente;
l’epoca della ragione come arte: l’età in cui l’umanità, agendo con mano sicura e infallibile, costruisce sé stessa fedelmente sul modello della ragione: lo stato della compiuta giustificazione.
Questo palese linguaggio teologico rivela la parentela della filosofia della storia fichtiana col racconto biblico; non a caso, Fichte cita espressamente il mito biblico della cacciata dal paradiso terrestre. In questo senso, il cammino che l’umanità compie sulla terra non è che un ritorno alla originaria innocenza. La filosofia della storia traccia così l’itinerario ideale di un’umanità che lotta e lavora per riconquistare, contro gli ostacoli del senso, dell’inerzia morale, dell’utilitarismo e dell’edonismo individualistico, la purezza e l’autonomia della vita razionale.
I momenti ideali della Dottrina della scienza, il contrasto tra le azioni consce e inconsce della ragione, vengono tradotti nel linguaggio della storia, per cui dall’istinto razionale – concetto, questo, di cui viene giustamente riconosciuta la grande importanza che ha per la concezione della vita sociale – lo svolgimento del genere umano passa, attraverso l’esperienza della peccaminosità, alla ragione come scienza e termina nella ragione come arte.
4. Genere, comunità e individuo
Fichte riconosce quindi l’esistenza non solo di azioni coscienti degli uomini, le quali trovano la loro espressione nella dottrina contrattuale, ma anche l’esistenza di una forza che agisce inconsciamente nella storia dell’umanità e nella stessa formazione degli Stati. Questo riconoscimento di una razionalità inconsapevole, che articola e muove la storia, ricorda la hegeliana “astuzia della ragione” e configura l’intero processo storico come una vasta fenomenologia della ragione.
L’essenza dell’uomo è la ragione, che è presente, come si è visto, anche se l’uomo non se ne rende cosciente. Nel succedersi delle epoche, non ascende la ragione, ma la coscienza e la libertà con cui essa si realizza. Se l’istinto razionale è un antecedente necessario per costruire la storia, i gradi più elevati della ragione come scienza e della ragione come arte costituiscono delle mete e dei compiti per il futuro. Importante è rilevare che tutta quanta la vita storica, la vita della ‘Gemeinschaft’ (la comunità), è racchiusa nel destino della ragione, poiché, come Fichte non cessa di ribadire, il concetto di uomo è il concetto di un genere, non di un individuo. 8 La vita della ragione e quella della comunità convergono e si fondono, costituendo l’unità profonda che Fichte scorge tra la razionalità e la storia. Chi si stacca dalla razionalità, pertanto, rompe e inverte il ritmo ascendente del processo storico.
Sennonché, mentre il giovane Fichte, pieno di slancio rivoluzionario, scorgeva un compito sacro dell’umanità nella lotta contro l’assolutismo e il dominio esterno dell’autorità razionale che in esso si esprime, il Fichte dei Tratti fondamentali dell’epoca presente, seppure riconosce l’inadeguatezza di quella espressione esterna e autoritativa della vita razionale, scorge la più grave delle colpe nello svincolarsi dalla ragione. Chi vive disciolto dai vincoli della ragione – sia pure una ragione coercitiva ed esterna – vive in uno stato di profonda peccaminosità, e la sua liberazione dai vincoli razionali equivale a un tentativo d’inquinare le sorgenti della vita stessa.
Questo pensiero di una razionalità che domina la storia è stato espresso in generale dalle teorie economiche liberali, ma nel concetto hegeliano dell’“astuzia della ragione” trova la propria espressione più compiuta. Naturalmente la razionalità fichtiana è molto diversa dalla razionalità hegeliana e dal realismo hegeliano che accetta la realtà con tutti i suoi contrasti dialettici. Malgrado la comune impostazione teologica, che vede attuato e presente il divino nel mondo, Fichte resta, in ultima analisi, un kantiano, per il quale la saldatura tra il piano reale e quello ideale è posta in un lontano futuro come una meta da raggiungere o un compito da realizzare, mentre Hegel vede in atto la saldatura dei due piani e si dichiara nemico giurato del dover essere. Per Fichte lo scopo dell’esistenza non è quello di essere razionali, bensì quello di divenire razionali mediante la libertà, di educarsi alla ragione. È chiaro, quindi, che in nessun punto della vita si trova già attuato l’ideale della razionalità.
Nonostante questa radicale diversità di orientamento filosofico, i due pensatori si muovono assai spesso in una comune atmosfera ideale: la razionalità, l’idea, è per entrambi la negazione dell’individualità, e la storia per entrambi si svolge su un piano che trascende il piano individuale. «L’errore più grande – afferma Fichte attaccando l’individualismo di cui è intrisa la cultura illuministica – e il vero motivo di tutti i rimanenti errori che si fanno beffe di questa epoca [si tratta della terza epoca], è se un individuo si immagina di poter esistere e vivere, pensare e agire per se stesso, e se uno crede di essere lui stesso, questa determinata persona, quello che pensa per il suo pensiero, giacché egli non è che un pensato particolare derivante da un solo pensiero, universale e necessario». 9
5. Limiti e pregi della teoria fichtiana
Sennonché dal nulla non proviene nulla, argomenta Fichte, e la irrazionalità non può mai diventare ragione: «…pertanto il genere umano deve essere stato, almeno in un punto della sua esistenza, nella sua forma più arcaica, puramente razionale, senza minimamente faticarvi o averne libertà. Almeno in un punto della sua esistenza, io dico, perché il vero e proprio scopo della sua esistenza non è tuttavia di essere razionale, ma di diventare razionale per opera della libertà – e il primo è solo il mezzo e la condizione imprescindibile dell’ultimo. Non siamo quindi autorizzati a trarre altra conclusione, se non che lo stato della razionalità assoluta deve essere esistito da qualche parte. Da questa conclusione saremo spinti all’ipotesi di un originario popolo normale, che per la sua semplice esistenza, senza la minima scienza o arte, si sarebbe trovato nello stato della perfetta cultura razionale». 10
È opportuno sottolineare che Fichte avanza l’ipotesi dell’“originario popolo normale” (Normalvolk), perché rifiuta nettamente la teoria evolutiva che fa nascere la razionalità da uno stato di irrazionalità, mediante una progressiva riduzione dell’irrazionalità stessa. Questa medesima ipotesi rivela tre convinzioni fichtiane che il pensiero contemporaneo ha posto in discussione: la convinzione che il filosofo possa e debba costruire “a priori”, senza il sostegno dell’esperienza, la traiettoria fenomenica dello svolgimento storico; la convinzione che la storia consista unicamente nelle sorti della razionalità e che non entrino in essa, con una funzione positiva, altri momenti; la convinzione che il significato della storia sia rintracciabile seguendo un criterio interpretativo di tipo assiologico e moralistico.
Fichte, infatti, scorge solo la componente razionale nel suo momento di autonomia e nega come egoismo, sensualità e utilitarismo quel mondo vario e complesso che la filosofia deve comprendere e valutare senza pregiudizi.
«Quando si biasima con tono puramente negativo», osserva giustamente Hegel, «si assume una posizione di altera e severa superiorità nei confronti della cosa, senz’averla penetrata, cioè senza averla compresa essa stessa nel suo contenuto positivo». 11
La genialità di Fichte, tuttavia, consiste nel vigore con cui egli ha affermato l’autonomia e la libertà del mondo spirituale, laddove, considerando il “cattivo infinito” dell’idealismo soggettivo incarnato da questo grande pensatore, il problema è semmai quello di inserire concretamente questa libertà e questa autonomia in un mondo che non è solo negazione e ostacolo della libertà, ma anche condizione e sostegno. 12
In conclusione, la teoria fichtiana rappresenta l’esempio altamente suggestivo di una periodizzazione integralmente filosofica della storia, nella quale le insufficienze che si sono riscontrate rispetto ad un approccio criticamente avvertito sono compensate dai pregi cognitivi di uno schema interpretativo che nella sua circolarità dialettica non cessa di stimolare la riflessione. 13
Sceverare in tale teoria ciò ch’è vivo da ciò che è morto non è difficile, ma è pur vero che non è possibile dividere la vita dalla morte con un taglio netto, perché esse nascono e si generano, per così dire, l’una dall’altra. Del resto, vi sono errori fecondi e verità sterili, e la filosofia della storia fichtiana, pur apparendo ai nostri occhi una grandiosa costruzione mitica, interpretata come un’etica del progresso e come una affermazione di fede nelle sorti della razionalità, è ancora oggi, e forse soprattutto oggi, un mito fecondo. 14