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manifesto

 Tra Darwin e Chomsky

Il linguaggio sulla soglia tra umano e non umano

 di Telmo Pievani

In un libro di Francesco Ferretti per Laterza, titolato «Perché non siamo speciali», l'ipotesi che il linguaggio si sia evoluto in stretta dipendenza dalla capacità della nostra specie di ancorarsi al mondo fisico e a quello sociale

darwinNei Taccuini della trasmutazione, i primi appunti di un giovane naturalista da poco rientrato da un viaggio di cinque anni attorno al mondo, Charles Darwin costruisce passo dopo passo l'impianto centrale della sua teoria alternando momenti di esaltazione e di sconforto. Nel luglio del 1838, quando ormai è quasi giunto alla formulazione dell'idea di selezione naturale, lo assale un dubbio pessimistico: «Forse non saremo mai capaci», scrive nel Taccuino C, «di ricostruire gli stadi attraverso i quali l'organizzazione dell'occhio, passando da uno stadio più semplice a uno più perfetto, conserva le proprie relazioni. Questa forse è la difficoltà più grande di tutta la mia teoria».

Il pericolo di cui Darwin si accorse fin dagli esordi consisteva nella possibile contraddizione fra due principi cardine della spiegazione evoluzionistica: se il cambiamento avviene gradualmente, senza soluzioni di continuità, e la selezione naturale ha bisogno di riconoscere, ad ogni stadio, un vantaggio adattativo per quanto infinitesimale, per svolgere quale funzione si sviluppano gli stadi incipienti di organi particolarmente complessi come un occhio o un'ala? Difficile immaginare che un abbozzo di ala possa servire per spiccare il volo...


Due ipotesi per un rompicapo


Il problema è che l'evoluzionista non può rinunciare né all'uno né all'altro dei principi di partenza: non può ipotizzare che l'occhio si sia formato tutto in un colpo, né che all'inizio la natura lo stesse plasmando finalisticamente «in vista» della sua utilità futura.

Darwin, per risolvere il rompicapo, nella sesta edizione dell'Origine delle specie del 1872 è costretto ad avanzare due ipotesi ad hoc: o meglio, due predizioni rischiose, e come tali eventualmente falsificabili dai suoi avversari (il che rende giustizia delle antiche pregiudiziali di alcuni epistemologi contro lo statuto di scientificità, vedi falsificabilità, della teoria dell'evoluzione).

La prima ipotesi è la seguente: se la teoria è corretta, nota Darwin, dovremmo trovare nel caso dell'occhio e degli altri «organi di estrema complessità e perfezione» una gradazione di passaggi in cui la funzione originaria viene progressivamente implementata. Ma non è tutto, aggiunge il naturalista inglese. È anche possibile (seconda ipotesi) che la selezione naturale favorisca un organo per una o più funzioni iniziali, oppure che una funzione sia assolta da più organi. In virtù di questa ridondanza, la selezione potrà successivamente «convertire» o «cooptare» una struttura per svolgere una funzione anche completamente diversa. Ne deriva l'intuizione, oggi di grande attualità, che la selezione non agisca soltanto come un ingegnere che ottimizza i suoi modelli, ma più spesso come un artigiano che rimaneggia il materiale a disposizione al variare delle circostanze. La perfezione, conclude Darwin, è sempre relativa a un contesto di pressioni selettive contingenti e non sempre l'utilità attuale di un organo o comportamento corrisponde alla sua origine storica.

Un secolo e mezzo dopo sappiamo che le due predizioni erano azzeccate. La mole schiacciante di prove morfologiche e genetiche a favore dei due processi allora ipotizzati è tale da rendere del tutto anacronistico il richiamo al «problema del 5% di un'ala» - oggi ribattezzato «problema della complessità irriducibile» - da parte dei sostenitori della dottrina teologica del «Disegno Intelligente». Eppure, l'argomento della presunta impermeabilità alla spiegazione evoluzionistica di alcune strutture particolarmente complesse non ha affascinato soltanto i creazionisti.

Ce lo ricorda, nel suo ottimo volume Perché non siamo speciali, il filosofo del linguaggio Francesco Ferretti: nel 1988, è niente meno che il linguista Noam Chomsky a farvi ricorso. In Language and Problems of Knowledge, nella convinzione che il linguaggio non abbia nessi di continuità con il resto del mondo animale, giunge alla conclusione che «nel caso di sistemi come il linguaggio o le ali non è facile nemmeno immaginare uno sviluppo della selezione che abbia dato loro origine. Un'ala rudimentale, per esempio, non è 'utile' per il movimento, anzi è più un impedimento. Perché mai dunque deve svilupparsi quest'organo negli stati primitivi dell'evoluzione?». È una versione dell'argomento della «complessità irriducibile» del linguaggio, da cui Chomsky trarrà la profezia - non ancora abbandonata da tutti i suoi colleghi - secondo cui «la teoria dell'evoluzione ha poco da dire su questioni di tale natura».

Il linguaggio, troppo complesso per essere spiegato in termini evoluzionistici, è dunque il candidato ideale per rappresentare quella soglia qualitativa radicale che distingue l'umano dal non umano. Il libro di Ferretti illustra efficacemente il paradosso in cui si sono infilate le scienze cognitive negli ormai venti anni che ci separano dalla profezia antievoluzionista di Chomsky, la cui impostazione prevede fin dall'inizio che il linguaggio sia un'abilità specializzata e ampiamente pre-programmata, un «istinto» per dirla con Steven Pinker. L'argomento della povertà dello stimolo ha percorso una lunga strada, illuminando per differenza la ricchezza della mente umana fin dalla nascita. Oggi sappiamo, anche grazie agli studi di etologia cognitiva, quanto le menti umane e di molti altri animali siano equipaggiate con articolati repertori di competenze innate e con sofisticati sistemi di selezione dei dati pertinenti. Queste «dotazioni» vengono solitamente descritte come innate, adattative e specie-specifiche: tre caratteristiche tipiche di ciò che è frutto di una storia naturale. Ma non si era detto che l'evoluzione era incompetente al riguardo?


Il paradosso antievoluzionista


Se il modello standard delle scienze sociali entra in crisi, nota Ferretti, portandosi dietro il suo relativismo linguistico, anche la tradizione chomskiana deve fare i conti con il paradosso del suo peccato originale antievoluzionista. Se ne esce, sostiene l'autore coniando uno slogan efficace, «darwinizzando Chomsky», cioè rinunciando all'idea dell'assoluta eccezionalità umana: abbiamo bisogno di una teoria del linguaggio e della mente che unisca gli elementi di continuità naturale della nostra specie e gli elementi di indiscussa specificità. L'ipotesi che Ferretti esplora al riguardo si basa su due movimenti teorici fondamentali. Il primo è quello di ricollegare la competenza linguistica all'intelligenza generale - intesa come un adattamento biologico della nostra specie condiviso con il resto del mondo naturale - a partire dal riconoscimento dello «sforzo cognitivo» che l'acquisizione del linguaggio richiede. In particolare, Ferretti recupera il ruolo dell'intelligenza generale nella capacità linguistica definendo la prima come un equilibrio adattativo fra due macrosistemi di elaborazione distinti: l'intelligenza ecologica e l'intelligenza sociale. Nel far ciò valorizza due direzioni di ricerca oggi molto feconde in ambito neuroscientifico e aderisce all'idea, alquanto plausibile, che il linguaggio si sia evoluto in stretta dipendenza dalla capacità della nostra specie - come di altre - di ancorarsi al mondo fisico (linguaggio spaziale) e al contempo al mondo sociale (pragmatica del linguaggio).

Il secondo movimento, che dovrebbe dar conto della specificità umana ed è ispirato ai lavori di Dan Sperber, consiste nell'effetto di ritorno che il linguaggio, una volta acquisito, avrebbe avuto sull'intelligenza umana, innescando la comparsa di facoltà inedite come l'autoriflessione. Il linguaggio avrebbe quindi riorganizzato e ristrutturato a sua volta l'intelligenza umana, in un processo di coevoluzione. Il problema di compatibilità fra questa definizione di intelligenza (con tutta la sua flessibilità, la creatività, l'improvvisazione) e la teoria modulare della mente attualmente dominante - dove i moduli sono intesi come sistemi di elaborazione automatici e dominio specifici - viene provvisoriamente aggirato considerando l'intelligenza generale come la capacità di stabilire un equilibrio adattativo tra sistemi di elaborazione in cooperazione o competizione fra loro.

Qui si nota allora un'altra torsione del ragionamento di Ferretti, che apre lo sguardo su un orizzonte teorico oggi alquanto movimentato e interessante. Nella comunità degli studiosi della mente che hanno accettato di considerare la «continuità nella specificità» dell'evoluzione umana stanno emergendo in questi anni due sensibilità differenti, che in qualche modo, sorprendentemente, attingono proprio alle due ipotesi ad hoc con le quali Darwin aveva risposto in anticipo alla profezia pessimistica di Chomsky.

Autori come Steven Pinker, Paul Bloom e Daniel Dennett sembrano prediligere la prima risposta darwiniana, centrata sull'azione ottimizzante e permeante della selezione naturale. I loro modelli evoluzionistici, per quanto diversi, si basano su categorie funzionaliste forti: specializzazione e divisione in tratti adattativi discreti. L'adattazionismo duro dell'«ingegneria inversa» di Dennett, e di gran parte della psicologia evoluzionista contemporanea, compendia perfettamente questo approccio alla spiegazione dell'architettura evoluta della mente umana: il metodo consiste nell'immaginare i problemi adattativi che i nostri antenati paleolitici avrebbero incontrato nel loro ambiente ancestrale e nel dedurre gli adattamenti psicologici che si sarebbero evoluti per risolverli. L'architetto celeste dell'intelligent design viene sostituito dal «progettista della natura: la selezione naturale», scrive Pinker. Qui Chomsky viene non soltanto «darwinizzato», ma «ultradarwinizzato».

La reazione a questo programma di ricerca assume talvolta toni esacerbati. Jerry Fodor, nel criticare l'adattazionismo dell'«ingegneria inversa», clamorosamente si spinge fino a dubitare che l'adattamento stesso sia il meccanismo attraverso cui avviene l'evoluzione, cadendo così nuovamente in un'opzione antievoluzionista. Altri, come i filosofi della biologia David Buller e John Dupré, pur evitando questi eccessi, non mancano di far notare le debolezze teoriche ed empiriche delle narrazioni selezioniste spesso infalsificabili della psicologia evoluzionista, prediligendo un darwinismo «esteso» che fa invece tesoro della seconda ipotesi proposta da Darwin, quella relativa alla sub-ottimalità dei tratti adattativi, ai vincoli strutturali e agli effetti di ridondanza che rendono le strategie evolutive più diversificate.


Verso la soluzione di un mistero


Si viene così organizzando una sensibilità darwiniana alternativa. Non è un caso che proprio Chomsky abbia co-firmato nel 2002 un celebre articolo con Marc Hauser e Tecumseh Fitch in cui l'evoluzione del linguaggio viene spiegata come una cooptazione di funzioni adattative precedenti, se non addirittura come uno «spandrel», cioè un pennacchio architettonico: la metafora che Stephen J. Gould aveva utilizzato per rappresentare i caratteri degli organismi che si sviluppano senza alcuna funzione adattativa originaria - in quanto effetti di struttura o dismissioni - e che poi vengono ingaggiati opportunisticamente dalla selezione naturale. Il nuovo quadro evoluzionistico in cui è immerso il programma minimalista dell'ultimo Chomsky si fonda sull'idea, cara a Gould, di una selezione naturale che agisce come un bricoleur in un contesto di vincoli strutturali interni, come spiega bene il giovane biolinguista di Harvard Cedric Boeckx nel suo Linguistic Minimalism del 2006.

L'ipotesi funzionalista e l'ipotesi strutturalista, avanzate congiuntamente da Darwin nel 1872 per rispondere al problema della complessità adattativa, sembrano dunque rincorrersi ancora l'un l'altra. Dal loro riverbero nascerà probabilmente una «psicologia evoluzionista di seconda generazione» che, emancipandosi dalle rigidità teoriche della prima, saprà forse avvicinarsi di un altro passo ancora al mistero delle origini delle nostre più elusive facoltà.

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Per andare alle fonti
Titoli per un sentiero di lettura
Il libro di Francesco Ferretti è titolato «Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana» (Laterza, 2007). La profezia di Noam Chomsky è in «Linguaggio e problemi della conoscenza» (Il Mulino, 1991). L'esistenza di grammatiche di complessità intermedia è argomentata da Steven Pinker in «L'istinto del linguaggio» (Mondadori, 1997) e in «Come funziona la mente» (Mondadori, 2000). Il metodo dell'ingegneria inversa è esposto da Daniel Dennett in «L'idea pericolosa di Darwin» (Bollati Boringhieri, 1997). Una raccolta italiana recente sulla psicologia evoluzionista è M. Adenzato, C. Meini (a cura di), «Psicologia evoluzionistica» (Bollati Boringhieri, 2007). Due buoni esempi di argomentazione critica sulla psicologia evoluzionistica: John Dupré, «Human Nature and the Limits of Science» (Oxford University Press, 2001); David J. Buller, «Adapting Minds» (The MIT Press, 2005). Gli articoli di Hauser, Chomsky e Fitch sull'evoluzione della facoltà del linguaggio: «The Faculty of Language: What Is It, Who Has It, and How Did It Evolve?», in «Science», 298, pp. 1569-79; «The Evolution of Language Faculty: Clarifications and Implications», in Cognition, 97, pp. 179-210. Spunti brillanti per una darwinizzazione soft del minimalismo chomskiano si ritrovano in Cedric Boeckx, «Linguistic Minimalism» (Oxford University Press, 2006). Il darwinismo esteso è ampiamente descritto e argomentato da Stephen J. Gould in «La struttura della teoria dell'evoluzione» (Codice edizioni, 2003).

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