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sinistra

Sulla dialettica

di Eros Barone

Una discussione tra filosofi marxisti sulla dialettica («Rinascita», 1962) e un saggio sullo stesso tema («La Cultura», 2003)

hegelmarxNel suo insieme, sia per le acquisizioni critico-metodologiche sia per la reinterpretazione complessiva di Marx (in senso umanistico e storicistico) alla luce specialmente della Kritik del 1843, la scuola filosofica di Della Volpe si configurò fra anni ’50 e anni ’60 come un campo teorico autonomo, una sorta di articolata ‘koiné’ capace di esercitare un influsso vasto e profondo sullo schieramento culturale della sinistra italiana, non meno che nella impostazione di concreti problemi di ideologia e di azione politica che interessavano il presente e le prospettive del movimento operaio. La discussione tra filosofi marxisti su «Rinascita» (si badi, una rivista più politica che teorica) tra giugno e novembre del 1962 agì da cartina di tornasole di un travaglio che metteva in gioco non solo questioni di interpretazione teorica e di orientamento culturale, ma soprattutto temi ricchi di scottanti implicazioni politiche, quali il rapporto fra teoria e pratica e, fuor di cifra, lo stesso dibattito sullo sviluppo capitalistico del paese1 e sulla strategia del movimento operaio di fronte alla linea attuata dalle forze dominanti con il varo del centro-sinistra. Per questo aspetto, essa rappresentò un tentativo importante di ricomposizione unitaria della teoria marxista e di superamento delle alternative presenti, ormai da tempo, in essa2.

Cesare Luporini, aprendo il dibattito, così caratterizzava il dissenso tra i filosofi marxisti: «Che ci siano infatti fra noi tendenze e orientamenti assai diversi mi sembra fuori dubbio […]. La differenza più marcata mi sembra in questo momento quella che divide la ‘scuola’ di Della Volpe dagli altri.»3 L’obiettivo dell’attacco sferrato da Luporini, in termini assai radicali, alla scuola di Della Volpe era senz’altro quello di ricostituire, attraverso lo sviluppo di una concezione unitaria del marxismo, le categorie della dialettica e il loro significato materiale-oggettivo, che il dellavolpismo aveva sottoposto ad una critica dissolvente, sostituendo di fatto alla logica dialettica la logica formale, ritenuta l’unica logica razionale, e finendo con l’esaurire in un’astratta metodologia ‘universale’ i connotati epistemologici della teoria marxista. Su questo terreno, la critica di Luporini era assai netta, imputando a Della Volpe la riduzione del marxismo a pura metodologia, la separazione tra metodo e contenuto (o, inversamente, l’adeguazione permanente del metodo al singolo contenuto secondo uno schema di “logica specifica dei contenuti specifici”), l’impossibilità di presa effettiva sul reale e di approccio critico all’empirico determinata dalla tendenza di Della Volpe a risolvere sempre sul piano logico-razionale, previa depurazione speculativa di ogni problema oggetto di indagine, le antinomie rinvenute nel mondo reale del molteplice e della discretezza.

 

Un discrimine di portata decisiva: la problematica del rapporto tra Hegel e Marx

Strettamente collegata alla questione della dialettica risultava anche la problematica del rapporto tra Hegel e Marx, la cui soluzione ha sempre rappresentato, nella storia del movimento operaio, un discrimine di portata decisiva sia per le ripercussioni politico-ideologiche da essa derivanti nel campo dell’organizzazione e dell’attività dei partiti comunisti sia per l’auto-interpretazione dell’intero organismo teorico marxiano che essa coinvolge.

Il dibattito aveva preso le mosse da una recensione di Luciano Gruppi a Marxismo come storicismo di Nicola Badaloni4, al centro della quale Gruppi aveva posto, nel tracciare un programma di ricerca teorica, l’esigenza comune a tutti che la filosofia marxista dovesse liberarsi “da una serie di incrostazioni di materialismo volgare e di hegelismo”5. Sempre nello stesso articolo Gruppi esaminava le diverse tendenze che scaturivano dall’orientamento di Della Volpe e di Colletti, i quali si rifacevano al tema del rapporto tra Marx e Hegel, ossia a un certo modo di intendere e di riproporre il rapporto da cui il marxismo è nato, e dall’orientamento di Badaloni che, attraverso una serrata discussione con Preti, Dal Pra, Abbagnano, Croce e Bobbio, commisurava il marxismo alle esigenze antimetafisiche del pensiero moderno, ponendo in risalto la rivalutazione del nesso esperienza-prassi e quindi le Glosse a Feuerbach quale punto di partenza per tutto il pensiero moderno. Infine, Gruppi, toccando un punto di cruciale importanza, faceva osservare che per Badaloni il metodo di Marx non era quello dell’‘astrazione determinata’, cavallo di battaglia della scuola di Della Volpe, bensì quello dell’individuazione di una ‘contraddizione reale’, elemento, questo, che Colletti aveva decisamente escluso e che Della Volpe (come s’è visto) interpretava a suo modo.

Facendo leva su tale elemento, Luporini allargava il varco della polemica in termini di attacco aperto e radicale alle tesi dellavolpiane, mettendo al centro del suo intervento il concetto di contraddizione (e il correlativo rapporto fra logica dialettica e logica formale), nonché l’asserzione secondo cui “il metodo di Marx è fondato innanzi tutto sul riconoscimento della oggettività reale della contraddizione e questo riconoscimento è l’elemento di continuità fra Hegel e Marx”. Nonostante l’intenzione dichiarata di porsi in una prospettiva antimetodologica, Luporini, almeno nel suo primo intervento, non fu capace di cambiare terreno e rimase invischiato nella problematica filosofico-metodologica dei dellavolpiani, così come nell’ideologia storicistica del rapporto fra soggetto e oggetto e nella concezione ‘continuistica’ del “rovesciamento della dialettica”, risolta per Luporini  nel riconoscimento, da parte di Marx, del carattere storico-reale della contraddizione, già indagata da Hegel sotto il profilo logico-epistemologico.

Dall’altra sponda contrattaccava Colletti, che nella replica ribadiva le sue posizioni sulla radicale differenza tra Marx e Hegel e indicava il merito principale della scuola di Della Volpe nell’aver aperto la possibilità di capire, da un lato, “ciò che è la ‘teoria del valore’, ciò che Marx intende per ‘classe sociale’ moderna, quale ne sia la struttura economico-politica, quale l’incastro di economia e sociologia che ne discende”, e di capire, dall’altro, “dinanzi all’eterno (ma sempre elusivo) parlare di ‘metodo’ e ‘metodologia’ […] com’è costruita, di fatto, una legge scientifica”, mentre altri  aggiungeva Colletti  rimanevano “oculatamente intenti a dosare l’eterna miscela di un po’ di naturalismo alla Feuerbach con un pizzico di dialettica alla Hegel (quasi che il Capitale, i Grundrisse, le Teorie sul plusvalore fossero veramente riservati agli studenti di ‘economia e commercio’)”6.

Puntuali nella rivendicazione dei meriti del dellavolpismo per quanto attiene alla determinazione dell’essenza teorica del marxismo, la replica di Colletti e l’intervento di un gruppo di studenti dell’università di Roma7 risultavano invece paradossali allorché, polemizzando contro l’affermazione di Luporini (secondo cui, come si è visto, “l’elemento di continuità fra Hegel e Marx” è “il riconoscimento dell’oggettività reale della contraddizione”), omettevano ciò che lo stesso Luporini e Badaloni avrebbero fatto rilevare, ossia il riferimento alla contraddizione8, quasi che riconoscere l’importanza di questa categoria involgesse ‘tout court’ il riconoscere, su questo terreno, una continuità (o una dipendenza) tra Marx e Hegel. Questo particolare assume un risalto assai significativo nella misura in cui rivela una delle ‘défaillances’ più rivelatrici del marxismo italiano di quegli anni, vale a dire l’assenza di una teoria materialistica delle contraddizioni, assenza che sfiora quasi il rifiuto sia in coloro che di fatto la espungevano dal contesto teorico marxiano come residuo speculativo (‘caput mortuum’) identificato con le ‘triadi’ di Hegel o con le tre leggi di engelsiana memoria, ritenendola più uno strumento sofistico che uno strumento di indagine, sia in coloro che le conferivano un significato essenzialmente etico, riguardando lo svolgersi delle contraddizioni come espressione di una tensione tra ‘modello teorico’ e realtà empirica, di cui diviene ‘mediatrice’ la prassi umana cosciente e razionale, il demiurgo storicamente capace di realizzare la piena adeguazione tra modello e realtà, eliminando nella fattispecie i caratteri anarchici, ineguali e irrazionali dello sviluppo capitalistico. Laddove traspare una concezione riduttiva, tipicamente storicistica, della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione come contraddizione inerente non ad un determinato modo di produzione (quello capitalistico) caratterizzato, nella sua totalità, da una dialettica tra sviluppo e sottosviluppo, ma, con un classico procedimento di retroazione, come inerente alla permanenza dei rapporti precapitalistici, inclusi nella categoria dell’‘arretratezza’. Sicché ciò che non risulta è proprio la dominanza (non solo storica ma teorico-esplicativa) del rapporto di produzione capitalistico all’interno del dominante (anche se non esclusivo) modo di produzione capitalistico, e la strutturale funzionalità ad esso anche di quei rapporti residuali, in origine feudali o comunque precapitalistici, che vengono invece assimilati, secondo uno schema meccanicistico-evolutivo, al modo di produzione precedente.

Sono evidenti, a questo punto, le conseguenze di un tal modo di ragionare: una visione feticistica dello sviluppo delle forze produttive, la concezione della ‘rivoluzione (borghese) incompiuta’, l’incapacità di cogliere il carattere antagonistico del capitalismo ai suoi livelli più alti, la surrettizia assunzione di un’ideologia empirica del tempo, che conduce a far uso di un tempo fisico per situare fenomeni storici, e il suo inserimento nel quadro di una concezione generale della storia declinata come continuità e non in base a strutture specifiche della storicità corrispondenti alla dominanza dei diversi modi di produzione. Ma la filigrana politica della discussione sulla dialettica diviene perspicua allorché Badaloni indica le conseguenze dello scientismo idealistico di Della Volpe e la sottostante ideologia dello sviluppo unilineare che lo fonda e lo rende concettualmente possibile (a prezzo, però, della eliminazione della oggettività della contraddizione e della sua sostituzione con una legge astratta che individua il tratto discretivo della scientificità nella reiterabilità dei processi): «Ora ciò è esatto solo nella misura in cui si presupponga per una certa società uno sviluppo lineare senza contraddizioni […]. Certo, data una società in cui dominano i monopoli, è possibile dedurre una sempre maggiore concentrazione della ricchezza e del potere economico; ma con questa legge semplificata, senza l’elemento della contraddizione, sarebbe possibile la rivoluzione d’ottobre, la lotta antifascista e la Resistenza in Italia?»9. Badaloni mostrava giustamente l’impossibilità di dedurre, nel quadro della teoria dellavolpiana, i concetti di sviluppo ineguale del capitalismo, che determina a sua volta lo sviluppo ineguale della rivoluzione, di catena imperialistica, con la correlativa priorità della rottura dell’anello debole all’interno di tale catena, e il carattere di rottura inerente al processo rivoluzionario. Le linee del dibattito, che emergono dalla ricostruzione svolta, autorizzano pertanto un giudizio di sostanziale congruenza, sotto il segno della stabilizzazione capitalistica e dell’assetto bipolare sancito con gli accordi di Yalta, fra le ipostasi dellavolpiane e la situazione dei rapporti di classe in Occidente.

 

Il significato della “oggettività reale” della contraddizione

Restava tuttavia da determinare il significato della oggettività reale della contraddizione, su cui avevano insistito tanto energicamente gli avversari di Della Volpe. A ciò non potevano bastare né le metafore del ‘rovesciamento’ della dialettica hegeliana in dialettica marxista (ché non si capisce come una teoria, per il solo fatto di essere rovesciata, cambi di contenuto), né una elaborazione delle categorie della dialettica come astratta teoria generale (una sorta di ‘romanzo filosofico’), non dipendente cioè da una concezione della storia e della società capace di riflettersi in esse. Ché il problema del significato dell’oggettività reale della contraddizione, verificato ad esempio in rapporto alla dialettica tra valore d’uso e valore di scambio ìnsita nella forma-merce (come nell’intervento di Gruppi, ispirato a una concezione della dialettica di tipo scolastico), non si risolve restando sul terreno delle astrazioni (anche di quelle storiche e determinate), né su un terreno che non permette di pensare ciò che Marx ha espresso nei termini metaforici e allusivi dell’“estrazione del nocciolo razionale” e del “rovesciamento” materialistico della dialettica ‘mistico-mistificata-mistificante’ di Hegel, bensì mostrando il legame tra la struttura propria della contraddizione in Marx e la sua propria concezione della società e della storia; diversamente, le categorie della dialettica sono destinate a restare astratte, “campate in aria”, sospese nel limbo della speculazione filosofica.

Se è testualmente verificabile, infatti, che il sintagma “oggettività reale” riassume in sé diverse modalità e diversi livelli di espressione della materia, da quello empirico-sensibile a quello (complesso) sensibile-sovrasensibile (“sinnlich-übersinnlich”), che connota essenzialmente il ‘manifestarsi’ di un ‘rapporto sociale’ dissimulato feticisticamente dalla ‘oggettività fantomatica’ della merce o del lavoro astratto, a quello connesso al carattere “gesellschaftlich” (ossia pratico-sociale) delle forme ideologiche sovrastrutturali; se ne può inferire che l’intreccio di questi livelli nella struttura della contraddizione non è afferrabile in quanto oggetto di scienza rimanendo nel quadro di una problematica antropologica della soggettività e delle aporie empiristiche rappresentate dalle varie coppie opposizionali ‘apparenza/realtà’, ‘fenomeno/essenza’, che costituiscono lo spazio ideologico di questa problematica anche quando essa viene sublimata, come accade con le varie forme di storicismo (dellavolpiano e no), nelle coppie opposizionali ‘fatto/valore’, ‘ragione/materia’, ‘storia/logica’ (e connessa teoria dell’inversione della temporalità). In effetti, per qualificare il carattere oggettivo della contraddizione e l’efficacia esplicativa (e non meramente descrittiva) della struttura, bisogna situare sia l’una che l’altra nel quadro del materialismo storico e assumere, sulla scorta delle fondamentali indicazioni della marxiana Introduzione del 1857 alla Critica dell’economia politica, il criterio gerarchico (o “priorità epistemologica”) della determinazione in ultima istanza, che non è  giova ripeterlo di fronte alle ricorrenti tentazioni del “feticismo economicista”  “Sua Maestà l’Economia” o un oggetto visibile e percepibile, bensì una contraddizione, che Mao Tse-tung10, ad esempio, ha definito, da un punto di vista autonomo ed originale rispetto alla dialettica hegeliana, come universale, che ha distinto in principale e secondaria, in antagonista e non antagonista, mostrando la reciproca convertibilità dell’una nell’altra, e di cui ha indicato l’ineguale sviluppo.

Di fatto, l’esigenza di riconfigurare la problematica entro i cui confini si svolse quella discussione restò inevasa, dal momento che sarebbe stato necessario sia introdurre concetti nuovi sia svincolare tale problematica dalle ipoteche storicistiche che ne limitarono l’orizzonte entro confini che, nella loro allegorica trasparenza di disputa filosofica, rinviavano ad avvenimenti di ben più ampia portata. Il dibattito lasciava in effetti irrisolto il problema della elaborazione di una dialettica marxista e una simile carenza, in un momento in cui sembrava che le classi dominanti riuscissero a realizzare, attraverso le riforme, una politica di razionalizzazione del sistema, lasciava aperto un varco all’irrompere delle tematiche dell’insubordinazione operaia considerata quale unico strumento rivoluzionario atto a colpire un sistema sociale concepito ormai come invulnerabile “totalità capitalistica” (in questo senso l’operaismo è, sul piano teorico, il prodotto della mancata elaborazione di una teoria materialistica della contraddizione). Così, la mancata elaborazione della dialettica marxista in nesso con un’analisi della società borghese, a quel livello di sviluppo, si tradusse, negli anni seguenti, all’interno del Pci, in una polemica sulla priorità degli obiettivi avanzati o arretrati, nella quale si rifletteva meccanicamente il carattere ineguale dello sviluppo capitalistico.

Soltanto Luporini11 si era impegnato nella direzione richiesta dalla necessità di riadeguamento degli strumenti teorici del marxismo, ossia nella messa a punto di un nuovo concetto, non schematico, di totalità, capace di esprimere (e di servire a) un’interpretazione unitaria della società borghese in rapporto sia ad un modello teorico del modo di produzione capitalistico (Il capitale) sia all’esigenza (di cui Luporini denunciava il mancato soddisfacimento) di applicarlo all’analisi di paesi determinati e sistemi sociali concreti.

Ma ciò che permaneva, al di sotto del confronto teorico svòltosi nel ’62 tra i filosofi marxisti, era una tensione sotto traccia che di fatto innervò e pervase tutta la polemica, ossia la trama di una dialettica reale segnata da eventi storici di straordinaria importanza: la rottura del movimento comunista internazionale, la crisi dell’imperialismo, le lotte di liberazione nel Terzo Mondo, una nuova dislocazione delle contraddizioni di classe su scala mondiale, che rendeva, ad esempio, antagonistica la contraddizione tra sviluppo e sottosviluppo nei paesi coloniali e semicoloniali e non nelle metropoli, mentre nel nostro paese si profilava una forte ripresa di lotte operaie e nel contempo l’avvio della politica di centro-sinistra.

L’insorgere del problema della dialettica, sotto la spinta profonda degli eventi or ora indicati, non ebbe una risposta che fosse in grado di superare il dilemma tra la posizione di chi, sottolineando l’oggettività reale della contraddizione, non riusciva però a superare il limite postulatorio di questa tesi verificando le forme specifiche di tale contraddizione all’interno della concreta formazione economico-sociale, e finiva così col consegnare ad una prassi eticamente interpretata la soluzione progressiva della contraddizione, e chi, collocando la contraddizione nella relazionalità tra mente e fatti, finiva (come Colletti) con l’assegnare alle idee non solo il compito di criticare altre idee, ma nientedimeno che i fatti stessi, e con l’attribuire alla soggettività non solo la coscienza, ma anche la realtà della contraddizione.

 

Il ruolo centrale della categoria della contraddizione e “la scienza prima della scienza” di Gennaro Sasso

Scientismo ed eticismo, umanesimo di ritorno e determinismo, metodo e contenuto, modello teorico e analisi concreta, giudizi di fatto e giudizi di valore, così nella loro alternanza come nella loro giustapposizione, rivelavano il permanere di una ‘crisi teorica’, riflesso di una congiuntura difficile e complessa, e di un biforcarsi di interessi e soluzioni, che imponevano e  non molto dopo, fra anni ’60 e anni ’70  imporranno, di là dal ‘periodo dogmatico’ e di là dal successivo ‘disgelo’, una ripresa di iniziativa teorica che non potrà non muovere, di fronte a eventi come la crisi dell’unità del movimento comunista internazionale, come la ‘rivoluzione culturale’ in Cina, come lo scoppio di grandi conflitti sociali e ideologici negli apparati scolastici e universitari, dal cómpito di restaurare il ruolo centrale della categoria della contraddizione all’interno del marxismo, sviluppandone la radicale capacità euristica, cognitiva e pratica sia come ‘arma della critica’ sia come ‘critica delle armi’. A questo proposito, e lo annunciava implicitamente la stessa polemica con i comunisti cinesi, occorreva ricominciare a riflettere sul nodo della relazione tra forze produttive e rapporti di produzione, sullo svolgimento della “forma di valore”, sulla connessione tra valore d’uso e valore di scambio, nonché sulla risposta economica e ideologica che il capitalismo dà a queste opposizioni/contraddizioni.

Soltanto sul terreno di questa problematica non generica il lavoro teorico poteva garantire un reale superamento di quelle alternative all’interno del marxismo italiano o, per meglio dire, un dissolvimento delle illusioni e un recupero della realtà, che implicavano, in primo luogo, il definire l’oggetto proprio della pratica teorica in un altro modo e, in secondo luogo, il ritrovare nella realtà alternative assai differenti rispetto a quelle da cui si era partiti.

Il che è quanto ha imposto di fare, a distanza di oltre quarant’anni, il saggio di Gennaro Sasso, direttore della rivista «La Cultura», su Gramsci e l’idealismo12, ove il ‘doctor subtilis’ della filosofia italiana, depurando la problematica gramsciana del suo sostrato storico-materiale e trasferendola nel cielo delle connessioni logico-formali, ha mirato a dimostrare la tesi, per la verità non nuova, secondo cui il marxismo è una “escatologia” o “filosofia della storia”. In realtà, anche questo ennesimo tentativo di ‘sublimazione’ della critica al marxismo, pur condotto con indubbia abilità dialettica sul piano metodologico, si risolve nel far giocare fra di loro le categorie di identità, unità, differenza e distinzione, dandoci  come Kant, secondo Hegel … “la scienza prima della scienza” e prescindendo perciò, con sovrana noncuranza, dal solido terreno dell’empiria e della fattualità storica, che è invece quello su cui si muove Gramsci. Sfugge, insomma, a Sasso che una delucidazione preliminare delle categorie concettuali, quale quella a cui egli dedica il suo acume sofistico, è solo una esercitazione scolastica se non si congiunge intimamente, sino a fòndervisi, con l’“analisi concreta della situazione concreta”; parimenti, gli sfugge il tratto specifico e caratterizzante della concezione materialistica del rapporto tra pensiero ed essere, laddove fra quello e questo non si dà (come nella concezione idealistica) unità e/o identità, ma dipendenza asimmetrica ed eterogenea del pensiero dall’essere. In altri termini, Sasso si avvolge nelle spire di un formalismo logico-dialettico fine a se stesso, essendo incapace di comprendere che il discorso materialista, coerentemente con un’istanza che si può definire come principio di datità, muove da realtà esterne per adeguare a queste il discorso. Egli invece, seguendo la concezione trascendentale, pretende di percorrere il cammino inverso, adeguando gli oggetti ai concetti, talché il risultato inevitabile è che fraintende il metodo analitico gramsciano e ne impoverisce la forza dialettica, scambiando la coppia omogenea identità/distinzione con la coppia eterogenea identità/diversità e mostrando, da ultimo, in un’ottica banalmente filistea, che ogni cosa è semplicemente identica a sé e diversa da ogni altra. Ancora una volta, ignorando che non è possibile imparare a nuotare se non immergendosi nell’acqua del mare, il nostro ‘doctor subtilis’ si gingilla con le “trasformazioni” dei concetti e, seguendo una sorte non molto dissìmile da quella di un clown che maneggia pile di piatti finché non gli sfuggono di mano e si frantùmano in mille pezzi fra le grasse risate del pubblico, presume di aver messo a nudo il carattere aporetico dell’indagine gramsciana e dello stesso marxismo, mentre non ha fatto altro che costruire una caricatura dell’una e dell’altro. Orbene, ciò che alla ‘forma mentis’ kantiana, logicizzante e piccolo-borghese, di Sasso resta inesplicabile nel metodo di indagine gramsciano e nella concezione materialistica che lo sottende, è che  per usare un criterio comparativo al fine di rendere più chiare le differenze tra il marxismo e le due concezioni fondamentali della dialettica con cui il marxismo è confrontabile  in esso, diversamente da Aristotele ed esattamente come in Hegel, le differenti forme concettuali (identità, unità, differenza, distinzione, diversità, opposizione, contraddizione) sono fuse, mentre il loro movimento viene radicalizzato; come in Aristotele ed Hegel, ciò che unifica gli opposti è il fondamento comune e il divenire (o movimento); come in Hegel, è fortemente sottolineato il divenire; diversamente dall’idealista Hegel e come nel realista Aristotele, il movimento si basa (non sull’identità simmetrica ed omogenea di pensiero ed essere, sia pure conseguita attraverso molteplici mediazioni, ma) sulla dipendenza asimmetrica ed eterogenea del pensiero dall’essere; inoltre, diversamente sia da Aristotele che da Hegel, il materialismo storico-dialettico sviluppa in forma radicale il concetto che il pensiero è sempre contaminato dalla materia, sicché  per quanto una simile tesi sia tale da far inorridire il nostro ‘doctor subtilis’  lo sviluppo delle forze produttive e delle forme di produzione si configura come il fattore determinante e dominante, che riconduce sotto di sé tutti gli altri elementi (Stato, cultura, religione ecc.). Infine, l’aver ignorato l’asimmetria che è stata più volte richiamata fa sì che anche Sasso finisca, di fatto, con il sottoscrivere la rappresentazione volgare, così spesso attribuita al marxismo e segnatamente ad Engels, secondo cui, nella costruzione di una dialettica materialistica, il marxismo appare come negatore (ovviamente rozzo) della filosofia e fautore delle scienze positive, mentre, nella sua costruzione di una dialettica materialistica, appare come fautore (ovviamente sprovveduto) della filosofia e negatore delle scienze positive  laddove quella che non viene còlta è, ancora una volta, la compresenza dialettica, che è costitutiva del marxismo, fra una radicale negazione della filosofia e un recupero del carattere originario della filosofia stessa come ontologia13.

Del resto, dopo averne considerato gli aspetti più direttamente connessi al tema della dialettica materialistica, che è al centro dell’attenzione in questa sede, ci sembra che l’elaborato di Sasso, ipercritico nelle intenzioni e ipocritico nei risultati, non meriti un giudizio diverso da quello che il grande musicista Gioachino Rossini ebbe a formulare sull’opera di un compositore: «Vi è del bello e del nuovo, ma quel che è bello non è nuovo e quel che è nuovo non è bello». I consueti ‘tópoi’ della critica antimarxista si susséguono con la stessa monotonia dei granelli di un rosario: la struttura come ‘deus absconditus’ (cfr. Croce), il dislivello (ontologico e assiologico) fra la struttura e la sovrastruttura, il rapporto tra la forma e la materia (cfr. Aristotele), il passaggio dalla preistoria alla storia, la ulteriorità (escatologica) del marxismo rispetto alla critica delle ideologie, ecc. ecc.

Concludiamo queste osservazioni sulla critica di Sasso a Gramsci e al marxismo, sottolineando che, comunque, il solo fatto di dedicare a tale critica un saggio di cinquanta pagine è un buon segno, giacché attesta la vitalità della concezione materialistica della storia e della dialettica, della quale uno studioso del livello di Sasso non può, di là dalla stolida euforia dell’ottantanove e di là dalle opportunistiche liquidazioni dell’asinistra, non prendere atto. Né vanno sottaciuti gli elementi positivi che pur non mancano nel saggio di Sasso, come la confutazione della tesi di Augusto Del Noce sul rapporto di filiazione fra l’attualismo gentiliano e il pensiero gramsciano, che Sasso liquida con rigore filologico, attenendosi alla “verità dei fatti”, ossia ai testi gramsciani, e mostrando la scarsa frequenza, in essi, dei riferimenti a Gentile, mentre è da apprezzare la caustica ironia verso quelli che lo studioso romano efficacemente definisce i “catastrofisti delle essenze”, ossia gli artefici di ricostruzioni fantafilosofiche e fantastoriografiche basate sulla ipostatizzazione di un’“essenza” comune a più pensatori, fissata indipendentemente da ciò che è contenuto nei loro testi e dalla specifica “grammatica” e “sintassi” del loro sistema teoretico (cfr. Heidegger, Severino ecc.).

Ciò nondimeno, nel conchiudere questa indagine sulla dialettica materialistica, che ha preso le mosse da un’ampia ricostruzione della discussione del 1962 e ha poi individuato come termine di verifica odierno un momento significativo della critica del marxismo elaborata dal pensiero filosofico borghese, non possiamo esimerci dal ricordare le parole, penetranti come strali e dirompenti come cariche di dinamite, che, intervenendo sullo stesso argomento, Marx ebbe ad usare nel poscritto alla seconda edizione del primo libro del Capitale: «Nella sua forma mistificata, la dialettica divenne una moda tedesca, perché sembrava trasfigurare lo stato di cose esistente. Nella sua forma razionale, la dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e i suoi corifei dottrinali, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto, perché ogni forma divenuta essa la concepisce nel fluire del movimento, quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per essenza»14.


Note
1 La discussione sulla dialettica era stata preceduta dalla polemica epistolare tra Valentino Gerratana e Lucio Colletti sul «Contemporaneo» del 1958-’59.
2 Cfr. l’interessante saggio (che si può considerare come un intervento in coda alla discussione sulla dialettica) di A. De Palma-S. Meliga, Alternative del marxismo italiano, sulla «Rivista di filosofia», 1963, n. 4.
3 C. Luporini, Appunti per una discussione tra filosofi marxisti in Italia, in «Rinascita», n. 8, 23 giugno 1962.
4 N. Badaloni, Marxismo come storicismo, Milano, 1962.
5 La recensione di Gruppi su Marxismo come storicismo apparve in «Rinascita», n. 6, 9 giugno 1962.
6 L. Colletti, Il rapporto Hegel-Marx, in «Rinascita», n. 11, 14 luglio 1962.
7 M. Figurelli, E. Mercuri, C. Petruccioli, Un contributo di studenti dell’Università di Roma, in «Rinascita», n. 12, 21 luglio 1962.
8 Cfr. N. Badaloni, La realtà oggettiva della contraddizione, in «Rinascita», n. 13, 28 luglio 1972, e C. Luporini, Una precisazione, ibidem.
9 N. Badaloni, ibidem.
10 Cfr. il classico saggio Sulla contraddizione, risalente al 1927, in Mao Tse-tung, Scritti filosofici, Milano, 1964, pp. 29-84.
11 Cfr. il secondo intervento di Luporini nella discussione del ’62, in cui Luporini sviluppa una propria originale interpretazione della marxiana Introduzione del 1857, in alternativa a Della Volpe. Ma importante nella biografia intellettuale di Luporini (e nella storia del marxismo italiano della seconda metà degli anni ’60) è soprattutto il saggio Realtà e storicità, in «Critica marxista», n. 1, gennaio-febbraio 1966, successivamente ripreso nel volume Dialettica e materialismo, Roma, 1974, pp. 153-211.
12 Cfr. «La Cultura», n. 3, 2003, pp. 351-402.
13 Cfr. su questo punto il denso saggio teoretico di Jos Lenslink, intitolato Dialettica materialistica: superamento della filosofia in generale?, nel volume collettaneo a cura di Stefano Garroni, Engels cento anni dopo, La Città del Sole, Napoli, 1995, pp. 53-87.
14 K. Marx, Il capitale, Libro primo, trad. di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma, 1965, p. 45.

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