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sinistra

Considerazioni sul nesso fra teoria e politica nel marxismo italiano degli anni ’70 e ’80

di Eros Barone

marxismo italiano 02L’ortodossia non deve essere ricercata in questo o quello dei discepoli di Marx, in quella o questa tendenza legata a correnti estranee al marxismo, ma nel concetto che il marxismo basta a se stesso, contiene in sé tutti gli elementi fondamentali, non solo per costruire una totale concezione del mondo, una totale filosofia, ma per vivificare una totale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una integrale, totale civiltà. […] Una teoria è rivoluzionaria in quanto è appunto elemento di separazione completa in due campi, in quanto è vertice inaccessibile agli avversari. Ritenere che il materialismo storico non sia una struttura di pensiero completamente autonoma significa in realtà non avere completamente tagliato i legami col vecchio mondo.
Antonio Gramsci1

1. Centralità del nesso fra teoria e politica

Le note che seguono mirano per un verso a puntualizzare il nesso tra teoria e politica, così come si è andato configurando in alcuni momenti decisivi dell'elaborazione marxista che hanno contrassegnato l’arco storico degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, e per un altro verso a indicare le condizioni per una possibile ricomposizione di tale nesso nella prospettiva della ripresa di un movimento di classe offensivo. La ricognizione del tema non può che svolgersi lungo i mobili confini, tra scienza e ideologia, di un campo di ricerca attraversato da una lotta specifica tra diverse ed opposte tendenze, espressione strutturale di un livello determinato della lotta di classe, la pratica teorica, a sua volta ‘sovradeterminato’, attraverso una peculiare combinazione di effetti, dagli altri livelli o istanze della totalità complessa costituita dall’insieme base-sovrastrutture-pratiche, cioè dai livelli corrispondenti alla pratica economica e alla pratica politica della lotta di classe.2

 

2. Un nesso di coimplicazione dialettica

Per poter fissare con esattezza gli aspetti fondamentali del tema che ci siamo proposti di analizzare, è opportuno premettere un chiarimento sul significato del termine pratica: in tal senso ci possiamo rifare alla limpida definizione, formulata da Mao Zedong, secondo cui la pratica è l’attività consapevole (cioè prassi) diretta a modificare il mondo esterno ai diversi livelli della produzione e del lavoro, della sperimentazione scientifica e della lotta di classe.3 La teoria è la riflessione sulla pratica, ossia la conoscenza delle modificazioni indotte nella realtà dalla pratica. La pratica propriamente detta, o prassi, non esiste senza la teoria, produce la teoria e ne è un prodotto. Egualmente la teoria non può esistere senza pratica, pena la sua concretizzazione in una pratica deforme e irriconoscibile. Queste precisazioni concettuali sul nesso di coimplicazione dialettica tra teoria e pratica ci consentono di affermare che la ricerca deve incardinarsi, per essere proficua, su una corretta determinazione del nesso tra teoria e politica (laddove si assume per politica la prassi cosciente della lotta di classe).

 

3. Il criterio della prassi: né strumentalismo né mitopoiesi

Ripartiamo da Marx, il quale nella seconda “tesi su Feuerbach”4 asserisce che ogni problema di conoscenza è una “'questione pratica”, e compie in tal modo una rottura radicale con il formalismo metodologico di stampo kantiano. Vi è qui, in germe, l'affermazione (che sarà poi elaborata nella Introduzione del 1857 a Per la critica dell'economia politica) della specificità irriducibile - di campo e di metodo - della teoria materialistica, la quale rende funzionali le astrazioni determinate alla conoscenza di oggetti reali, concreti e singoli (ad es., questa società italiana del secondo decennio del XXI secolo). La stessa affermazione, oltre ad un valore epistemologico, ne assume uno, per così dire, teleologico (il marxismo è, in primo luogo, una “guida per l’azione”), poiché la teoria materialistica fornisce al movimento di classe non solo una base orientativa, ma anche un criterio applicativo ed auto-correttivo, grazie a cui essa è in grado sia di istituire un circuito fecondo tra teoria e pratica sia di verificare la corrispondenza dialettica fra i due termini. La specificità socio-politica - applicativa ed auto-correttiva - della teoria marxista ci conduce a riconoscere nel processo attraverso cui l’idea (intesa nelle sue diverse accezioni: da quella più semplice e particolare sino a quella più complessa e generale), quando penetra nelle masse, diviene una forza materiale,il fondamento del carattere intersoggettivo del criterio della prassi. In questo senso, l’analogia che è possibile individuare fra il criterio della prassi e ciò che il positivismo logico chiama principio di verificazione ci permette di riformulare il celebre assioma secondo cui il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica nell’assioma in base al quale la validità della teoria rivoluzionaria - e del progetto che ne dipende - consiste nella qualità e nella quantità della pratica sociale di massa che è in grado di organizzare, mobilitare e dirigere. Hic Rhodus, hic salta .

D’altronde, la seconda “tesi su Feuerbach” non autorizza né un’interpretazione strumentalistica (riconducibile ad una visione demopsicologica, a mezza via tra Le Bon e Sorel, del ruolo della teoria sociopolitica quale moderno mito per l’azione), né uno slittamento, che avviene pur sempre sullo stesso sdrucciolevole terreno del pragmatismo, verso le posizioni di coloro che teorizzano il ruolo ancillare della teoria rispetto alla pratica (disconoscendone l’autonomia relativa e degradandola in tal modo a mero ricettario); al contrario, essa apre la via, ancora per ampio tratto da percorrere, ad una pratica teorica che si pone e si esplica come punto di vista materialistico sulle molteplici pratiche del mondo umano e sociale, di cui conduce un'analisi positiva, nel mentre ne smaschera i fini apologetici e ne assume l’eventuale contributo conoscitivo. La seconda “tesi su Feuerbach” indica, inoltre, al movimento di classe il compito di costruire quelle forme nuove di razionalità collettiva che sole possono dare corpo e vita ad una vera egemonia della classe rivoluzionaria.5

Ma il criterio della prassi, inteso nel suo significato di criterio intersoggettivo della validità di una teoria e di un progetto che mirano a trasformare il mondo, mette in gioco un fatto di portata rivoluzionaria – l’evento più dirompente nella storia delle società di classe -, ossia l'unione della teoria marxista col movimento operaio. Questo fatto è ancor oggi motivo di scandalo sia nella storia delle scienze (ove segna la nascita del materialismo storico e l’elaborazione del modello teorico del capitale) sia nella storia delle dottrine politiche (ove segna la nascita del socialismo scientifico), mentre per la filosofia tradizionale (idealistica e positivistica) segna il dramma di una rottura profonda della sua problematica senza storia e del suo essere “la più falsa delle vie false” (Dietzgen)6 , perché vi fa irrompere ciò che la filosofia ha sempre negato in quanto su tale negazione si è costruita la sua falsa eternità così come la sua falsa storia, entrambe riducibili alla brutalità di un rapporto condizionante con le scienze (la filosofia è sempre in ritardo rispetto ad esse) e con la politica (di cui la filosofia è un concentrato, una determinata prosecuzione)7 .

 

4. La divaricazione fra teoria e politica: operaismo e togliattismo

È ormai oggetto di costatazione storica (ma non ancora, se non in modo episodico, di chiarificazione teorica) il fatto che nel marxismo degli anni ’70 e ’80 si è consumata la sconfitta di due correnti il cui rapporto si può definire di solidarietà antitetico-speculare: l’operaismo e il togliattismo.8 La tesi che qui propongo è che entrambi questi fallimenti sono legati alla incomprensione del nesso fra teoria e politica che articola le molteplici istanze del “meccanismo unico” (Lenin), cioè della odierna società imperialistica. È chiaro che tale incomprensione rinvia ad una conoscenza errata o inadeguata del capitalismo monopolistico di Stato contemporaneo. D’altra parte, oggi sono meno isolati, per quanto sempre controcorrente, quei marxisti che individuano la comune radice di entrambi i fallimenti nell’abbandono, attuato in forma palese o mascherata, in modo graduale ma sostanziale, del leninismo. Orbene, il lascito teoricamente primario che il leninismo ci trasmette risiede - come ci ha insegnato György Lukàcs - nella categoria della totalità, che ci fornisce il centro di gravitazione da cui si svolge l'analisi del materialismo storico ed in cui converge la prospettiva storico-mondiale che è propria del comunismo. Tale categoria, con il suo carattere processuale e con il suo ritmo dialettico, è - per dirla con Engels – “l’uno-tutto della concezione marxista”.9

Proprio l’incapacità teorica di dominare assieme totalità e contraddizione condusse dapprima, fra gli armi ’60 e ’70, a quelle forme di “feticismo dell’economia” che, scambiando l’istanza organicistica del modo di produzione capitalistico con una sua compiuta realizzazione attraverso il “piano del capitale”, dettero per risolta l’equazione tra economia e politica, per poi produrne, nel corso degli anni ’80, un arrovesciamento solo in apparenza paradossale con forme di “feticismo della politica” in cui la distorsione della categoria della totalità si configurava con altro segno, veicolando sempre lo stesso contenuto, anche se non più apologetico dello sviluppo capitalistico ma della macchina-Stato borghese. È accaduto così che nello stesso spazio ideologico si siano alternate, talvolta ad opera degli stessi teorici, le tematiche relative all’economico e le tematiche relative al politico.10 La dominanza di queste ultime all’intemo del dibattito condotto dal ceto politico e intellettuale revisionista durante gli anni ’80 è stata il frutto di un’impostazione che aveva ormai perso ogni connotato oggettivo e si era del tutto sganciata da un’analisi materialistica dei rapporti di produzione, assumendo la “volontà di potenza” e il decisionismo come gli unici mezzi che i gruppi dirigenti del movimento operaio, nella loro autonomia da quest’ultimo, dovevano appropriarsi per gestire il potere nelle società “altamente complesse” (laddove la “complessità” di cui si fa costantemente parola non è solo concetto sociologico, ma anche strategia politica).

Maggiore continuità nella sua elaborazione ha presentato, pur condividendo con l’altra lo stesso esito fallimentare, la corrente togliattiana. Questa ha sì mantenuto un ossequio formale verso la tradizione leninista (peraltro debitamente disossata e ridotta a lontano retroterra storico-politico), ma ha interpretato il “politico” come esclusivo intervento nell'ambito istituzionale dello Stato (funzionale ad esso anche nei momenti aspri di conflittualità sociale, come nella variante italo-marxista ingraiana) con una conseguente trasvalutazione della prassi di classe nella prassi parlamentare. La corrente togliattiana ha così realizzato, nei modi tipici del revisionismo socialdemocratico, quel “primato della politica” che si può qualificare, per la sua essenza teorico-pratica, come primato della sfera della circolazione su quella produttiva: un “primato della politica” che, così concepito, se non trova alcun riscontro nel pensiero marxista e leninista, intrattiene invece un intimo rapporto cori il socialismo di Stato" di tradizione lassalliana e una parentela acquisita con 1’“alleanza fra i produttori" di tradizione sansimoniana, che assieme costituiscono due fonti e due parti integranti del moderno revisionismo, cui è da aggiungere, per le crescenti affinità, quale terza fonte, la sociologia borghese dell'età imperialistica, rappresentata dai vari Weber, Pareto, Schmitt, Habermas e Luhmann.

La divaricazione fra teoria e politica che si è prodotta nel corpo del marxismo italiano, se per alcuni aspetti è stata influenzata dalla crisi e dal dissolvimento del paradigma storico-politico incarnato dai paesi socialisti, in primo luogo dall’Unione Sovietica, discende in ultima istanza dalla incapacità di coniugare tra di loro scienza e rivoluzione. Tale incapacità ha bruciato una parte delle passate generazioni di militanti in una pratica rivoluzionaria intesa in senso totalmente soggettivistico-antropologico (teoria dei bisogni, sovversione dell’“operaio sociale”, comunismo come programma minimo) e perciò destinata ad un'inevitabile sconfitta, e ne ha consegnato un’altra parte alle ricorrenti seduzioni della “società aperta” e di uno scientismo popperiano di impronta liberaldemocratica, sempre pronto, peraltro, a convertirsi in una ideologia apertamente reazionaria ed aggressivamente “occidentalista” al servizio dei grandi monopoli e della loro politica guerrafondaia.

D’altronde, lo scientismo (che, variamente combinato con l’irrazionalismo, è un ingrediente fondamentale delle ideologie dei monopoli) si fonda su un’operazione tipica del pensiero borghese, perseguita, ad esempio, con grande coerenza da Max Weber, cioè sulla separazione della pratica scientifica, del comportamento razionale e del lavoro teorico dalla scelta politica.11 Lenin, invece, così prospetta l’esigenza scientifica che è alla base della politica comunista: «La teoria…deve dare una risposta alle richieste del proletariato e, se soddisferà le esigenze della scienza, lo spirito di protesta del proletariato, ad ogni suo risveglio, sarà inevitabilmente incanalato nell’alveo della socialdemocrazia» (Lenin si riferisce al Posdr, cioè alla prima organizzazione politica nazionale del proletariato russo che svolse, in quel periodo storico, un’attività rivoluzionaria). La teoria - dice Lenin - non trova la sua verifica nello “spirito di protesta del proletariato”; al contrario, solo la coincidenza tra la teoria comunista e un’analisi della società è in gracido di condurre la classe degli sfruttati ad un obiettivo di effettiva liberazione.12

Tuttavia, occorre riconoscere che la divaricazione fra teoria e politica si è prodotta, che la ricerca marxista in questi decenni ha ristagnato e l’impasse che ne è conseguita ha orientato i tentativi di confutare il marxismo in molteplici direzioni: taluni hanno messo in discussione l’effettivo valore scientifico della concezione marxista, ritenendola in sostanza una teoria obsoleta, dal momento che non avrebbe consentito di prevedere gli sviluppi reali delle società capitalistiche; altri hanno riesumato varianti di socialismo utopistico, contrapponendole al socialismo scientifico e contestando stando le anticipazioni dello sviluppo sociale basate sulla conoscenza razionale; altri ancora hanno considerato il marxismo come l’ultimo capitolo del sapere occidentale, una “grande narrazione” ormai conclusa.13

 

5. Un programma di ricerca per il pensiero marxista

Le osservazioni svolte a proposito della disarticolazione del nesso fra teoria e pratica nel marxismo italiano degli anni ’70 e ’80 (da cui derivano le disarticolazioni del nesso fra teoria e politica e del nesso fra economia e politica) ci consentono di sottolineare due fondamentali esigenze che allora in qualche modo si manifestarono e che conservano ancor oggi un posto centrale nel programma di ricerca con cui è chiamato a cimentarsi il pensiero marxista.

La prima esigenza è quella di applicare alla nostra società il modello teorico del modo di produzione capitalistico, poiché questa applicazione costituisce il presupposto per determinare, sul terreno del materialismo storico, i metodi e gli obiettivi di una giusta pratica politica. Si tratta di leggere il capitale (quello con la ‘c’ minuscola), adoperando le categorie che ci fornisce il Capitale, categorie che non valgono soltanto per quella particolare società capitalistica dell’800 analizzata da Marx, ma valgono per ogni tipo di società capitalistica.14 L’esigenza di comprendere le “leggi di movimento” della società capitalistica non ha infatti carattere puramente conoscitivo, ma costituisce per il proletariato un fattore di potere di prim’ordine, affinché esso possa convertire le armi della critica in critica delle armi. E la verità è l’arma in ultima analisi decisiva. Si è detto: conoscere le “leggi di movimento” della società capitalistica e fornire previsioni. Si deve quindi poter disporre di un modello teorico che spieghi il funzionamento dei rapporti di produzione e le contraddizioni fra tali rapporti e lo sviluppo delle forze produttive, la dinamico nel breve periodo (cioè l’adattamento dell’economia ai mutamenti delle condizioni sociali) e la dinamico nel lungo periodo (cioè le cause della decomposizione di un sistema e della sua trasformazione in un altro sistema). È difficile negare che il marxismo, in quanto analisi scientifica della società capitalistica, possa prescindere dal concetto di previsione. Nondimeno, può essere opportuno distinguere la previsione di tipo morfologico, secondo il modulo di Labriola, da quella di tipo teleologico, secondo il modulo di Gramsci. Mentre la prima si fonda su una legalità di tipo naturalistico - anche se relativa ad una natura concepita dialetticamente (Labriola parla di “un’autocritica delle cose stesse”)15 -, la seconda fa leva su una stretta connessione tra la previsione teorica e il programma politico.16 A questo proposito, lo storico Walter Kula, autore di un importante studio sulla Teoria economica del sistema feudale, ha evocato due coefficienti che, data la loro natura storica, possono essere adeguatamente integrati solo in una previsione di tipo teleologico: il “coefficiente della pazienza umana” e il “coefficiente dell’inclinazi0one alla rivolta”. Non vi è bisogno di ricordare come tutta una tradizione di pensiero rivoluzionario (dal Lenin del Che fare? e dell'insurrezione come arte al Gramsci che elabora nei Quaderni del carcere una scienza politica della transizione) si sia sforzata di concettualizzare questo spazio teorico di frontiera, situato fra modello teorico del capitale e teoria della rivoluzione, in cui la conoscenza rigorosa delle leggi di questo sistema economico-sociale deve servire a spezzarle.

La pratica politica acquista così carattere di scienza grazie alla capacità di misurare - con la stessa precisione delle scienze esatte, diceva Gramsci - i rapporti obiettivi di forza, il “coefficiente della pazienza umana” e il “coefficiente dell’inclinazione alla rivolta”.17 Non bisogna quindi meravigliarsi se da Bernstein a Kautsky, da Plechanov a Labriola, da Lenin a Gramsci, il rapporto tra teoria e politica, tra conoscenza scientifica della società e programma politico, si sia sempre configurato come discrimine tra revisionismo e ortodossia e se le tensioni accumulatesi in questo campo di ricerca si siano scaricate sul concetto di previsione.

Occorre pertanto, se si vuole rendere operativo questo concetto, tornare all’analisi delle forze materiali della società (cfr. le Tesi di Lione del P.C.d’I.), trascurata in questi ultimi decenni per eccesso di politicizzazione dell’analisi, mentre non lo fu in altri periodi e presso altri partiti comunisti (cfr. le annate della rivista Lo Stato operaio e gli scritti di Mao Tse-tung sulla società cinese). Egualmente, occorre procedere con “analisi concrete di situazioni concrete” (Lenin) e mantenere la distinzione, ma anche saper operare uno scorrimento biunivoco fra teoria e politica, se si vuole aprire la via alla elaborazione di una strategia offensiva, fondata non sui desideri e sulle impazienze, ma sui dati obiettivi e sui processi reali.

La seconda esigenza concerne la elaborazione, la verifica e la diffusione della teoria marxista nel proletariato e tra le nuove generazioni. In effetti, la crisi della fine degli anni ’60 e 1’“onda lunga” che ne scaturì e che caratterizzò gli anni ’70, per cedere poi al riflusso degli anni ’80, non fu una crisi rivoluzionaria, ma fu una crisi di egemonia. La diffusione del marxismo che si produsse allora in strati sociali non proletari, investi - e in parte deformò - la stessa struttura teorica di tale concezione, nel momento stesso in cui la elevò ad un’altezza mai raggiunta della totalità sociale e delle sue connessioni intime, ad un’altezza dalla quale era possibile rivolgere lo sguardo oltre l’'orizzonte dei rapporti di produzione dominanti. Un’altezza tale da inverare perfino quello che Lukàcs chiama “il punto archimedico della critica”, cioè quel punto a partire dal quale i fenomeni del mondo economico, sociale e culturale diventano comprensibili, ma che, rispetto alla realtà del presente, può avere solo il carattere di un’istanza.18 Mai come allora fu chiaro che la conoscenza è una “questione pratica” e che, per converso, la conquista dell’egemonia è una questione di conoscenza, non solo di coscienza. Sappiamo che la risposta egemonica è mancata, mentre ha avuto luogo in sua vece una “rivoluzione passiva”, cioè una spinta verso una trasformazione funzionale alla fase di crisi e ristrutturazione che il capitalismo imperialista ha attraversato su scala nazionale, regionale e mondiale.19 Sappiamo infine che tra la “rivoluzione passiva” e il processo di integrale socialdemocratizzazione del movimento operaio esiste un rapporto di mutua interdipendenza. Per tutte queste ragioni il pensiero marxista non può non misurarsi, nel definire e dispiegare un programma di ricerca orientato e condotto alla luce del materialismo dialettico e storico, con il problema di ricostruire una nuova coscienza di classe - politica, teorica ed organizzativa - capace di fare i conti con la totalità dell’oppressione e dello sfruttamento che pervadono la società del capitale.


Note
1 Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1977², Q. 4, 14, p. 435.
2 Su questo tema cruciale mi permetto di segnalare le considerazioni che ho svolto in un articolo pubblicato su questo stesso sito: https://www.sinistrainrete.info/marxismo/12032-eros-barone-note-sul-rapporto-base-sovrastrutture-prassi.html .
3 Cfr. https://www.marxists.org/italiano/reference/mao/pratica.htm .
4 L’enunciato della tesi è il seguente: “La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. È nell'attività pratica che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica.”
5 È il tema gramsciano della riforma intellettuale e morale, per cui si veda almeno il fondamentale passo dei Quaderni cit., Q. 13, 1, p. 1561.
6 Di questo filosofo tedesco (1828-1868), che ha incarnato, prima ancora che Gramsci lo teorizzasse, l’intellettuale di tipo nuovo espresso dalla classe operaia, e il cui contributo alla elaborazione del materialismo dialettico è stato importante e originale, si veda almeno L'essenza del lavoro mentale umano e altri scritti (a cura di Paolo Sensini), Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2009.
7 È qui evidente il mio debito intellettuale nei confronti di due testi fondamentali di Louis Althusser: Lenin e la filosofia, Jaca Book, Milano 1974, e Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati, De Donato, Bari 1976.
8 I contributi critici più significativi sulla parabola politico-intellettuale di queste due correnti rimangono, a mio avviso, quello di Perry Anderson, Il dibattito nel marxismo occidentale, Laterza, Roma-Bari 1977, e quello di Costanzo Preve, articolato attraverso saggi, articoli e interviste, talora discutibili ma sempre stimolanti.
9 Lukàcs va considerato, nel solco del leninismo, come il maggiore pensatore marxista del Novecento, dal quale vi è sempre da imparare sia per i contenuti sia per il metodo. Un programma di studio incentrato sulla sua produzione intellettuale non può non includere i seguenti testi: Storia e coscienza di classe, Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, La distruzione della ragione. Storia dell’irrazionalismo da Schelling a Hitler, Estetica, Ontologia dell’essere sociale, Il marxismo e la critica letteraria, Marxismo e politica culturale.
10 Figura esemplare di siffatto ‘arrovesciamento’ del rapporto fra economia e politica è, non senza risvolti grotteschi, Mario Tronti, passato dall’operaismo, di cui può essere considerato il fondatore, alla teorizzazione dell’‘autonomia del politico’ e finito mestamente (s’intende dal punto di vista politico e intellettuale, non da quello economico…) su uno scranno parlamentare, come statuina di cera del renzismo. Non diversa, se non per il tasso più o meno alto di opportunismo, è stata la sorte di altri esponenti di questa corrente, come Massimo Cacciari e Toni Negri.
11 È il tema, quanto mai dibattuto dalla cultura occidentale, della “avalutatività” della conoscenza scientifica, tema sul quale vertono le due conferenze del 1917 e del 1919 tenute da Max Weber all’Università di Monaco e raccolte nel volumetto intitolato Il lavoro intellettuale come professione , Einaudi, Torino 1994. Il termine di riferimento è rappresentato dal saggio del 1917, Il significato della “avalutatività” nelle scienze sociologiche e economiche (confluito nel volume, Il metodo delle scienze storico-sociali , Torino, Einaudi 1958, pp.309-375).
12 V.I. Lenin, Che cosa sono gli “Amici del Popolo” e come lottano contro i socialdemocratici, in Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1954-1970, vol. 1, p. 300. Il saggio fu scritto nel 1894 quale replica ad un articolo critico nei confronti dei marxisti, apparso sulla rivista «Russkoe bogatstvo». Lenin vi polemizza con i populisti, affrontando con acume pari alla vivacità la problematica fondativa inerente al materialismo dialettico e storico, alla critica dell’economia politica e al socialismo scientifico.
13 Sennonché sarebbe facile obiettare a Jean-François Lyotard, ‘inventore’ della categoria della postmodernità come categoria della fine delle “grandi narrazioni”, che la sua stessa nozione appartiene paradossalmente a tale categoria e quindi è, dal punto di vista logico, ‘self-stultifying’.
14 Afferma giustamente Amadeo Bordiga il quale, eccezion fatta per lo schematismo e il settarismo, è stato un marxista di tutto rispetto: « Cadrebbe la visione marxista della storia se, anziché riconoscere un tipo unico del rapporto di produzione capitalista (come di ogni altro precedente) che corre da una rivoluzione all’altra, se ne ammettessero tipi diversi successivi » [Il filo del tempo (1953): Sintesi della Riunione di Napoli, 1 settembre 1951, Edizioni Il programma comunista] .
15 Antonio Labriola , Scritti filosofici e politici , a cura di Franco Sbarberi, Einaudi, Torino 1973, vol. II.
16 Quaderni cit. , Q 11, 15, p. 1403 ss.
17 Questa è l’esatta formulazione gramsciana: «Un rapporto di forze sociali strettamente legato alla struttura, obiettivo, indipendente dalla volontà degli uomini, che può essere misurato coi sistemi delle scienze esatte o fisiche» ( Quaderni cit. , Q 13, 30, p. 1583).
18 L’espressione, quanto mai incisiva, è usata da Lukàcs in più testi (ad esempio, in Storia e coscienza di classe, in Lenin, nell’articolo La mia via al marxismo compreso nel volume Marxismo e politica culturale ecc.).
19 Per la categoria di “rivoluzione passiva”, il cui significato nei Quaderni del carcere non appare sempre univoco, si vedano in particolare i seguenti passi: Quaderni cit., Q 15, 11, pp. 1766-1768 e Q 10, 41, pp. 1324-1326.

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