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Capitalismo senza fine?

Intervista con Anselm Jappe

dogfight 1008232 1920Nato e cresciuto in Germania Anselm Jappe ha studiato filosofia in Italia e in Francia. È autore di vari vari libri, tra cui: Guy Debord, Roma, Manifesto libri, 2013²;  Les Aventures de la marchandise. Pour une nouvelle critique de la valeur, Éditions Denoël, 2003; Crédit à mort: la décomposition du capitalisme et ses critiques, Éditions Lignes, 2011; Contro il denaro, Milano, Mimesis, 2013; Uscire dall’economia. Un dialogo fra decrescita e critica del valore: letture della crisi e percorsi di liberazione, con Serge Latouche, Milano, Mimesis, 2014. Ha collaborato con le riviste tedesche “Krisis” e “Exi”t (fondate da Robert Kurz), che sviluppano la “Critica del valore”.

Il 17 dicembre del 2015, ospite delle comunità zapatiste del Chiapas, ha presentato la conferenza “En busca de las raíces del mal” al Cideci/Universidad de la Tierra Chiapas, visualizzabile → qui.

Nell’intervista rilasciata successivamente a Radio Zapatista, tradotta per TYSM (e → qui ascoltabile in versione originale), Jappe parla del modo in cui certi concetti marxisti – in particolare la critica del valore – risultino indispensabili alla comprensione della realtà attuale, soprattutto in relazione a quella che egli chiama la crisi terminale del capitalismo. Allo stesso modo, Jappe riflette sulle implicazioni che tutto questo ha rispetto agli attuali movimenti di emancipazione.

*   *   * 

Buongiorno Anselm, puoi presentarti brevemente?

Ho vissuto prima in Germania, poi in Italia e ora in Francia, sempre viaggiando molto. Fin da giovane ho pensato che questo mondo dovesse essere trasformato radicalmente. E questo mi ha portato a partecipare ad alcune lotte pratiche nella mia vita, ma soprattutto a cercare di raggiungere una comprensione teorica del mondo che ci circonda. Allora, tutto questo è accaduto essenzialmente attraverso la lettura intensiva dell’opera di Karl Marx, già fin dall’adolescenza, ma anche dei situazionisti e della cosiddetta Scuola di Francoforte con Adorno, senza dimenticare autori come Ivan Illich.  È dunque in questo contesto che ho iniziato, all’inizio degli anni ’90, a contribuire all’elaborazione di quella che in Germania va sotto il nome di Critica del Valore, proposta inizialmente dalla rivista Krisis, il cui autore principale era Robert Kurz, morto tre anni fa. Si tratta di una corrente teorica nata fuori dalle università, ma anche fuori dalle cappelle politiche. La  Critica del Valore si proponeva essenzialmente di rileggere la realtà attraverso le categorie centrali di Marx e di riconsiderare fin dalle sue basi la teoria critica, separando radicalmente in Marx ciò che poteva essere attuale oggi – il nucleo concettuale delle sue tesi – da quella parte del suo pensiero che la Critica del Valore chiama “essoterico”.

 

In alcuni autori oggi esiste proprio l’idea di una specie di ritorno a Marx, o forse di un ritorno a un “altro” Marx; allora, in che misura l’apporto di Marx ti sembra oggi indispensabile per cercare di comprendere la realtà sociale che ci circonda?

La prima volta che la Critica del Valore si presentò concretamente a un pubblico più ampio fu con Der Kollaps der Modernisierung di Robert Kurz, un libro pubblicato nel 1991. Ovviamente il suo tema principale era il collasso dell’ Unione Sovietica. In quel momento la fine dell’ Unione Sovietica era considerata quasi universalmente come il trionfo del capitalismo, come la prova del fatto che non vi erano alternative; ovviamente con grande gioia da parte dei borghesi, ma anche di gran parte della sinistra, con l’idea che non si potesse fare più nulla e che qualsiasi prospettiva di emancipazione fosse andata perduta. Proprio in questo momento, quando le teorie emancipatorie e il marxismo in particolare sembravano essere al loro livello più basso, la Critica del Valore cominciò a dimostrare che era tutto il contrario: l’obiettivo stesso del libro di Kurz era quello di dimostrare che l’Unione Sovietica aveva forse superato la proprietà privata dei mezzi di produzione ma non le categorie centrali del sistema capitalista, cioè la merce, il valore, il lavoro astratto e il denaro.

L’Unione Sovietica era infatti parte integrante della società mondiale della merce. Si trattava di una tesi diversa rispetto a tutte quelle che spiegavano l’URSS unicamente attraverso la sua struttura burocratica. E Kurz dimostrava in questo libro – cioè, affermava in questo libro – che la fine dell’URSS non era il trionfo del capitalismo occidentale ma semplicemente una tappa del collasso mondiale graduale: un collasso per tappe del sistema mondiale della merce. Gli anni ’90 si caratterizzarono per una certa vittoria  apparente del capitalismo – l’euforia delle borse, la società del pensiero post-moderno -, ma già fin dal 2000 l’aria iniziò a cambiare. E cambiò ancora di più a partire dalla crisi del 2008. In un simile contesto le teorie di Marx hanno ampiamente dimostrato di non aver esaurito la loro forza. Ma anche qui dobbiamo intenderci, perché esistono molte versioni attuali del marxismo tradizionale a volte declinato in senso deteriore, soprattutto quando si tratta di tesi che interpretano ancora il mondo secondo lo schema della lotta di classe e propongono anche, eventualmente, strategie leniniste.

La particolarità della Critica del Valore, invece, è quella di dimostrare che le categorie centrali che Marx elaborò 150 anni fa – ossia il valore, la merce, il lavoro astratto, il denaro e il feticismo della merce, il capitale come relazione sociale (il capitale non solo quindi come una classe di capitalisti, ma come una relazione sociale totale che comprende tutti i suoi membri) -, dimostrano di essere utili ancora oggi. E di essere molto importanti per comprendere quello che sta accadendo, per esempio per capire il motivo della crescente centralità dei mercati finanziari.

 

Quindi, per arrivare all’analisi delle dinamiche più attuali del capitalismo, al centro della tua interpretazione c’è la nozione di crisi terminale. Significa che il capitalismo è entrato da tempo, ma in modo sempre più visibile, in una crisi terminale. È una idea che anche altri hanno proposto e dibattuto. Dunque, per te, o per la critica del valore, ma soprattutto per te, come bisogna intendere questa nozione di crisi terminale del capitalismo?

Per prima cosa, e come sempre, bisogna sottolineare che l’elaborazione della Critica del valore è un’opera collettiva e il maggior merito va a Robert Kurz. Non è una mia teoria personale quella che sto proponendo, ci tengo a chiarirlo. Per molte persone una delle affermazioni più sorprendenti della Critica del valore consiste nell’affermare che il capitalismo è un sistema condannato alla sua stessa distruzione, un’affermazione che è stata sostenuta nel momento del collasso dell’URSS. Collasso o crisi terminale non vuole dire che tutto finirà in un giorno. Significa che il capitalismo è entrato da vari decenni in una fase di declino e che è andato via via perdendo la propria profittabilità, giacché esso consiste essenzialmente nel fatto di trasformare il lavoro – specificatamente il lato astratto del lavoro – in valore: valore che assume forma visibile nel denaro. Ma fin dall’inizio questo processo conteneva una contraddizione: solo il lavoro, nel momento della sua esecuzione, crea tale valore, ma la concorrenza spinge all’uso della tecnologia e ciò diminuisce la quota di lavoro vivo necessaria, e quindi riduce il valore.

Per molto tempo, il capitalismo ha saputo compensare questa  caduta tendenziale del valore attraverso un gigantesco aumento della produzione, ma anche questo processo di compensazione ha incontrato il suo limite grosso modo all’inizio degli anni ’70. Inoltre, questa crisi interna – relativa cioè al fatto che il capitalismo ha limiti interni che non può superare, per le sue stesse basi – è stata approfondita, in questa stessa fase, dalla crisi energetica e dalla crisi ecologica.

Queste presero forma insieme allo scontento crescente per le condizioni di vita create dal capitalismo, da una società della merce che è riuscita ad assicurare una miglior soddisfazione dei bisogni materiali in una parte del mondo, ma che al contempo ha creato una massiccia sensazione di vuoto, colonizzando tutte le sfere della vita e trasformando tutte le attività che danno senso all’esistenza, convertendole in semplice consumo di merci. È anche l’aspetto soggettivo della società della merce ad essere entrato in grande crisi negli anni ’70. Allora dire crisi terminale non significa fare una profezia sul futuro, ma descrivere qualcosa che già si sta manifestando e sottolineare, al tempo stesso, che questo processo è irreversibile. Non ci sarà un nuovo modello di accumulazione.

Ora il capitalismo vive solamente attraverso una fuga in avanti rappresentata soprattutto dall’indebitamento: indebitamento degli stati, indebitamento privato. Stando ai suoi stessi criteri di solvibilità, il capitalismo sarebbe già fallito da decenni. Può continuare a vivere solo grazie a una simulazione di profittabilità sempre più massiccia. E allora, ad ogni crisi finanziaria, aumenta sempre più il volume del credito in una disperata fuga in avanti, ed è facile vedere che questo non potrà durare per sempre.

Del resto  non lo sostiene solo la Critica del Valore, ma anche molti analisti borghesi affermano che questa strada non può che condurre in un vicolo cieco. Senza dubbio, stranamente, sono gli osservatori di sinistra quelli che si rifiutano di vedere questa crisi definitiva. O affermano che il capitalismo gode di perfetta salute e che bisogna combatterlo con tutta l’aggressività possibile dall’esterno, o ammettono semplicemente l’esistenza di una crisi ciclica che sarà momentanea e che presto sarà risolta, per esempio con l’introduzione di nuove tecnologie. Ma questo non succederà più perché, banalmente, ogni nuova tecnologia ai suoi inizi finisce per condurre all’utilizzo di sempre meno forza lavoro umana, quindi l’informatica non può giocare lo stesso ruolo che ebbe per esempio l’automobile.

 

Se la crisi finale del capitalismo non significa un collasso immediato, puoi precisare la maniera in cui possiamo immaginare questo processo che si sviluppa nel tempo? Di che ritmi parliamo, di quale temporalità? Inoltre, se c’è effettivamente un esaurimento del motore fondamentale del capitalismo, si vede altrettanto bene come il capitalismo sia capace di trovare sempre nuovi modi per evitare questo esaurimento: attraverso l’espansione del credito, forse attraverso forme di sfruttamento quasi schiavista. Queste tattiche per evitare la crisi, e riprodursi nonostante le crescenti difficoltà, sembrano estremamente numerose. Tutto ciò lascia intendere che questo processo tendente al collasso potrebbe essere lungo. Allora, come concepirlo? E magari un’altra domanda: che implicazioni potrebbe avere tutto questo per i movimenti di emancipazione? Come concepire le possibilità di un’azione in questa temporalità lunga, cioè quella del collasso del sistema capitalista?

Bene, in primo luogo si tratta di un processo graduale. Vuol dire che si sviluppa con temporalità differenti in diversi strati della società e in diverse regioni del mondo. Per esempio, un processo abbastanza evidente è che oggi non si tratta tanto di distinzioni tra Nord e Sud, o tra paesi ricchi e paesi poveri, ma di una struttura a macchia di leopardo. Cioè, in ogni paese ci sono  isole per i ricchi spesso protette da alte mura, mentre il resto del paese viene lasciato in stato di abbandono. C’è dunque una certa produzione di valore nel modo classico, per mezzo delle fabbriche. Essa sopravviverà nel tempo probabilmente, ma è qualcosa che si va riducendo sempre più; è qualcosa che si restringe e allora gli altri sono abbandonati alla loro sorte. Oggi, spesso, il problema principale non è più lo sfruttamento, sebbene evidentemente esso continui in forme vergognose. C’è soprattutto il fatto che una buona parte della popolazione viene semplicemente considerata superflua, eccedente dal punto di vista del capitale, perché non può nemmeno produrre in maniera regolare e alla lunga non può nemmeno consumare. Ma ovviamente tutta questa popolazione eccedente non sta a braccia conserte aspettando la morte, sebbene questo è ciò che la logica capitalista desidererebbe. Allora tutti i terreni abbandonati, tutti i campi rasi al suolo che il capitalismo ha lasciato, sono terreni dove potrebbero certamente nascere movimenti di emancipazione. Ma anche altrettanti conflitti intorno alle briciole della valorizzazione, o in forma di mafie e di gang, o di narcotraffico e schiavitù. Si tratta dei tanti modi in cui si organizzano tutte le persone che non possono partecipare al processo classico della valorizzazione. Ma bisogna dire che, anche in termini capitalistici, ciò non può rappresentare un’alternativa perché tutta questa economia, che potremmo definire parallela, può funzionare soltanto se continua ad essere in qualche maniera capace di parassitare sul circuito del capitale, lì dove esso funziona. Per esempio, il traffico di droga non potrebbe funzionare se non ci fossero paesi come gli Stati Uniti; o anche i paesi del sud, dove esistono ancora strati della società che hanno ancora un potere d’acquisto che gli permette di comprare la droga. Allo stesso modo, il miracolo economico cinese consolidò i suoi risultati principalmente grazie alle esportazioni verso gli Stati Uniti, ma se gli stessi Stati Uniti vedessero inasprirsi la loro crisi non potrebbero importare merce cinese e questo miracolo avrebbe una fine molto rapida, perché in realtà tutto il fenomeno del miracolo economico cinese si basa sui bassi salari. E questo significa che, sul mercato interno, non si dà un elevato valore d’acquisto.

Quindi non si può essere esatti, non si possono fornire cifre precise sulla temporalità del collasso del capitalismo, ma allo stesso tempo è sicuro che non sia una questione di 50 anni. Anche alcuni osservatori borghesi affermano che la crisi ecologica e la crisi energetica arriveranno ad un punto di non ritorno entro 20 anni. Persino gli istituti di osservazione della borsa, ad esempio, affermano che siamo davvero arrivati ad un punto di rottura. E soprattutto, secondo me, la situazione del mercato finanziario è talmente fragile che qualunque sciocchezza sarebbe sufficiente a far crollare tutto quanto. Cifre astronomiche in denaro sono parcheggiate nella sfera finanziaria e, dunque, tutto questo denaro si basa sulla fiducia, ma un qualsiasi evento, una qualsiasi crisi economica – persino in un paese piccolo come la Grecia – potrebbe spezzare la corda. E tutta quella massa di denaro potrebbe riversarsi nell’economia reale, diciamo, scatenando una iperinflazione e cioè un’inflazione mondiale, che probabilmente sarà una delle prossime tappe della crisi del capitalismo.

 

Un’ultima domanda: qual è la tua opinione sui movimenti sociali che si sono sviluppati negli ultimi anni? Quali sarebbero i rischi da evitare? E cosa puoi dirci riguardo alle prospettive di emancipazione? Perché per te o per la critica del valore in generale, non si tratta solamente di analizzare la crisi del capitalismo in sé, ma di analizzarla dal punto di vista delle prospettive di emancipazione. Cosa puoi dirci sulla necessità di sviluppare movimenti di emancipazione oggi, visto che alla fine è l’unica speranza di un processo che permetterebbe di creare un’altra realtà prima che il capitalismo abbia finalmente finito per distruggere il pianeta nel suo insieme e anche l’umanità?

Dunque, un primo aspetto importante: la teoria della crisi afferma che il capitalismo è condannato a sparire a medio termine, ad autodistruggersi anche in assenza di attori rivoluzionari. Questo è molto diverso da ciò che dicevano le generazioni rivoluzionarie precedenti che lottarono contro un capitalismo che gli sembrava forte, con la speranza che dopo la fine del capitalismo sarebbe potuti arrivare il comunismo, il socialismo o l’anarchia. Proprio perché la fine del capitalismo è stata sempre immaginata come l’opera compiuta da coloro che lo combattono. Solo lì dove non c’è una adeguata concezione dei limiti interni del capitalismo, può esserci l’idea che il capitalismo potrà sempre continuare sulle sue proprie basi se non c’è una forza – che nella sua versione classica prende la forma del proletariato industriale – capace di abbatterlo perché non lo accetta più. Di certo l’approccio elaborato dalla Critica del Valore ribalta totalmente il senso della questione. Sicuramente c’è qualcosa di ineluttabile nell’esaurimento del capitalismo, sebbene le forme di tale esaurimento sono piuttosto lunghe e tortuose; e non c’è nessuna garanzia su ciò che potrebbe arrivare in seguito. Nulla garantisce che dopo il capitalismo arriverà un modello sociale emancipato.

Questa è solo una possibilità. Allora la Critica del Valore, che fin dal principio non aveva nulla di accademico né di puramente contemplativo, ha come orizzonte ultimo un mutamento rivoluzionario della società. Ma per arrivare a quel punto, il metodo più sicuro non è quello di rincorrere ogni movimento conflittuale e di esaltare tutto ciò che si muove sotto la forma del movimento sociale. In questo modo non si aiutano nemmeno i movimenti sociali. La teoria deve anche comprendere il limiti strutturali di certi movimenti. Soprattutto, il punto forte della Critica del Valore è quello di affermare che il movimento operaio storico, nonostante alcuni meriti evidenti, ha avuto come risultato essenziale anche l’integrazione della classe operaia nella società della merce. Allora, soprattutto una volta che la borghesia ha accettato di fare concessioni, le minoranze radicali sono state messe rapidamente fuori dai giochi, in favore di quella che è stata definita socialdemocrazia. Molte lotte dentro il capitalismo, in passato e oggi, sono state lotte per una migliore e maggiore redistribuzione. E di certe categorie non si parlava più, né si mettevano in discussione. Il movimento operaio classico voleva una distribuzione più equa del denaro e cioè del valore. Ripeto, spesso questa è stata una rivendicazione assolutamente legittima, ma in realtà non era anticapitalista. Al contrario, questa integrazione rafforzò il capitalismo. A volte il movimento operaio ha saputo che cosa fosse buono per il capitalismo meglio degli stessi rappresentanti recalcitranti del capitale. Si tratta dunque di non ripetere questi errori e soprattutto di realizzare che, in questa situazione di crisi – di fronte a una torta che diventa sempre più piccola – il sistema non può più quasi fare concessioni.

Allora oggi, paradossalmente, il riformismo è diventato meno realista; i riformisti si sono sempre vantati di essere realisti rispetto ai radicali, oggi è quasi il contrario. Per esempio ristabilire uno stato sociale in Europa come quello degli anni ’60 è assolutamente irrealista. Questo vuol dire che oggi c’è un malcontento molto forte per la devastazione della vita provocata dal mercato; devastazione che ovviamente si sviluppa a tutti livelli – per i poveri come per i ricchi e in tutti i paesi del mondo -, ma non tutte le risposte sono necessariamente emancipatorie. Esistono anche risposte che, a volte, sono semplicemente lotte difensive per mantenere uno status, per esempio per mantenere un salario. E questo diventa molto ambiguo, ad esempio quando gli operai difendono le loro fabbriche – per esempio fabbriche che inquinano molto. In altri casi prendono forma anche movimenti che si focalizzano su aspetti superficiali, come il fenomeno finanziario e corrono il rischio di riprendere, a volte, alcuni elementi dell’anticapitalismo tronco e falso, dell’estrema destra. Si tratta di movimenti populisti che sfortunatamente sono in auge proprio oggi in Europa.

Fortunatamente esistono molti altri movimenti che cercano di offrire alternative qualitative. Si tratta di qualcosa che si può elaborare solamente poco a poco, con molti limiti e ovviamente con molti errori. Ma l’importante è soprattutto creare un’alternativa qualitativa al capitalismo, una società che si basi essenzialmente sulla solidarietà e non sulla concorrenza. Una società che ristabilisca in qualche modo la logica del dono, la circolazione dei doni al i sopra dello scambio di merci; una società con una forma di vita che si opponga tanto all’individualismo sfrenato delle società di consumo quanto al collettivismo totalitario. Fortunatamente possiamo vedere movimenti di questo genere, spesso assai poco spettacolari, che cercano di costruire questa nuova forma di vita. Allora un’espressione un po’ trita come grassroots revolution, una rivoluzione dal basso e sul campo, mi sembra un termine da non disdegnare.

Oltretutto essa può trovare antecedenti piuttosto nobili, per esempio nell’anarchico Gustav Landauer, agli inizi del secolo XX. Per concludere, ovviamente non posso esprimermi sull’esperienza zapatista che è qualcosa di estremamente complesso. Ma posso dire che ciò che ho avuto modo di vedere in questi pochi giorni è piuttosto diverso da ciò che avevo letto. Per cui penso che volersi esprimere a riguardo, soltanto dopo pochi giorni, significherebbe mancare di modestia. Tuttavia in questo momento ho l’impressione che gli zapatisti facciano uno sforzo sincero per evitare di cadere nelle trappole in cui caddero i movimenti rivoluzionari del passato e per evitare di rimpiazzare un certo dogmatismo con un altro dogmatismo. Mi sembra che cerchino sempre di elaborare nuove vie senza cadere in un relativismo generalizzato, salvaguardando i principi essenziali. E, da quanto ho potuto capire, ho l’impressione che gli zapatisti facciano parte di quelli che vogliono davvero proporre un’altra forma di vita; che non vogliano integrarsi nella società capitalista esistente, ma cerchino di inventare nuove forme di felicità, nuovi immaginari, e di contribuire a dare nuove definizioni di quanto fa sì che la vita meriti di essere vissuta.

 

Bene, Anselm, siamo arrivati alla fine dell’intervista. Grazie mille.

Grazie mille a te.

 

Traduzione di Lorenza D’Astolto e Alessandro Simoncini

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