Print Friendly, PDF & Email

operaviva

Sul divenire culturale del general intellect

Danilo Mariscalco

Pubblichiamo qui un saggio tratto da Vita, politica, rappresentazione. A partire dall’Italian Theory (a cura di P. Maltese e D. Mariscalco), volume appena arrivato in libreria per le edizioni ombre corte

isaiatraspC’è almeno un segmento della cosiddetta Italian Theory, quello che va dalle prime (con)ricerche sulla informazione valorizzante sino alle più recenti esplorazioni del paradigma bioeconomico o capitalismo cognitivo, che ha alimentato e metabolizzato la prassi politica antagonista. È nota, almeno dopo le genealogie offerte da Roberto Esposito e da Dario Gentili, la specificità conflittuale della differenza italiana, la sua capacità – che ne spiegherebbe, almeno in parte, la fortuna internazionale – di indagare i piani della vita, della storia, della politica1 e di fornire, contestualmente, una «ontologia dell’attualità»2. È altresì riconosciuto, come nel caso di Michael Hardt3, o del Negri che ritorna, dopo un ventennio, sul suo Marx oltre Marx4, il debito del pensiero radicale italiano nei confronti delle lotte politiche degli anni Sessanta e Settanta. Ciò che si intende focalizzare in questa occasione argomentativa è, in particolare, la collocazione teorico-pratica del movimento del ’77, sul piano specifico delle sue emergenze culturali e comunicative, all’interno del Radical Thought, dunque nel suo rapporto con la lettura già operaista del general intellect marxiano, in quel caso sostanziata dal fecondo incontro con alcune categorie del post-strutturalismo francese e da una rinnovata analisi critica delle esperienze delle avanguardie artistiche del Novecento, e successivamente posta a fondamento delle ipotesi, formulate dal post-operaismo, sui dispositivi di sussunzione biopolitica, e sulle linee di fragilità, del vigente regime di produzione post-fordista.

Nel movimento italiano del ’77 è possibile riconoscere la concentrazione, e la diffusione di massa, di pratiche e atteggiamenti alternativi al capitale emersi, già dall’inizio del decennio, in corrispondenza con la fase di crisi della società fordista, annunciata dal crollo del sistema di Bretton Woods, dallo shock petrolifero del 1973, dalla tendenziale saturazione del mercato dei prodotti durevoli5. Al livello specifico della prassi culturale, esso praticò l’editoria (oltre settanta riviste di movimento), la scrittura collettiva (fra i vari esempi, Alice è il diavolo del collettivo A/traverso e Alice disambientata, del collettivo A/Dams), forme letterarie più tradizionali come il poema e il romanzo (si pensi a Boccalone di Enrico Palandri e a Chi ha ucciso Majakovskij? di Franco Bifo Berardi), il graffitismo, la produzione radiofonica (Radio Alice e altre cento emittenti radicali), la performance (come le azioni dei cosiddetti indiani metropolitani), la videoproduzione, il fumetto (in particolare il gruppo di «Cannibale» e la produzione di Andrea Pazienza), in un orizzonte teorico definito dall’uso avanguardistico del falso e del détournement situazionista, dall’aspirazione già dadaista all’abolizione dell’arte, intesa come attraversamento degli ordini separati dell’economico e del culturale, dalla categoria anti-edipica del desiderio6 – in particolare dalla tesi secondo la quale «la produzione sociale è unicamente la produzione desiderante stessa in condizioni determinate7 –, dall’analisi foucaultiana del discorso e, soprattutto, dalle acquisizioni operaiste sul rifiuto del lavoro8 e della rappresentanza e sulla emergenza di un proletariato giovanile, corrispondente alla categoria dell’operaio sociale9, capace, nello spazio non garantito10 dalle formazioni istituzionali della sinistra italiana, di autorappresentarsi e di affermare la politicità del quotidiano al di là del regime fordista di fabbrica. Tali pratiche di autorappresentazione, qui soltanto accennate, così come l’intercettata riconfigurazione della composizione di classe, avevano il proprio fondamento teorico, com’è stato anticipato, nel general intellect «previsto» da Marx nei Grundrisse: il sapere astratto, oggettivato nel capitale fisso, sarebbe diventato, nello sviluppo della formazione sociale nella quale si era costituito e diffuso, la principale forza di produzione. Affermava il pensatore di Treviri:

«Nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta – questa loro powerful effectiveness – non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione […]. In questa trasformazione […] è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza […]. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso […]. [Subentra] […] la riduzione del lavoro necessario della società ad un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro […]. Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale»11.

L’approdo della categoria marxiana nel ’77 italiano fu uno degli esiti di quelle esperienze marxiste radicali che, per grandi linee, vanno dalla pubblicazione delle riviste «Quaderni Rossi» (1961-1966), «Classe operaia» (1964-1967), «La classe» (1969), alla nascita di Potere operaio (1969) e al suo intenzionale scioglimento (1973), insieme ad altri gruppi della sinistra extra-parlamentare, nel movimento autonomo. La pubblicazione, nel quarto numero dei «Quaderni Rossi» (1964), della traduzione, condotta da Renato Solmi, del cosiddetto frammento sulle macchine dei Grundrisse12, nel 1968 integralmente pubblicati dall’operaista Enzo Grillo, fu anticipata, nell’ordine del discorso che qui si propone, dall’articolo Composizione organica del capitale e forza-lavoro alla Olivetti di Romano Alquati (1962-1963), nel quale non è difficile rintracciare una potente anticipazione di ciò che in seguito fonderà l’ipotesi del capitalismo cognitivo. «L’informazione», si legge, «è l’essenziale della forza-lavoro, è ciò che l’operaio attraverso il capitale costante trasmette ai mezzi di produzione sulla base di valutazioni, misurazioni, elaborazioni per operare nell’oggetto di lavoro tutti quei mutamenti della sua forma che gli danno il valore d’uso richiesto»; e ancora: «il lavoro produttivo si definisce nella qualità delle informazioni elaborate e trasmesse dall’operaio ai mezzi di produzione, con la mediazione del capitale costante»13. In alcuni testi del collettivo bolognese A/traverso i riferimenti ai Grundrisse, ma anche alle conricerche di Alquati, è esplicito:

«L’informazione produttiva si fonda su un processo di analisi, semplificazione, ma tematizzazione, codificazione dell’operazione che va legato al carattere astratto del lavoro produttivo. Però, contemporaneamente a questo processo, proprio le forze produttive che ne sono il soggetto sono poste in condizione di “conoscere” il processo nella sua complessità e contraddittorietà. Ed ecco che il soggetto dell’intelligenza sociale accumulata, il lavoratore tecnico scientifico, può diventare soggetto di un disvelamento della espropriazione dell’intelligenza da parte del capitale, e quindi anche il soggetto di una riappropriazione dei mezzi di produzione, e in primo luogo dei mezzi di produzione delle informazioni, che può essere legata a una trasformazione di tutto il modo di produzione (uso operaio della tecnologia, liberazione dal lavoro) […]. I produttori non si trasmettono più, da un passaggio all’altro del processo produttivo, l’oggetto materiale in lavorazione, ma informazioni che concernono l’oggetto che intanto viene trasformato materialmente dal macchinario. In questo processo di informatizzazione, quindi, i produttori divengono trasmettitori e ricettori di informazioni. La scienza fatta forza produttiva, l’elettronica come forma della tecnologia dell’informazione eccetera sono così incorporate dentro l’operatività dei produttori; e, se questo accresce infinitamente le loro capacità produttive, – nel senso che ogni addetto si trova a far funzionare una quantità sempre maggiore di capitale, si trova a riprodurre in un periodo di tempo sempre minore il valore necessario alla sua riproduzione, e quindi a produrre una quantità sempre più alta di plusvalore relativo – però contemporaneamente questo accresce anche la forza politica di questo settore. “Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a qual punto il sapere sociale accumulato, Knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del General Intellect, rimodellate in conformità ad esso” (K. Marx, Grundrisse14.

Venne dunque intercettato, sulla falsariga della previsione marxiana, un processo di proletarizzazione della prassi intellettuale che, allora, appariva fecondo di chance rivoluzionarie:

«La proletarizzazione del lavoro intellettuale apre la prospettiva dell’uso operaio della tecnologia. Lo sviluppo capitalistico raggiunge il suo limite, e la contraddizione tra produzione di valore d’uso e valorizzazione si rivela in tutta la sua pienezza. Per il potere la cultura deve funzionare come mediazione tra gli interessi della società capitalistica e gli interessi dello strato intellettuale, ma deve cercare di realizzare questa funzione in modo complesso. Ma ormai la mistificazione dell’indipendenza della cultura dal processo produttivo è messa in crisi dalla stessa massificazione di questa figura sociale. Il movimento operaio ha pensato che l’aggregazione degli intellettuali avesse la forma della mediazione culturale (Gramsci), oppure la forma di un’adesione volontaristica al partito (Lenin). Queste ipotesi sono superate nel momento in cui il lavoro intellettuale entra a far parte della composizione sociale del lavoro produttivo»15.

I fenomeni di scolarizzazione di massa, intesa come istanza e prodotto del ciclo di lotte iniziato negli anni Sessanta, di diffusione sociale del know-how tecnologico e dei corrispondenti dispositivi di produzione e di riproduzione dei fatti culturali – si pensi, nel caso specifico del ’77 italiano, all’uso della stampante off-set per le riviste, dei trasmettitori e delle telefonate in diretta per le radio, del nastro magnetico per le videoproduzioni ecc. – furono politicamente orientati verso un’immediata affermazione di bisogni e desideri incompatibile con la linea tracciata dalle formazioni organizzate di una classe operaia allora costretta nei binari del compromesso storico e della politica dei sacrifici16.

L’aspirazione autonoma, espressa in slogan, al «lavoro zero, reddito intero; tutta la produzione all’automazione», corrispondente alla pratica del rifiuto del lavoro salariato, esprimeva questa rinnovata concezione, questa possibilità concreta e storicamente determinata

Se è vero, come sostiene Paolo Virno17, e come ricorda Matteo Pasquinelli18, che il general intellect era citato negli anni Sessanta per smentire la presunta neutralità della scienza applicata all’industria, negli anni Settanta per criticare l’ideologia del lavoro e tra gli anni Ottanta e Novanta per indicare la qualità specifica, non più antagonista, della produzione nella società post-fordista, la lettura e la traduzione politica del concetto marxiano esercitate nel movimento del ’77 – questa è l’ipotesi che vorrei proporre – determinarono la deviazione che iniziò a emancipare, sul piano teorico, il «sapere sociale generale» dal sistema delle macchine, dove era cristallizzato ancora nei Grundrisse, coincidendo immediatamente, almeno nelle tesi emerse in quella fase di crisi rivoluzionaria, con «la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico», corrispondente alla riduzione del lavoro sociale necessario; se è vero, come suggeriva Marx, che «l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, giacché […] si trova sempre che il problema sorge quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione»19, l’aspirazione autonoma, espressa in slogan, al «lavoro zero, reddito intero; tutta la produzione all’automazione», corrispondente alla pratica del rifiuto del lavoro salariato, esprimeva questa rinnovata concezione, questa possibilità concreta e storicamente determinata. Il general intellect, combinandosi con il desiderio anti-edipico, emergeva antagonisticamente poiché anticipava l’affermazione dei riconfigurati dispositivi di estrazione del plusvalore. Scriverà Franco Berardi:

«Verso il finire degli anni Settanta, la disaffezione operaia per il lavoro industriale, la critica diffusa alla gerarchia e alla ripetitività avevano tolto energia al capitale. Tutto il desiderio stava fuori dal capitale, e attraeva forze che si allontanavano dal suo dominio»20.

Un’analisi anche superficiale della prassi-teorica antagonista dei decenni successivi all’anno «in cui il futuro incominciò», accogliendo la definizione del ’77 italiano offerta da Berardi e Veronica Bridi21, sembra problematizzare l’affermazione di Virno sull’assenza di determinazioni conflittuali nell’uso più recente del general intellect e confermare la novità teoretica offerta dal movimento autonomo italiano. Attraversati gli anni del riflusso, come una corrente sotterranea, la lettura movimentista del general intellect, da allora corrispondente dunque al lavoro vivo e non più mero capitale fisso, è riemersa con forza negli anni Novanta: l’uso del fax, ma anche del pioneristico social network okkupanet22, caratterizzante il movimento italiano della Pantera nato in risposta al progetto Ruberti di riforma universitaria, teoricamente poggiava sulla categoria, che diverrà centrale nel successivo paradigma post-operaista, di intellettualità di massa, debitrice diretta del frammento e adeguata alla tematizzazione del riconfigurato rapporto fra sapere e produzione, ovvero dell’affermazione del primo come principale forza produttiva e, al contempo, antagonista, come si legge nel manifesto Il bandolo della matassa all’incrocio fra sapere e vita, firmato, nel febbraio del 1990, da Marco Bascetta, Piero Bernocchi ed Enzo Modugno:

«La lotta in corso nelle università e nelle scuole italiane costituisce un’occasione impareggiabile per l’intellettualità di massa, che vive e produce nelle metropoli. […] ha senso parlare di noi, e di quelli come noi, con il termine «intellettualità di massa»? Non si elude, così, la specificità di ruoli, funzioni, livelli di reddito, stili di vita? No. Crediamo ci siano più cose che uniscono in un’identica condizione coloro che operano produttivamente col sapere e la comunicazione, di quante non siano le distinzioni e le divisioni. Il termine apparentemente generico è, forse, il più preciso e concreto. Intellettualità di massa è chi lavora negli uffici o nelle cooperative, nella scuola o nei media, nella pubblicità o nella ricerca. E poi: chi sa più cose di quelle che utilizza durante il lavoro. Chi vede mortificata, o espropriata, la propria capacità comunicativa, la propria socialità. Intellettualità di massa è il tecnico di computer […]. Chi provvisoriamente vende vino, ma in passato ha riabilitato «devianti» o si è occupato di letteratura. Chi ha fatto lo sceneggiatore di fumetti, ma è pratico di Habermas e Warhol […]. E ancora: quelli che in passato sono stati attraversati dai movimenti, apprendendo lì a destreggiarsi entro relazioni sociali informali (dote, spesso valorizzata poi sul lavoro). Questa diffusa intellettualità, talvolta integrata in reti produttive avanzate, talaltra precaria e «dai piedi scalzi» è il bandolo di tutte le matasse. Niente affatto marginale, essa sta al centro dell’accumulazione capitalistica, è il nervo scoperto di un modo di produzione in cui il sapere figura come il principale ingrediente […]. L’intellettualità di massa materializza in se stessa le trasformazioni dell’ultimo decennio, l’incastro indissolubile tra sapere e vita, i nuovi modi di lavorare e comunicare, i sentimenti oggi prevalenti. È difficile, al suo riguardo, tracciare una netta linea di confine tra lavoro e tempo libero, cultura e condizione materiale, il pane e le rose, «struttura» e sovrastruttura; i modi di vivere, le biografie, i gusti estetici, le emozioni sono tutt’uno con la prassi lavorativa. L’intellettualità di massa è l’espressione immediata di una situazione in cui si ha piena identità tra produzione materiale e comunicazione linguistica. Il punto decisivo non sta nella crescita smisurata dell’industria della comunicazione, bensì nel fatto che “l’agire comunicativo” è preponderate in tutti i settori industriali. Alle tecniche e alle procedure dei media bisogna guardare, dunque, non tanto come a ciò che contraddistingue uno specifico comparto produttivo: quanto piuttosto come a un modello di valore universale, imprescindibile anche quando si considerino le lavorazioni tradizionali. L’industria della comunicazione svolge, semmai, un ruolo analogo a quello assolto in passato dall’industria dei mezzi di produzione; è cioè un settore particolare, che però determina i moduli operativi dell’intera società. Che il lavoro coincida con la comunicazione linguistica, ciò non attenua, ma radicalizza le contraddizioni della società capitalistica. Infatti, poiché nella produzione entra tutta la nostra vita, grande è l’espropriazione, ma altrettanto grande è la possibilità di trasformare radicalmente il presente […]. L’aspetto più importante – l’occasione vera – è dare una forma autonoma alla nostra socialità, un impiego sensato alla nostra cultura, uno sviluppo ricco e appagante alla nostra capacità di comunicazione. Dall’università all’intellettualità di massa. E viceversa. Per tramutare la nostra consuetudine con i saperi, l’informazione, il consumo culturale in una pratica autodeterminata […]. Le università occupate hanno per emblema il fax: messaggi lanciati in una moderna bottiglia alla volta della città. Nei prossimi mesi, ci proponiamo di rispondere a questi fax, con altri messaggi, provenienti da tutti i luoghi di lavoro dell’intellettualità di massa»23.

Negli anni seguenti, l’impegno di riviste come «Futur Antérieur», animata, fra gli altri, dallo stesso Virno, da Antonio Negri, da Maurizio Lazzarato, ha ridato vitalità a un’elaborazione critica che, nel suo sviluppo, condurrà alle più recenti esperienze di Uninomade, Effimera, Commonware, Euronomade e troverà la sua sistematizzazione nelle ricerche di Christian Marazzi, Andrea Fumagalli, Carlo Vercellone, per citarne alcuni, dunque nel paradigma del capitalismo cognitivo24. Esperienze la cui efficacia politica forse è ancora da verificare, anche se non è possibile ignorare il rapporto, più o meno diretto, che alcune delle emergenze antagoniste contemporanee intrattengono con l’elaborazione operaista e post-operaista e con l’innovazione culturale e comunicativa esercitata nel ’77: ci si riferisce, in generale, ai movimenti internazionali moltitudinari e al loro caratterizzante uso dei mezzi informatici di comunicazione e di (ri)produzione culturale, al loro carattere reticolare (dai No Global ad Anonymous, per intenderci), ma anche, in Italia, alle formazioni specifiche dell’individuato precariato cognitivo e alle sue istanze, dalla richiesta costituente di un reddito di esistenza ai movimenti per la casa, espressi in forme di autorappresentazione che recuperano la lezione, non più avanguardistica, del ’77 (le apparizioni di San Precario e del meta-brand Serpica Naro, il Book Block, l’uso della maschera di V e la vendetta precaria, i teatri occupati, per citare alcuni esempi).

La crisi della rappresentanza, la fine del lavoro a vita, e in particolare l’emergenza di pratiche diffuse di autorappresentazione e di riproduzione culturale erano obiettivi antagonisti che il capitale è riuscito a regolare a mezzo di una sorta di détournement rovesciato

Tali considerazioni sembrano esprimere un’apparente contraddizione. La crisi della rappresentanza, la fine del lavoro a vita, e in particolare l’emergenza di pratiche diffuse di autorappresentazione e di riproduzione culturale – oggi centrali, anche nelle loro declinazioni criticamente orientate, nel processo di valorizzazione economica25 – erano in fondo obiettivi antagonisti che, evidentemente, il capitale è riuscito a regolare a mezzo di una sorta di détournement rovesciato. La teoria operaista in movimento dunque non avrebbe soltanto informato la successiva elaborazione intellettuale radicale; la concezione del general intellect rimodellata, più o meno consapevolmente, sulla sua traduzione antagonista, avrebbe paradossalmente assunto il carattere di una forza materiale in parte capace, nel suo concreto divenire, di innervare, insieme alla teoria, anche alcuni tratti significativi della riconfigurazione sociale post-fordista. Una dinamica che potrebbe ancora oggi essere compresa seguendo il movimento della nota rivoluzione trontiana, per la quale l’emergenza conflittuale determinerebbe l’eventuale e conseguente riconfigurazione capitalistica; in questa prospettiva il general intellect, nella teoria e nel suo corrispettivo materiale, si configurerebbe come un dispositivo biopolitico affermativo, generatore di trasformazioni poiché fondato sull’emergenza, e la pressione, delle nuove soggettività del lavoro. Al di là della concezione dialettica e storicistica della rivoluzione, ancorata al proposito di superamento delle contraddizioni del capitalismo, si impose allora una prospettiva conflittuale nella quale la realizzazione di spazi di vita non era proposta come totalità (il modo di produzione socialista) capace di abolire una totalità precedentemente dominante cancellandone ogni residuo, come si legge fra le righe di un comunicato del collettivo bolognese A/traverso:

«La rivoluzione è finita: abbiamo vinto. Lo dice il potere, ma lo diciamo anche noi. Il potere lo dice col ghigno assassino di Cossiga che spara sugli assembramenti di giovani, spara nel mucchio e col ghigno vendicativo del giudice pci che nel mucchio cerca coloro che possono essere trasformati in responsabili: responsabili di aver compreso la contraddizione, di non averla occultata, di averla detta, di aver costruito le forme di riconoscimento culturale, le linee teoriche della trasformazione»26.

Nella riedizione del suo commentario ai Grundrisse, diversi anni dopo, Negri affermerà:

«La proiezione marxiana dell’analisi dello sviluppo capitalistico del «sistema delle macchine» ci conduce […] al cuore della realtà attuale. È evidente che quella potente proiezione, ai tempi di Marx, non poteva che essere considerata utopica. Ma la forza del metodo marxiano, così come il formidabile impulso impresso allo sviluppo capitalistico dalla lotta di classe […], hanno prodotto la realtà di quell’utopia. Dunque, quell’utopia non era utopia. Era una previsione scientifica che si è realizzata? Senz’altro, ma anche qualcosa di più. Era una previsione politica che è stata fatta realizzare. In uno scritto che Gilles Deleuze aveva elaborato e che la morte prematura gli ha impedito di pubblicare, «La grandeur de Marx», è appunto questo farsi reale della teoria marxiana che è studiato e identificato come dispositivo ontologico. Il comunismo, dice Deleuze, è un concetto che la forza delle masse fa divenire «nome comune», un nome che corrisponde al modo di essere della moltitudine, ovvero che, divenendo, dà realtà alla moltitudine. L’approccio epistemologico, quando è critico, è sempre utopico: ma la sua verità consiste nel far vivere nel movimento storico delle masse, nel cervello degli uomini, fra evento ed evento, il divenire reale del nome comune; in questo caso, del comunismo»27.

Forse fu davvero, per dirla ancora con il pensatore italiano, un inveramento del metodo marxiano della tendenza: una lettura, pratica, del presente alla luce della trasformazione possibile, un modo «per gettare progetti […]. Per rischiare, per lottare»28. Una prospettiva – volendo forzare i vincoli della disciplina, appunto i segmenti storicizzati dell’Italian Theory, ma al contempo confermandone una certa validità definitoria – già gramsciana, se è nel suo nucleo gramsciana, ovvero corrispondente ai principi generali della filosofia della praxis, la tesi, esposta nei Quaderni, secondo la quale

«realmente si ‘prevede’ nella misura in cui si opera, in cui si applica uno sforzo volontario e quindi si contribuisce concretamente a creare il risultato ‘preveduto’. La previsione si rivela quindi non come un atto scientifico di conoscenza, ma come l’espressione astratta dello sforzo che si fa, il modo pratico di creare una volontà collettiva’»29.

In un regime nel quale i piani delle idee, del linguaggio, delle conoscenze, del sapere diffuso, e perché no, del desiderio non sono più ascrivibili alla regione separata delle forme ideologiche, l’Italian Theory, può diventare, e forse tornare a essere, critica dell’economia politica e dell’esperienza vivente

Il presente sembra dunque offrire rinnovate possibilità di intervento, e di previsione concreta, a una scienza della cultura educata sui paradigmi che, proprio per la loro specifica prossimità alla prassi politica, vengono ricondotti all’Italian Theory: essa, in un regime nel quale i piani delle idee, del linguaggio, delle conoscenze, del sapere diffuso, e perché no, del desiderio non sono più ascrivibili alla regione separata delle forme ideologiche, poiché immediatamente interni al processo produttivo, può diventare, e forse tornare a essere, critica dell’economia politica e dell’esperienza vivente30, dunque critica del biopotere (può tornare «alla base», come suggeriva Mauro Pala in un recente convegno dedicato alla vicenda degli Studi Culturali in Italia31; affinché si possa (ri)scoprire nella categoria marxiana del general intellect, come accadde nel ’77, non soltanto l’espressione di una forza produttiva capitalisticamente regolata, ma anche uno strumento di trasformazione dell’esistente in crisi; affinché si possa scongiurare, parafrasando il titolo della presente relazione, un suo pacifico cristallizzarsi in cattedra, divenire cultural.


Note
1. ↩ Cfr. Roberto Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010, p. 12.
2. ↩ Cfr. Dario Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, il Mulino, Bologna 2012, p. 9.
3. ↩ Cfr. Michael Hardt, Introduction: Laboratory Italy, in Paolo Virno e Michael Hardt (a cura di), Radical Thought in Italy: A Potential Politics, University of Minnesota Press, Minneapolis-London 1996, pp. 1-10.
4. ↩ Cfr. Antonio Negri, Introduzione a Marx oltre Marx (1998), manifestolibri, Roma 2003, pp. 7-10.
5. ↩ Cfr. Christian Marazzi, Bioökonomie und Biokapitalismus, in Vittoria Borsò e Michele Cometa (a cura di), Die Kunst, das Leben zu «bewirtschaften». Biós zwischen Politik, Ökonomie und Äesthetik, transcript, Bielefeld 2013, pp. 39-52.
6. ↩ Cfr. il mio Dai laboratori alle masse. Pratiche artistiche e comunicazione nel movimento del ’77, ombre corte, Verona 2014, pp. 64-124.
7. ↩ Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’Anti-Œdipe: Capitalisme et schizophrénie, Les Éditions de Minuit, Paris 1972; trad. it. di Alessandro Fontana, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1975), Einaudi, Torino 2002, p. 31
8. ↩ «C’è un punto cruciale nell’antagonismo dei movimenti della seconda metà degli anni Settanta che dirime la tradizione della sinistra, ed è la critica politica del lavoro. Dentro di essa si condensa la concezione che l’economia non è area neutrale di individui e delle loro dinamiche di riproduzione, ma campo di lotte tra soggettività antagoniste, classe e capitale. Dentro di essa precipita il rifiuto d’essere forza-lavoro a partire dalla coscienza della propria forza autonoma», Lanfranco Caminiti, Introduzione a Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti (a cura di), Settantasette. La rivoluzione che viene (1997), DeriveApprodi, Roma 2007, p. 54.
9. ↩ «Quando si dice operaio sociale si dice fino in fondo, con estrema precisione, che da questo soggetto si estrae plusvalore. Quando parliamo di operaio sociale parliamo di un soggetto che è produttivo; e quando diciamo che è produttivo diciamo che è produttivo di plusvalore, mediatamente o immediatamente. E quando diciamo che è produttivo di plusvalore mediatamente o immediatamente ci riferiamo ad una composizione di classe dentro la quale la figura dell’operaio sociale diventa una figura estremamente rilevante. E quando parliamo di una composizione di classe tale, parliamo ovviamente dei due aspetti che sempre la composizione di classe rivela. Vuol dire da un lato che esiste una struttura capitalistica, un rapporto capitalistico di produzione che […] determina una serie di nessi produttivi che comprendono, recuperano, mediatizzano settori sociali, rapporti sociali come tali, cioè rapporti che sono esterni alla struttura diretta di fabbricazione dei prodotti. Dall’altra parte, l’aspetto soggettivo, cioè il fatto che ormai il rapporto di fabbrica, il rapporto operaio è sentito, vissuto, agito, sul terreno della socialità», Antonio Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di Paolo Pozzi e Roberta Tommasini, multhipla, Milano 1979, p. 10.
10. ↩ La definizione «non garantiti», negli anni Settanta, era riferita alle masse giovanili non rappresentate dal Partito comunista. Cfr. Klemens Gruber, Die zerstreute Avantgarde. Strategische Kommunikation im Italien der 70er Jahre, Böhlau, Wien 1989; trad. it. di Elfi Reiter, L’avanguardia inaudita. Comunicazione e strategia nei movimenti degli anni Settanta, costa&nolan, Milano 1997, p. 19.
11. ↩ Karl Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (1857-58), Marx-Engels-Lenin Institut, Moskau 1939-1941; trad. it. di Enzo Grillo, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1968-1970), La Nuova Italia, Firenze 1997, vol. II, pp. 400-403.
12. ↩ «Quaderni Rossi», 4, 1964.
13. ↩ «Quaderni Rossi», 2-3, 1962-1963.
14. ↩ Collettivo A/traverso, Alice è il diavolo. Sulla strada di Majakovskij: testi per una pratica di comunicazione sovversiva, a cura di Luciano Capelli e Stefano Saviotti, L’Erba Voglio, Milano 1976; ripubblicato con il titolo Alice è il diavolo. Storia di una radio sovversiva, a cura di Franco Berardi ed Ermanno Guarneri, ShaKe, Milano 2002, pp. 116-117.
15. ↩ «A/traverso», ottobre 1975.
16. ↩ L’ipotesi del compromesso storico venne formalizzata da Enrico Berlinguer in un lungo articolo, pubblicato in tre numeri di «Rinascita» del 1973 (28 settembre, 5 e 12 ottobre), su politica internazionale, «via italiana al socialismo» e alleanze sociali alla luce dei fatti cileni: «Dalla sommaria ricapitolazione che abbiamo fatto della composizione sociale e della condotta politica della DC risulta che questo partito è una realtà non solo varia, ma assai mutevole […]. Si tratta […] di agire perché pesino sempre di più, fino a prevalere, le tendenze che, con realismo storico e politico, riconoscono la necessità e la maturità di un dialogo costruttivo e di un’intesa tra tutte le forze popolari […]. La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande «compromesso storico» tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano», Enrico Berlinguer, Alleanze sociali e schieramenti politici. Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile, 3, «Rinascita», xxx, 40, 12 ottobre 1973.
17. ↩ Cfr. Paolo Virno, Citazioni di fronte al pericolo, «Luogo comune», 1, 1990; ripubblicato su «DeriveApprodi», 18, 1999.
18. ↩ Matteo Pasquinelli, Introduzione a Id., a cura di, Gli algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune, ombre corte, Verona 2014, p. 8.
19. ↩ Karl Marx, Zur Kritik der politischen Ökonomie. Vorwort, Dunker, Berlin 1859; trad. it. di Emma Cantimori Mezzomonti, Prefazione (1859) a Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1957, p. 11.
20. ↩ Franco Berardi, La fabbrica dell’infelicità. New economy e movimento del cognitariato, DeriveApprodi, Roma 2001, p. 44.
21. ↩ Franco Berardi e Veronica Bridi, 1977. L’anno in cui il futuro incominciò, Fandango, Roma 2002.
22. ↩ Le facoltà scientifiche, durante il movimento della Pantera, erano collegate in rete con i computer vax.
23. ↩ Marco Bascetta, Piero Bernocchi, Enzo Modugno, Il bandolo della matassa all’incrocio fra sapere e vita, «il manifesto», 27 febbraio 1990; ripubblicato su «Banlieues», 1, 1997.
24. ↩ Cfr. Carlo Vercellone (a cura di), Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca postfordista, manifestolibri, Roma 2006; cfr. anche Andrea Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma di accumulazione (2007), Carocci, Roma 2009.
25. ↩ «L’opposizione al simbolismo della merce (moda) tramite forme di esodo o di non partecipazione è a sua volta il meccanismo di generazione di ulteriore produzione simbolica e di nuove mode. In questo processo è evidente come il general intellect, nella sua componente non tanto di generazione di conoscenza ma piuttosto di generazione di comportamenti, diventi veicolo e opportunità di nuovo profitto privato, nel momento stesso in cui i nuovi comportamenti, inizialmente e necessariamente alternativi, vengono incapsulati nel fenomeno della moda intesa come ulteriore (e potenziato) feticismo della merce» (Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo, cit., p. 198).
26. ↩ Franco Berardi (a cura di), Primavera ’77. Tesi e problemi del movimento, dossier di «A/traverso», Stampa Alternativa, Roma 1977, p. 4.
27. ↩ Negri, Introduzione a Id., Marx oltre Marx, cit., pp. 8-9.
28. ↩ Antonio Negri, Marx oltre Marx (1979), manifestolibri, Roma 2003, p. 74.
29. ↩ Antonio Gramsci, Quaderni del carcere (1929-35), edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 2007 (1975), vol. ii, Q. 11, § 15, pp. 1403-1404.
30. ↩ «Tutti gli elementi della corruzione e dello sfruttamento ci vengono imposti dai regimi linguistici e comunicativi della produzione: distruggerli con le parole è altrettanto urgente che distruggerli in pratica. Non si tratta di critica dell’ideologia, se, per ideologia, pensiamo ancora a una sfera delle idee e del linguaggio di tipo sovrastrutturale ed esterna alla produzione. Nel regime ideologico imperiale, la critica diviene direttamente critica dell’economia politica e dell’esperienza vivente», Michael Hardt e Antonio Negri, Empire, Cambridge (Massachusetts), Harvard University Press, 2000; trad. it. di Alessandro Pandolfi, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione (2002), Rizzoli, Milano 2007, pp. 373-374.
31. ↩ «Studi Culturali in Italia. Reloaded. Dieci anni di ricerca a Palermo. 2003-2013», convegno internazionale, Chiesa di Sant’Antonio Abate, Palazzo Chiaramonte – Steri, Palermo 24-27 febbraio 2014, promosso dal Dottorato di ricerca internazionale in Studi Culturali Europei – Europäische Kulturstudien.

Add comment

Submit