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sinistra

Sinistra, centro e destra ieri e oggi. E domani?

di Carlo Lucchesi

centro destra sinistra altredirezioni.jpgPer capire quanto sia cambiata la politica nel giro di un paio di decenni, approssimativamente gli ultimi del secolo scorso, basta mettere a confronto cosa contrapponeva fino a quel periodo le maggiori forze politiche con ciò che le contrappone ai nostri giorni.

 

Ieri

Per quanto si possa sostenere a giusta ragione che il PCI non aveva l’obiettivo della rivoluzione e che la DC era un coacervo di forze che rendevano difficile coglierne un’identità definita, non si può negare che, in ultima istanza, l’oggetto più profondo del conflitto che ruotava attorno a questi due grandi partiti era l’alternativa fra socialismo e capitalismo. Ciò è vero anche se non era chiaro a nessuno, neppure al gruppo dirigente del PCI, che cosa potesse essere concretamente il socialismo che si evocava. Non a caso era concepito come il graduale compimento di un lungo processo di transizione di cui si indicavano soltanto le primissime tappe, per altro del tutto compatibili con il capitalismo. Ma, di sicuro, il messaggio col quale ci si rivolgeva alla classe lavoratrice era quello di un cambiamento sostanziale della situazione in cui viveva, e così le masse lo percepivano.

Dall’altro lato, la DC e le forze che le gravitavano attorno, pure attraversate da sensibilità e idealità diverse, convergevano senza il minimo dubbio sulla superiorità del capitalismo non solo sul piano dell’efficienza, ma persino su quello morale in quanto tutt’uno con la democrazia, mentre, al contrario, il socialismo, a loro parere, esisteva e poteva esistere solo in forme dispotiche.

Guardando ai massimi sistemi, dunque, il conflitto era radicale. Ad attenuare tale radicalità provvedevano due presidi. Il primo era la Costituzione, che segnava i confini entro i quali tale conflitto si doveva svolgere. Non mancarono da parte della DC tentativi di valicarne i limiti, ma furono respinti.

Quelli di dare della Costituzione interpretazioni riduttive, furono una costante, ma appartenevano a ciò che può ritenersi una fisiologica dialettica politica. Il secondo presidio era il sistema elettorale su base proporzionale. Può apparire un paradosso il fatto che, mentre si contendevano il primato forze con modelli economico-sociali di segno opposto, il sistema elettorale le obbligasse a costruire alleanze il cui programma non poteva che sfumare, in maggiore o minore misura, il cuore del loro progetto politico. Del resto, pur non essendo il sistema elettorale parte integrante della Carta Costituzionale, i Costituenti avevano ritenuto preferibile quello proporzionale non solo perché il più democratico, ma anche perché concorreva a impedire che chi conquistava il governo potesse attuare un vero e proprio sovvertimento del sistema.

Sebbene nei fatti non vertesse sull’alternativa fra capitalismo e socialismo, il conflitto era aspro. Lo era nei luoghi di lavoro, dove i sindacati erano profondamente insediati e, per quanto avessero precisi riferimenti nei partiti, prendevano in autonomia le loro decisioni più significative. Le lotte nelle grandi fabbriche dell’epoca, agevolate da sistemi organizzativi rigidi che finivano per favorire il potere contrattuale dei lavoratori, facevano da guida e da traino a una vertenzialità che a macchia d’olio coinvolgeva le medie e persino le piccole imprese, dilatandosi in ogni territorio. Ed era aspro anche nella società, proprio perché la spinta che proveniva dalle fabbriche pretendeva riforme strutturali, dalla sanità alla scuola, dalla previdenza alla casa fino ai trasporti, che divennero rapidamente l’obiettivo dei sindacati confederali e della sinistra politica. A chi teorizza che solo conquistando il governo si possono cambiare le cose e che, di conseguenza, a quell’obiettivo tutto deve essere sacrificato, dovrebbe insegnare qualcosa il fatto che le sole, vere, grandi riforme, in Italia si sono realizzate in quegli anni, quando il PCI era all’opposizione.

Al centro dello scontro, ancor più di una più giusta distribuzione del reddito, c’era il potere che la classe lavoratrice voleva acquisire tanto nella fabbrica quanto nella società. La lotta politica si svolgeva anche sui temi internazionali, con tensioni fortissime che investivano tutti i contenziosi aperti in ogni parte del mondo, sul terreno culturale, soprattutto fra laicità e confessionalismo, e, ovviamente, nelle competizioni elettorali. In generale, si scontravano duramente gli interessi materiali dei vari gruppi sociali la cui rappresentanza politica, però, non era quasi mai monopolio esclusivo di una singola forza politica. Ciò nonostante, i programmi elettorali, dal piccolo comune al Parlamento, erano davvero alternativi e le volontà delle forze in campo erano facilmente riconoscibili. All’interno di ogni formazione politica il dibattito era intenso e verteva sugli aspetti e le prospettive di fondo del paese. Non mancavano certo le lotte di potere e forme di clientelismo, ma quello che la gente comune percepiva era che a loro fondamento c’erano idee diverse, e solo in piccola misura interessi personali. I livelli di partecipazione alla vita sociale erano altissimi e si esprimevano in entrambi i campi in tante modalità. Tutto concorreva, insomma, a far sì che le elezioni fossero vissute come un momento di scelta fra opzioni nettamente distinte e richiedessero una grande responsabilità civica.

 

Oggi

Cosa è rimasto di tutto questo?

Per analogia con lo schema precedente, è utile circoscrivere il confronto alle due forze più rappresentative degli schieramenti che si fronteggiano adesso, il PD per il centro-sinistra e FdI per il centro-destra, anche se FdI promana dal MSI (Movimento Sociale Italiano) e non dalla DC, e il PD è una strana creatura nata dal connubio delle trasformazioni subite dal PCI e dalla DC, proprio i due partiti una volta irriducibilmente avversari. Per quanto strano possa apparire, i nuovi soggetti che adesso occupano il centro del ring hanno molti elementi che li accomunano.

Il primo è la totale sottomissione alle volontà degli USA. In entrambi si è certi che senza l’appoggio di quel Paese non è possibile governare. Questa convinzione va molto al di là del riconoscimento che l’Italia si sente parte del mondo occidentale e sta nell’alleanza militare di cui questo si è dotato. Ciò non dovrebbe impedire un’autonomia di giudizio e, quando lo si ritenga giusto, di azione (Craxi docet). Ma non è il nostro caso. FdI ha compiuto un vero e proprio ribaltamento da quando ha vinto le elezioni. Le sue posizioni in politica estera, come dimostrano la guerra in Ucraina e il massacro israeliano dei palestinesi, sono come scritte sotto dettatura, in verità non diversamente da quelle espresse dai grandi media nazionali. Lo si può capire, visto che così facendo quel partito si è conquistata la benevolenza degli opinion maker e si è fatto accettare dalla classe dirigente europea.

Il PD ha qualche problema di coscienza in più, ma li supera in scioltezza quando arrivano le decisioni che contano.

Perché tanto servilismo? La domanda, in verità, riguarda la grande maggioranza dei governanti della UE. La risposta non può essere la mancanza di un adeguato apparato di difesa europeo, intanto perché solo se si è in malafede o per manifesta imbecillità si può credere e far credere che la Russia voglia attaccare l’Europa, e poi perché anche chi dispone di un’adeguata deterrenza, vedasi la Francia, dopo un balbettio lungo qualche secondo, si è subito messo in ginocchio. Si potrebbe pensare, con molte probabilità di andarci vicino, che gli USA adoperino politicamente, forse ancor più del loro strapotere militare, il peso dominante che i grandi gruppi finanziari statunitensi hanno acquisito nell’intero Occidente, un potere tanto grande da poter far saltare il banco ovunque. Resta comunque un fatto: accettare di servire gli USA nel momento in cui la loro politica si propone in modo inequivocabile di impegnare l’Europa in una guerra contro la Russia con lo scopo primo di balcanizzare la Russia e con quello secondo, male che vada il primo, di deprimere l’economia del nostro continente, significa fare gli interessi altrui contro quelli del proprio Paese e del proprio popolo. Ma se entrambi accettano di servire la causa degli USA, la loro alternatività svanisce perché quella premessa trascina con sé molte scelte conseguenti nelle politiche economiche in generale e poi nelle politiche sociali e industriali. L’elettorato, per lo più distratto e fuorviato dalle accuse veementi che i due partiti si scambiano, non lo percepisce ma, caduta l’indipendenza del Paese, le variabili su cui agire si riducono a poca cosa, tanto più se si sta passivamente in quella UE che per suo conto ha già consegnato agli USA le chiavi di casa.

Ma le analogie vanno oltre questo aspetto già da solo decisivo. Entrambi rivolgono una grande attenzione al cosiddetto centro. Sotto questa definizione si intende genericamente un’area moderata, sospettosa nei confronti sia del centro-destra che del centro-sinistra, ma certamente europeista e atlantista e quindi potenzialmente aggregabile dai due schieramenti. Il sistema elettorale con una forte componente maggioritaria, in effetti, visto il modesto differenziale che separa i due poli, sembra dare al centro un ruolo determinante nel far pendere la bilancia da una parte o dall’altra. Il primo effetto di questa comune convinzione è che i programmi di tutt’e due gli schieramenti vengono alleggeriti dei caratteri più rimarchevoli, divengono più generici e meno impegnativi, rendendo più agevole l’aggregazione di forze diverse e una navigazione a vista che possa sintonizzarsi volta a volta con gli umori dell’elettorato. Del resto, questa è la sorte inevitabile cui conduce il maggioritario. I partiti devono sfumare la loro identità per raccogliere il massimo consenso possibile, e questo generale appannamento disorienta i cittadini e, unito a una sequenza di cattivi esempi di cui il sistema dei partiti dà prova nella gestione della cosa pubblica, li spinge verso una zona neutra nella quale si aprono due porte, una che conduce all’astensionismo, che infatti cresce drammaticamente, l’altra a compiere una scelta non tanto per adesione convinta alla propria parte quanto per avversione alla parte opposta. In sostanza, o non si vota, o si finisce per votare contro piuttosto che votare per, in altri termini si viene sospinti verso la scelta del male minore. E ciò vale qualunque sia il livello di elezione.

In ultimo, i due partiti sono accomunati dal fenomeno della centralizzazione e della personalizzazione del potere. E’ un fenomeno che attraversa tutti gli aspetti della vita della società, economici, sociali, politici e istituzionali perché, alla fine di un lungo batti e ribatti, si è imposto il mito del decisionismo propugnato dalle classi dominanti secondo i dogmi del neoliberismo, vale a dire, credendo alla versione efficientistica, la vittoria della velocità sulla qualità delle scelte, ma anche, in altri termini, guardando alla sostanza, il successo dell’autoritarismo sulla democrazia. Nella vita politica il fenomeno si lega al primato che la conquista del consenso elettorale per andare al governo, e poi vedere il daffarsi, ha assunto rispetto alla prospettiva strategica e di lungo periodo della trasformazione della società. L’effetto è che anche la militanza cambia segno. Serve nelle scadenze elettorali o, al più, per sostenere qualche campagna. Ma non ha quasi più niente a che fare con la partecipazione intesa come condivisione di un progetto e come possibilità di concorrere alla formazione e al controllo delle decisioni. Dopo di che, chi ha istanze a suo parere più meritevoli per le quali spendere il proprio personale impegno, è a quelle che si dedicherà. Crescono così la separazione fra partiti e società e la considerazione che i partiti sono essenzialmente centri di potere a uso di chi li occupa.

Questa sommaria analisi non ignora il fatto che vi sono all’interno dei partiti, o al loro fianco, aree di convinta adesione. Sono, di solito, quelle che spingono per una identità più pronunciata, per scelte nette e senza compromessi pregiudizievoli. Per adesso, però, sono aree che hanno una scarsa influenza sulle scelte dei leader i quali, anzi, tendono ad usarle in funzione degli equilibri interni di cui vogliono essere protagonisti e garanti.

Su cosa verte, oggi, l’alternativa fra sinistra e destra o, più correttamente, fra centro-sinistra e centro-destra?

A sinistra, con l’abbandono della prospettiva del socialismo è caduto il confronto ideologico sul modello di società, la militanza si è ridotta a poca cosa, si è persa la consapevolezza del valore dell’organizzazione, delle sue regole e della sua disciplina. La contraddizione capitale-lavoro ha cessato da tempo di essere quella principale. L’hanno sostituita altre contraddizioni di innegabile rilievo, prime fra tutte quelle su cui sono impegnati i movimenti ambientalisti, femministi e per i diritti civili. Esse, però, vengono affrontate estrapolandole dalla struttura capitalistica della società. E’ vero che esse si presentano anche dove il capitalismo non è dominante, ma per avviarle a soluzione non si può prescindere dalla natura specifica che esse assumono in ogni determinato contesto economico-sociale. Altrimenti rischiano di restare bandiere da sventolare e, alla fine, di non rappresentare neppure un vero discrimine nei confronti della destra. Questo approccio socialmente neutro sposta inevitabilmente verso il centro l’asse di quest’area. L’abbandono della centralità del lavoro fa sì che si consideri quel mondo, in molte parti poco tutelato e poco retribuito, soprattutto come vittima, insieme ad altri gruppi, di un eccesso di diseguaglianza, elemento distintivo del neo-liberismo. Venuto meno il radicamento nei luoghi di lavoro, la sinistra sembra non avere gruppi sociali di riferimento e quindi non disporre delle condizioni minime per sviluppare quei rapporti di forza sempre necessari quando si vogliano produrre reali cambiamenti.

Il welfare, altro punto di un’identità che fa fatica a farsi riconoscere, viene difeso, ma il contrasto alle privatizzazioni dilaganti è tiepido, quasi invisibile. Si fa leva sui sentimenti di solidarietà e sulle aspirazioni a una maggiore giustizia sociale. Davvero troppo poco. Si affidano le possibilità di successo soprattutto alla reazione che può ancora suscitare una destra arrogante e minacciosa.

Il centro-destra parte da una condizione di vantaggio. Nella sua storia è una forza di conservazione, e la conservazione non crea aspettative esaltanti ma, nello stesso tempo, non produce delusioni cocenti. Non a caso gli studiosi dei flussi elettorali convengono nel considerare l’astensionismo di massa un fenomeno che penalizza assai di più il centro-sinistra, che di delusioni al suo popolo ne ha provocate tante. Con l’affermazione dei FdI come forza egemone dello schieramento, rispetto al berlusconismo sono tornate in auge parole simboliche come patria, famiglia, ordine, tradizione, ma declamate con moderazione, perché nessuno si deve spaventare. Il moderatismo è una cifra da cui non allontanarsi troppo per ottenere la copertura degli USA e della UE. Il consenso non viene ricercato attraverso l’ideologia, il pericolo rosso viene evocato solo per accontentare i nostalgici, ma tutti sanno che la paura del comunismo non è più da tempo un viatico per vincere le elezioni. Sicurezza e immigrazione, strettamente intrecciate, sono i temi su cui il centro-destra ha fatto leva per giungere alla vittoria aprendo una breccia nei settori più deboli della società, quelli che tendenzialmente dovrebbero ritenersi meglio tutelati dalla sinistra. Per il resto, e lo si vede bene nelle scelte fatte una volta conquistato il governo, il centro-destra mostra di avere le idee chiare sui settori sociali che intende rappresentare e favorire: l’impresa privata, alla quale si spiana la strada anche nei servizi pubblici essenziali, le libere professioni e le partite IVA cui si offre un trattamento fiscale di grande favore, le lobby, da quelle più influenti in termini di potere assoluto, banche e compagnia, a quelle che, bene organizzate, garantiscono tanti voti. La sinistra fa bene ad accendersi per il premierato e il federalismo, scelte di estrema gravità sulle quali, tuttavia, il centro-destra fa fatica a trovare compattezza, ma sembra non cogliere come il radicamento dei suoi avversari vada irrobustendosi attraverso un lavoro sistematico di corporativizzazione della società. E non capisce che pure l’allarme concitato sui pericoli che la democrazia corre sotto l’incalzare della destra non scuote molto l’anima del suo popolo. Quello che accade nel mondo non con la complicità, ma con la primaria e vantata responsabilità dell’Occidente, dei suoi potentati economici, delle sue classi dirigenti, dei suoi media, ha finito per svuotare del tutto il significato di parole come democrazia e libertà, concetti già ridotti a un simulacro dallo tsunami del neo-liberismo. Se vi saranno nelle urne di eventuali referendum buoni livelli di partecipazione, lo si dovrà essenzialmente al fatto che le persone percepiranno il peggioramento che certi provvedimenti possono arrecare alle proprie condizioni di vita, non certo alla difesa di qualcosa che il senso comune dice che per averlo dovrà essere riconquistato daccapo.

 

E il futuro?

Cosa farà il centro-destra, che ha l’asse a destra, nel prossimo futuro è scritto in ciò che sta facendo. La società corporativizzata è il suo terreno ideale. Se la protesta è settoriale, ha solo da scegliere fra sedarla o assorbirla, e questo lo fa volta per volta soppesando i pro e i contro. Non cambierà piglio il volto rassicurante col quale si è finora garantito una buona presa nell’area del proprio elettorato, ha ammorbidito i media che simpatizzano per l’altra area e, tutto sommato, ha tolto un’arma sulla quale i suoi avversari facevano molto affidamento. Ciò non vuol dire che non proverà a metter mano sulla struttura del sistema, ma continuerà a farlo, come ha fatto fin qui, smussando gli spigoli ed evitando radicalismi che potrebbero rivelarsi pericolosi, almeno fino a quando la situazione internazionale o l’arrendevolezza dell’opposizione gli faranno capire di poter correre più velocemente.

E il centro-sinistra, che ha l’asse spostato verso il centro? Anche confermando il suo atlantismo e la piena subordinazione agli USA, potrebbe farcela a succedere al centro-destra, sebbene un’identità tanto fragile e contraddittoria sia un handicap di non poco conto. E’ difficile prevedere cosa cambierebbe ma, mantenendo quella collocazione, i margini di manovra sono ridotti ai minimi termini, perché stare lì significa accettare che anche l’UE resti alle dipendenze degli USA, sia politicamente che economicamente. Ma vi è un altro motivo per pensare con scetticismo a mutamenti di rotta di grande significato. I governi di centro-sinistra che si sono avvicendati durante e dopo il berlusconismo non hanno lasciato buoni ricordi, tutt’altro. Per fare solo due esempi, ma sono i più qualificanti, il lavoro è stato duramente penalizzato soprattutto attraverso un processo devastante di precarizzazione che gli ha tolto identità e potere, e il welfare è stato ulteriormente compromesso contribuendo a ingigantire le diseguaglianze sociali, sia di reddito che di status. In un’Europa soggiogata dagli interessi USA, e quindi in rotta con Russia e Cina e votata a un’economia di guerra, c’è poco spazio oltre l’amministrazione della ritirata. Forse si potrà fare qualcosa sul terreno dei diritti civili, che sembra essere quello di maggior interesse per questo schieramento, ma poco altro. Se si tratta di amministrare la ritirata, il centro-destra ha molto meno da perdere e tante più carte da giocare.

E’ possibile uscire da questa ipotesi di alternanza così poco alternativa? Da dove dovrebbero partire la lenta ricostruzione di un progetto politico di trasformazione della società e la ricostituzione di una forza che ambisca a guidarlo?

C’è qualcosa che si può fare per riaprire un processo positivo senza restare passivamente in attesa di una nuova nascita o di una miracolosa resurrezione, chi sa come e quando?

E’ evidente che per pensare a una nuova strategia della sinistra, occorre una riflessione critica profonda non solo sulle cause della sconfitta che il movimento operaio e socialista ha subito a partire dalla metà degli anni ‘70 del secolo scorso, ma anche sugli sconvolgimenti che l’hanno seguita e sulle configurazioni che le classi dominanti hanno assunto e sulle forme con le quali stanno esercitando il loro dominio.

C’è stato alla fine del secolo scorso un passaggio micidiale nella storica dialettica fra politica ed economia. Fino a quella fase le grandi imprese, e poi i monopoli e gli oligopoli avevano esercitato una grande influenza e pesanti condizionamenti sulle scelte della politica ma, alla fin fine, non ne avevano preso interamente il posto. Con l’esplodere della finanziarizzazione e il procedere a marce forzate della sua centralizzazione marcata USA, avvenute nella pressoché totale assenza di regole, i rapporti si rovesciano. I grandi gruppi finanziari espandono il loro controllo in tutti i settori strategici, del credito, dell’industria, dei servizi, dell’informazione, e divengono spesso più forti degli Stati, nel senso che con le loro manovre possono a ragion veduta minacciarne la stabilità. Il personale politico prima tentenna, poi cede. Sulle istituzioni finanziarie internazionali la presa è diretta. Adesso sono quei grandi gruppi finanziari che disegnano il quadro di riferimento in cui la politica può muoversi, una cornice che lascia uno spazio tutto sommato abbastanza angusto e mai tale da poter mettere in discussione i veri centri del potere. Quello che il senso comune avverte, che dietro i governanti ci siano forze molto più potenti che ne orientano le scelte che contano, è la pura verità. Ed è probabilmente questo, come sottrarsi alla tenaglia dell’impero finanziario USA, il motivo per cui la prospettiva lanciata dai BRICS raccoglie tanta attenzione e tanto successo fuori dall’Occidente. Ciò non significa che in quel centro di superpotere non vi possa essere una dura lotta politica sulle strade da intraprendere, se, ad esempio, sia più conveniente far prima implodere la Russia per poi rivolgersi contro la Cina, o concentrarsi subito contro l’avversario principale, o altro ancora. Quello che non è in discussione è il fatto che gli USA vogliono decidere i destini del mondo e che quel disegno prevede che l’Europa non possa essere d’intralcio.

Se il comportamento delle classi dirigenti europee è chiarissimo nell’accettazione, con pochissime eccezioni, di tale subalternità, resta molto da studiare nei comportamenti delle popolazioni a partire da quello che si presenta come un apparente paradosso. L’accentramento della ricchezza e del potere cui assistiamo da tempo è di per sé un fattore di squilibrio, inoltre colpisce sì il lavoro dipendente, e questo sta nelle regole del gioco, ma penalizza anche larghi settori di ceto medio. Dovrebbe, perciò, provocare reazioni forti in termini di movimenti di opposizione, e dovrebbe spingere l’elettorato a marcare una netta presa di distanza dalle forze politiche che assecondano tali processi. E invece non accade niente di tutto questo. Pur essendo palese che la guerra in Ucraina, oltre ad aver fatto dell’UE una colonia USA, aggrava le condizioni dei popoli europei, in nessun paese dell’unione è nato neppure un solo grande movimento per la pace. E anche i pochi importanti movimenti di protesta sociale che hanno fatto parlare di sé hanno avuto una dimensione assai circoscritta e sono evaporati rapidamente. Per contro, elettoralmente la destra cresce ovunque, e lo fa anche quando non si copre completamente con la maschera del perbenismo.

Dunque, cosa è cambiato con l’avvento al potere di pochi smisurati gruppi finanziari e come le loro manovre, mediate da forze politiche compiacenti, riescano inopinatamente ad accrescere il consenso delle popolazioni, sono principalmente questi i campi da indagare se si intende far rivivere un reale progetto di cambiamento.

Tale riflessione, però, chiunque la voglia avviare, fosse solo per provocare una prima inversione di tendenza, non può svolgersi nella morta gora in cui siamo piombati. Quindi, la domanda del che fare ora, sia per alzare una difesa efficace che per favorire la ricostruzione di un pensiero lungo, dovrebbe essere l’oggetto principale del confronto fra tutti coloro che intanto intendono combattere la nuova destra.

C’è un prius indiscutibile, senza il quale niente avrebbe senso, ed è una dichiarazione di autonomia, di fuoriuscita dalla sudditanza agli USA, da motivare nel nome degli interessi del popolo italiano, dell’Europa, della pace e di un nuovo ordine internazionale nel mondo. Una dichiarazione di autonomia che sia anche una esplicita accusa a quanti, politici e media, mettendosi a servizio degli USA, operano concretamente contro il bene del proprio paese. La libertà, la democrazia, le regole, sempre a senso unico, sono balle che nascondono una verità lampante: gli USA vogliono a qualunque costo mantenere il dominio del mondo, economico, politico e militare, tanto che non si vergognano di conclamarlo ai quattro venti. Per farlo, debbono costringere l’intero Occidente a sottometteresi alla loro volontà, che comprende anche la partecipazione alle guerre che gli sono necessarie, meglio per procura. Se si accetta l’economia di guerra con le spese militari al due, al tre, al cinque per cento del PIL, se si seguono gli squilibrati della Commissione Europea che intendono preparare l’Europa a una prossima guerra con la Russia accusata, con infinito sprezzo del ridicolo, di voler invadere mezzo mondo quando dopo due anni non è ancora riuscita a chiudere la guerra in Ucraina, anziché ristabilire con quel paese una pace stabile e buone relazioni commerciali, significa solo che al proprio servilismo si fa seguire la follia. Chi non ha il coraggio e la forza di dire queste banali verità, non può raccontare che intende battersi per la giustizia sociale, per il welfare universale, per i diritti civili, e tutte le altre buone intenzioni del riformismo delle chiacchiere. Non si tratta di lanciare anatemi, occorre semplicemente dichiarare di voler difendere con rigore e coerenza gli interessi nazionali ed europei, che non è solo un obbligo politico e morale, ma è anche l’unico modo per convincere gli USA che il mondo, compresi loro, starebbe molto meglio senza un padrone.

La seconda risposta al che fare ora è l’avvio di una grande lotta per ripristinare, migliorandolo, il Reddito di Cittadinanza. E’ l’obiettivo che può unire lavoratori e popolo se lo si configura in una duplice veste, per un verso quella di assicurare un reddito dignitoso per le persone e le famiglie, e per l’altro consentire a chi cerca un lavoro di farlo senza doversi svendere. Il principio comune è quello di affermare il primato della dignità delle persone sull’impero del mercato. Si tratta di un vero e proprio rovesciamento, etico e politico, del punto di vista con cui guardare alla società e alle relazioni umane. Assumere questo punto di vista, significa mettersi nella giusta posizione per impostare un progetto di trasformazione profonda della società.

Per capire la portata dell’obiettivo, proviamo a osservarlo dal lato più controverso e più avversato dai centri del potere, quello di coloro che cercano lavoro, tutti, giovani che vogliono una prima occupazione e lavoratori che, avendola persa, ne vogliono un’altra. Dare loro un reddito adeguato fino a quando non gli venga offerto un lavoro confacente alla loro professionalità, significa farli uscire dal ricatto in cui oggi si trovano di dover subire le condizioni, spesso infami, che il mercato gli propone: “o accetti il salario che ti offro, il contratto precario che la legge mi consente, le regole che io detto nella mia azienda, o per te non c’è posto”. Sapendo che dove c’è precarietà, oggi ovunque, non ci sarà forza contrattuale, non ci saranno diritti, non si sarà libertà, non ci sarà dignità.

E’ un obiettivo unificante come nessun altro, uomini e donne, nord e sud, giovani e meno giovani, famiglie e individui vi si possono riconoscere immediatamente. Dare al lavoro il valore che merita e promuovere la sua qualificazione è anche il giusto modo per affrontare i problemi della produttività che vengono continuamente evocati, ma solo allo scopo di disporre dei lavoratori a proprio uso e consumo. I vantaggi che l’economia ne trarrebbe attraverso lo sviluppo della domanda sono altrettanto evidenti. A chi obietta che il Reddito di Cittadinanza costa tanto, è facile rispondere che chi ragiona, come sta facendo la dirigenza tecnica e politica dell’Europa, di spendere cinquecento miliardi per la difesa del continente, non ha alcun titolo morale per sollevare obiezioni di questo genere. E’ meglio spendere per pagare le armi, anche trascurando il dettaglio che per un bel po’ di tempo dovremmo comprare quelle made in USA, o spendere per il futuro dei giovani e per il benessere delle persone? Sembra una domanda retorica dalla risposta scontata, invece, purtroppo, mentre è chiaro chi vuole la prima cosa, ancora non si conosce chi vuole davvero la seconda.

Chi sta all’opposizione propone, non dispone. Ma ci sono proposte sulle quali si possono costruire movimenti duraturi, si possono spostare orientamenti, si possono conquistare nuove forze, si possono riportare all’impegno e alla partecipazione quanto si sono tirati fuori delusi da ambiguità e opportunismi, ma soprattutto dalla caduta di una prospettiva per cui valesse la pena di fare qualcosa.

Piena autonomia dagli USA nel nome degli interessi del popolo italiano, dell’Europa e della pace, e Reddito di Cittadinanza, come primo obiettivo reale e simbolico nello stesso tempo: se qualcuna fra le forze di opposizione, politiche e sociali, avrà la consapevolezza e il coraggio di fare queste due scelte, aprirà una nuova stagione fatta finalmente di vere alternative.

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Comments

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Giulia Abbate
Wednesday, 19 February 2025 02:19
Grazie, molto interessante. Segnalo che con il gruppo Progetto Nonviolento di cui faccio parte abbiamo organizzato un dibattito proprio sul tema "Destra - Sinistra: una dicotomia superata?" sperando di dare un contributo a una nuova elaborazione politica per le lotte che ci aspettano.

Metto qui i dettagli confidando che si possa fare (se contravvengo a qualche regola mi scuso con Tonino e cancellate pure il commento):

https://progettononviolento.org/2025/02/10/destra-sinistra-una-dicotomia-superatadibattito-a-milano-il-25-febbraio-2025/


Grazie!
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Paolo
Monday, 17 February 2025 12:06
Che fare ora?
Togliere le fette di salame dalle orbite e prendere atto del "REGIME CHANGE" subito !!! ...tutto il resto è consequenziale.
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Enzo Rossi
Monday, 17 February 2025 11:16
L'analisi è a grandi linee condivisibile e anche la proposta di Piena autonomia dagli USA nel nome degli interessi del popolo italiano, europeo e della pace . Sono invece completamente in disaccordo sull'obiettivo “reddito di cittadinanza” e sul concetto della dignità che deriverebbe da questo provvedimento se attuato.

Il motivo per cui la sinistra è caduta fino ad oggi cosi' in basso è a mio parere dovuto principalmente per aver abbandonato sia dal punto di vista sindacale che da quello politico la rivendicazione della piena occupazione diretta dallo Stato che caratterizzava bene la prospettiva di emancipazione dei lavoratori salariati nelle loro lotte fin all'avvento della nuova Repubblica antifascista.

La dignità del lavoro infatti non si acquista con l'elemosina, sia questa fatta con i soldi dello Stato o di quei pietosi cittadini che si richiamano alla carità cristiana ma dalla applicazione effettiva e rigorosa degli articoli fondamentali della nostra costituzione riguardanti il lavoro che abbiamo già a disposizione e che prospettano una via italiana al socialismo come l'hanno voluta i comunisti, i socialisti e perfino il partito d'azione che ne fu forte sostenitore.

A promemoria per gli smemorati e per coloro che nel corso degli anni, soprattutto del secondo dopoguerra, hanno abbandonato la via italiana al socialismo, segnalo gli articoli che se applicati dovrebbero inquadrare il lavoro in una appropriata concezione di classe liberandolo dalla riforme liberali della costituzione e relativa zavorra ideologica che ne camuffato i contenuti:

Art. 4.
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Art. 3.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese

Art. 1.
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
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