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Controversie: “Patria e Costituzione”, un progetto per una sinistra di popolo

di Alessandro Visalli

patria e costituzioneIl prossimo 8 settembre a Roma, alla Sala della Promoteca, dalle 10.30 per chi volesse esserci un nutrito gruppo di intellettuali e attivisti propone l’avvio di un’associazione politica il cui provocatorio nome è: “Patria e Costituzione”. Ci sarà un intervento in video di Sahra Wagenknecht e relazioni di D’Attorre, Santomassimo, Giacchè, D’Antoni, Preterossi, introdurrà Fassina. Non solo per la presenza della Wagenknecht la cosa può ricordare la parallela, anche nei tempi, operazione che una componente della Linke tedesca sta tentando con “Aufstehen”, come alcuni toni della posizione neo-giacobina di “La France insoumise”.

Nel nome dell’associazione palesemente “Patria e Costituzione” sono due termini che si illuminano reciprocamente, nel quale quindi il secondo dà il senso nel quale si propone il primo. La mia idea è che insieme chiamano a riconoscere che ci unisce un progetto che ha tratti universalisti, ma anche caratteristiche nostre proprie. Come ricorda il post di Fassina che inquadra l’iniziativa, l’8 settembre di settantacinque anni fa terminava la guerra che l'Italia fascista aveva proclamato imprudentemente contro le liberaldemocrazie e contro il mondo socialista e quindi si avviava quell'Italia che univa le sue molteplici tradizioni, il risorgimento, la cultura classica e la realtà delle sue molte vocazioni territoriali, alla volontà di progettare insieme un futuro di pace e libertà socialmente responsabile. Un progetto, quindi, che unisce e non divide, nel quale nessuno può considerarsi solo, nel quale la politica democratica trova il suo spazio e prevale sulla lotta di tutti contro tutti e sull'economico imperiale dei nostri tempi; un progetto nel quale, infine, il ‘popolo’ si definisce e costituisce (lontano dall’essere trovato da un sapere esperto perché già esistente, o ascoltato da un intermediario che se ne fa sacerdote).

Partendo dalla evidente modifica dello schema d’ordine che muta in questo avvio di millennio dalla coppia progresso/reazione, otto-noventesca, a quella establishment/popolo che prevale (a partire dal suo avvio con i movimenti ‘no global’) propongo quindi di considerare in questa ‘fase di interregno’, nella quale la ‘forma populista’ si afferma confondendo la nostra percezione mentre i vecchi ordini si dissolvono, che la vera questione è come si costruisce il ‘popolo’ e cosa si nomina con questa parola in sé vuota. La cosa si può pensare a partire dalla radicale rimessa in questione della riduzione dell’uomo alla ragione e questa a ciò che può essere colto dal discorso scientifico (linea screditata dalla tragedia del novecento e che conduce nella sua logica deduttiva a presumere la necessità di un governo dall’altro dei tecnici o della tecnica). L’uomo è un animale vuoto che si fa attraverso il rapporto con il mondo e con gli altri intorno a sé, quindi attraverso il linguaggio e l’interazione ben riuscita. Bisogna in questo ritornare a leggere Hegel, dove, reagendo all’avvio della rivoluzione industriale, questi inquadra per primo la paradossale perdita di libertà soggettiva che derivava da uno smisurato accrescimento del particolarismo individuale. L’eccesso patologico creato da una sfera nella quale i cittadini finiscono per relazionarsi gli uni agli altri solo per il tramite freddo del collante giuridico crea uno scambio tra l’emancipazione dei singoli e l’atomizzazione della collettività. Come scrive Honneth “l’individuo che la società borghese ha investito delle prerogative astratte di una persona giuridica gode indubbiamente di libertà soggettive prima inconcepibili, ma la determinazione puramente negativa di quelle libertà non è più in grado di instaurare alcun legame sociale non riducibile a orientamenti puramente strumentali” (Axel Honneth, “La libertà negli altri”, p.50).

Se si mette in questione la semplice equazione tra progresso e crescita lineare della conoscenza (scientifica) e quantitativa (delle merci e della stessa macchina tecnoscientifica nella sua capacità di manipolare il mondo come oggetto), e si cerca di uscire dalla metafisica del soggetto, allora si comprende che è vero progresso solo la crescita delle dotazioni umane e delle capacità sociali. E che queste sono sempre necessariamente situate. La stessa costruzione del ‘popolo’ appare, in questa prospettiva, come progetto politico e culturale ad un tempo, che può procedere solo dal concreto e che riesca a disimplicarvi le condizioni materiali (‘oggettive’ direbbe Hegel) per “essere l’uno-per-l’altro” come forma privilegiata dell’ordine sociale. Ciò significa anche legare “Patria e Costituzione” in un progetto di rimando reciproco che, se necessario, faccia recedere la specializzazione funzionale (ad esempio alcuni generi di integrazione creanti subalternità e distribuzione ineguale ed inefficiente delle risorse, nell’arena europea) e riesca a mettere in comunicazione intorno al principio democratico (e non a quello liberale) i sottosistemi legale-formale, del mercato e quelli dei rapporti personali (cfr. Axel Honneth, “Il diritto della libertà”).

In altre parole nessuno può essere libero ed eguale se questa condizione non scaturisce da relazioni sociali che abilitino l’autorealizzazione, ovvero l’autonomia. Ma questo termine non ha alcun significato se non trova le sue condizioni nella realtà effettuale (se non è “oggettiva”); se le libertà cioè non si rispecchiano le une nelle altre: questa è la Patria resa possibile dalla Costituzione.

Qui si pone subito un difficile problema: Nadia Urbinati in un post che riprende uno di Fausto Anderlini di cui parleremo dopo individua nel testo la volontà di parte di “escludere dalla cerchia della Patria”, in nome della quale, ricorda, tutti hanno “detto e fatto” (da Condorcet a Robespierre, da Mazzini a Cattaneo, da D’Azeglio a Pisacane, incluso, sostiene, Toni Negri e il ’68), alcune parti che non corrispondono a ciò che si preferisce. Si tratterebbe, per la politologa della Columbia, di una “appropriazione particolaristica” molto simile a quella che viene compiuta dai sovranisti di destra. Insomma, attira la Patria nella battaglia ideologica rischiando di dissipare l’unica “grammatica comune” e trasformando con ciò gli avversari politici in nemici totali. Ma la chiusa del breve intervento indica la direzione che credo sia più promettente: “lasciare che la Patria sia il valore della Costituzione”.

Una formula in parte oscura. Provo a comprenderlo così, la Patria in sé viene prima della politica, nel senso che ha a che fare in qualche modo con la socializzazione primaria, con la famiglia nella quale capita di nascere e di crescere, e che si può anche rinnegare o abbandonare ma resta comunque tale. Ma in questa famiglia, in ognuna, sono presenti cose diversissime e ci sono anche persone che non si sopportano.

La formula di Urbinati “lasciare che la Patria sia il valore della Costituzione” connette appunto Patria e Costituzione scegliendo di attribuire valore a quello che il testo chiama “l’impianto etico, politico e programmatico scolpito, attraverso l’Assemblea Costituente, nella nostra Costituzione”.

Mi pare che questo sia in linea al migliore spirito dell’iniziativa che si discute, l’associazione non ha infatti nome “Patria e Italiani”, che avrebbe avuto insieme un sapore sostanzialistico e un carattere prepolitico, ma ha nome “Patria e Costituzione”, dove il secondo e qualificante termine ha natura eminentemente politica, anche se includente. Del resto leggendo il testo, già dalla prima frase c’è una scelta di campo che rischia di ricadere entro l’avvertenza: la distinzione tra i “liberal-conservatori” che videro nella frattura della guerra, levatrice dell’Italia repubblicana la “morte della Patria” e i costituenti (con le diverse culture politiche) che vi videro al contrario la “rinascita”. Ma sfugge a tale obiezione, in quanto con questo esempio storico, dunque senza nominare nulla di attuale, credo si intenda segnare specificamente la distinzione tra una comunità nazionale prepolitica fatta di “segni storici, culturali e linguistici” e una comunità politica di cui si propone come centro la Costituzione.

Alla luce della prima distinzione, dunque, l’associazione, a ben vedere, non è sulla “Patria” (in quanto indisponibile alle parti, ed unità culturale), tanto meno sugli italiani come popolo storico, ma sulla “Costituzione”, proposta come centro politico della Nazione.

La Costituzione definisce e chiama ad una unità di progetto e, riletta nell’associazione alla Patria, sollecita il valore del senso di appartenenza ad una comunità nazionale che fu il fattore propulsivo della lotta per liberarsi da oppressioni esterne (i tedeschi che occupavano la parte centro-nord del paese) e interne (il fascismo), e riguadagnare la capacità di autodeterminazione. Capacità sin dall’inizio e per tutte le componenti del quadro costituzionale, declinate come potenziamento della democrazia nella cooperazione internazionale.

La lettura che fa Fausto Anderlini, in un suo lungo post, è che sarebbero invece qui poste in linea gerarchica “Patria”, “Nazione” e “Stato” e infine “Democrazia”, e quindi si ricada nel ben noto patriottismo nazionalista (ovvero nello schema della “morte della Patria”). Si tratta di un timore praticamente pavloviano molto diffuso. La rete è piena di assimilazioni dirette del termine “Patria” al fascismo. Ma si tratta di una forzatura e misinterpretazione, oltre che della cessione alla destra di un termine che deve essere patrimonio di tutti e con essa di un’arma nella lotta delle parole di enorme potenza nelle circostanze del rischio esistenziale (che si sta avvicinando e si prepara). Anderlini sostiene di condividere il richiamo, altrove spesso mobilitato al “Patriottismo Costituzionale” (e anche Nadia Urbinati), nella tradizione propria della costituzione liberale e sociale del ’47-48. Ma sostiene che questo, rettamente inteso, implichi non solo la fondazione democratica, ma anche il superamento della “Patria” come sostanza data in favore di un “Patriottismo, per come avanza nel contesto storico europeo, [che] non è a se stante, non consta nell’identificazione con la Patria e men che meno con la nazione”. La divergenza è reale e netta, ma non sta esattamente dove indica Anderlini, non è in realtà nella democrazia.

O meglio è in diverse visioni del progresso e del corso del processo materiale europeo. Il sociologo e giurista tedesco Hauke Brunkhorst, nel suo “Il doppio volto dell’Europa” propone di considerare il progetto europeo, di cui ricostruisce in modo molto interessante l’intera parabola, come scontro tra una ispirazione kantiana (il kantian constitutional mindset, KCM) ed una spinta all’integrazione funzionale diretta dal mercato, ma anche dalla logica delle tecnostrutture e dei sistemi funzionalmente specializzati (il managerial mindset, MM). Tra capitalismo e democrazia, dunque. Con una mossa molto simile a quella di Anderlini (che si ispira abbastanza chiaramente ad un socialismo libertario ed usa strumenti habermasiani) Brunkhorst, che risale alla stessa ispirazione, rifiuta di asserragliarsi nella ‘fortezza nazionale’ pur davanti la prevalenza del MM ed i suoi enormi guasti.

Ma la ripresa di elementi kantiani alla seconda metà del secolo scorso, in Habermas come in altri (Rawls è il più eminente esempio), ha come presupposto ormai inesorabilmente revocato la “pacificazione da parte dello Stato Sociale” (Habermas, Teoria dell’Agire Comunicativo, 1981, p. 1021) e quindi è parte della lunga ritirata che l’orientamento metafisico alla lotta di classe ed alla forza integrante delle ideologie. Si tratta di una prospettiva datata che è scopo specifico dell’Associazione in oggetto di revocare.

Parte della ispirazione di approcci come quello di Anderlini e Brunkhorst è rivolta, in modo biograficamente comprensibile, alla percezione non solo di una ritirata, che si è fatta rotta, dolorosa, ma anche alla minaccia portata all’autonomia individuale (letta con strumenti Rousseauiani e kantiani) dalla società regolata del welfare, dalla burocratizzazione del fordismo avanzato e da sistemi statuali percepiti come oppressivi. Esprime, in modo perfettamente idealtipico, questa ispirazione il quadro generale del movimento del ’68, che è inserito in una storia più vasta (nelle mobilitazioni che prendono forza dai tardi cinquanta ed esplodono già all’avvio dei sessanta, nel mondo del lavoro, nel sindacato, in parte crescente della società), ma aggiunge caratteri suoi propri.

Su questo sottotema, fortemente presente nelle osservazioni al testo, torniamo dopo, ma vale ora solo la pena di ricordare che siamo ormai al termine di un quarantennio di deregolazione e disgregazione, imposta da molteplici fattori difficili da districare, ma certamente non esenti da progettualità e funzionalizzazione ad interessi specifici di parte della società. Interessi di classe che sono riusciti a nascondersi come “logica sistemica” e altra natura, anzi come semplice razionalità (tecnico-scientifica) facendo trasparente il relativo dominio. Una Agenda, quella che Brunkhorst individua come MM, ma che è implicita anche nel KCM, posta in dubbio dall’attuale “Rivolta degli elettori” e quindi dal ‘momento populista’.

Ciò al quale molti sono rimasti legati è l’ideale (che ha veste soprattutto retorica, dato che la realtà parla di ben altro) dell’emancipazione e della fuoriuscita dagli orrori della prima metà del secolo per la fondazione di una repubblica cosmopolitica di cittadini liberi ed eguali. Questo ideale di purissima marca neo-illuminista, che risale ovviamente al Kant de “Per la pace perpetua” è stato sin dall’inizio contrastato da una chiave realista di approccio ai problemi del secolo che vede, nel MM, opporre “l’egemonia di una costituzione economica spoliticizzata” (B. p.11) sulle Nazioni democraticamente fondate del dopoguerra di cui si teme la capacità di autogoverno (ovvero, concretamente, le spinte sociali organizzate dalle sinistre). Muovendo da una concezione della democrazia come dialettica plurale e tendenzialmente autonoma tra processi diffusi di comunicazione, capillarmente prodotti, e capaci di sviluppare ‘capacità d’assedio’ e strutture specializzate di tipo sistemico sia nazionali sia sovranazionali, Anderlini articola quindi una critica che non può essere presa altrimenti che sul serio (cfr. Jurgen Habermas, “Fatti e norme”).

Più concretamente, invece, il progetto europeo al quale non si vuole rinunciare, preferendo quindi ‘avanzare’ anziché ‘arretrare’ (implicitamente a livelli inferiori di razionalità funzionale e apprendimento normativo), è sempre stato un progetto di protezione dalla democrazia (cfr Jan-Werner Muller, “L’enigma democrazia”) che negli anni ottanta, ed in particolare, rotti gli argini, dopo il 1989, si specializza come superamento e liquidazione della ‘democrazia maggioritaria’ (cfr. Majone, “Lo Stato regolatore”) ma che già dall’inizio è finalizzato in chiave anti-populista. Il problema posto al centro delle intelligenze europee ed occidentali è “il problema del male” (Arendt, ma anche Adorno) e dunque la necessità di stabilizzazione di un ordinamento destinato a scongiurare il ritorno di passati totalitari. Come dice bene Jan-Werner Muller “come reazione, i politici dell’Europea occidentale instaurarono una forma di democrazia estremamente limitata e profondamente segnata dalla sfiducia nella sovranità del popolo, anzi, perfino nella tradizionale sovranità dei Parlamenti” (op.cit. p.180). L’obiettivo politico era chiaramente di mettere al sicuro l’assetto liberal-democratico minacciato dall’esterno dal mondo comunista e dall’interno dalle sinistre politiche.

Il progetto europeo prevede quindi geneticamente l’esclusione di forme democratiche ‘populiste’ (ovvero di forme ‘maggioritarie’), ed istituisce a questo fine una dialettica allungata e plurischermata tra forme di rappresentanza elettiva (dagli anni settanta duplice), vincoli costituzionali e limitazioni attraverso “corti” politicamente molto attive e tecnostrutture semipolitiche dedite al controllo dall’alto. L’idea portata avanti anche da Hayek (’39) in “Le condizioni economiche del federalismo tra Stati” è abbastanza semplicemente di impedire che le “maggioranze” democratiche possano abusare delle loro competenze costituzionali, contro le minoranze abbienti, per immischiarsi nella libertà della proprietà. Il federalismo interstatale svolge questa funzione proprio perché l’uomo disincarnato della cittadinanza sovranazionale non ha abbastanza solidarietà e comunanza per accettare di condividere schemi redistributivi. Al massimo può condividere (in accordo con il KCM) dei ‘diritti liberali’ che non interferiscono con gli assetti di potere economico concreti. Questa semplice ma dura realtà è ancora quella con la quale ci rompiamo la testa. Peter Mair, nel suo ultimo libro, “Governare il vuoto” avrà parole molto nette sulla disfunzionalità di questo assetto.

Nel progetto europeo è giunto ad esistenza, insomma, ed insieme una pronunciata transnazionalizzazione della sovranità (ma slittando in parte significativa nei cosiddetti ‘mercati’, ovvero nelle mani delle élite abbienti non per via di diritti politici ma economici) una sua altrettanto pronunciata individualizzazione. Si tratta della più efficace al momento conosciuta forma di neutralizzazione della sovranità popolare democratica attraverso la limitazione tematica e funzionale. Ormai ciò che si può esprimere come sovranità è solo la forma della competizione (verso l’esterno come “guerra fredda tra nord e sud Europa” e verso l’interno come “rimozione della lotta democratica tra le classi”). Nelle due formule di Brunkhorst è incluso e sintetizzato il meccanismo geniale del progetto europeo, che determina la disattivazione sistematica, per via di neutralizzazione a priori, della lotta tra le classi nei diversi paesi e costringe gli stessi a creare gli spazi di crescita, per risolvere le tensioni interne, estroflettendo le proprie economie e sottraendosi spazi vicendevoli.

Di fronte a questo l’ipotesi controfattuale di Brunkhorst e di Anderlini è che mentre la carrozza europea va fuori dei binari, ed il ‘potere comunicativo’ (Arendt riletta da Habermas) che attiva la dialettica plurale e tendenzialmente autonoma tra processi diffusi di comunicazione capaci di sviluppare ‘capacità d’assedio’ va verso destra, sulla spinta di segmenti di popolo umiliati ed offesi dalle politiche schermate e dalle tecnomacchine del modo di produzione capitalistico fattesi selvagge, sia ancora possibile riattivare la lotta di classe democratica non nel luogo in cui lo spirito oggettivo delle norme e degli assetti lo ha reso storicamente possibile, ma a livello transnazionale, dove mancano le più elementari condizioni. Dove, cioè, gli interessi stessi sono ambiguamente definibili e, al netto di retoriche insopportabili, sono facilmente deviabili dallo stesso senso comune radicato, sull’asse debitori/creditori, pagatori/riceventi i potenziali e necessari trasferimenti compensatori tra nord, che si giova della dinamica competitiva messa in piedi a modo di piano inclinato dalla ‘moneta senza stato’ e dalla costrizione del diritto europeo disattivante il diritto nazionale, ed il sud, che ne è danneggiato).

Dovrebbe essere chiaro, ad una visione distaccata, il carattere controfattuale di questo esercizio (la lotta di classe parte e presuppone la presenza di interessi convergenti, non è un esercizio idealistico, o orientato al punto di vista morale kantiano, ma un esercizio di lotta che muove da universali concreti, con un movimento dall’interno verso l’esterno, dagli interessati che difendono se stessi), e comunque è in debito di superare l’obiezione del teorema fondativo di Hayek, ovvero neutralizzarne le condizioni.

C’è un secondo punto di grande divergenza nel testo ed è la lettura del ’68. Scrive Fassina:

“Nel corso degli ultimi decenni, in particolare dopo il '68, è prevalsa a sinistra, in nome di un'interpretazione parziale e di una visione subalterna di liberazione dell'individuo, la criminalizzazione della Patria e dello Stato nazionale. Lo ‘Stato borghese’ veniva assolutizzato e conseguentemente lo Stato in quanto tale delegittimato e aggredito poiché identificato come strumento intrinsecamente oppressivo dentro i confini nazionali e aggressivo oltre confine. Insomma, irresistibilmente fascista, proprio in conseguenza del richiamo alla Patria e alla Nazione come comunità di uomini e donne distinte e separate artificialmente dai confini nazionali da altre donne e uomini. Pertanto, la soluzione non era e non è la piena democratizzazione dell'insieme di istituzioni definite Stato, ma il suo superamento in una indefinita comunità umana globale, naturalmente capace di autoregolazione o regolata da un governo globale espressione diretta di cittadini liberati da strumentali appartenenze nazionali, cosmopoliti in un mondo ‘no borders’”.

Qui il principale riferimento credo sia la critica, aspra ed a tratti liquidatoria, avanzata da Aldo Barba e Massimo Pivetti in “La scomparsa della sinistra in Europa”, ma potrebbe essere citato anche il libro dello storico Mark Lilla “L’identità non è di sinistra”, o il Jonathan Friedman di “Politicamente corretto”, infine Pierre Dardot e Christian Laval “La nuova ragione del mondo” (anche se questi ultimi autori sono spendibili anche in direzione opposta).

La critica di Fassina è interpretata da molti come continua a quella tendenza alla liquidazione del movimento tutto degli anni sessanta avanzata da destra da autori come De Benoiste, sulla scorta dello sforzo di recuperare una solidarietà ‘organica’ perduta. Secondo questa critica il liberalesimo “strappa l’uomo dai suoi legami naturali o comunitari facendo astrazione dal suo inserimento in una umanità particolare” (Alain De Benoiste, “Identità e comunità”, 2005, p.20). Una simile visione è del tutto aliena dalla impostazione dell’Associazione, e dallo spirito complessivo del testo di Fassina.

Dice Anderlini:

“2. Preso dall'ansia di recupero delle nozioni di patria, stato e nazione, Fassina si spinge fino a una radicale revisione del '68, giudicato reo di aver prodotto un pensiero individualista, antistatalista, mondialista e cosmopolita. Come se Toni Negri, la finanziarizzazione dell'economia e lo stato minimo, le 'moltitudini' di Porto Alegre e il Tea party fossero inscritti nel suo destino. Una semplificazione sorprendente che porta acqua, involontariamente, a uno dei mulini più operosi del pensiero della destra. Tra l'altro il '68 italiano, ma anche in Europa, fu non solo giovanile-studentesco ma anche operaio e di classi medie. Fu qualcosa di più complesso che un'adunata di 'figli dei fiori'. Il '68 diede la spinta a potenti aspettative di emancipazione sia individuali che collettive. La legislazione sociale (dal sistema sanitario allo Statuto) si compie nei '70, assieme alle conquiste in materia civile. Tanto è vero che alla metà dei '70, il Pci e la sinistra tocca un apice paragonabile solo a quello del '46. E' dopo che le due strade dell'emancipazione si dividono, e persino si contrappongono. Guarda caso proprio in conseguenza del fallimento della strategia berlingueriana del 'compromesso storico'. E' Il perchè questo avviene che sarebbe il compito dell'analisi. Perchè cioè il '68 si divarica, invece che compiersi. Una nostra fabula”.

Ora, indubbiamente non bisogna portare acqua ai mulini della destra, ma la semplificazione sorprendente è quella che compie il nostro. Tra l’altro le lotte operaie, e quelle studentesche, che ad un certo punto si divaricano ma restano più o meno sempre parallele e certamente si contrappongono (i cosiddetti “movimenti”, in particolare durante i settanta inoltrati e il movimento dei lavoratori organizzato dal PCI e dal sindacato) sono un grandissimo tema di ricerca storica utile al presente che non era certo implicato nel breve cenno.

La questione posta, con toni che hanno urtato molti, è piuttosto che lo spirito neoliberale, che prevede un ‘ordine giuridico’ attivo e progressista, capace di spingere l’uomo a modificarsi continuamente per adattarsi alle condizioni sempre mutevoli della competizione, ha in qualche modo sussunto in sé la parte meno avvertita dello spirito ribelle ed anarchico che è stato coltivato nel ’68. Allo scopo di ristabilire le condizioni della libera concorrenza lo stato neoliberale, che si trova molto bene nelle forme schermate dell’Unione Europea preordinate a disciplinare senza mostrarsi gli stati welfaristi, finisce per trovare uno spazio di crescita a sé adatto nel sospetto verso ogni forma di autorità che possa essere ricondotta a volti. Lo spazio delle regole, con la sua enfasi ossessiva per i diritti formali, può apparire, al confronto, meno invasivo. È quel che credo intenda Fassina quando scrive “un’interpretazione parziale e di una visione subalterna di liberazione dell’individuo”, che ha finito per rovesciarsi, in questo facendo il gioco del neoliberismo che coevamente si stava affermando, nella condanna proprio di quello Stato nazionale che aveva visto crescere le forze organizzate del lavoro. Proprio quello Stato Nazionale che il complesso processo di unificazione europea (nella dinamica tra regole e costruzioni sistemiche) pone sotto pressione nelle sue funzioni sociali (lasciandolo libero, anzi potenziandolo, in quelle di disciplinamento della pressione politica organizzata dal basso) in continuità con l’orientamento nativo degli organismi sovranazionali ma anche in accelerazione rispetto alla ridefinizione strategica seguita al crollo dell’impero sovietico, l’apertura ad est e la “fine della storia” (come scrisse Fukuyama).

Non c’è dubbio che quella posta sia un’altra grande questione.

Si innesta qui, e probabilmente a questo è sensibile Anderlini, quella linea di frattura di profonda evocata anche da Vittorio Foa in “La Gerusalemme rimandata”, scritto nel 1985 a ridosso del cosiddetto “riflusso”, ovvero del fallimento e ripiego della onda lunga delle mobilitazioni degli anni sessanta e settanta. Tra “vecchi militanti che chiudono le saracinesche e si rifiutano nel privato” e lo sforzo di ricordare ciò che conta, Foa richiama le esperienze del movimento operaio all’avvio del secolo (1910-14) e la sua ripresa nel 1968-73. Mentre la politica della leadership del movimento dei lavoratori si concentrava sulla statualità (preso nel gioco degli equilibri parlamentari), dice Foa, esisteva anche un’ampia cultura plurale del lavoro operaio, nel rapporto con la vita e nella valorizzazione anche delle differenze di genere (raccontando le esperienze concrete delle lotte minerarie evidenzia come le mogli e le madri dei minatori, per esempio, siano in effetti la colonna portante della solidarietà mineraria, figure insuperabili di sensibilità e di intelligenza). La battaglia del lavoro è sempre stata anche battaglia per il controllo del luogo e la determinazione delle condizioni della propria vita. Da questa esperienza deriva la visione della democrazia, nel luogo della produzione (tema eluso quanti altri mai) come “governo di se stessi, partecipazione e autogoverno diretto”, una spinta libertaria, ma non individualista che trovo sbocco durante la guerra nell’istituzione degli ‘stop stewards’ (Consigli Operai). Come scrive Foa:

Il socialismo dei consigli non era più solo una questione di mezzi di produzione e di divisione del prodotto sociale in vista di una futura conquista del potere, esso diventava una linea teorica e pratica che collegava le rivendicazioni immediate alle strategie di trasformazione, saldava tempo presente e tempo futuro, unificava il soggetto della lotta per la trasformazione con quello della gestione della società futura” (p.279).

Parimenti Bruno Trentin, in “La città del lavoro”, scritto tra il 1994 ed il 1997, testimonia dello stesso scontro tra due socialismi, libertario e statalista, e del riassorbimento del socialismo dei Consigli a partire dalla crisi del fordismo-taylorismo (cui la sinistra non riesce a dare risposta) e la stretta sullo sforzo di conquistare il potere dello Stato per utilizzarlo. Per Trentin le grandi lotte operaie della fine degli anni Sessanta hanno messo in crisi il fordismo-taylorismo, ponendo i problemi della liberazione del lavoro e del controllo effettivo del processo produttivo, al di là della lotta salariale (vedi anche il post “Lotte operaie alla Fiat negli anni settanta: sicurezza sul lavoro e tecnologia”). In questo contesto si è avuto anche un apporto esterno dalla cultura di tradizione cristiana: Jacques Maritain, Emanuel Mounier, Simone Weil.

Dice Trentin:

Si può affermare che intorno alla fine degli anni Sessanta prese corpo nel vivo del conflitto sociale e in un’area molto articolata della ricerca teorica ed empirica una nuova idea della sinistra: l’abbozzo di un progetto di società che prendeva le mosse dal lavoro e dalle sue trasformazioni possibili. Un progetto di società che fuoriusciva dagli schemi redistributivi e risarcitori delle tradizionali ideologie della ‘transizione’, le quali assumevano come immutabili i rapporti di potere inerenti a un sistema di organizzazione del lavoro e delle funzioni, ancora considerato ‘oggettivamente’ inseparabile dall’idea di progresso. La testimonianza, insomma, del riemergere di un’altra concezione della sinistra e del socialismo possibile, e del loro ‘dialogo’ con le tematiche della liberazione del lavoro, dei diritti individuali, del valore e del ruolo della persona”. (p.30)

Questa esperienza fu respinta a livello organizzativo ma resta riferita alla “altra sinistra” i cui campioni sono per Trentin: Rosa Luxemburg, Karl Korsch, Otto Bauer, Max Adler, e fuori della tradizione marxista, Simone Weil.

Una grande questione, dunque. Che certamente non voleva essere trattata come un cane morto.

Ma il cuore della cosa è nella visione verso il progetto europeo e nel conseguente “che fare”. Molte critiche, e sicuramente quella di Anderlini, ruotano intorno alla ipotesi, da una parte, che sia più credibile e fattibile avanzare, anziché arretrare (ovvero, senza fuorvianti metafore spaziali, proseguire un processo di integrazione vincendo la sua tendenza finora irresistibile di path dependence e la coalizione di forze egemomica che su questa fonda la propria forza, o ricollocare l'azione democratica in luoghi nei quali sia avvantaggiata), e, dall’altra, che la Grande Patria europea sia il solo luogo di potenza in grado di difendersi nel mondo reale (interpretato secondo una implicita, fino ad un certo punto, teoria dei grandi spazi, per così dire).

La cosa si riduce ad una valutazione principale: se si ritiene possibile, o almeno più probabile dell’alternativa, che nei tempi rapidi del prossimo decennio, se va bene, sia possibile condurre le ‘classi in sé’ europee che sono allo stato divise per buone ragioni di interesse su linee nazionali – o di macroregioni collocate nella stessa posizione rispetto alla macro-organizzazione produttiva continentale (che ha un centro renano e propaggini specializzate e/o subalterne verso nord, est e sud) in una unica ‘classe per sé’ che si riconosca come dotata degli stessi interessi ‘ben intesi’ e disponibile a trasformare questa percezione in potere politico alla scala europea. Precisamente, come ipotizza Habermas ed esclude, confermando la necessità, Streeck, che veda il suo migliore interesse nella realizzazione di una ‘unione di trasferimenti’ in grado di stabilizzare politicamente il continente al prezzo di un trasferimento per decenni di diversi punti di Pil (le stime dicono da 5 a 7) al fine di finanziare un welfare europeo e politiche industriali, oltre che infrastrutture. Come parte di questa valutazione si ritiene, inoltre, che sia possibile superare nelle aspre condizioni europee, con l’assenza di una sfera pubblica continentale, di linguaggio comune, di tradizioni ed esperienze unificanti quando il trauma della guerra è ormai lontano e il rancore per il tradimento della promessa della società dei consumi morde le caviglie, la frammentazione sociale che già Habermas riconosceva come problema nel 1981 ottenendo di nuovo, miracolosamente, la trasformazione della “classe in sé” in “per sé”.

È chiaro, d’altra parte, che neppure l’uscita dalla gabbia dell’euro (che ha anche perso la doratura iniziale) è una palingenesi in sé. Né comporta il recupero di una sovranità assoluta che mai nessuno ha avuto (ed in particolare un paese di media potenza come l’Italia). Ma il punto centrale è che nell'attuale condizione è certo che i paesi più deboli lentamente diventeranno sempre più subalterni, facendo inesorabilmente la fine del sud Italia nei confronti del rispettivo nord. Entro questi paesi crescerà l'ineguaglianza e i ceti medi saranno sempre più schiacciati, cosa che politicamente condurrà agli inevitabili esiti totalitari. Davanti a questa certezza c'è il rischio che i capitali italici possano subire un contraccolpo nella transizione da un equilibrio di sistema ad un altro.

Questo rischio è altamente valutato da alcuni obiettori.

Ma riassumo: ‘chi non ha’ è certo di perdere se tutto resta come è, ‘chi ha’ ha la possibilità di perdere se tutto cambia e intanto nel medio termine si avvantaggia invece dall'attuale assetto deflazionario.

In base a questa valutazione di parte, indispensabile se si vuole recuperare una posizione di classe, e al rischio esistenziale che abbiamo davanti, è necessario capire chi si è, e chiamare tutti coloro che si riconoscono a lavorare insieme.

“Patria” deve stare insieme a “Costituzione”, dunque, per riscoprire un ben fondato orgoglio e rilegittimare la riattivazione delle funzioni essenziali dello Stato nazionale, costruendo un popolo che lo presidi e difenda come sua la democrazia costituzionale.

Come scrive Fassina:

“La nostra bussola per una navigazione difficile è il primato della Costituzione sui Trattati europei e sovranazionali e i principi del socialismo, del cattolicesimo sociale e dell'ecologia integrale. Per affermare una comunità aperta e solidale dentro i confini nazionali, dove i conflitti, a partire da quelli di classe e ambientali, si riconoscono, si combattono e si compongono in riferimento alla dignità del lavoro, alla giustizia sociale, al rispetto della natura. Per coltivare una comunità accogliente verso l'altro e cooperativa nelle relazioni con le altre patrie, con le altre comunità democratiche, con gli altri Stati nazionali, a partire dai partner dell'Unione europea, per affrontare le enorme sfide globali di fronte a noi, innanzitutto la riconversione ecologica delle economie e delle società e il governo dei flussi migratori”.

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