Villaggi globali: alla ricerca di una utopia concreta in tempi di smarrimento
di Massimo Maggini e Franz Nahrada
Come noto, la Wertkritik (it. Critica del Valore) è stata spesso accusata, ripetutamente e da più parti, di trascurare gli aspetti “pratici” e “propositivi” nella sua lettura del momento storico che stiamo attraversando, limitandosi a descriverne la crisi strutturale e a metterci in guardia rispetto alla catastrofe in corso – secondo questa lettura estremamente tragica, pericolosa e irreversibile.
Questa obiezione non è campata in aria, e la questione non è di lana caprina. La Wertkritik, pur capace di analizzare con rara profondità e attenzione il periodo che altri chiamano “Capitalocene”I, corre effettivamente il rischio di assumere una sorta di posizione passiva nei confronti dei problemi che questo solleva, quasi da mera “spettatrice” in attesa del cadavere portato dalla corrente. Ma da questa posizione, che potremmo definire “contemplativa”, il rischio è che finisca essa stessa risucchiata dal fiume in piena, nella misura in cui il capitalismo, mentre rovina, porta con sé il mondo intero.
Questa problematica sta in qualche modo emergendo all’interno del Krisis-Kreis, cioè della cerchia di coloro che si rifanno alle istanze di fondo formulate da questa corrente di pensieroII.
È vero che, per citare Robert Kurz, “…Nessuno può dire di conoscere una via règia che ci conduca fuori da questa situazione desolante, né può estrarre dal cilindro, come per incanto, un programma per l’abolizione della merce moderna” ma, aggiunge subito dopo lo stesso Kurz, “Drammatico è però il fatto che, fino ad ora, non sia neppure iniziata una discussione in questo senso”III.
Senza, quindi, nulla concedere ai “pratici” e ai “fanatici del fare”, e ben coscienti dell’ammonizione kurziana, è giunto forse il momento di provare ad assumerci un minimo di rischio e fare un piccolo salto, verificando se e come sia possibile una prassi adeguata alla Critica del Valore: il rischio opposto, ribadiamo, è che, continuando solo a “descrivere” il disastro sempre più immanente che si chiama capitalismo, oltre che apparire come meri e un po’ antipatici “pontificatori”, ci ritrovino, fra un paio di mila anni, pietrificati come gli abitanti di Pompei, magari nell’atto di leggere l’ultimo “Kurz” che prevedeva l’apocalisse proprio mentre, dietro di noi, il vulcano esplodeva e ci seppelliva con la sua lava.
Ma forse il pericolo più grande è che il capitalismo abbia davvero “i secoli contati”IV, ovvero in qualche modo “ce la faccia” e sopravviva in barba a crisi catastrofiche o quant’altro – magari a spese di nove decimi dell’umanità. Sopravviva, cioè, anche nel caso in cui, secondo i suoi stessi criteri di “valorizzazione del valore”, sia oramai inefficace e obsoleto, e riesca a mantenere il predominio solo con una valorizzazione “fittizia” (fondata cioè su scommesse su un valore futuro che non si realizzerà maiV) e con la forza, sia a livello locale (polizia in tutte le versioni possibili) che globale (guerre come non ci fosse un domani – e in effetti quasi non c’è più). In fondo, perché al capitale, anche in mancanza di una “valorizzazione” reale, ovvero senza la sua più necessaria “sostanza”, non potrebbe bastare una valorizzazione virtuale (appunto “fittizia”)? Perché questo circolo diabolico non dovrebbe poter funzionare per sempre, a torto o a ragione? Cosa ha da rimetterci il capitale, se non se stesso? E se a qualcuno non va bene, ci saranno sempre capienti galere, o spaziosi cimiteri, ad accoglierlo.
Sono soprattutto provocazioni, certo, ed è vero che “…non bisogna immaginare il crollo del rapporto di valore come un atto improvviso e una tantum (anche se crolli e cedimenti improvvisi, ad esempio crack bancari, fallimenti di massa, ecc. faranno sicuramente parte di questo crollo), ma come un processo storico“VI, ed è quindi ingenuo aspettarsi che il capitalismo crolli di colpo e tutto insieme. Tuttavia, se è vero che il processo di crisi è in atto ed è irreversibile, e sempre più catastrofico, ci sembra opportuno un invito a concentrare un po’ più l’attenzione sul “che fare” o, forse più ancora, “come fare” per uscire da questa impasse che si chiama “capitalismo”, che sembra senza via d’uscita ma che diventa giorno dopo giorno più insostenibile. Naturalmente, cercando al tempo stesso di non cadere nei soliti “cul de sac” ma, soprattutto, di stare molto attenti al rischio di finire in qualche modo recuperati dal potere e dal suo ordine discorsivo, come purtroppo spesso avviene per i circoli di sinistra che si pretendono radicali.
È in questa direzione che, tenendo presente i preziosi insegnamenti della teoria wertkritika, un po’ di “militanti”, come accennato, stanno adesso ponendosi la questione, e andando in giro a cercare possibilità proposte idee e quant’altro. È lungo questo cammino che abbiamo incrociato il testo qui tradotto, che proviene dalla rivista austriaca Streifzüge e che ci è sembrato interessante proporre. Un testo molto stimolante ma non privo, a nostro avviso, di pecche, come per esempio una fede un po’ troppo spinta nelle meraviglie della tecnica e nella “scienza”, e nelle sue capacità taumaturgicheVII, che richiama una certa “concezione strumentale” della natura dalla quale prima o poi dovremmo, credo, liberarci definitivamente, o la mancanza di una adeguata attenzione alla logica della valorizzazione e alle sue categorie di base (la merce, il mercato, il denaro…) che riteniamo invece il presupposto indispensabile di qualsiasi pensiero critico anticapitalisticoVIII.
In sostanza, risiede forse nella visione un po’ troppo filo-tecnologica e “progressista”, quasi in stile “ottimismo illuminista”, il difetto principale di questo scritto. Una condizione preliminare essenziale per qualsiasi autentica e futura “liberazione” è invece, con ogni probabilità, dismettere l’abito del colonizzatore dell’esistente, e cominciare a riconoscersi come parte di esso.
Il rischio maggiore di tentativi come quello fatto dal presente articolo è dunque che finiscano, loro malgrado, per riproporre, una qualche ricetta compatibile, se non “salvifica”, per il sistema in apnea. Restano comunque proposte stimolanti, per una riflessione che è solo agli esordi e che riteniamo, come detto e riprendendo anche qui il richiamo kurziano, oggi quantomai necessaria. Per questo motivo abbiamo deciso di presentarla qui, nel nostro sito.
Nb: le note in calce al testo di Nahrada non sono presenti nell’originale, sono state inserite dal traduttore grazie ai chiarimenti e suggerimenti dell’autore stesso su concetti e questioni di non immediata comprensione (almeno per il traduttore). Sono invece interamente del traduttore/curatore quelle relative alla presente breve introduzione, contrassegnate con numeri romani.
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Villaggi globali: alla ricerca di una utopia concreta in tempi di smarrimento
di Franz Nahrada
La “critica radicale dello status quo” corre il pericolo, se non accompagnata da una contro-proposta positiva, di sfociare in una mera negazione indeterminata e distruttiva. All’opposto, una fantasia utopica sul futuro senza un’analisi critica del presente perde rapidamente credibilità e appare fuori dal mondo. La mia tesi è che proprio nella combinazione di implacabile critica sociale e fantasie utopistiche si dia un’enorme spinta creatrice. Se questi due poli si completano e si ispirano a vicenda, può emergere quella contraddizione produttiva che innesca un vero cambiamento. Le utopie possono e devono indicare la via e fungere da orientamento, articolare potenzialità e bisogni e anticipare l’interazione delle più diverse energie e potenzialità represse e oppresse. Se all’intelligenza critica e a quella visionaria si aggiunge l’intelligenza pragmatica come terzo polo, allora i cambiamenti possono essere duraturi.
In questa direzione, vorrei ora provare a presentare la mia proposta di “villaggi globali”, già annunciata nei miei ultimi tre contributi1, pensata qui come serio progetto alternativo rispetto a uno “sviluppo” sempre più catastrofico e in quanto specifica negazione della “svolta epocale” verso un “capitalismo cibernetico” e le sue derive bio- e geopolitiche, la sua propaganda ipertrofica e l’asfissiante controllo digitale – cose che attualmente ci stanno travolgendo come una vera e propria rivoluzione dall’alto, e la cui critica assumo qui come chiarita, rimandando ai tre articoli sopra citati.
Opporsi a quest’onda anomala non significa raccontar fole, quanto piuttosto la ricerca di una combinazione sostenibile delle nostre migliori possibilità, che dovrebbero prendere forma in questa Visione2.
In questo senso non si tratta qui di prescrivere una visione unitaria tecnocratica. Se le esperienze dell’ultimo secolo ci insegnano qualcosa riguardo alla possibilità di un futuro che meriti di essere immaginato e vissuto, è che deve darsi all’interno di una cornice caratterizzata da una diversità culturale e da una vera libertà, da una ricchezza di forme e di creatività, da una caparbietà e da una capacità autonoma che sappiano armonizzarsi con una struttura di base cooperativa. La parola d’ordine non può essere, quindi, “economia dei servizi pubblici orientata ai bisogni”, come fa Alfred Fresin nel suo omonimo libro3. Il principio della divisione del lavoro porta sempre con sé il marchio della strumentalizzazione reciproca, della dipendenza e del sottile ricatto dietro la facciata della razionalità produttiva, creando e mantenendo disuguaglianze e squilibri di potere. Bisognerebbe muovere piuttosto dal recupero di capacità autonome di lavoro, combinate con le nuove potenzialità della tecnologia e legate ai cicli naturali4. Ciò significa che tale ambito deve rimanere, principalmente e costantemente, sotto l’esame di soggetti autonomi, e da essi definito culturalmente. In un momento in cui sta diventando evidente il contenuto disastroso di termini apparentemente neutri e in cerca di consenso come “progresso”, “sostenibilità”, “solidarietà” e molti altre cariatidi linguistiche, proprio ora abbiamo bisogno di un’idea o di un progetto di mondo in cui ci sia il massimo spazio per il dissenso. Il sospetto che il primato ontologico della “società” sia ideologico è fondato – e, in effetti, ne abbiamo fin sopra i capelli. La cooperazione deve, in linea di principio, poter essere revocabile, come mostra Christoph Spehr in Gleicher als andere. Eine Grundlegung der freien Kooperation [it. Più uguali degli altri. Una fondazione della libera cooperazione”]5, ma questa non può essere la soluzione sempre, poiché l’affidabilità delle relazioni è altrettanto essenziale. Vogliamo provare a mostrare qui che una quadratura del cerchio esiste e che si fonda nella strutturazione dello spazio.
Basta con i preamboli, passiamo alla questione vera e propria, o per meglio dire all’idea stessa di Villaggi Globali. Il leitmotiv in questa narrazione visionaria di un mondo pacifico e prospero di comunità cooperanti è l’idea della “grande implosione” che, secondo Eric e Marshall McLuhan (“La legge dei media”)6, caratterizza la nostra epoca. La comunicazione elettronica globale, con quello che ne segue in termini di automazione decentralizzata e di accessibilità a qualsiasi informazione, comporta il fatto che tutte le possibili competenze e capacità stiano emergendo contemporaneamente ovunque. I McLuhan hanno descritto questo fenomeno con l’immagine di un pianeta che si sta espandendo di cento o mille volte. Mentre tutti i precedenti progressi tecnologici e mediatici, e i loro successi, sono inevitabilmente sfociati in una spinta alla crescita, con il loro seguito di guerre e sconvolgimenti e una violenta pulsione all’accumulo, ora, nel “primo rinascimento globale”, le cose vanno altrimenti. La globalizzazione della conoscenza e dell’informazione deve trasformarsi in una rinascita senza precedenti del “locale”. L’impegno in direzione della conoscenza condivisa per far fiorire ovunque il locale – ciò che Stefan Meretz ha definito l’“Auskooperieren”7 (keimform.de, 17.3.2008) del mondo della competizione – è al centro di questa visione. Il “visionario” dell’architettura Paolo Soleri ha descritto un’idea simile nel testo Tecnologia e Cosmogenesi8 come il “pase doble” evolutivo della crescente complessità e della miniaturizzazione. Kohr e Schumacher affermano che “Piccolo è bello”9, ma questo “piccolo” è un piccolo arricchito, condensato. Questo è esattamente ciò che esprime il termine “Villaggi Globali”. Un mondo pieno di mondi autosufficienti, ognuno dei quali attinge a suo modo al comune complesso di possibilità globali.
È importante identificare modelli coerenti che si rafforzino e si sostengano a vicenda. Legami sistemici e formazioni sociali si radicano da sempre in tali coerenze, dove si combinano modelli materiali con modelli tecnici e socioculturali. La “visione” dei Villaggi Globali nasce da molti di questi modelli che partono da prospettive diverse, e che insieme generano forza e vitalità.
Prima prospettiva: lo spazio
Paradigmatico per la comprensione di tale coerenza transdisciplinare è il testo Mustersprache [it. Linguaggio modello]10 di Christopher Alexander, che, pur concentrandosi essenzialmente su questioni e soluzioni nel campo dell’architettura, non rinuncia a tematizzare le problematiche sociali, politiche e culturali che si sono presentate in varie forme nel corso della storia e a confrontarle con forme di modelli già consolidate che, con ogni probabilità, saranno rilevanti anche per il futuro. In particolar modo, si trovano qui argomenti fondamentali per quanto riguarda la prospettiva spaziale, che provengono dall’impegno di Alexander per una reale partecipazione al processo di pianificazione. Ad esempio, all’inizio del suo lavoro non esita a proporre la sostituzione degli Stati nazionali con “regioni indipendenti”, perché solo così si possono creare le condizioni per un’azione interdisciplinare, per la codeterminazione e l’auto-organizzazione. In questo testo si pronuncia anche contro la crescita urbana e l’esodo rurale e a favore dell’intensificazione del rapporto tra uomo e natura.
“Se la popolazione di una regione si concentra troppo nei piccoli villaggi, la civilizzazione moderna non potrà mai prevalere; ma se si concentra troppo sulle grandi città, la terra andrà in rovina perché la popolazione non sarà lì a prendersi cura di lei.” (MS, modello 2, paragrafo 1) Città e campagna devono incastrarsi l’un l’altra come dita e il paesaggio culturale deve essere concepito come un ambiente interdisciplinare: “Non ci sono parchi, né fattorie, né terre selvagge inesplorate. Ogni pezzo di terra ha coloro se ne occupano, i quali hanno il diritto di usarla se è coltivabile, o l’obbligo di curarla se è allo stato naturale. E ogni pezzo di terra è in genere disponibile per tutti, purché rispettino i processi organici che vi si svolgono”. (MS, modello 7, paragrafo 4)
La “visione” dei Villaggi Globali deve includere questo aspetto: infatti, il secondo elemento essenziale di questo progetto è l’inversione consapevole della crescita urbana e l’impegno attivo per la rete della vita di comunità opportunamente attrezzate con conoscenze, competenze e strumenti. Le conquiste della città, come la densità e la molteplicità culturale, non devono contrapporsi a questo rapporto con la natura, ma piuttosto essere conciliate in una nuova sintesi spaziale.
In un rapporto del Dipartimento per gli Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite (DESA – Department for Economic and Social Affairs) viene utilizzata l’espressione “urbanizzazione in situ” – “un modello di sviluppo rurale le cui caratteristiche essenziali permangono, mentre gli standard di vita crescono a livelli urbani”. (UN DESA 2021) In netto contrasto con lo “spopulismo” neomalthusiano – ovvero, la folle idea che il mondo sia popolato da un numero eccessivo di persone – il potenziale e la capacità del nostro pianeta sono in realtà di gran lunga superiori a quelli attualmente richiesti se cambiamo il nostro stile di vita senza perderne la qualità.
I progetti da proporre sono: nuove città piccole, città rurali, centri vitali multifunzionali e sinergici, villaggi tematici, colline urbane. Ma ancora di più: invece di continuare a raggrupparsi e a rintanarsi esclusivamente nelle macchine da guerra economiche delle città moderne, le persone dovrebbero distribuirsi in unità più piccole su tutta la superficie del pianeta, unità che per la loro concezione dovrebbero essere stazionarie, altamente sviluppate, quasi organiche, più simili alle piante, una sorta di “piante urbane”, “piante-villaggio”, legate alla terra e al sole con tecniche che ricalcano quelle delle radici e del fogliame e che, come le piante – e in comunità con loro –, sintetizzano le basi materiali della nostra vita.
Seconda prospettiva: Materia Nova
Più impariamo a conoscere i principi funzionali della natura, più la nostra tecnologia converge con gli sviluppi che l’evoluzione ha prodotto in miliardi di anni. Il futuro appartiene quindi a una tecnologia “biomimetica”, che non solo sappia usare e sviluppare ulteriormente i consolidati schemi della natura, ma sappia anche utilizzare l’enorme potenziale di risorse presente nel mondo stesso. Che si tratti di fibre tessili, di un’ampia varietà di materiali da costruzione, di superfici resistenti, di nuove forme di generazione di energia dal sole e così via, la “chimica verde” sta sostituendo la chimica fossile. Tutti i tipi di prodotti saranno realizzati con materiali biogenici utilizzando la stampa 3D per risparmiare risorse. Niente rifiuti, tutto verrà riciclato o rigenerato. L’architettura esprime in molteplici maniere questa simbiosi tra alta tecnologia e vicinanza alla natura. La serie Wunderstoffe [it. Materiali meravigliosi]11 sul canale ARTE ha dato un assaggio di questa molteplicità, indagando sui materiali che hanno il potenziale per rivoluzionare il nostro modo di costruire e di vivere: dal “cemento pensante” al “legno trasparente”, fino all’immenso potenziale della canapa, dei funghi, dei ponti viventi e molto altro ancora.
Il risultato è una simbiosi tra uomo e natura, una nuova forma di paesaggio culturale senza precedenti. La vecchia separazione dalla “natura selvaggia” viene meno. Diventiamo tutt’uno con il mondo vivente che ci sostiene e nutre. Questa nuova comprensione forgia anche la nostra interazione con esso. Modelliamo il nostro ambiente in modo consapevole, come parte di una rete vivente più ampia. In questo modo, possiamo trasformare l’intero pianeta in un unico paesaggio culturale umano-naturale, che generi un rapporto molto più completo tra infrastrutture umane e naturali – e quindi esprima anche sempre l’unicità dei luoghi, il genius loci.
Terza prospettiva: tecnica
Non si sottolineerà mai abbastanza quanto la “società cibernetica”, cioè le tecnologie digitali che attualmente sono nelle mani di un’alleanza scellerata tra il dominio dello Stato e il capitale privato, dovrebbe essere liberata da questo dominio e sviluppata in una forma completamente diversa, affinché la “Visione” dei Villaggi Globali possa diventare realtà. La digitalizzazione è essenziale a tal fine per tre motivi:
-innanzitutto, mette in connessione fra di loro persone in tutto il mondo per quanto riguarda lo scambio di conoscenze, l’innovazione e la collaborazione. Le piattaforme digitali e le reti di sviluppatori consentono di condividere idee e progetti a livello globale. Sono un archivio di possibilità e progetti in continua evoluzione. Contengono idealmente il risultato complessivo di tutto il lavoro umano, incluso il lavoro sul lavoro, i processi e le procedure. Sono quindi anche la base dell’apprendimento e dell’educazione. Proprio come ogni villaggio aveva in precedenza una chiesa nel centro, la tecnologia digitale sta costruendo un edificio di accesso alla conoscenza globale, a tutte le possibilità e prospettive culturali. Il “Villaggio Globale” è caratterizzato anche da questi luoghi di accesso e apprendimento.
-La digitalizzazione consente una produzione decentralizzata attraverso la fabbricazione digitale e la stampa 3D. Oggetti complessi possono così essere prodotti in loco, inseriti in processi rigenerativi dei materiali, completamente emancipati dalla costante accelerazione dell’industria e così considerati all’interno di una struttura temporale che privilegia la qualità. Miriadi di “semi” biomimetici sostituiranno metaforicamente le catene di montaggio e le tecnologie biologiche e digitali cresceranno insieme12. La tendenza al decentramento della generazione di energia solare e delle tecnologie correlate è un prerequisito indispensabile per questi sviluppi.
-La simulazione digitale permette anche di mappare un ciclo complesso di tutti i processi materiali ed energetici in loco, che non serve solo a fornire una visione d’insieme e un controllo, ma anche e soprattutto ad armonizzare le possibilità esistenti con le esigenze umane e tutti i possibili requisiti strutturali. Il denaro come medium dello scambio sociale e il valore come artefice dell’ignorarsi reciproco possono scomparire solo quando i cicli saranno mappati e discussi ex ante e la comunicazione globale prenderà il posto del mercato. Ciò vale anche se questa comunicazione viene determinata in modo decisivo dalle dimensioni e dalla flessibilità delle unità sociali in cui e tra cui si svolge. La vita come processo costante di adattamento, che sempre si rinnova, e di creazione di affidabilità. Qualunque sia il futuro dell’intelligenza artificiale, questo sarebbe probabilmente il posto più sensato per essa.
Quarta prospettiva: il sociale
Come sappiamo, le nostre società attuali non sono il risultato della libera associazione, bensì della crescita esplosiva di stili di vita sedentari in una megamacchina globale, in cui i vincoli sociali si sono storicamente sviluppati e perfezionati in una competizione di apparati di potere. La storia dell’umanità è stata finora caratterizzata per la crescita di enormi agglomerati, senza riguardo per le conseguenze.
Ora, per la prima volta, la tecnologia apre la possibilità di scegliere consapevolmente modi di vita su piccola scala e più legati alla natura, correggendo così gli errori del passato. Ma “piccola scala” non significa necessariamente riprendere le tradizionali restrizioni delle società originarie. Al contrario, il principio dei “Villaggi Globali” prevede la scelta per affinità. La rete, che abbraccia tutto il mondo, crea le basi per l’incontro di persone che la pensano allo stesso modo13. Sono sempre più numerosi i tentativi di comprendere il funzionamento di questo “mondo olarchico”14 basato su gruppi gestibili. Anche se, a causa della “grande implosione”, possiamo lavorare nel piccolo nelle nostre società, anche se mettiamo in discussione la parentesi violenta degli Stati nazionali, abbiamo comunque bisogno di una pienezza di accordi non solo regionali, ma globali. Un mondo altamente connesso di infrastrutture interconnesse ci ha messo di fronte per la prima volta a possibilità di interazione completamente nuove, allo stesso modo in cui siamo riusciti a vedere per la prima volta le immagini del nostro pianeta dallo spazio. La conservazione e l’espansione di queste infrastrutture di comunicazione e cooperazione globale, escludendo qualsiasi dominio culturale o politico mascherato da tecnologia, dovrebbe quindi essere il primo interesse vitale di ogni singola comunità, indipendentemente dal suo grado di autonomia. Siamo un organismo planetario, che ci piaccia o no.
La Svizzera, che a suo tempo non aveva bisogno di una cultura o di una lingua comune per lottare per la propria indipendenza dalle grandi potenze, potrebbe essere un esempio di riferimento per questa unione volontaria di piccole unità. E per quanto riguarda la struttura del processo decisionale, la ruota della medicina indiana, ad esempio, ci insegna a fare degli opposti e delle polarità il punto di partenza per l’integrazione piuttosto che il gioco della maggioranza e della minoranza.
Aumentare le competenze di tutti massimizzandone l’indipendenza sarebbe il principio guida della nostra visione.
Quinta prospettiva: cultura e senso
Christoph Spehr era stato inizialmente criticato per non aver risolto la contraddizione tra libertà di andarsene e necessità dell’esistenza di una cooperazione affidabile. Nella visione dei Villaggi Globali, questo paradosso irrisolto è il punto di partenza per richiedere la coesistenza del maggior numero possibile di culture vissute e vivibili, tra le quali gli individui possano “votare con i piedi”15. Nessuno appartiene a una sola cultura, eppure lasciare una cultura ha senso solo entrando in un’altra. Realizzare e manifestare questo in spazi diversi sarà probabilmente la nostra più grande ricchezza planetaria. E la soluzione al vecchio enigma filosofico della libertà e dell’uguaglianza.
Sesta prospettiva: evoluzione
Molte domande rimangono senza risposta. Una di queste: Si tratta di un invito alla stagnazione? Che ne è dell’espansione nello spazio, delle fasi di civiltà di Kardashov16 e simili? La mia risposta secca: dovremmo fare i compiti di umanizzazione sul nostro bel pianeta, invece di portare le assurde contraddizioni del nostro sistema sociale in uno “sgradevole” mondo. Tuttavia, questo pianeta è troppo fragile perché noi come umanità possiamo rinunciare completamente a proteggerlo dai vari pericoli, non ultimi quelli provenienti dallo spazio, per prevenire i quali non sarebbe male uno sforzo comune.17 Ed è un bene che ci siano gruppi affini e vocati per questo tipo di problematiche.
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