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collettivomillepiani

Città-merce e lotta di classe in Walter Benjamin

di Jacques Bonhomme

marcbertrandofficetourismeparis.pngElles ont pâli, merveglieuses,
Au grand soleil d’amour chargé,
Sur le bronze des mitrailleuses
Ā travers Paris insurgé!

Sono impallidite, meravigliose,
nel gran sole carico d’amore,
sul bronzo delle mitragliatrici
attraverso Parigi insorta!

Arthur Rimbaud, Le mani di Jeanne Marie

Nel XIX secolo, le città occidentali divengono lo spazio di amplificazione e di espressione della grande industria capitalistica, il contesto sociale in cui essa raduna e distribuisce i proletari e in cui forgia, attraverso le merci e il consumo, un mondo sociale per i diversi strati della borghesia, modellandone costumi, gusti e ambizioni, e spartendo le tipologie di questi, nonché i mezzi di accesso alle loro condizioni, secondo le gerarchie, più o meno fluide, delle ricchezze e del prestigio. La cosiddetta agglomerazione fece grandi balzi, accrescendo una migrazione rurale che già nel secolo precedente aveva mutato l’aspetto delle città attraverso l’ingrossamento dei sobborghi. Nel XIX secolo la fabbrica segnò il cupo avvenire delle città che, per concomitanti circostanze ambientali e legislative, erano precocemente divenute centri industriali, ma l’irruzione delle fabbriche nelle aree urbane non si limitò ai luoghi che avevano già subito le sconvolgenti alterazioni della contiguità tra miniera e opificio, passato dall’energia idrica al carbone. Tutto il secolo è risucchiato da questa tendenza, e la moltiplicazione degli slums ne è una manifestazione ricorrente e massiccia. Infatti, la fabbrica riduce l’ambiente urbano a un materiale da produzione, facendo ruotare uomini e cose intorno ai suoi scambi con la società che la circonda e che, nei giochi prospettici del panoptismo, si fonde con essa. Fabbriche, ferrovie e slums si avvolgono, allora, in un’unica trama.

“I principali elementi del nuovo complesso urbano erano la fabbrica, la ferrovia e lo slum […] La fabbrica divenne il nucleo del nuovo organismo urbano. Ogni altro elemento le era subordinato. […] La fabbrica si accaparrava di solito le posizioni migliori: le industrie cotoniere, chimiche, siderurgiche sceglievano siti non lontani da una banchina […]. La trasformazione dei fiumi in vere e proprie fogne fu una delle tipiche imprese della nuova economia. Conseguenze: avvelenamento della vita acquatica, distruzione di alimenti, inquinamento delle acque […]”i. Fabbrica e ferrovia sono già un anello territoriale del processo capitalistico di scambio, in quanto congiungono produzione e circolazione, anche se Mumford ne addebita i misfatti soprattutto agli ingegneri: “ per i nuovi ingegneri ferroviari […] il movimento dei treni era più importante degli oggetti umani che tale movimento permetteva di raggiungere. Lo spazio sciupato dai parchi di smistamento nel cuore della città non fece che incoraggiare la sua ulteriore espansione in larghezza, fatto questo che, incrementando il traffico ferroviario, rimunerava con maggiori profitti i misfatti così compiuti”ii. Se la fabbrica era il motore dell’agglomerazione, la ferrovia spingeva sempre più lontano i confini dei sobborghi, incoraggiando speculazioni sempre più grandi e allestendo la logistica della guerra senza quartiere che la borghesia stava combattendo contro il proletariato urbano, una guerra di cui la città sarebbe stata per entrambe le classi sia il teatro che la meta, durante la lotta di classe di tutto un secolo. Ma la città che meglio e di più ha mostrato questa vicenda è stata, com’è noto, Parigi.

L’esplosione urbana della lotta di classe, nelle sue forme più radicali e decisive, ha trovato, nella Parigi del XIX secolo, tutte le condizioni – antefatti storici, gestione amministrativa delle “classi pericolose”, stretta prossimità spaziale tra borghesia e proletariato, fermenti di idee e associazioni operaie – per una propagazione multiforme. Parigi, dopo la rivoluzione del 1830, raccoglie l’eco della sollevazione dei canuts di Lione, nella quale artigiani e operai sono ancora collegati in residui di corporazioni, ma preannuncia l’Europa del XX secolo, preannuncia Pietroburgo, Berlino, Torino o Barcellona. Insurrezioni e urbanistica, nelle loro reciproche inversioni ed elusioni, ridisegnano continuamente l’immagine di Parigi. Benjamin ha raccolto le testimonianze di questo avvicendamento: “Ragione del rischiaramento prospettico della città. Una interpretazione contemporanea della costruzione delle grandi strade sotto Napoleone III le definisce come ‘non più adatte alla tattica abituale delle insurrezioni locali’ […]. ‘sfondare questi quartieri abituali dei moti’ dice il barone Haussmann in uno scritto in cui chiedeva il prolungamento del boulevard de Strassbourg fino a Châtelet’. […] ‘Lastricano Parigi col legno per sottrarre alla rivoluzione la materia prima. Non si possono più fare barricate con le assi di legno’. […] Per capire che cosa ciò significasse, basta pensare che nel 1830 furono erette seimila barricate”iii. E’ il barone Haussmann che, scatenando la calca degli speculatori sui terreni, degli immobiliaristi e delle borse, fa della Parigi del Secondo Impero una città da “tenere in pugno con le mitragliatrici”iv. Tuttavia, il XIX secolo non evitò ad Haussmann la replica della Comune. “Uno dei significati della Comune di Parigi […] fu il ritorno in massa verso il centro urbano degli operai cacciati nei sobborghi e nelle periferie, la loro riconquista della città, di quel bene particolare, insieme valore e opera, che era stato loro sottratto”v. Se qui Henri Lefebvre attribuisce ai comunardi un’azione collettiva di tale spessore storico, simbolica perché abituale, la ragione indiretta, paradossale e negativa, di questo giudizio risiede nella sua ammirazione di una ostinata renitenza del proletariato parigino, che non cadde nel tranello paternalistico dei filantropi, desiderosi di vederlo “borghesemente” ben accomodato nei sobborghi in cui veniva brutalmente trasferito. Infatti, il tentativo di disperdere il proletariato nelle periferie, intrapreso, non di rado, in nome di filantropiche imprese di moralizzazione proprietaria delle “classi pericolose”, fu il complemento umanitario della haussmannizazione di Parigi, un lato altrettanto decisivo delle strategie urbane della borghesia. I nuovi sobborghi dovevano erodere la massa combattiva del proletariato urbano e spezzettarlo in abitazioni di proprietà, in un isolamento che prefigurava “ruoli diversi da quelli legati alla condizione di produttori salariati”vi. I produttori salariati erano incamminati, dopo qualche decennio di Terza Repubblica, verso lo status di aristocrazie operaie, ma se in precedenza questa situazione non aveva impedito il ritorno dei comunardi, il resto del secolo e l’inizio del Novecento, pur facendo tramontare la Parigi delle barricate, spesso nell’assordante rumore della piccola borghesia nazionalista, lasciarono sulla scena lo sciopero insurrezionale di Sorel. Tuttavia, le periferie dei filantropi come Le Play furono il primo passo verso una riconfigurazione politica e culturale dell’assetto urbano, una riconfigurazione in cui la città-merce cominciava a intaccare la coscienza di classe proletaria: “Con la periferizzazione inizia un processo di decentramento della città. Allontanato dalla città, il proletariato finirà col perdere il senso dell’opera. Allontanato dai luoghi di produzione e costretto a muoversi dal luogo di residenza per raggiungere i centri produttivi sparsi sul territorio, il proletariato lascerà assopire nella propria coscienza la capacità creativa”vii. Le tinte elegiache di questo rammarico per il prosciugamento urbano della creatività operaia, nulla tolgono all’intuizione di Lefebvre: la periferia valorizza il capitale attirando fiumi di denaro e annulla il proletariato rinchiudendolo nella piccola proprietà.

Con la Comune, il proletariato parigino strappa lo spazio urbano, sempre più sospeso fra i lussi del consumo borghese e il disordine delle povertà, alla morsa economica, alle strategie repressive e vendicative e alla spettacolarizzazione panoramica della città, nel crogiuolo della quale la grande e la piccola borghesia si erano compiaciuti dei propri successi. Poeti, scrittori, rivoluzionari internazionalisti, artisti, uomini come Pottier, Lafargue o come il pittore Courbet, progettano un ambiente urbano dove l’educazione possa unirsi al piacere, dove il lavoro sia liberato dalla fatica e dove l’arte riesca a inserirsi nella vita sociale. “Se ci liberassimo della ‘tassa di spreco’ che finanzia l’attuale sistema di classe, porremmo fine contemporaneamente alla povertà annidata nella sovrapproduzione oltre che a tutte quelle false dicotomie che separano l’uso pratico dal bello, il funzionale dal poetico, ciò che è utile da ciò che è prezioso”viii. Ma la Comune immerse queste imprese nei vecchi ideali del radicalismo giacobino, e così non riuscì a sottrarre il proletariato ai sogni politici del citoyen. “La Comune – ha scritto Benjamin – si sentì diretta erede del 1793”ix. I simboli e le forme pubbliche dell’epopea sanculotta vengono naturalmente rifiltrati e impregnati di una coscienza sociale scaturita da nuovi drammi di classe, da una coscienza trascinata e travagliata nel moto pendolare di territorializzazioni punitive e di sradicamenti filantropici, e resistente alla sempre più pervasiva penetrazione della merce nei rapporti sociali; ma le rappresentazioni ideologiche del Terzo Stato continuano a ipotecare le prospettive di un proletariato attirato da un crogiuolo di idee eterogenee e contrastanti, in un tumultuoso avvicendarsi di blanquismo e di proudhonismo, di anarchismo e di fourierismo. Così il citoyen dei comunardi compie le sue rotture senza pregiudicare un ruolo. “Citoyen e citoyenne riassumono […] un soggetto definito da una serie di mancate identificazioni – con lo Stato, l’Impero, la polizia e il mondo delle cosiddette honnêtes gensx. Tuttavia, il bagno di sangue della Comune e il teatro di guerra cittadino in cui avvenne, con la tenaglia degli eserciti della borghesia intorno alle barricate proletarie, e con le scalinate e i marciapiedi trasformati in mattatoi dei comunardi dalle truppe di Thiers, mutarono, insieme, Parigi e il proletariato.

Se i boulevards di Haussmann non impedirono il sorgere delle barricate, le mitragliatrici del governo di Versailles, al contrario, fecero a pezzi, insieme ai corpi dei difensori della Comune, il feticismo delle libertà borghesi, la cui “fantasmagoria” sopravviveva nelle classi sfruttate. Il rivolgimento della coscienza di classe che ne derivò fu decisivo: “la Comune mette fine alla fantasmagoria che domina la libertà del proletariato. Essa dissolve l’apparenza che sia compito del proletariato condurre a termine, in collaborazione con la borghesia, l’opera dell’89. Questa illusione domina l’epoca dal 1831 al 1871, dalla rivolta di Lione fino alla Comune. La borghesia non ha mai condiviso questo errore. La sua lotta contro i diritti sociali del proletariato comincia già nella grande Rivoluzione e coincide col movimento filantropico che la maschera e che raggiunge la sua massima espansione sotto Napoleone III. [...] Se è la disgrazia delle prime rivolte operaie che nessuna teoria della rivoluzione mostri loro la via, è questa anche la condizione della forza immediata e dell’entusiasmo con cui essa – la classe operaia – si accinge alla creazione di una nuova società”xi. In questa dialettica storica del cosciente e dell’incosciente all’interno della praxis collettiva proletaria, nel riemergere di essa dalla dissoluzione delle suggestioni ideologiche delle libertà borghesi – i diritti delle Dichiarazioni del XVIII secolo come suggello della libertà dei proprietari -, Benjamin rintraccia l’atmosfera semimitica da cui il risveglio sociale può trarre la sua dirompenza rigeneratrice, quale rivolgimento capace di incorporare l’accecamento spezzato e riscattato del passato in un’immagine di emancipazione presente. Allora, la città capitalistica come ambiente umano modellato dalla circolazione delle merci, e quindi, per dirla ancora con Benjamin, come “città onirica”, comincia a subire i contraccolpi dei risvegli che le lotte di classe provocano in tutti i suoi elementi urbanistici, dalle gerarchizzazioni topografiche al prestigio delle architetture, dall’inquadramento spaziale degli uomini e delle funzioni alla ritualizzazione del “tempo unificato” del “mercato mondiale” negli “spettacoli”xii e nel turismo. La Comune e, dopo di essa tutti gli avvenimenti rivoluzionari urbani del Novecento, hanno mutato le misure, i ritmi, la topologia, le espressioni simboliche e soprattutto le articolazioni tattico-strategiche dello scontro di classe e dei rapporti di classe nella città, di una città che in seguito, e invertendo le tendenze, i dispositivi di concentrazione di uomini e di capitale hanno spinto verso il conurbamento e verso il gigantismo metropolitano. Nella Parigi del XIX secolo, le periferie che assorbirono gli operai sottrassero loro la “strada” e, con essa, un territorio propizio alla mobilità dei gruppi, alla contiguità tra cospirazione e azione di massa, alle confluenze tra educazione politica e nomadismo, alle mescolanze tra proletariato e sottoproletariato; in breve, le periferie bloccarono le de-territorializzazioni che avevano veicolato le precedenti rivoluzioni. Paul Virilio ne ha scorto gli esiti: “La strada [rue], come la via [route] che la prolunga, è un precipizio in orizzontale, una terra bruciata, un pendio propizio a tutti gli assalti. Di qui la differenza di natura tra l’antica barricata e lo sciopero, lo sciopero generale, questa inerzia passeggera che altro non è se non la forma di una disperazione verso il progredire … Mentre un tempo si ostruiva la via di comunicazione per mostrare il proprio dissenso, praticando il “clamore” – un urlo collettivo che segnalava al signore il malcontento dei suoi sudditi -, con il sindacalismo e la stampa si fa il vuoto e si tace in attesa della manifestazione, del corteo che sfila dalla Bastiglia a Nation, o viceversa”xiii. Per quanto questo quadro faccia svanire dall’epoca lo sciopero generale insurrezionale di Sorel, che del resto guardò più alla fabbrica che alla strada, e sorvoli sull’incubazione urbana di alcune Rivoluzioni della prima metà del Novecento, tuttavia anticipa la cattura riformistica dell’antagonismo operaio. Questa cattura è avvenuta anche attraverso produzioni e contrazioni di spazio, attraverso la riproduzione, sempre più ramificata e sempre più intensa, dei rapporti di produzione capitalistici come produzione di spazio.

Questa produzione di spazio fa della città il punto di confluenza delle correnti di denaro capitalistico trascinate nel moto perpetuo dell’auto-valorizzazione del capitale. Così, la città produce lo spazio del capitale consumando lo spazio sociale della vita collettiva, erodendo il tessuto connettivo delle relazioni comunitarie; la città produce lo spazio come valore di scambio neutralizzando lo spazio come valore d’uso. La strada si estingue come nodo di esperienze storiche proprio in questo assorbimento urbanistico dello spazio nell’economia politica, e trascina nella sua fine quella della classe che nella strada aveva vissuto le proprie peripezie, che vi aveva lasciato i segni del proprio passaggio, tra sofferenza e rivolta. “Lo sforzo di tutti i poteri costituiti dopo le esperienze della Rivoluzione francese, per accrescere l’ordine nelle strade, culmina infine nella soppressione della strada”xiv. Il rovescio di questa distruzione, l’ambizione in cui essa si rispecchia, è l’urbanistica della merce, l’allestimento della città-merce. Guy Debord ne ha afferrato il tratto storico: “l’urbanistica è questa presa di possesso dell’ambiente naturale e umano da parte del capitalismo che, sviluppandosi conseguentemente in dominio assoluto, può e deve ora rifare la totalità dello spazio come suo proprio scenarioxv. Nella Parigi del XIX secolo, grande laboratorio delle tecniche pubblicitarie e del consumo scenico, questo insediamento trionfale della borghesia in tutti i concatenamenti e in tutte le stratificazioni della storia urbana, si è espresso nella “pseudo-naturale” convergenza fra le immagini astrali del disegnatore Grandville - dove “la via Lattea diventa una avenue notturna illuminata da candelabri a gas” e la luna si “adagia tra cuscini di peluche all’ultima moda”xvi - e l’esplosione delle grandi esposizioni universali, che immettevano le merci industriali e le merci coloniali in un’atmosfera di festa popolare, riportata in auge con gli artifici della réclame. La trama è economica e culturale al tempo stesso: la produzione capitalistica si riproduce, al livello della circolazione delle merci, come psicologia di massa. Questo intrico di elementi è stato preannunciato da Parigi e ha fatto di Parigi la capitale del XIX secolo. Il materialismo storico di Benjamin ne ha inseguito le vertiginose giravolte, fino alle più travolgenti avanzate della merce nel desiderio delle masse: “Le esposizioni universali sono luoghi di pellegrinaggio al feticcio merce. […] la classe operaia è in primo piano come cliente. L’ambito dell’industria dei divertimenti non si è ancora formato. Esso fa tutt’uno con la festa popolare. […] L’intronizzazione della merce […] è il tema segreto dell’arte di Grandville. A ciò corrisponde il dissidio fra l’elemento utopico e l’elemento cinico di essa. […] Sotto la matita di Grandville la natura intera si trasforma in spécialités. Egli la presenta nello stesso spirito in cui la rèclame – anche questa parola sorge in questo periodo – comincia a presentare i suoi articoli. Finisce pazzo”xvii. La città conquistata dal capitale diviene spettacolo.

Lo spettacolo proietta la merce nel movimento storico, riemergente in scale di crescente intensità, della mondializzazione capitalistica, ma il suo carattere precipuo è quello della obliterazione illusionistica della produzione dalla quale proviene, e quindi della duplicazione, attraverso le sue fantasmagorie, dello sfruttamento del lavoro asservito al valore di scambio. Pertanto, la spettacolarizzazione del consumo, o il consumo che si mercifica in spettacolo, mette in sequenza, per le masse lavoratrici, due alienazioni: “il consumo alienato diventa per le masse un dovere supplementare che si aggiunge a quello della produzione alienata. E’ tutto il lavoro venduto di una società che diviene globalmente la merce totale il cui ciclo deve proseguire senza posa”xviii. Senza lo spettacolo, sul quale insiste qui Debord, il consumo privato, il consumo irriducibile ai bisogni, girerebbe esclusivamente sui passatempi, sugli oggetti rari e di lusso e sugli ambienti raffinati delle classi possidenti e dominanti della società borghese. Con questo tipo di consumo, la “coscienza felice” della borghesia scacciava dal proprio mondo quotidiano, come incomoda e imbarazzante, l’immagine della fatica, della privazione e dell’alienazione delle classi lavoratrici, e, inoltre, con questo tipo di consumo, tale “coscienza felice” respingeva dalla vista dei salotti degli “uomini per diritto divino” la città proletaria, i “sottouomini” della fabbrica e dei sobborghi, ai quali, del resto, “il feticismo della merce” avrebbe nascosto le pene dell’indigenza, per preparare il loro ingresso nel consumo di massa. Guardando nel “gran mondo” di Proust, Benjamin vi ha scorto tutta un’ideologia del consumo borghese, di un consumo che nell’artificio raffinato dei suoi riti e delle sue etichette, negli stemmi nobiliari e nelle rendite, mirava a cancellare le tracce della produzione della ricchezza goduta, dello sfruttamento di classe mostrato crudamente dalla produzione di quella ricchezza. Il “puro consumatore è il puro sfruttatore. Lo è in senso logico e teorico, lo è, in Proust, in tutta la concretezza della sua esistenza storica attuale. E’ un’esistenza concreta perché impenetrabile e inafferrabile. Proust descrive una classe che è in ogni sua parte obbligata a dissimulare la sua base materiale, e appunto per questo ha adottato i modi e l’aspetto di un feudalesimo che, privo in se stesso di significato economico, può tanto meglio fungere da maschera per la grande borghesia”xix. Siamo ben lontani, in queste parole, dal signore hegeliano, dove il consumo derivava dalla conquista militare antica, in uno sfondo di penuria e in un mondo pre-capitalistico, e siamo lontani anche dall’ostentazione come segno di prestigio, attribuita da Veblen a limitate cerchie di speculatori nordamericani; siamo lontani da tutto ciò perché qui il consumo è mediato dalla produzione industriale capitalistica, non soltanto come sua specifica fonte materiale ma anche come sua coscienza rimossa. Una tale costruzione ideologica riposa sui processi sociali della città-merce, nei quali si formano i luoghi e le forme del consumo, con le ripartizioni materiali, spaziali e simboliche della loro acquisizione e della loro esposizione. Così, nel XIX secolo, mentre la borghesia, sviluppava a partire dalla moda dell’intérieur e del collezionismo - ammiccanti surrogati abitativi della natura e della storia - il suo parco di consumi, per giungere, in seguito, alle carrozze e ai servitori schierati in parata, il proletariato veniva circondato dalla magnificenza trionfale dei prodotti e della macchine della grande industria. “Le esposizioni universali erano le scuole in cui le masse escluse apprendevano l’empatia col valore di scambio”xx, e, contemporaneamente, le “esposizioni dell’industria” divenivano “il segreto schema di costruzione dei musei”xxi. Lo spettacolo si insedia come categoria antropologica del processo di scambio, nel quale il capitale compie tutte le sue finzioni. “Lo spettacolo è l’altra faccia del denaro: equivalente generale di tutte le merci”xxii. La città-merce, riproducendosi in città-spettacolo, riconfigura senza sosta, e in sempre nuove fantasmagorie, il campionario del consumo capitalistico.

Il centro di gravità capitalistico della moderna vita urbana non è sfuggito a Simmel, che però ne ha alterato il carattere attraverso un’astrazione evasiva. Infatti Simmel ha fatto ruotare la città – da lui chiamata “grande città” (Groβstadt) – su una fantomatica economia monetaria, talmente priva di contenuti storici da ridursi ad un solo tratto distintivo: l’asimmetria tra i meccanismi sovrapersonali operanti nelle strutture e i rapporti diretti e personali di clientela, ormai residuali nel contesto della moderna metropoli. In uno stampo del genere entrano subito elementi sociologici costanti e componibili: “l’esattezza calcolatrice della vita pratica che l’economia monetaria ha generato”xxiii, “l’intensificazione della vita nervosa, […] prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori”xxiv e la trasformazione della “lotta con la natura per il cibo in una lotta per l’uomoxxv, ossia per la specializzazione concorrenziale delle capacità lavorative. L’alienazione, in queste rappresentazioni, circolari e categoriali al tempo stesso, muta nei suoi rapporti, nelle circostanze e nei suoi molteplici aspetti, confermandosi però attraverso un sottofondo di forme immutabili. Infatti, il calcolo, lo scambio e le burocrazie appaiono come i pezzi meccanici della forza d’urto psico-sociale della “metropoli”xxvi; ma la metropoli, riversandosi nella personalità dei suoi abitanti, dai quali è del resto presupposta, e quindi investendo la loro personalità con le dure sollecitazioni della massificata oggettività delle tecniche, sviluppa negli uomini tratti caratteriali specifici, come l’annoiata impassibilità dell’individuo blasé. La società borghese, smussata e relativizzata in categorie sociologiche, diviene allora il segno identificativo della modernità, così come il denaro sovraordinato al processo capitalistico di produzione, attraverso la dissoluzione di tutti i rapporti sociali nell’uniformità delle equivalenzexxvii, diviene un demiurgo capace di mutare l’individuo atomizzato in un soggetto indipendente. Di conseguenza, l’intérieur della dimora borghese finisce per coincidere con l’indipendenza “spirituale” vagheggiata da Simmel. La teoria critica di Adorno ha riconosciuto e smascherato la natura sociale di entrambi: “Nel mondo reificato delle grandi città, […] l’interiorità è la prigione storica della creatura umana preistorica” e “[gli abitanti], […] in quanto ‘funzionari’ dell’ordine, non sono che cose e caricature”xxviii. La preistoria è la cifra di un isolamento umano che riporta il mito all’interno della Zivilisation capitalistica, ma nessuna metropoli moderna ha potuto ridurre tutti i suoi abitanti nella deplorevole condizione di cose o di caricature. Infatti, le vicissitudini della lotta di classe, verso la quale Adorno si è sempre mostrato reticente, agiscono potentemente sugli effetti delle merci.

Nella grande città, l’esperienza quotidiana che riempie il tempo di vita degli abitanti e provoca in essi le reazioni più intense, trasformandole di rimando in abitudini reattive, è quella dell’individuo nella folla, o della folla che semina il panico in se stessa, che risucchia in un girotondo ossessivo l’individuo spaventato dalla massa e la massa temuta e perturbante. Questa esperienza è un avvenimento traumatico continuamente ripetuto e continuamente fronteggiato, sconvolgente e adattativo al tempo stesso, uno choc. Benjamin ha dato a questo choc sociale la sua espressione storica, ricercandone le tracce e le figure collettive, raccogliendone i dispersi frammenti e condensandone le manifestazioni in un paesaggio urbano gremito di pericoli e di nascondigli, agitato e proteiforme, lacerato e riunito dal movimento contraddittorio delle sue forze tecniche, economiche e antropologiche. In un mondo simile la merce può facilmente trapassare nella rivoluzione. Lo choc, quale ferita originaria di un carattere sociale da essa costituito, trascorre dai passatempi della massa metropolitana al tempo calcolato della fabbrica e viceversa, e i padiglioni meccanici e luminosi del divertimento risucchiano il lavoratore salariato nella ripetizione senza fine di quell’asservimento alle macchine iniziato molto tempo prima dell’automazione taylorista. La città capitalistica, tra Ottocento e Novecento, ha modellato i gesti e le abitudini dei suoi abitanti sulla falsariga del lavoro estraniato: “L’operaio non specializzato è quello più profondamente degradato dal tirocinio della macchina. Il suo lavoro è impermeabile all’esperienza. […]. Ciò che il lunapark realizza nelle sue gabbie volanti e in altri divertimenti del genere non è che un saggio del tirocinio a cui l’operaio non specializzato è sottoposto nella fabbrica”xxix. Del resto - nell’ambiente metropolitano in cui Benjamin spiava la sintomatologia dello choc - il lavoro salariato rispunta ovunque e riappare nelle mosse guardinghe e stereotipate del passante come nel tempo serializzato dei rilanci senza scopo del giocatore. “All’esperienza dello choc fatta dal passante nella folla corrisponde quella dell’operaio addetto alle macchine. […] Allo scatto nel movimento della macchina corrisponde il coup nel gioco d’azzardo. L’intervento dell’operaio sulla macchina è senza rapporto col precedente proprio perché ne costituisce l’esatta ripetizione. Ogni intervento sulla macchina è altrettanto ermeticamente separato da quello che lo ha preceduto quanto un coup della partita d’azzardo dal coup immediatamente precedente; e la schiavitù del salariato fa, in qualche modo, pendant a quella del giocatore”xxx. Il tempo-merce favorisce questi rimandi, accomunando, in un’alienazione bifronte, le differenze, tanto irriducibili quanto convertibili, tra il tempo omogeneo del plus-lavoro operaio e il tempo adulterato del consumo, del quale il tempo come stupefacente della frenesia del giocatore è un’immagine adeguata. La città capitalistica, dove il gioco d’azzardo si amplifica nella speculazione della borsa, è la fluttuante marea di queste trasformazioni. Nel XIX secolo il “gioco in borsa scaccia le forme del gioco d’azzardo ereditate dalla società feudale. […] Il gioco trasforma il tempo in uno stupefacente. Lafargue interpreta il gioco come una riproduzione in piccolo dei misteri della congiuntura”xxxi.

Nessuna situazione umana tipicamente cittadina annuncia la grande metropoli del XX secolo con maggiore intensità e drammaticità dello choc. In questa metropoli, avviluppata nelle reti dei nuovi strumenti di comunicazione, di trasporto e di erogazione energetica, avviluppata in una città parallela che Mumford ha chiamato “città invisibile”xxxii, e dove le tecnologie industriali scaturite dalle concentrazioni capitalistiche del primo Novecento fanno di uno spazio urbano sempre più impersonale e inespressivo, il “serbatoio naturale del capitale”xxxiii, in una tale condizione metropolitana gli abitanti sono esposti in ogni momento a un oscuro sentimento di timore, al trauma anticipato per pericoli sconosciuti. Da ciò provengono gli sfoghi deviati e sostitutivi di una latente aggressività, sempre ridestata e costantemente canalizzata dall’industria dello spettacolo, con la quale la merce perviene “all’occupazione totale della vita sociale”xxxiv. Lo choc allora ritorna impacchettato da merce culturale e ben filtrato dalle funzioni della riproduzione sociale, al punto che Benjamin può ritrovarlo nei film di Disney, laddove la complicità fra comicità e terrore nel “riso collettivo” porta a galla collusioni sfuggenti tra americanismo e fascismo: “Il tetro incantesimo del fuoco, per il quale il film a colori ha creato i presupposti tecnici, sottolinea un tratto che finora si manifestava solo velatamente e mostra con quale facilità il fascismo si appropria delle innovazioni ‘rivoluzionarie’ anche in questo campo. Quanto emerge alla luce dei più recenti film di Disney, in realtà è già presente in alcuni film precedenti: è la tendenza ad accettare tranquillamente la bestialità e l’atto violento come fenomeni concomitanti dell’esistenza”xxxv. Insieme alla violenza sublimata in comicità, emerge qui, l’armamentario tecnico della comunicazione di massa, incorporato nella forma merce e impiegato dal fascismo come un potente mezzo di mobilitazione delle masse. Il fascismo, infatti, ha intercettato, disarticolato e modulato nei propri miti arcaizzanti un sommovimento storico scatenato dalla città e dall’industria, e del quale la guerra mondiale imperialista era stata il detonatore. Ma al successo di questa cattura fascista delle masse ha dato impulso, e Benjamin vi insiste, l’estetizzazione del mondo meccanizzato dilagante dai libri dei poeti e degli scrittori nazionalisti. Ed ecco allora Ernst Jünger: “E’ lo spettacolo di un movimento sempre più intenso che procede con impersonale durezza. […] [Esso] sospinge l’una dopo l’altra, in catena di montaggio, masse meccaniche il cui flusso sempre uguale si regola mediante segnali costituiti da rumori e da accensioni di luci. […] Questa impressione si rafforza in certe ore nelle quali il movimento raggiunge un’intensità di orgia che stordisce ed estenua i sensi. […] Non ci si raduna in folla, ma ci si schiera in sfilata”xxxvi. In questo caso non è il comico a scongiurare lo choc e a normalizzare il terrore, ma è il terrore stesso a divenire narcotizzante attraverso la propria trasfigurazione palingenetica, attraverso una replica mimetica delle forze e delle forme di un tempo sconvolto. Jünger fabbrica il fascismo interpretandolo.

Fascismo e democrazie parlamentari, nelle loro transazioni e nelle loro transizioni dall’uno all’altra, nei loro movimenti reciproci, inseparabili dagli slittamenti e dalle ricomposizioni dei blocchi dominanti capitalistici, hanno fatto affidamento sulla stessa massa sociale, la cui genesi intricata, più o meno ricorrente, ha spesso coinciso con una lunga storia che alcune teorie dell’inconscio hanno cercato di sbrogliare. Tuttavia, il loro campo d’indagine tagliava fuori, con necessità logica, la dialettica, mentre soltanto in essa le forze profonde della società rivelate dallo choc quale sintomo di disadattamento, potevano compiere fino in fondo il loro cammino. Infatti, ad uno sguardo dialettico si toccano e si separano, per poi contrapporsi risolutamente, masse reazionarie e masse rivoluzionarie. Questa dialettica cruciale e contro-intuitiva emerge proprio dalla corrente di esperienze collettive che attraversa, generandovi attriti di ogni tipo, la città-merce e i suoi mezzi tecnici di comunicazione.

Le masse reazionarie provengono, por lo più, dalle aggregazioni che il consumo, il transito territoriale metropolitano e gli obblighi amministrativi moltiplicano senza sosta, poiché in tali confluenze temporanee gli individui scivolano lontano dai luoghi sociali della coscienza storica, scivolano fuori dalla classe. Le fantasmagorie della merce, nel turbine dei pericoli e delle evasioni della vita urbana, generano allora l’apparizionedella massa, o, per meglio dire, l’apparenza della massa, una rappresentazione pervasiva dell’auto-estraniazione degli individui sociali, una sorta di mimetica “identificazione con l’aggressore” che nasconde loro la realtà della classe. Pertanto, il punto di vista di classe, attraverso il quale la situazione contingente assumerebbe le dimensioni e i colori del tempo storico, annega in una percezione del mondo stregata dalla città-merce, in un nunc stans del capitalismo metropolitano.

Soltanto “il proletariato rivoluzionario, che distrugge l’apparenza della massa attraverso la realtà della classe”, può opporsi “al dissolvimento pieno e senza residuo” dell’individuo “in una massa di utenti”xxxvii. In questo rovesciamento dialettico, Benjamin attinge un concetto oppositivo e dinamico della massa sociale, infrangendo in tal modo l’immagine di essa come fenomeno compatto e regressivo, erompente in una convulsa esplosione emozionale, sospinto da riattivate stratificazioni arcaiche dell’inconscio, un’immagine che Le Bon aveva trasmesso a Freud e che sarebbe riapparsa nella “personalità autoritaria” di Horkheimer e Adorno. Benjamin circoscrive tale immagine alla massa degli utenti, alla piccola borghesia, individuando nella lotta di classe proletaria la situazione critica che “scioglie” la compattezza reattiva, le ossessioni paniche e le esaltazioni morbose della massa piccolo-borghese, gettando tuttavia questo gruppo sociale, “esposto alla pressione tra le due classi antagonistiche della borghesia e del proletariato”xxxviii, nell’automatismo compulsivo della massa compatta. “La lotta di classe scioglie la massa compatta dei proletari; per contro, proprio questa stessa lotta di classe comprime la massa dei piccoli borghesi”xxxix. Ma i confini fra queste due masse, per quanto siano netti nell’orientamento e nelle pratiche, risultano fluidi nel movimento collettivo degli individui, ed una tale instabilità, carica di rischi e di opportunità, lascia intravedere l’esperienza dilagante dello choc. Lo stesso choc che imprigiona la piccola borghesia nella pozza dei suoi rancori, la scioglie dai suoi complessi sociali attraverso una collisione contagiosa con la coscienza di classe proletaria; pertanto, osserva Benjamin sovrapponendo Ottocento e Novecento, in “casi tutt’altro che rari ciò che originariamente era un atto violento di trasgressione di una massa compatta è diventato, in seguito ad una situazione rivoluzionaria, […] l’azione rivoluzionaria di una classe”xl. I sommovimenti messi in moto dallo choc, liberano un imprevedibile gioco di influenze tra sogno collettivo e risveglio: “il tratto peculiare di simili processi veramente storici è dato dal fatto che la reazione di una massa compatta provoca in se stessa uno shock che la scioglie e le permette di rendersi conto di essere un’unione di quadri dotati di coscienza di classe”xli. Tutto ciò non soltanto non attenua la contrapposizione delle due masse sociali, ma ne acutizza al massimo grado le differenze, poiché allo scatenamento emozionale della massa reazionaria replica la ragione collettiva della praxis del proletariatoxlii. La dialettica di un tale scontro, con le trasformazioni in esso latenti, e con le possibilità che vi emergono, è l’insegnamento più prezioso di una storia della città capitalistica. In un tal genere di storia, essa appare “in una costellazione satura di tensioni”, e le sue vicende divengono perspicue dove “la tensione tra gli opposti dialettici è al massimo”xliii. La protostoria di Benjamin si è addossata questo compito, è stata questo compito.

Il materialismo storico di Benjamin ha dato al marxismo rivoluzionario un oggetto teorico e una prospettiva pratica piuttosto inusuali, ma molto importanti: la rivoluzione come messianianismo senza teleologia, come incandescenza di contraddizioni immobilizzate nel tempo storico, in un presente carico di passato. Non “vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria – essa richiede soltanto di essere definita come una chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, di fronte a un compito del tutto nuovo”xliv. La città del XIX secolo, in cammino verso la metropoli del XX secolo, e la metropoli del XX secolo in cammino verso la megalopoli del XXI secolo sono le congiunture epocali delle “chances specifiche”, le costellazioni storiche di “chances rivoluzionarie” ancora impensate, e rispetto a esse la nostra interpretazione non può essere ermeneutica, poiché l’interpretazione che ci occorre deve decifrare il presente, che delle “stanze del passato ha le chiavi”xlv. Per questo, e non per la ripetizione di vecchie formule sul valore pedagogico della storia, “l’immedesimazione con ciò che è stato serve in ultima analisi alla sua attualizzazione”xlvi. La città come crocevia della produzione e del consumo di merci e la città come vivaio di fermenti rivoluzionari si fanno allora avanti, e si fanno avanti insieme, con una tale cogenza che anche Braudel, solitamente guardingo verso le teorie della storia, le ha riunite in ampie concettualizzazioni, saldando la storia delle città in Occidente sia alla “generalizzazione del mercato”xlvii, sia alle sollevazioni operaiexlviii.

Ma se “scrivere storia significa dare alle date la loro fisionomia”xlix, le città del XXI secolo, con i loro grattacieli e con le loro cittadelle dei grandi affari, con gli illimitati conurbamenti divoratori insaziabili di una campagna ridotta a un caotico paesaggio suburbano, sono ormai divenute, soprattutto laddove il sistema neocoloniale dell’Occidente ha disseminato le sue sottoeconomie, abnormi megalopoli circondate da immense bidonville. In Occidente, le città riproducono sempre più gli squilibri e i dissesti planetari dell’imperialismo, i quali, del resto, proprio all’interno di quelle città vengono pianificati, poiché lì si trovano gli snodi del traffico economico mondiale e i centri organizzativi della governamentalità. In queste città, divengono sempre più visibili le linee di separazione e i corridoi di integrazione della popolazione immigrata, al punto che, rispetto a essa, la stratificazione di classe assume sempre più una conformazione urbanistica. Il confinamento dei proletari tuttavia prosegue con altri mezzi, rispetto alla città di cui Benjamin ha tracciato il ritratto, facendone il prototipo della città capitalistica. Oggi, infatti, i perimetri storici delle città vengono riservati al turismo e alla borghesia, vengono protetti da telecamere, da ronde di polizie private e da allarmi elettronici e all’occorrenza vengono sventrati a beneficio delle automobili e dei torpedoni. La proletarizzazione della piccola borghesia e la precarizzazione dei salariati, avvolte nelle fantasmagorie urbane della merce, non fanno nascere lotte di massa e insurrezioni capaci di rievocare le barricate del XIX secolo o le guerriglie e i grandi scioperi del XX, ma provocano invece irrazionali richieste d’ordine. Lo choc riplasma la massa piccolo borghese laddove fino a poco tempo fa si espandeva la solidarietà proletaria. Tuttavia, Benjamin avvertiva che il confine è labile e che la tendenza si può capovolgere. Il vecchio proletariato europeo e il nuovo proletariato degli immigrati potranno comunque fondersi in una classe antagonistica della borghesia imperialistica soltanto nel contesto della forma storica attuale delle città. Per questo i segnavia temporali della topografia urbana di Benjamin possono ancora avvertirci dei frammenti di una coscienza di classe in costruzione.


Note
i L. Mumford, La città nella storia. Dalla corte alla città invisibile, Bompiani, Milano, 1990, Vol. III, pagg. 571-572.
ii Ibidem, Vol. III, pag. 574.
iii W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, I “Passages” di Parigi, Einaudi, Torino, 1986, pag. 176.
iv Cfr. H. Lefebvre, Il diritto alla città, Ombre Corte, Verona, 2014, pag. 28. Lefebvre riporta un’espressione del poeta surrealista Benjamin Péret.
v Ibidem, pagg. 28-29.
vi Ibidem, pag. 30.
vii Ibidem, pag. 30.
viii K. Ross, Lusso comune, L’immaginario politico della Comune di Parigi, Rosenberg & Sellier, Milano, 2020, pag. 80.
ix W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, I ‘passages’ di Parigi, op. cit., pag. 978.
x K. Ross, Lusso comune, L’immaginario politico della Comune di Parigi, op. cit., pag. 35.
xi W. Benjamin, Baudealire e Parigi, in W. Benjamin, Angelus novus, saggi e frammenti, Einaudi, Torino, 1981, pag. 159.
xii Cfr. G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano, 2016, pagg. 170-171.
xiii P. Virilio, Città panico, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004, pag. 18.
xiv G. Debord La società dello spettacolo, op. cit., pag. 189.
xv Ibidem, pag. 188.
xvi Cfr. W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, I ‘passages’ di Parigi, op. cit., pag. 263.
xvii W. Benjamin, Baudealire e Parigi, in W. Benjamin, Angelus novus, saggi e frammenti, op. cit., pag. 151.
xviii G. Debord, La società dello spettacolo, op. cit., pag. 85.
xix W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, Torino, 1979, pag. 36.
xx W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, I ‘passages’ di Parigi, op. cit., pag. 264.
xxi Ibidem, pag. 236.
xxii G. Debord, La società dello spettacolo, op. cit., pag. 89.
xxiii G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Roma, 2007, pag. 40.
xxiv Ibidem, pag. 36.
xxv Ibidem, pag. 52.
xxvi Groβstadt viene tradotto, nel testo in italiano, con la parola “metropoli”.
xxviiCfr. G. Simmel, Filosofia del denaro, U.T.E.T., 1984, pagg. 489- 510.
xxviii T.W. Adorno, Kierkegaard, La costruzione dell’estetico, Longanesi, Milano, 1983, pagg. 158-159. Le interpolazioni sono mie.
xxix W. Benjamin, Baudealire e Parigi, in W. Benjamin, Angelus novus, saggi e frammenti, op. cit., pagg. 111-112.
xxx Ibidem, pagg. 112-113.
xxxi Ibidem, pag. 158.
xxxii L. Mumford, La città nella storia. Dalla corte alla città invisibile, op. cit., Vol. III, pagg. 694-695.
xxxiii Ibidem, 665.
xxxiv G. Debord, La società dello spettacolo, op. cit., pag. 84.
xxxv W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e altri saggi sui media, BUR Rizzoli, Milano, 2013, pag. 117.
xxxvi E. Jünger, L’operaio, Dominio e forma, Guanda, Parma, 1995, pagg. 89-92.
xxxvii W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, I ‘passages’ di Parigi, op. cit., pag. 484.
xxxviii W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e altri saggi sui media, op. cit., pag. 104.
xxxix Ibidem, pag. 104.
xl W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e altri saggi sui media, op. cit., pag. 105.
xli Ibidem, pag. 105.
xlii Cfr. Ibidem, pag. 105.
xliii W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, I ‘passages’ di Parigi, op. cit., pagg. 617-618.
xliv W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino, 2019, pag. 101.
xlv Cfr. Ibidem, pag. 101.
xlvi Ibidem, pag. 99.
xlvii F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, Einaudi, Torino, 2012, pag. 451. Braudel, lontanissimo in questo caso dal materialismo storico, separa, seppur condizionatamente e relativamente, mercato e capitalismo.
xlviii Ibidem, pag. 479.
xlix W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, I ‘passages’ di Parigi, op. cit., pag. 618.
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