Neoliberalismo autoritario
di Sandro Chignola
Seminario Euronomade, Padova, 9 maggio 2025
Il ruolo operativo del diritto è sempre stato centrale nell’ordine del discorso neoliberale. Come spesso mi accade, la prenderò alla lontana, prima di arrivare alle più recenti fasi della sua riconfigurazione. Mi propongo di passare attraverso quattro punti di snodo particolarmente rilevanti dello sviluppo della giuridificazione neoliberale. Il primo è la crisi di Weimar e in particolare, per i fini che ci proponiamo in questa occasione, la discussione che si produce tra Schmitt, Rustow e Heller. Il secondo riguarda la metà degli anni ’70, il rapporto sulla crisi della democrazia presentato alla Trilaterale redatto da Crozier, Huntington e Watanuki che dà luogo alla riorganizzazione del potere dello Stato in governance multilivello e all’avvio del programma controegemonico neoliberale su scala globale. Quanto al terzo punto di snodo, farò riferimento ai processi di costituzionalizzazione dell’austerity e ai progetti di stabilizzazione autoritaria indotti dalla crisi di accumulazione prodottasi tra il crollo dei mutui subprime del 2008 e la pandemia del 2020. Il quarto punto delle mie considerazioni concernerà infine l’impianto dei regimi di guerra e quello che qualcuno ha chiamato il divenire-fascista del neoliberalismo contemporaneo.
Una prima precisazione va però premessa a questa mia ultima affermazione. Come qualcun altro ha detto, il fascismo non va considerato un archetipo. Ciò che permetterebbe di nominare una sorta di modello permanente sotto il quale rubricare tutte le manifestazioni dell’autoritarismo, del sessismo, del razzismo e del colonialismo della storia. Il fascismo va piuttosto considerato, sin dalla sua prima apparizione, un prototipo: un progetto il cui sviluppo si rinnova continuamente investendosi in formule, prassi e dispositivi eterogenei e inediti, rispetto ai quali vanno fatte differenze e dei quali va rilevata la singolarità. È necessario comprendere con precisione su quale terreno muoversi e quale nemico affrontare.
1. È stato Carl Schmitt, con un esplicito riferimento positivo al fascismo italiano, a proporre, in diversi scritti della prima metà degli anni ’30, il tema di una fuoriuscita autoritaria dalla crisi weimariana. Compito di uno «Stato forte» o «autoritario», come forse avrebbe preferito von Papen, è quello di spoliticizzare l’economia depotenziando l’influenza dei partiti sui suoi assetti e neutralizzando il conflitto di classe. Non mette conto qui rilevare come la proposta schmittiana faccia riferimento a una sfera organizzata di interessi pubblici e non statali da inserirsi tra lo Stato e la società dei privati. Quello che ci interessa è come quest’idea di «starker Staat» sia accompagnata da quella di una «economia sana» («gesunde Wirtschaft»), liberata all’iniziativa privata e mediata dall’autogestione corporativa volta a compensare gli effetti di un’iniziativa individuale altrimenti pericolosa o immediatamente conflittuale sul piano politico. In un contributo dell’anno successivo, sarà il socialista Hermann Heller a smascherare l’autentico contenuto dell’intervento schmittiano. Ciò che viene perseguito come obiettivo da Schmitt, sotto la superficie della ridondante retorica totalitaria, è una compiuta destatalizzazione dell’economia, che, elevando la crisi a normalità e rendendo permanente lo stato di eccezione, attacca direttamente la logica keynesiana e welfarista proponendo di fatto lo «smantellamento autoritario della politica sociale», in tutti gli aspetti nei quali essa si esprime. Lo «Stato forte» schmittiano, altro non manifesta che un progetto di «liberalismo autoritario» che, rinunciando definitivamente all’idea di un’autoregolazione mercatile, rende esplicita la linea di tendenza attraverso la quale il liberalismo – può essere ricordato che l’espressione «neuer Liberalismus» appare in un intervento programmatico di Rustow nello stesso anno del discorso schmittiano al Congresso del Circolo di Langnam, il 1932 – ristruttura i propri paradigmi e ridefinisce le proprie strategie. Se per il nazista Schmitt ad uno Stato forte corrisponde un’economia sana, per il liberale Rustow un’economia libera richiede uno Stato forte. E cioè: uno Stato in grado di «liberare» l’economia dal conflitto, dagli interessi organizzati, dalle distorsioni delle ferree leggi del mercato. Un «interventismo liberale», nel quale venga definitivamente abbandonato il principio astensionista del tradizionale liberalismo manchesteriano, deve dotarsi di strategie di governo in grado di governare per il mercato e rovesciare il proprio rapporto con la società. Esso non deve, cioè, intervenire per compensare gli squilibri del mercato o per cercare compromessi tra capitale e lavoro, ma deve intervenire per disarticolare tutto ciò che ostacola i due principi chiave del mantra dell’economia capitalista di mercato, il dispiegarsi della libera concorrenza e la libera formazione dei prezzi. Si tratta di staccare gli apparati dello Stato dal perverso intreccio con gli interessi economici e dalle aspettative della democrazia di massa che rendono ingovernabile la crisi, di rafforzarne in maniera inedita (e non dissimile dalla proposta schmittiana) gli istituti immediatamente esecutivi e di applicare al campo sociale schemi giuridici e operativi in grado di ristrutturare il processo sociale trascrivendolo direttamente nelle forme del diritto privato. Se, come scriverà nei primi anni della Seconda guerra mondiale Röpke, il vero «sovrano democratico è il mercato», si tratta di esautorare lo Stato dalla pressione degli interessi organizzati e di dotarlo dell’autorità che gli compete – e cioè: di forza, potere e dedizione – per liberare il campo alla società dei privati e per «costituzionalizzare» i principi regolatori, e pertanto normativi, dell’economia di mercato. L’idea di una «Wirtschaftsverfassung» nella quale la decisione politica che interrompa lo stato di eccezione economico, come lo chiamerà Röpke con un connivente riferimento a Schmitt, cali a produrre l’immediata normatività dei principi di diritto privato – l’idea chiave è che la libera concorrenza e gli individui che la alimentano non siano dati «naturali», ma il risultato dell’intervento degli istituti che li costituiscano – è il prodotto di una dinamica costituente che assume nell’ordinamento giuridico il proprio referente immediato. Il diritto non costituzionalizza «diritti», ma esprime la «decisione generale», la «politische Willensentscheidung» (Franz Böhm, 1937), che rende l’economia di mercato il quadro di riferimento generale per l’azione, autoritaria, dello Stato e il comando esecutivo, cioè tecnico-amministrativo, la chiave postrappresentativa per implementare, dell’economia di mercato, le logiche. Inutile sottolineare che gli ordoliberali saranno fondamentali, per l’idea di «governo» che esprimono e per il loro attacco all’idea di democrazia sovrana, per la definizione della costituzione economica dell’Unione Europea. E che molti di loro o dei loro epigoni, una quarantina d’anni dopo, saranno impegnati a sostenere violenti impianti antidemocratici dell’economia di mercato in America Latina, in Asia e in Africa.
2. Negli anni ’70 l’interpretazione neoliberale della crisi di accumulazione si focalizzerà implicitamente, ma talvolta anche esplicitamente, sulla crisi di autorità dello Stato. La crisi verrà interpretata, come ad esempio nel rapporto alla Trilaterale precedentemente citato, come una crisi di «governabilità» delle democrazie occidentali. La crisi verrà interpretata come alimentata da un sistema che, proprio per il fatto di aver cercato un compromesso tra capitale e lavoro e investito in politiche di Welfare, si ritrovava impossibilitato a gestire il sovraccarico di attese che aveva suscitato e che lo aveva, poi, investito. Il ciclo di lotte operaie e sociali che si era determinato aveva reso ingovernabile la democrazia e sedimentato un’incompensabile «inflazione di aspettative». Organizzare la risposta neoliberista ai sommovimenti sociali degli anni ’60 e ’70 significa da un lato esonerare lo Stato dall’eccesso di claims che lo investono; dall’altro riacquisire il controllo sul lavoro vivo che tracima dalle mura della fabbrica. Captare la sfera dei rapporti sociali decentrando gli istituti della rappresentanza e far proliferare nel corpo della società agenzie in grado di flessibilizzare il rapporto tra Stato e cittadini, tra comando ed obbedienza, è quanto sembra opportuno per risolvere i problemi di governabilità della democrazia matura, quando non sia possibile, come avverrà nel caso delle dittature promosse o sostenute in America Latina, realizzare quegli stessi obiettivi con l’uso della forza. Hayek riconoscerà in Pinochet, del resto, il «well-meaning dictator» in grado di salvaguardare la democrazia dalle forze che l’avevano, lui dice, compromessa e distrutta; Röpke e Hutte riterranno la difesa dell’economia mondiale un compito occidentale e bianco contro quello che il secondo dei due chiama l’«imperialismo nero» e, insieme a Friedmann, sosterranno la necessità di spezzare l’isolamento internazionale in cui versa il Sud Africa dell’apartheid.
Le evidenti continuità con gli obiettivi del liberalismo autoritario degli anni ’30 – restringere gli ambiti della deliberazione democratica e tecnicizzare l’esecutivo; spoliticizzare Stato e società come preliminare per la costituzionalizzazione dell’economia di mercato; l’uso del diritto come dello strumento operativo per impiantare e per poi immediatamente costituzionalizzare la società di diritto privato sotto l’egida di un esercizio controrivoluzionario ed autoritario del potere – non esauriscono il quadro del progetto neoliberale per come si articola in questo secondo punto di snodo. L’«eccesso di democrazia» va corretto anche con un cambio radicale dell’«organizzazione del lavoro» se, come è evidente per l’incontenibile conflittualità che attraversa fabbriche, università e istituzioni, sindacati e partiti non sono più in grado di filtrare e di integrare, nelle tradizionali e «progressive» formule del compromesso sociale fordista, l’autonomia che si esercita, come autentico contropotere, al cuore della macchina di valorizzazione capitalista. Dalla crisi di accumulazione della metà degli anni ’70 si esce tecnicizzando il potere, che viene con ciò sottratto alla farraginosità dei dispositivi di rappresentanza, reprimendo in maniera brutale l’espressività politica della nuova composizione sociale del lavoro vivo e sviluppando imprenditorialità di massa come risposta al rifiuto del lavoro. Viene con questo costituito uno dei passaggi decisivi del progetto controrivoluzionario neoliberale. Si tratta di lavorare alla produzione di una forma di soggettività – il metodo è l’economia, ma l’«anima» dei singoli è l’obiettivo, come avrà modo di dire Margareth Thatcher in una famosa intervista – perfettamente adattata al tipo di libertà di impresa che verrà sostituita alla nozione classica di autonomia e di potenza in capo alla soggettività codificata dal moderno concetto di politica. Il diritto verrà qui pensato come dispositivo per disarticolare il sociale, per invisibilizzare le disuguaglianze create e riprodotte da patriarcalismo, colonialismo, schiavismo e per installare un’idea di «homo oeconomicus», la cui antropologia, con il supplemento morale che la informa (la famiglia «naturale» come rete di sicurezza in sostituzione del Welfare statale; l’obbligo competitivo come dato prestazionale; l’eventuale «fallimento» come responsabilità individuale), fornisce il carattere generale che rende possibile proiettare il progetto neoliberale su scala mondiale. Proteggere il mercato dalla democrazia, dissociando definitivamente i due termini, cosa che rinvia agli anni ’80 e non certo ai giorni nostri, significa desaturare il campo politico dalle aspettative sociali, tecnicizzare e esecutivizzare il processo politico, produrre, anche attraverso riforme dei servizi e la privatizzazione delle istituzioni educative, «liberi» individui rimessi alla competitività, la cui materiale disuguaglianza (di genere, di razza o sociale) possa essere valorizzata per gerarchizzare il mercato del lavoro. Il successo globale del modello neoliberale è determinato dalla potenza che esso esprime nel sussumere al modello di impresa il rifiuto del lavoro comandato e della fabbrica sociale fordista teorizzato e praticato dai più radicali movimenti sociali e di classe tra la metà degli anni ’60 e la metà degli anni ‘70. Tra le consegne che esso esprime, in particolare sul lato giuridico, e che esso trasmette in avanti, possono essere ricordate: il restringimento del campo della deliberazione; la tecnicizzazione dei poteri esecutivi e la loro sottrazione agli istituti della rappresentanza politica; il ruolo centrale acquisito dal diritto privato come macchina «costituente» rispetto ai rapporti ai quali esso si applica (il liberalismo è una dottrina «costruttiva» per riprendere l’espressione che Rougier aveva adoperato anni prima in occasione del Colloquio Lippmann); il progetto di una cosciente plasmatura della soggettività codificata tra regimi giuridici e tecniche di governo; una prassi di neutralizzazione del sociale dalla quale viene evacuata l’idea di conflitto.
3. Tra la crisi del debito e la pandemia, nel quadro di una enorme crisi finanziaria, si determina una nuova configurazione dei regimi neoliberali. La stabilizzazione autoritaria della crisi che viene realizzata, riuscendo a bloccare alternative e a neutralizzare potenti movimenti di contestazione, mette al lavoro una serie di significative innovazioni. Tra di esse, il cui risultato generale è l’avvio di ulteriori protocolli autoritari del neoliberalismo, alcune vanno indubbiamente segnalate. La prima riguarda la riarticolazione dello Stato in volano di distribuzione di politiche, di regolamenti e di procedure la cui natura «tecnica» implica un’imposizione priva di discussione. L’austerity viene costituzionalizzata (in Europa: «fiscal compact», «Euro plus pact», rigidi vincoli di bilancio per i singoli Stati), la spoliticizzazione ingegnerizzata, il diritto trascritto in macchina regolamentaria subordinata alla «best practice», le istituzioni, che restano formalmente democratiche, svuotate dall’interno. La seconda riguarda il debito. Il debito, sui molti e differenziati livelli nei quali si accumula (dai bilanci nazionali a quelli familiari a quelli di singoli e singole), diventa il punto di leva per dispositivi di governo, la cui legittimità operativa, tecnicamente definita, viene messa fuori discussione. La neutralizzazione del nesso progressivo tra lotte e sviluppo viene realizzata subordinando la ragione politica alla ragione economica e quest’ultima alla rendita del grande capitale finanziario. Lo Stato non «ritorna», come nelle retoriche populiste, ma, sin dalle prime avvisaglie della crisi della globalizzazione, viene funzionalizzato alle esigenze di controllo, sorveglianza e implementazione normativa necessarie alla territorializzazione dei flussi di capitale e alla riproduzione allargata dei suoi cicli di accumulazione. Il diritto non agisce più da argine al potere, ma diventa strumento per la sua operazione. La terza cosa è che progressivamente si dà un mutamento per quanto riguarda la definizione del nemico. Se tra la prima e la seconda fase dell’impianto del neoliberalismo come strategia di governo gli espliciti obiettivi polemici sono il welfarismo, sul piano delle politiche sociali, e, sul piano monetario, il keynesismo, ciò che permette di progettare la rimessa degli individui al mercato e di imporre come regolatore generale economico la libera formazione dei prezzi, in questo terzo punto di snodo, nel quale si evidenzia come la normalizzazione della crisi implichi costi sociali irrisolvibili nel quadro della feroce competizione implementata come «natura» del mercato, il nemico viene identificato nei perdenti e negli sconfitti o nei movimenti sociali che politicizzano la posizione del governato. Tre esempi possono forse chiarire questo punto. Il primo riguarda la ritrazione, nel complesso della destrutturazione dei regimi di Welfare, dalle periferie e dalle aree popolari delle grandi metropoli. Un processo iniziato sin dagli anni ’80 e che ora viene trattato in termini esclusivamente securitari. La crisi del Welfare segna anche l’avvento del neoliberismo penale, per il quale il governo della marginalità, della povertà o dell’immigrazione significa semplicemente il confinamento della popolazione in spazi urbani degradati o lo stoccaggio in carcere della sua parte eccedente. Un secondo esempio, particolarmente rilevante per comprendere il mutamento delle geografie del capitale e il modo nel quale la territorializzazione dei suoi flussi disegni traiettorie eterogenee e gerarchizzi l’apparente omogeneità dello spazio della sua circolazione, concerne i regimi giuridici. La particolare centralità acquisita negli ultimi decenni dalla logistica comporta l’applicazione di dispositivi militari di controllo e di sicurezza. In molte aree del mondo porti, hubs e corridoi di scorrimento delle supply chains della produzione globale, sono sottoposti a forme di sorveglianza e a regolamenti che agiscono in deroga dal diritto pubblico e privato. Si tratta di una tendenza di medio periodo e che, in particolare nei porti californiani, ma ciò forse può essere detto, in maniera scalare, anche per la Val di Susa o per la conflittuale riarticolazione dei poteri imperiali (dalle mire americane su Panama all’India–Middle East–Europe Economic Corridor che passa tra Israele e Palestina), implica l’uso di polizie militari o, direttamente, degli eserciti, in una feroce escalation che implica giurisdizioni particolari. Qui la «dittatura commissaria» del neoliberalismo autoritario viene applicata in forma particolarmente diretta e visibile. Il terzo esempio è la criminalizzazione del povero, accompagnata da un paternalismo del lavoro. La destrutturazione delle protezioni del diritto e la precarizzazione implica da un lato la sostituzione dei regimi di «Workfare» al «Welfare», che subordinano l’intervento pubblico all’obbligo al lavoro, e dall’altro, comporta la conversione delle tutele sociali in dispositivi di sorveglianza e di controllo. Obbligato al lavoro povero, il precario o il disoccupato deve essere disciplinato alla ferrea legge neoliberale o espulso dal mercato del lavoro e trattato come potenziale criminale.
4. Il neoliberalismo autoritario è capace di costanti reinvenzioni. Wendy Brown riconosce nelle sue più recenti mutazioni una sorta di «frankensteinizzazione» del neoliberalismo. Sarebbe così, se esistesse un suo tipo «normale». Ciò che invece rileva, mi sembra, è la plasticità che ne caratterizza il processo, dagli anni ’30 alle sue convulse fasi attuali. Fasi nelle quali, peraltro, forse si renderebbe necessario un altro termine per identificarlo. Mi sembra siano almeno tre le cose sulle quali soffermare l’attenzione. La prima, che riguarda anche la dilagante investitura elettorale dei governi di destra (parlo di investitura, dato che uno degli elementi specifici della fase attuale del neoliberalismo autoritario è la crescente e generale destituzione del controllo parlamentare), è la diffusiva generazione di pulsioni antidemocratiche dal basso come reazione, ma del tutto paradossalmente perfettamente complementare e simmetrica, alle politiche antidemocratiche in atto, da decenni dall’alto. L’antipolitica che piega i dispositivi di governo in secca trasmissione amministrativa di misure autoritarie dilaga dal basso in populismi reazionari per i quali sovranità e nazione significano servitù volontaria ai meccanismi disciplinari di mercatizzazione (Hayek rivendicava, con Edmund Burke, la «voluntary conformity» alle regole di mercato) e puro risentimento. Per una curiosa eterogenesi dei fini, in luogo di isolare e di superare lo Stato, il neoliberalismo finisce con lo strumentalizzarlo ai fini operativi del grande capitale finanziario e con lo sfruttarne la giurisdizione per rafforzarne il comando. La seconda cosa da segnalare è il ritorno del rimosso come supplemento alle logiche di mercato. La nozione neoliberale di «homo oeconomicus» – autentica invariante del dispositivo di governo, soggetto integralmente indicizzato alla valorizzazione e cioè: «capitale umano» e fascio di investimenti preso a riferimento dalla funzione «politica» di coordinamento che riproduce le condizioni di base perché il gioco concorrenziale possa ininterrottamente riprodursi – non può essere completamente deantropologizzato. Intendo con questo almeno due cose: la prima è il fatto che è il singolo o la singola vivente, il singolo o la singola in carne ed ossa, che deve essere persuaso a ricodificarsi come impresa individuale. Di qui la rilevanza che sin dal principio il neoliberalismo assegna alla psicologia, alla propaganda e all’educazione. Riforme dell’istruzione superiore o recupero a questa logica disciplinare delle Università non sono un’eccezione e, anzi, vanno considerati elementi fondamentali del dispositivo di governo neoliberale. La seconda cosa è che l’«homo oeconomicus», proprio perché assunto come invariante, definisce l’interfaccia tra individualità e tecnologie governamentali al prezzo di rimuovere tutto ciò che ne ostacola la codificazione. Questo rimosso – la razza, il genere, le gerarchie, tutto ciò che incrosta la competizione tra quelli che il neoliberalismo chiama i «piani individuali» – torna come tensore del mercato del lavoro, in particolare per le posizioni a più alto grado di sfruttamento, e come elemento disponibile per il rafforzamento di retoriche autoritarie o securitarie volte a rafforzare il comando del capitale. Se è possibile parlare, dopo la crisi del 2008 e la crisi pandemica, di un «neoliberalism reloaded», questo neoliberalismo si presenta come una radicalizzazione del progetto neoliberale in molte delle sue dimensioni. Sin dall’ordoliberalismo degli anni ’30, ad esempio, l’ordine patriarcale della famiglia era stato assunto come centrale. Sia per gli aspetti di rete di sicurezza, in assenza di dispositivi sociali, sia per gli aspetti disciplinari, reputati fondamentali per salvaguardare la socializzazione orientata degli individui, e ancora come cellula base per una sana economia. Non deve pertanto stupire, tra ritorno del rimosso e paradigmi di lungo periodo, che nella fase di «ricarica» del neoliberalismo che stiamo vivendo ed affrontando, vengano riproponendosi fantasmi come quelli della «famiglia naturale», ordinata alla procreazione, della differenza sessuale, del recupero, anche nella psicanalisi mediatica, dell’autorità paterna. Contestare questo ritorno, occorre farlo tenendo assieme i due lati che ho provato a mettere in evidenza: quello, per così dire, culturale, e quello materiale, contemporaneamente economico e politico, dei regimi del lavoro, dato che essi vanno sempre assieme. La terza cosa, decisiva, da sottolineare nella torsione autoritaria e fascista dell’attuale fase neoliberale è l’installarsi dei regimi di guerra. Che la promessa di pace della fase espansiva della globalizzazione, quella bruscamente interrotta dalla crisi del 2008, fosse ingannevole – e comunque sostenuta dalle retoriche della guerra interna, si trattasse di guerra alla droga o di guerra all’immigrazione clandestina – lo si può facilmente dimostrare semplicemente menzionando la serie di guerre condotte per l’esportazione della democrazia o quelle sostenute per procura nella riconfigurazione degli equilibri imperiali. Ora, però, la guerra coinvolge direttamente la discussione pubblica a partire, almeno, dalla guerra russo-ucraina e dalla ripresa di progetti esplicitamente coloniali come quelli di Trump o della destra israeliana. Un vasto e contraddittorio rimodellamento dei rapporti internazionali, di ciò che si intende per Unione Europea e delle agende politiche nei singoli spazi nazionali è evidentemente all’opera. Regime di guerra significa una particolare idea di economia e di spesa pubblica, l’attivazione di protocolli volti a colpire il nemico interno, la diffusività di rigidi dispositivi di controllo e di sorveglianza della popolazione (non può certo sorprendere che in Italia si intenda consentire l’accesso dei servizi segreti a scuole e università), la repressione dei movimenti sociali. Il tutto, senza tuttavia scalfire gli interessi dei monopolisti dell’innovazione tecnologica o senza deflettere, perché ciò è, letteralmente, impossibile, dalle interconnessioni prodotte dal capitale globale. Strumento di questa operazione è, di nuovo, il diritto, inteso tanto nelle molte varianti delle fattispecie penali, quanto nelle forme civilistiche o amministrative che riconfigurano il soggetto di diritto come referente di strategie patriarcali di moralizzazione. Il neoliberalismo autoritario, in questa sua fase estrema, si dota di strumenti giuridici particolarmente feroci e repressivi, perché la congiuntura gli mette a disposizione una situazione particolarmente favorevole per rinsaldare, o almeno è quanto sembrano credere gli esecutivi che lo amministrano, il suo ciclo. Il regime di guerra – repressione delle lotte sociali, accelerazione delle tecnologie di sorveglianza e di controllo, militarizzazione del sociale, allargamento dei vincoli di bilancio a favore del complesso militare-industriale e disseminazione di retoriche moralistiche e autoritarie – opera come una inedita forma di compromesso tra de-democratizzazione delle istituzioni, tecnocrazia e comando, volta a rilanciare l’accumulazione oltre le strettoie dell’austerity e a favorire la ripresa del progetto neoliberale radicalizzando, di esso, le permanenti tendenze autoritarie.
Ciò che ha sempre obbligato questo progetto a reinvestirsi in significative trasformazioni è stata l’irriducibile resistenza che gli è stata opposta. Si tratta oggi di opporre al regime di guerra un pacifismo costituente. Capace, cioè, di far convergere su di un unico ed immediato obiettivo le molte ed eterogenee forme delle lotte e di ritrascrivere la specificità di ciascuna di esse in relazione al suo conseguimento. La pace non significa la cessazione del conflitto. Significa piuttosto guadagnare le condizioni per esprimerlo e per organizzarlo. Per attaccare la logica complessiva del neoliberalismo autoritario, al di là della sua fase attuale. Perché la sua logica – tecnocrazia e dittatura commissaria, patriarcalismo e razzismo, ecocidio e rifiuto della democrazia come promessa di libertà e di uguaglianza per tutti e per tutte – definisce l’architrave di una continuità devastante. Che le cose continuino così è la catastrofe, diceva Walter Benjamin. A noi il compito di interromperla e di rendere la vita davvero difficile a chi, quella continuità, di volta in volta sostiene.