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Louis Althusser tra marxismo e marxismi
di Oliviero Calcagno
La «maledizione» di Althusser
Secondo la lettura che propongo, nella ormai lunga vicenda dei marxismi (al plurale) non vi è stato autore più frainteso (se non addirittura diffamato) di Althusser. Dal livello più superficiale al più tecnico, se ne trovano varie forme, che è possibile così suddividere:
A) Il pubblico dei semi-colti semplicemente non ne conosce né il nome, né le tesi: di conseguenza, non sa riconoscere tracce della sua elaborazione in autori alla moda. Ciò vale in particolare per quanti di costoro fanno riferimento alla psicoanalisi di Lacan.
B) Il pubblico dei colti, ma non specialisti, ne ha orecchiato il nome, e tuttavia si è abituato a leggere che la sua impresa teorica era finalizzata a costituire una neo-ortodossia marxista. Emblematica per pressappochismo la pagina dedicata su Wikipedia, che recita testualmente: «Nella filosofia, dice Althusser, è necessario ritornare a una prospettiva scientifica e determinista della teoria marxista, contro le interpretazioni e le utilizzazioni umaniste e ideologiche».
C) Il pubblico dei militanti di sinistra lo ha guardato con la diffidenza che si riserva ai teorici chiusi nell’Accademia e perciò incapaci di cogliere gli appuntamenti con la storia. Ed è un fatto che nel maggio francese del ’68 egli non esercitò alcun ruolo (da cui il calembour Althusser à rien, «Althusser non serve a niente»).
D) La comunità di nicchia degli specialisti in scienze sociali ne ha sentito parlare per il suo anti-umanesimo teorico, che è però concetto costitutivamente indigeribile per quelle discipline. D’altra parte, non si può negare che sia stata la moderna centralità antropologica ad aver dato loro origine.
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Legge di bilancio: il Governo dichiara guerra ai poveri
di coniarerivolta
Il disegno di legge di bilancio (DDL Bilancio) approvato dal Consiglio dei Ministri è un atto di importanza fondamentale, perché consente di vedere oltre la nebbia dei primi provvedimenti di bandiera del Governo (dai rave alle ONG) e di riconoscere l’impronta politica dell’esecutivo Meloni: un’impronta in tutto e per tutto identica a quella dei precedenti governi che da oltre trent’anni, da destra, da sinistra o dallo scranno dei tecnici hanno condotto un progressivo smantellamento dello stato sociale ed un attacco ai lavoratori, ai loro diritti e ai loro salari, che sta trasformando la povertà, la precarietà e la disoccupazione in elementi strutturali della vita della maggior parte dei cittadini italiani.
Vi è una perfetta armonia tra le misure di bandiera varate nelle prime settimane dal Governo, misure minori solo per chi non le subisce sulla propria pelle, e il DDL Bilancio appena approvato. La guerra agli ultimi, ai poveri, ai deboli viene ostentata nell’ambito delle politiche migratorie perché condotta a largo del Mediterraneo, lontano dalle nostre case e dai luoghi di lavoro, sulla pelle degli stranieri, o spettacolarizzata nella lotta senza quartiere ai rave disegnata ad arte per reprimere ogni forma di dissenso sociale. Eppure, quella stessa guerra di classe è la cifra della manovra finanziaria varata dal Governo, è il contenuto politico dei numeri che emergono dal principale strumento di politica economica in mano all’esecutivo. La Legge di Bilancio porta l’attacco dentro le nostre case, nei nostri luoghi di lavoro.
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L’affare Soumahoro, determinismo e libero arbitrio
di Michele Castaldo
Dico in premessa: scrivo per chi è disposto a capire.
È costume comune nella società moderna occidentale apprezzare il corruttore e schifare il corrotto. L’affare Soumahoro di questi giorni mette a fuoco una questione sulla quale pochi sono disposti a ragionare, ovvero a cercare – spinozianamente – la causa delle cose e tutti, ma proprio tutti, si ergono a giudici contro il malcapitato nero che ha avuto il torto di farsi corrompere da un sistema corruttore.
Il giornale Il Riformista, di un arcinoto uomo un tempo di sinistra, approdato poi alla corte di sua maestà destra ex socialista, ai piedi del povero corruttore Berlusconi, a proposito di Soumahoro titola in prima pagina: « Perché tutti linciano Soumahoro? Perché è “negro”», si notino ovviamente le virgolette a indicare che non viene linciato in quanto nero, ma perché è negro per lo stato in cui è caduto, perché è un corrotto. Chi non condanna un corrotto? Tutti giudici di Corte d’Assise pronti a condannare il reo.
Il pulpito dal quale si erge a giudice è una delle tante voci del padrone, con uno stipendio di riguardo, al calduccio e in ottimo appartamento, la possibilità di fare vacanze e di viaggiare, di mandare all’università i figli e introdurli magari nella carriera. E dunque sia sempre lodato quello Stato che fa vivere il cotanto direttore profumatamente pagato.
Si vuole un altro esempio, sempre beninteso di un brillante giornalista, che viene intervistato dal Corriere della Sera e dichiara che quando gli fu proposto di dirigere il quotidiano Il giornale dal fratello di Berlusconi, tentennò, perché guadagnava un miliardo di vecchie lire all’anno al Corriere della sera.
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Tempeste e bicchieri. A margine della crisi di nervi tra Francia e Italia sull’Ocean Viking e le migrazioni
di Gaspare Nevola
Tempeste e bicchieri tra Francia, Italia, Unione Europea e Ong. E poi ci sarebbero anche le migrazioni, che un Macron prende a suo modo sul serio, che un Salvini non riesce a farsi prendere sul serio, che una Meloni ci prova, che un Conte e un Letta sono in tutt’altro affare affaccendati. Sotto il vigile balbettio di Bruxelles e un Quirinale enigmatico che conversa a un altro tavolo… Ma qui si parlerà di cose meno frizzanti. A qualcuno fischieranno le orecchie, a qualcun altro non sarà possibile. E agli altri? Per chi cerca letture con più appeal e mordace elettricità, cerchi altro, cerchi altro su cui posare gli occhi per leggere. In giro non mancano… e buona fortuna
1. Roma e Parigi ai ferri corti, l’Unione Europea balbetta
Attraversare le tempeste cercando di contenerle in un bicchiere. Questa sembrerebbe la filosofia e la strategia politica con cui spesso l’Unione Europea cerca di venire a capo dei problemi che sfidano il mondo contemporaneo e mostrano tutte le ambiguità dell’integrazione e dei propositi di una sedicente Unione europea.
Far fronte alle ondate migratorie, regolare gli sbarchi delle sventurate persone che le navi Ong raccolgono perlustrando le acque del Mediterraneo e che pressano sulle coste dei Paesi che vi si affacciano, ridefinire impegni e criteri di gestione dei flussi e dei ricollocamenti degli immigrati portati all’approdo in terra europea. Queste alcune voci salienti del tema e della discussione che affollano le cancellerie e i media, ormai da qualche decennio. In questi giorni l’Unione Europea si è impegnata a varare un piano in 20 punti volto a perseguire i suddetti e altri connessi obiettivi. La spinta a rimettere mano alla materia è arrivata dall’esigenza di fare rientrare le tensioni esplose tra Francia e Italia a metà novembre. La Commissione europea intende rilanciare un Action Plan allo scopo di dare una soluzione alle «sfide attuali ed immediate» che vengono dalle sgovernate rotte migratorie del Mediterraneo centro-meridionale.
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Dall’emergenza pandemica all’emergenza permanente
di Assemblea Militante
1. Covid-19: tra realtà e finzione
La pandemia di Covid-19 è stata presentata da tutti i governi e i media del mondo, sotto la guida dell’OMS, come una nuova terribile malattia in grado di provocare decine di milioni di morti. La malattia è reale, e reale è anche il virus che la provoca, sulla cui origine, peraltro, si sono aperti scorci che ne rendono sempre più probabile la creazione in laboratori sotto guida Usa. La sua gravità è stata, in ogni caso, fortemente esagerata. Chi continua a baloccarsi con la narrazione mainstream della “pandemia terribile e incontrollabile”, ripetendo come le preghiere del rosario le cifre ufficiali sui morti e sulla letalità più o meno alta della malattia, ignora a bella posta che è ormai impossibile stabilirne la letalità oggettiva, poiché questa è indissociabile dalla sua gestione terroristica e criminale. La letalità è stata resa più alta - sia sul piano dell’impatto reale della malattia che della sua rappresentazione scientifico-mediatica - attraverso una serie di misure assunte, con poche variazioni, quasi dappertutto:
• negazione delle cure: nonostante migliaia di medici in tutto il mondo abbiano fin da subito adottato efficaci rimedi farmacologici, sono stati imposti agli apparati sanitari i protocolli tachipirina e vigile attesa, tramite i quali migliaia di pazienti sono finiti in ospedale, dove le pratiche di “cura” (imposte da protocolli ministeriali) non hanno fatto altro che accompagnarne alla morte un grande numero;
• conteggio di decesso per covid di chiunque sia positivo a un test che la stessa OMS, nel sito ufficiale, indica (per ripararsi da eventuali responsabilità penali) come strumento che da solo non fornisce diagnosi.
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USA e Indo-pacifico: isolare la Cina non è facile
di Nunzia Augeri*
Lo scorso mese di agosto, la visita a Taiwan di Nancy Pelosi, la portavoce del Congresso statunitense, e quelle immediatamente successive di una delegazione dello stesso Congresso e poi del governatore dell’Indiana, Eric Holcomb, con la loro carica provocatoria nei confronti della Cina e le azioni che ne sono seguite, hanno posto sotto i riflettori l’attivismo statunitense nella zona del Pacifico. Ma questi avvenimenti sono solo la punta dell’iceberg di una azione politico-diplomatica molto complessa, che sta tessendo una fitta rete di accerchiamento politico, economico e militare intorno alla Cina.
Oggi sono parecchi i trattati e gli accordi che vincolano i paesi asiatici con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Australia; il più vetusto risale al tempo della seconda guerra mondiale, quando il nemico comune era il Giappone: l’accordo venne sancito nel 1943 ed è conosciuto come Five Eyes. All’inizio gli occhi erano solo due, quelli di Stati Uniti e Gran Bretagna, che in piena guerra mondiale collaboravano nella lotta silenziosa e segreta dello spionaggio contro la Germania nazista. Nel dopoguerra, con l’avvento della guerra fredda, al patto aderirono nel 1948 i paesi di lingua inglese Canada, Australia e Nuova Zelanda, questa volta contro l’Unione Sovietica e contro ogni paese – ma anche singola personalità – che appoggiasse in qualche modo una visione del mondo diversa da quella anglo-americana. I Cinque occhi – che già avevano incluso la Germania occidentale e la Norvegia, non come membri effettivi ma come “terze parti” – nella loro evoluzione diedero luogo al sistema Echelon, che a sua volta si servì della collaborazione di Giappone, Singapore, Corea del Sud e Israele, coinvolgendo più tardi anche la Francia.
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Federico Caffè e la ri-politicizzazione dell’economico
di Emanuele Dell'Atti
È oggi ampiamente diffusa un’immagine stereotipata dell’economia presentata come una “scienza naturale”: un sapere a-storico, a-valutativo e indipendente dalle intenzioni umane. Ma l’economia, anche quando si traveste con gli abiti della neutralità tecnica, è sempre “economiapolitica”: esito, cioè, di precise intenzionalità e di specifiche progettazioni umane.
Lo sapeva bene Federico Caffè, tra i più importanti economisti italiani della seconda metà del Novecento, che si è sempre battuto, attraverso pubblicazioni scientifiche, interventi giornalistici e dibattiti pubblici, per costruire una civiltà più giusta di quella prodotta dall’economia capitalistica: Una civiltà possibile. La lezione dimenticata di Federico Caffè (Meltemi, Milano 2022, pp. 215) è infatti il titolo dell’inedito lavoro sul pensiero dell’economista pescarese scritto dal giornalista e saggista economico Thomas Fazi.
Il volume, a detta dello stesso autore, nasce “per caso”: l’intenzione originaria era quella di scrivere un libro sulla figura di Mario Draghi, utilizzando gli scritti di Caffè – suo maestro – come contrappunto al percorso professionale dell’ex presidente della BCE. Infatti, al netto dei “ridicoli parallelismi” (p. 19) tra Caffè e Draghi messi in risalto dalla stampa dopo l’incarico di governo ricevuto da quest’ultimo a inizio 2021, “del pensiero e della ‘filosofia’ di Caffè non vi era traccia nell’operato decennale di Mario Draghi” (ivi: 20), il quale aveva da tempo abbandonato l’originaria adesione al keynesismo per abbracciare le dottrine monetariste e il dogma del “vincolo esterno”.
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Medicus curat, natura sanat
di Mattia Cattaneo
È preferibile non andare dal medico quando si sta bene oppure sarebbe meglio andarci lo stesso per farci prescrivere qualche esame di controllo preventivo? È meglio essere in salute – “sentirsi bene” – o piuttosto non stare male? E chi sta bene ha il dovere di attestare pubblicamente il suo benessere? E chi sta male è da giudicare inferiore – sotto molteplici aspetti – rispetto a chi sta meglio? Come conciliare il pubblico dovere di non nuocere agli altri con il diritto privato alla salute personale? E quanto vale una “salute” perseguita anche a costo del benessere individuale? Queste, tra le altre, sono alcune domande che credo sia utile nuovamente porre sul tavolo del discorso, soprattutto dopo i recenti fatti di cronaca che hanno riattualizzato per un momento la questione sanitaria. Ma prima di tutto, cosa si deve intendere per “salute”?
Non di certo quello che ne diceva il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella parlando all’inaugurazione dell’Anno Accademico dell’Università di Pavia[1]: trattare «La salute come bene pubblico» è un modo per far compiere all’idea di “salute” uno scivolamento di piano silenzioso ed assolutamente imperdonabile: è lo sdoganamento impudico e sfacciato della capitalizzazione del benessere individuale. Paragonare infatti la salute ad un bene – invece che, come sarebbe più opportuno, trattarla secondo il concetto di ben-essere – non è altro che un modo per ribadire quanto questo stato, cioè lo stato di salute, sia oggigiorno divenuto un vero e proprio status.
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Scandalo sovrano. Cento anni di "Teologia Politica" di Carl Schmitt
di Federico Zuolo
Talvolta il successo di opere polemiche trascende il momento. Può dipendere dalla bontà delle idee e degli argomenti. Oppure la polemica può riuscire a creare un nemico grottesco e impossibile, uno straw man d’autore che diviene tanto importante quanto la tesi stessa dell’opera. Spesso il successo proviene da esigenze postume di confronto critico con altre questioni di cui la polemica iniziale non è che un comodo pretesto. La fortuna enorme di Teologia politica di Carl Schmitt, ingombrante e paradossale come la sua tesi, discende da tutti questi motivi.
In occasione del centenario della prima edizione di Teologia politica, Mariano Croce e Andrea Salvatore hanno curato una preziosa e originale raccolta di saggi (Teologia politica cent’anni dopo¸ Quodlibet, 2022) che include contributi che coprono prospettive diverse e articolate. A differenza di molti scritti d’occasione, questo volume non è meramente commemorativo: tocca nervi ancora scoperti e mette ordine nella materia di un testo tutt’ora vivo e ambiguo. A tutti nota per la famosa tesi sulla natura del sovrano (“colui che decide sullo stato di eccezione”), quest’opera ha annebbiato l’esegesi di molti interpreti e ha fatto intendere tutto il pensiero schmittiano secondo questa chiave. Il decisionismo schmittiano, l’eccezionalismo, la natura extragiuridica della sovranità e la dimensione visceralmente esistenziale del sovrano, assieme alle tesi altrettanto note de Le categorie del politico (la natura strutturalmente agonistica della politica) hanno messo in secondo piano tesi ben più articolate, anche se non meno controverse, del pensiero schmittiano.
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La sovranità: permanenza o ritorno spettrale?
di Giso Amendola
Discutendo P. Dardot, Ch. Laval, Dominer. Enquête sur la souveraineté de l’État en Occident (Paris: 2020. La découverte). La versione inglese di questo articolo è pubblicata in Soft Power. Revista euro-americana de teorìa e historia della politica e del derecho, Issue 17 ( 9,1) – January-June 2022
1. La discussione sulla globalizzazione è debitrice, in larga parte, della geografia politica emersa nel mondo occidentale moderno. È la mappa di un mondo ordinato attorno agli stati sovrani, ai loro confini e alle loro relazioni. Il soggetto è lo stato sovrano, che occupa il monopolio della scena: le relazioni internazionali significative sono relazioni interstatuali. Il Nomos della terra di Carl Schmitt è il libro che ha dipinto questa scena con i colori più forti: quel mondo è stato, secondo Schmitt, il vero miracolo dei giuristi. Grazie allo stato e alla sua sovranità, si riusciva a tenere a bada la guerra civile, e allo stesso tempo, ad assicurare un corretto rapporto tra la politica e l’economia. La politica assicurava l’ordine e garantiva al mondo degli interessi economici una relativa indipendenza, offrendogli allo stesso tempo le proprie prestazioni in termini di produzione di ordine, di stabilità e di sicurezza. È un’immagine del mondo idealizzata e costruita su un evidente rimosso coloniale, che del resto proprio nel Nomos Schmitt lascia emergere esplicitamente, nominando le amity lines come confine tra questo nomos ordinato e le terre di conquista. È però l’immagine del mondo a partire dalla quale si è misurata in seguito la rottura prodotta dalla globalizzazione. In breve: l’Economico travolge il Politico con l’esaurirsi della centralità della forma stato. Di qui il problema di ritrovare un ordine possibile, che restauri il primato del Politico sull’Economico; o, al contrario, di proclamare l’estinzione del Politico insieme alla forma Stato, e di assumere l’ordine economico come ordine del mondo.
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Guerra e politica
di Enrico Tomaselli
Se l’assunto clausewitziano, secondo cui la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, risponde al vero, ne consegue che le indicazioni politiche hanno un peso determinante negli esiti della guerra. Perseguire attraverso il momento bellico obiettivi impossibili, si traduce in un grosso rischio militare – il quale, a sua volta, non potrà che riflettersi sul piano politico
Se guardiamo alla guerra in Ucraina sotto questo profilo, ci accorgeremo rapidamente che di errori politici ne sono stati commessi molti, e da entrambe le parti, tanto che a dieci mesi dall’inizio del conflitto non si vede come uscirne. E chiaramente stiamo parlando di errori significativi, per nulla marginali, che hanno conseguentemente condizionato – e tuttora condizionano – l’andamento della guerra; e per di più, non si tratta soltanto di errori commessi a monte del 24 febbraio, ma anche successivi, in corso d’opera. Com’è ovvio, questo accumulo produce effetti che si sommano gli uni con gli altri, riorientando l’andamento del conflitto, che già di suo è un processo non strettamente determinabile.
Gli errori americani
Tralasciando gli errori commessi dagli attori minori, prenderemo in esame qui quelli commessi dai due principali antagonisti, gli Stati Uniti e la Russia.
Prima d’ogni cosa va però fatta una precisazione, affatto secondaria. Entrambe si sono preparati da anni a questa guerra, anzi – per quanto riguarda gli USA – non solo si sono preparati, ma l’hanno preparata.
Gli obiettivi strategici che la leadership statunitense intendeva perseguire attraverso la guerra, erano fondamentalmente due: separazione netta e definitiva dell’Europa dalla Russia, e logoramento di questa a 360°.
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Introduzione a Dialettica dell’irrazionalismo
di Enzo Traverso
Da Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács tra nazismo e stalinismo, Ombre Corte, Verona 2022
Sono molte le ragioni che suggeriscono oggi, a settant’anni dalla sua prima pubblicazione, una rilettura di La distruzione della ragione di Lukács. Per i filologi e gli storici della filosofia sono ovvie: si tratta di riscoprire una delle opere più ambiziose di uno dei grandi pensatori del Novecento. Ce ne sono altre, altrettanto ovvie, che derivano dall’interesse intrinseco di questo libro, profondamente contestabile ma ricco di idee. Tutti riconoscono che dei legittimisti fanatici come Joseph de Maistre e Donoso Cortés, un filosofo fascista come Giovanni Gentile, dei pensatori conservatori compromessi col nazismo come Martin Heidegger e Carl Schmitt, meritano di essere letti e meditati. Perché non dovremmo riservare un analogo trattamento a Lukács? Si possono ricavare delle lezioni utili dalle opere dei cattivi maestri, ma per questo bisogna saperli leggere, non per seguirne l’insegnamento, ma andando oltre la semplice condanna che nasce da un’interpretazione angusta e sterile. L’apologia dello stalinismo che permea La distruzione della ragione, pubblicata a Berlino per i tipi di Aufbau Verlag nel 1953, appare oggi indegna e colpevole, ma va spiegata e compresa nei suoi significati. Non per giustificarla o “perdonarla” come faceva Hannah Arendt nel 1970, rievocando i trascorsi nazisti di Heidegger1– ma perché non è aneddotica; essa getta luce su una tappa fondamentale del percorso del suo autore e anche, al di là di Lukács, del marxismo e della cultura di sinistra durante gli anni più bui della guerra fredda. Bisogna insomma, per usare la formula di Leo Strauss, imparare a “leggere tra le righe”2, interpretando un’opera come La distruzione della ragione non soltanto come un manifesto ma anche come un sintomo. È questo l’esercizio che cercherò di compiere nelle pagine che seguono.
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Economia e guerra
di Rossana De Simone, Andrea Fumagalli, Christian Marazzi
Pubblichiamo la trascrizione dell'incontro «Economia e guerra», seconda parte di un dibattito intitolato «Guerra o rivoluzione. Capire la guerra per capire come combatterla», tenutosi durante il festival di Derive Approdi di fine settembre. Gli interventi di Christian Marazzi, Rossana De Simone e Andrea Fumagalli, che dialogano con le relazioni di Maurizio Lazzarato e Cristina Morini che li hanno preceduti, si inseriscono in una riflessione che abbiamo portato avanti con Transuenze negli ultimi mesi. Abbiamo chiesto ai relatori se la palese tendenza al riarmo a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi possa preludere ad un ritorno al keynesismo militare come modalità di rilancio del ciclo economico. Bisogna naturalmente intendersi sul concetto di «keynesismo militare», concetto utilizzato più per eredità storica che per correttezza formale. Quello che ci interessa capire è in che modo il «ritorno» dello Stato al centro dei processi regolativi per coniugare ciclo economico e interessi di difesa nazionale (quello che è stato definito «nuovo capitalismo politico») e il tentativo (se c'è davvero) di ricostruzione di nuovi blocchi sociali (attorno alla stessa questione della guerra?),si coniugano con le fibrillazioni geopolitiche ed una guerra scoppiata nel cuore dell'Europa.
* * * *
Christian Marazzi
Il capitalismo è nato come atto di guerra, la privatizzazione dei beni comuni è stata pura violenza contro coloro che fino a quel momento potevano disporne e vivere grazie ad essi. Sono d’accordo con Maurizio Lazzarato quando ribadisce la centralità della questione monetaria, nella fattispecie del dollaro, e che la globalizzazione ha camminato di pari passo con la dollarizzazione, con qualche sfumatura negli ultimi dieci anni che andrebbe tenuta in considerazione per spiegare anche lo sbocco bellico nell’Europa centrale.
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“La guerra necessaria. Logiche della dipendenza”
di Alessandro Visalli
Sulla rivista “La Fionda”, numero 2/2022, dal titolo “Guerra o pace. Destini del mondo” è uscito un mio articolo su una logica dell’attuale guerra (non l’unica, ovviamente, ma una delle più pertinenti). L’intero numero della rivista esplora le altre ragioni, ed inquadra la crisi ucraina nei suoi plurimi e molteplici contesti. Sono presenti interventi autorevoli, come quello di Carlo Galli che apre il testo “Geopolitica come critica”, o interventi di Alessandro Somma “Si scrive europeismo ma si legge atlantismo”, di Marco Baldassari “Imperi, Stati e grandi spazi”, Paolo Cornetti “Stati Uniti d’America: l’impero minacciato”. O altri, nella sezione Geopolitica e Geoeconomia, che si apre con il mio testo, di Pierluigi Fagan “La transizione dell’ordine mondiale nell’era complessa”, Matteo Bortolon “Sanzioni come una nuova forma di guerra” e Marcello Spanò “Il sistema finanziario dollarocentrico alla prova del conflitto in Ucraina”. Infine Onofrio Romano, “Tina al Sud” e Silvia d’Autilia e Mario Cosenza, “Sguardi sul presente tra biopolitica e spettacolo”.
Questo solo per dire di alcuni interventi, non necessariamente i principali.
Quello che segue è la versione lunga dell'articolo, quella pubblicata è di un terzo più sobria.
* * * *
La guerra sollecita sentimenti di morte e gratifica le virtù meno virtuose, esalta il coraggio meramente fisico, sollecita il nazionalismo. La nostra civiltà, come è accaduto in altre crisi, sta retrocedendo rapidamente (uso questa parola che evito sempre perché qui è appropriata in senso tecnico) a stati spirituali ed emotivi che si credevano erroneamente passati, quando erano solo sopiti perché non necessari.
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Dalla questione meridionale allo Stato-piano. Gramsci e l’operaismo
di Federico Di Blasio
Il testo rilegge la questione meridionale e la rivoluzione passiva gramsciana attraverso il «filtro della soggettivazione» e, nell’assumere il punto di vista dei subalterni, apre all’analisi operaista dello Stato-piano
Quando il secondo conflitto mondiale giunge a termine, l’Italia è, ancora più di prima, un crocevia di contraddizioni. Il fascismo e la guerra hanno assestato un decisivo fendente a una situazione già ampiamente precaria. La storia del belpaese era d’altronde da lungo tempo una storia fatta di fratture, divisioni interne, spaccature profonde e insanabili.
È in tale contesto storico che va situata, in termini contemporanei, la cosiddetta questione meridionale. Ossia, quel fascio di problemi volto a mettere a fuoco il divario economico, sociale e politico tra Nord e Sud. Di più, si tratta, con la questione meridionale, di tentare di risolvere la vexata quaestio del divario tra Settentrione e Meridione nell’ottica di un superamento dello sviluppo a due velocità tale da aver prodotto, nel corso dello svolgimento della storia del nostro paese, due Italie: la prima sulla via della crescita industriale sulle spalle di una sempre più crescente classe operaia, la seconda degradata e rurale, sorretta da una massa contadino-rurale sotto il giogo di un arcaico blocco agrario.
Intellettuali, subalterni e l’economia programmatica nei Quaderni del carcere
Per lungo tempo la Questione meridionale è stata associata al problema dell’alleanza di classe tra classe operaia e contadina e classe borghese riformista e illuminata. Ciò deriva dall’impostazione data da Antonio Gramsci, in un lungo articolo del 1926 dal titolo Note sul problema meridionale e sull’atteggiamento nei suoi confronti dei comunisti, dei socialisti e dei democratici e più comunemente noto come Alcuni temi della questione meridionale.
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Valutazione, misurazione e conflitto
di Marco Maurizi
Esiste un problema relativo alla valutazione e alla misurazione del sapere nella scuola? E da cosa dipende? La misurazione implica sempre una qualche forma di traduzione del qualitativo nel quantitativo, riconduce il diffuso e variabile a criteri di uniformità e univocità. Come ho cercato di mostrare qui ( https://marcomaurizi74.wordpress.com/2022/09/21/la-contraddizione-qualitativa-fondamentale-del-capitalismo/ ) il problema del qualitativo può essere inteso razionalmente non come ciò che è vagamente e fumosamente altro dai meccanismi di quantificazione e misurazione bensì come ciò che esprime un conflitto interno al processo di razionalizzazione capitalistico. In questo modo il qualitativo si mostra come espressione di una contraddizione immanente alla forma della ragione e dunque espressione di interessi legittimi, a loro volta razionali, universalizzabili, che però non trovano spazio nel modo in cui la società di classe riduce dall'alto e distorce, in senso particolaristico, quei meccanismi di ordinamento e manipolazione della realtà.
Quando si parla di valutazione e mondo della scuola questo aspetto della questione viene completamente eluso e tutto si muove in un mondo ideale, astratto, dove quelle dinamiche di classe e il loro effetto distorsivo sui processi di quantificazione improvvisamente non esistono più. Si predica, da un lato, la pura e semplice celebrazione tecnocratica della misurabilità assoluta del sapere (i test) con la conseguente parcellizzazione dell’insegnamento in parti perfettamente e aprioristicamente quantificabili: il processo di apprendimento ridotto a catena di montaggio; oppure, in senso opposto, la valutazione diventa uno dei mali della scuola, una forma di potere maligno in mano ai docenti che occorrerebbe quanto prima sottrarre loro per far emergere altro, un vago e indistinto altro, qualitativamente contrapposto ai freddi numeri scarabocchiati dagli insegnanti.
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Crisi ucraina: un primo bilancio delle sanzioni contro la Russia
di Andrea Vento*
Il 6 ottobre scorso l’Unione Europea ha varato l’ottavo pacchetto di misure sanzionatorie contro Mosca[1] con il dichiarato fine di fiaccare l’economia russa e indurre Putin ad un accordo di pace da posizioni di debolezza o, addirittura, costringere le truppe impegnate in Ucraina alla sconfitta militare, grazie anche alle ingenti forniture militari di Usa e Ue ormai giunte ad oggi a 100 miliardi di dollari.
Massiccio sostegno che, sommato al supporto di intelligence degli Usa e del Regno Unito, stanno mettendo in difficoltà sul campo le forze militari russe.
Rispetto alle previsioni dei governi occidentali che hanno accompagnato il varo del primo pacchetto di sanzioni introdotte dalla Ue e dagli Usa il 23 febbraio scorso, a seguito del riconoscimento delle Repubbliche Popolari del Donbass che ha preceduto di un giorno l’Operazione Militare Speciale, quale risulta l’effettiva entità dell’impatto delle sanzioni sull’economia russa e sulle sue relazioni internazionali?
La recessione che avrebbero causato alla Russia dalla previsione del Fmi ad aprile di un pesante -8,5% per il 2022, si è più che dimezzata a -3,5% nel World Economic Outlook di ottobre della stessa istituzione, passando per il -6,0 di luglio, a testimonianza della capacità di tenuta e di resilienza dell’economia russa (tab. 1).
Mentre a livello internazionale, seppur oggetto di condanna da parte di una Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu del 3 marzo per l’invasione dell’Ucraina votata da 141 Paesi su 193, la Russia, appare tutt’altro che emarginata appurato che solo 37 Paesi dei 193 (pari al 19% del totale) dopo 7 settimane dal 24 febbraio[2], avevano aderito alle sanzioni promosse dagli Stati Uniti e imposte da questi ultimi anche all’Ue (carta 1).
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Un nuovo percorso teorico, di Gianfranco la Grassa*
Introduzione di Gianni Petrosillo
In questo nuovo saggio, il cui titolo è indicativo della direzione intrapresa dallo studioso veneto, Gianfranco La Grassa fa i conti con le epoche, quella passata, quella in corso e quella che irrimediabilmente si avvicina, per fornire una chiave teorica nuova delle inevitabili transizioni e mutazioni che l’incedere della Storia porta con sé, soprattutto a livello sociale. Il suo strumento analitico privilegiato è quel marxismo che, dopo essere stato aggiornato, diventa una porta di uscita verso un nuovo approccio teorico più adatto alla comprensione dell’attuale formazione sociale. Occorre, peraltro, rammentare che La Grassa ha iniziato un faticoso lavoro di revisione teorica ormai trent’anni fa e la sua “uscita” dal marxismo deve pertanto essere considerata una gestazione travagliata che non ha saltato alcun passaggio logico, un raro caso di esame di coscienza fatto per ragioni di scienza.
Purtroppo, l’esistenza umana è troppo breve per cogliere (e spesso accettare) i profondi cambiamenti che inevitabilmente la coinvolgono (e sconvolgono), tanto più che gli accadimenti producono i loro effetti sul lungo periodo, spesso più lungo della vita di una o più generazioni, sfuggendo alla comprensione immediata di chi li vede nascere e non li vedrà giungere alle estreme conseguenze o di chi li sentirà deflagrare senza avere memoria del loro inizio, necessitando, pertanto, per essere intesi interamente di una riflessione “ampia”, utile a mettere insieme i vari frammenti evenemenziali finalizzati alla costruzione di un quadro più o meno coerente della situazione, anche se mai definitivo. Per questo la si deve “prendere alla lontana” altrimenti cause ed effetti sono destinati a essere equivocati o desunti arbitrariamente da stati e fatti troppi vicini o insistentemente fraintesi per essere adeguatamente sceverati e interpretati.
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“La modernizzazione cinese: percorsi, successi e sfide”
di Fosco Giannini
Verso la fine del 2021 l'Accademia delle Scienze Sociali del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (Chinese Academy of Social Sciences, CASS) chiese al nostro direttore, compagno Fosco Giannini, di scrivere un libro, per la Cina, sul nuovo sviluppo economico cinese, sul "socialismo dai caratteri cinesi". Il libro, scritto da Giannini prima del XX Congresso del Partito Comunista Cinese, celebratosi dal 16 al 22 ottobre 2022, sarà tra poco, sia in cinese che in inglese, nelle librerie di Pechino. Il titolo del libro è "La modernizzazione cinese: percorsi, successi e sfide". Di questo libro di Fosco Giannini anticipiamo di seguito uno dei capitoli
La modernizzazione, lo sviluppo delle forze produttive
Apriamo questo capitolo sulla “modernizazzione della Cina” attraverso una citazione del grande filosofo marxista italiano Domenico Losurdo, tratta da un intervento che lo stesso Losurdo svolse al Forum europeo del 2016 dal titolo “La via cinese e il contesto internazionale”. L’intervento di Losurdo aveva come titolo “Washington consensus o Beijing consensus?'”. In un passaggio del suo intervento il grande filosofo italiano così si esprimeva: “La guerra di posizione condotta dalla classe dirigente del Partito Comunista Cinese ha visto negli ultimi 40 anni di Riforme e Apertura – nel contesto del più grande sviluppo economico della storia dell’umanità – 800 milioni di cinesi affrancarsi dalla povertà, un fenomeno che è stato definito dalla Banca Mondiale come uno dei più grandi racconti della storia dell’umanità. Di questi 800 milioni, 60 sono usciti dalla condizione di povertà soltanto negli ultimi 5 anni. Si tratta evidentemente di una lotta di classe che procede in direzione opposta rispetto a quella condotta in Occidente, dove assistiamo ad un processo inverso nel quale si determina un allargamento sempre maggiore della forbice sociale tra ricchi e poveri”.
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Da Roma a New York: Il keynesisimo eclettico del giovane Modigliani
di Paolo Paesani
Franco Modigliani (Roma 1908, Cambridge Massachusetts 2003) rimane un esempio di come sia possibile coniugare ricerca economica di alto livello, attenzione per i fatti concreti dell’economia, impegno nelle istituzioni, passione civile. Particolarmente significativo, in questo senso, l’interesse di Modigliani per l’Italia, il suo impegno nel formare generazioni di economisti italiani, la sua lunga collaborazione con la Banca d’Italia. La bibliografia su Modigliani si è arricchita, di recente, grazie al nuovo libro di Antonella Rancan (Franco Modigliani and Keynesian economics, 2020, Taylor and Francis). Combinando materiale d’archivio, scritti inediti e contributi importanti alla letteratura primaria e secondaria, Rancan ripercorre il percorso intellettuale del giovane Modigliani, dai suoi primi scritti fino ai contributi degli anni ’50 e 60, collocandoli nel quadro della sintesi neoclassica del pensiero keynesiano.
Fra i contributi principali in questa direzione, Modigliani sviluppa l’idea che la disoccupazione persistente sia dovuta a uno squilibrio di fondo tra offerta di moneta e salari nominali (rigidi verso il basso) (Modigliani, Liquidity preference and the theory of interest and money, Econometrica, 1944) e che in assenza di tale rigidità il sistema economico convergerebbe, almeno teoricamente, alla piena occupazione. La rigidità però è un fatto indiscutibile ed è per questo che spetta ad una politica economica giudiziosa, e in particolare alla politica monetaria, intervenire a sostegno dell’occupazione e in generale agire per stabilizzare l’economia, a fronte di shock dalla portata e dagli effetti inattesi.
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Alcune riflessioni sulla Matrix della Grande Menzogna
di Alberto Bradanini
Catlin Johnstone, una giornalista australiana eterodossa, in una sua angosciata analisi[1] afferma che la terza guerra mondiale è oggi una prospettiva che i media mainstream – e dunque i loro padroni su per li rami della piramide – ritengono possibile, come fosse un’opzione come un’altra. L’oligarchia occidentale e il suo megafono mediatico sono così usciti dal solco della logica e del buon senso, dando un lugubre contributo alla locomotiva che potrebbe condurre il mondo alla catastrofe.
Secondo un nugolo di cosiddetti esperti, alcuni qui di seguito menzionati, gli Stati Uniti devono aumentare subito e di molto le spese militari, perché occorre prepararsi a un inevitabile conflitto mondiale.
Questa patologica esegesi della scena internazionale viene presentata senza alcuna prova e con la veste di una necessità ontologica, come un incendio destinato a scoppiare per autocombustione. Il menu viene poi arricchito con l’elencazione dei nemici pronti a invadere l’Occidente, fortunatamente protetto dalla pacifica nazione americana, la sola in grado di difendere le nostre democratiche libertà.
Il funesto allargamento della guerra in Ucraina – che, coinvolgendo nazioni in possesso dell’arma nucleare, porterebbe allo sterminio della razza umana – sarebbe dunque l’esito di una congiunzione astrale come la gravitazione della luna sulle onde del mare. Essa non dipenderebbe – come invece pensano miliardi di persone al mondo, del tutto ignorate, ça va sans dire – dalla patologia di dominio e di estrazione di ricchezze altrui da parte di quella superpotenza che decide fatti e misfatti del governo ucraino e che dispone del potere di porre fine alle ostilità in qualsiasi momento, se solo rinunciasse alla sua irrealistica strategia di dominio unipolare del pianeta (una valutazione questa condivisa da numerose personalità e studiosi statunitensi, anch’essi ignorati).
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Introduzione a “Storia e coscienza di classe”
di Giorgio Cesarale
Tratto da György Lukács, Storia e coscienza di classe, trad. di G. Piana, PGreco, Milano 2022
1. La preistoria di Storia e coscienza di classe
Una delle caratteristiche di Storia e coscienza di classe, l’opera filosofica più importante che sia sorta nel seno del marxismo del ’900, è la straordinaria tensione fra la brillantezza delle formulazioni e la complessa e magmatica materia storico-spirituale che vi è sottesa. Soprattutto oggi, a un secolo di distanza dalla pubblicazione dell’opera, si può cogliere in essa la freschezza e la potenza di quelle tesi che hanno dato vita a una intera tradizione filosofica e politica, il “marxismo occidentale”: il marxismo inteso come metodo di autonoma ricerca e nuova costruzione anziché come archivio di “citazioni” da applicare estrinsecamente alla materia storica o come semplice accertamento del fondamento “economico” di ogni azione umana; la coscienza di classe come “coscienza attribuita di diritto”, cioè come coscienza che, comprendendo la propria posizione nella totalità dei rapporti di produzione capitalistici, attinge la sua destinazione storico-politica; la conseguente critica alla separazione fra coscienza e realtà, di cui si scopre il fondamentale motivo generatore nella merce, che è la cellula germinale di quel capitalismo che ne ha cagionato la generalizzazione, sia intensive sia extensive; la diagnosi circa il carattere pervasivo della reificazione o alienazione degli uomini nella società moderna, in grado di investire una molteplicità di livelli costitutivi della loro vita, fino a quello politico, dove essa si esprime o come opportunistico accomodamento alle condizioni presenti, la socialdemocrazia, o come slancio volontaristico al di là di esse, l’utopismo, l’anarchismo, il blanquismo; il principio della prassi come cosciente modificazione della realtà, che ne dissolve la scorza apparentemente intangibile, la “seconda natura”, per ricondurla alla vivente interazione antagonistica fra le classi; la critica alle antinomie della filosofia moderna, p. cs. quelle fra immediatezza e mediazione, contenuto e forma, essere e pensiero, in quanto generate dal mancato attingimento di questo stesso principio della prassi; la ricostituzione delle categorie del marxismo attorno a una nozione di proletariato come “soggetto-oggetto identico” che, fornendo il contenuto materiale delle forme che costellano il processo di riproduzione capitalistico, scioglie le stesse antinomie del pensiero borghese, e impone così una ristrutturazione del significato della storia nel senso di una soggettività che ne costituisce sempre l’oggettività, anziché semplicemente rifletterla; la critica, su tale base, alla dialettica della natura configurata da Engels, per la quale ti soggetto coglie i nessi dialettici naturali in veste di osservatore, come se tosse uno spettatore che li contempla puramente dall’esterno; la riattivazione del nucleo antifeticistico della dialettica, intesa come esperienza del pensiero che, negando ogni determinazione rigidamente finita e unilaterale, arriva a incorporare la stessa genesi delle forme, a riconvertire le cose nei processi e questi ultimi di nuovo nelle cose1.
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Procedere verso l'utopia o precipitare verso il disastro?
di Michael Roberts
Il peana al capitalismo di un grande economista sottace le gravi disuguaglianze, le guerre e la devastazione ecologica
Bradford DeLong è uno degli economisti keynesiani e storici dell’economia più importanti del mondo, professore di Economia all'Università della California, Berkeley. DeLong è stato vice segretario aggiunto del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti nell'amministrazione Clinton, sotto Lawrence Summers. È un tipico democratico liberale nella politica statunitense e un keynesiano classico in economia.
Recentemente ha pubblicato un libro intitolato Slouching Toward Utopia. An History of the Tweintieth Century. Si tratta di un lavoro ambizioso che mira ad analizzare e spiegare lo sviluppo dell'economia capitalistica in quello che considera il suo periodo di maggior successo, il XX secolo.
In particolare, DeLong afferma che il capitalismo come forza progressiva per lo sviluppo dei bisogni dell'umanità è decollato solo dal 1870 fino alla Grande Recessione del 2008-9, che ha completato quello che lui chiama il «lungo ventesimo secolo». Quali sono le ragioni che hanno consentito al capitalismo di garantire una crescita economica più rapida e un salto di qualità nel tenore di vita dal 1870 in poi? Secondo DeLong, la comparsa di tre fattori «la globalizzazione, il laboratorio di ricerca industriale e la moderna impresa». Questi fattori «hanno dato avvio a cambiamenti che hanno cominciato a trarre fuori il mondo dalla terribile povertà che era stata la sorte dell'umanità nei precedenti diecimila anni, sin dalla scoperta dell'agricoltura». La crescita si deve quindi all'espansione del capitale e delle economie di mercato dall'emisfero settentrionale al resto del mondo, all'introduzione di nuove tecnologie e scoperte scientifiche e alle moderne aziende che le hanno sviluppate per il mercato.
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Immaginare la fine del capitalismo con Fredric Jameson
di Fabio Ciabatti
Marco Gatto, Fredric Jameson, Futura Editrice, Roma 2022, pp. 192, € 14,25
Recentemente Fredric Jameson ha fatto una interessante puntualizzazione su quella che è probabilmente la più citata delle sue affermazioni: “quando ho detto che è più difficile immaginare la fine del capitalismo che la fine del mondo, non volevo certo intendere che fosse impossibile”. Questa presa di posizione può essere letta come una precisazione relativa ai possibili esiti della sua celebre analisi sul postmodernismo che sembrerebbe depotenziare le istanze critiche presenti nei suoi precedenti lavori incentrati sulla produzione culturale moderna e modernista. La citazione conclude la prefazione, firmata dallo stesso critico americano, al testo di Marco Gatto, intitolato Fredric Jameson.1 Il libro ripercorre sinteticamente le fasi più rilevanti dell’avventura intellettuale di un autore capace di produrre testi fondamentali, in ambito marxista e non solo, come Marxismo e forma, L’inconscio politico e Postmodernismo. Opere in cui si sostanzia “l’esperimento materialista di Jameson” che, sintetizza Gatto, consiste nello “sforzo di capire il presente attraverso le forme e le rappresentazioni dell’immaginario”.2
Il senso ultimo di una lettura dialettica dei fenomeni culturali consiste, secondo Jameson, nel mettere in luce la relazione profonda che essi intrattengono con una storia che li contiene e surclassa. Cosa accade a questo approccio, quando, con l’avvento del postmodernismo, possiamo sostenere, utilizzando la formula suggerita da Marco Gatto, che la spazialità sostituisce la temporalità? In questo articolo si cercherà di ritagliare un percorso di lettura attraverso il testo di Gatto per abbozzare una risposta a questa domanda, cercando di non fare torto alla densità concettuale della sua ricostruzione di un percorso intellettuale quanto mai complesso.
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Ucraina, dollari e yuan
di Guido Ortona
1. Guerra ed economia. I commentatori italiani, e non solo, hanno perlopiù ignorato i dati macroeconomici di fondo che stanno alla base della guerra d’Ucraina. Eppure non dovrebbero essere trascurati, perché senza prenderli in considerazione non è possibile capire perché sia la Russia che gli USA abbiano preferito la guerra a un’intesa diplomatica. Come è (o dovrebbe essere) noto, la causa prossima della guerra è stata il patto americano-ucraino del novembre 2021 (il testo è facilmente reperibile su internet), che sanciva l’impegno USA ad aiutare l’Ucraina nella riconquista di Crimea e Donbass e il rapido ingresso dell’Ucraina nella NATO (patto a cui la Russia rispose con un documento inviato agli USA in dicembre, in cui si chiedeva la neutralità dell’Ucraina e la sua esclusione dalla NATO e che non venne preso in considerazione). La Russia preferiva, e ha preferito, la guerra e l’intervento della NATO piuttosto che consentire che ciò avvenisse; e gli USA hanno preferito la guerra piuttosto che rinunciare a tale ingresso. Fin qui i fatti. Fare una guerra contro un nemico forte non è un’impresa da poco, occorre chiedersi perché entrambi i contendenti abbiano scelto di farla, o almeno di correre molto seriamente il rischio che scoppiasse. Non ho elementi per valutare appieno le ragioni della Russia, per capire cioè se accettare la massiccia subordinazione dell’Ucraina da parte degli USA prevista dal trattato non potesse andare a vantaggio anche del popolo russo; e se avesse a disposizione alternative meno sanguinarie o strategie geopolitiche più collaborative per impedirlo. In questo articolo mi occuperò solo delle ragioni degli USA.
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