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Paolo Godani, per un tempo comune

Lelio Demichelis

La crisi genera ansia, preoccupazioni, disagio, desocializzazione, populismo, comunitarismo. Ma questi effetti non discendono solo dalla crisi economica e sociale in atto da ormai quasi dieci anni. Le cause sono altre, più antiche, risalgono al modello economico e sociale (biopolitico, direbbe Foucault) che applichiamo da più di duecento anni. Che ha una sua struttura che si modifica incessantemente pur rimanendo nella realtà sempre uguale; e con una sovrastruttura che si fa invece sempre più pervasiva, biopolitica, religiosa.

Lo ricorda Paolo Godani in questo suo saggio di filosofia degli affetti: La vita comune. Per una filosofia e una politica oltre l’individuo. Un libro strano e insieme intrigante, denso e insieme breve, astratto ma concretissimo; e dove i codici di interpretazione passano dalla filosofia alla fiction, dal teatro alla letteratura, dall’estetica alla sociologia, da Marx a Giorgio Gaber e a molto altro ancora. Un libro che ci porta a ragionare sui luoghi comuni che insidiano la nostra vita e il nostro tempo apparentemente senza più tempo, sulla depressione e l’isolamento (pur nel massimo della connessione in rete), ma anche su ciò che – rovesciando la pessima condizione esistenziale – può contrastare questa nostra condizione umana e il nostro essere senza qualità.

Ma cominciamo dall’inizio e da quelle che comunemente definiamo come preoccupazioni e che sembrano accompagnarci e appesantirci in ogni momento della nostra vita.

Godani a sua volta parte da Walter Benjamin, che appunto definiva (nel 1921) «le preoccupazioni come una malattia dello spirito propria dell’epoca capitalistica», per aggiungere che «sono le piccole angosce che accompagnano il tempo delle nostre giornate. Non si tratta delle sublimi sofferenze spirituali per la perdita di una persona cara o anche solo per la fine di un amore, né delle sofferenze fisiche della malattia, ma di un cruccio, per lo più di natura economica, che da un punto di vista fisico e spirituale potremmo essere tentati di dire meschino. […] Con la differenza che per le preoccupazioni non esistono analgesici, perché – come spiega appunto Benjamin – esse sono definite dal sentimento costante di un’assenza di vie di scampo».

Preoccupazioni che nascono soprattutto dal fatto che gli individui – scrive Godani – sono isolati di fronte alla «macchina economica o burocratica – allo stesso modo in cui lo sono, nel Processo di Kafka, di fronte alla macchina della Legge. Da questo punto di vista, il Capitale e la Legge sono entrambi dispositivi che producono individui isolati». Dunque, massimo isolamento nel massimo (come deve essere) della massificazione, anche se questa è appunto l’essenza e la tecnica di produzione del capitalismo e del mondo industriale (e che oggi, aggiungiamo, si replica in rete). Perché «le preoccupazioni sono il sintomo di una riduzione della vita comune, che costituisce gli individui come atomi separati. Per questo, cioè per il fatto che chi è in preda alle preoccupazioni è sempre costretto a cavarsela da solo, Benjamin conclude che le preoccupazioni sorgono dal sentimento dell’assenza di una via d’uscita che sia collettiva».

Benjamin – opportunamente richiamato più volte da Godani – paragonava il capitalismo a una religione, «perché entrambi si presentano come sistemi totalizzanti. Come la religione, il capitalismo non ammette l’esistenza di zone franche, sottratte al proprio dominio. Una condizione rispetto alla quale non esiste via d’uscita, implica la nascita di un senso di colpa assoluto, di un sentimento di dipendenza senza liberazione possibile, cioè di un destino. […]. L’unica via d’uscita dal capitalismo sarebbe non esservi mai entrati, così come l’unica via d’uscita dall’isolamento e dalla solitudine individuale sarebbe non essere mai diventati gli individui che però ormai siamo diventati». Dunque, l’atomizzazione contemporanea: «Con questo termine non si indica soltanto un fenomeno materiale (quello per cui gli individui sono concretamente separati gli uni dagli altri, isolati nell’esistenza quotidiana, sul luogo di lavoro etc.), ma anche un fenomeno di natura spirituale, un fenomeno che riguarda i modi in cui percepiamo e concepiamo noi stessi, le nostre relazioni e le cose che ci circondano».

Come uscire da questa apparente autoreferenzialità del disagio, dell’isolamento, delle preoccupazioni, dell’inquietudine? Scrive Godani: dai dispositivi dell’atomizzazione contemporanea (senso di colpa, solitudine, depressione, ma anche la paranoia) è possibile far emergere il rovescio comune. Per una vita comune, oltre l’individuo. Non «in comune, ma comune in sé». Perché la nostra stessa vita è meno nostra ed esclusiva di quel che pensiamo. Ad esempio, nel desiderio: perché «desiderare è divenire, e il divenire è sempre un divenire comune: essere accomunati con qualcosa, condividerla, volersi fare della stessa stoffa di cui è fatta la cosa desiderata. L’espressione di un desiderio autentico non è mai voglio questo o quello, ma sempre del tipo voglio diventare una cometa, anche perché – come ci dice la stessa etimologia del termine – il desiderio ha sempre a che vedere con gli astri (sidera). [] Il desiderio sarebbe quindi innanzitutto lo sguardo rivolto a ciò che attrae. E non è un caso, forse, che Platone chiamasse bello ciò che, come eros, attrae più di ogni altra cosa e, come le stelle, più di ogni altra cosa risplende».

Ma quale desiderio? Anche le grandi narrazioni del Novecento erano forme di desiderio (politico, sociale), che ora sono scomparse. E dunque? In realtà, scrive Godani, proprio «la fine della speranza ci obbliga a pensare la giustizia (o la società senza classi) senza riferimento all’avvenire, ma come una giustizia perfettamente immanente. Questa necessità ne porta con sé una ulteriore: quella di vedere nel presente, al contempo, tanto la dannazione quanto la salvezza. Il compito è allora quello di selezionare, in ciò che c’è, la sua natura comune, e di affermarla in maniera tale da renderla dominante rispetto al disastro dell’isolamento […] è lottare contro un tempo che divide gli uomini, in favore di un tempo comune che consenta a tutti di avere il tempo per fare a meno del tempo», superando l’isolamento individuale in nome di una molteplicità comune.

E allora, opporsi al modello dominante non è solo rivendicare un qualche diritto in più, scrive Godani, ma «la difesa di un territorio in sé da sempre sottratto alla giurisdizione economica o statale». Con una nuova «politica della vita comune. Essa implica soltanto la capacità collettiva di tenere alla larga le forze che pretendono di appropriarsi di ciò che non è possibile possedere». Cosa non facile, e forse – crediamo – non sufficiente, proprio per la natura strutturalmente appropriativa e mercificante e divisiva e falsamente individualizzante del tecno-capitalismo (che Godani ben riconosce). Ma comunque necessaria. Pur convinti che, accanto a un nuovo comune – ancora incerto e debole davanti al divide et impera dell’apparato – occorra anche un individuo autonomo in senso kantiano, capace di decostruire la falsa individualizzazione prodotta incessantemente dal sistema.


Paolo Godani, La vita comune. Per una filosofia e una politica oltre l’individuoDeriveApprodi, 2016, 106 pp., € 12

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