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palermograd

Giovanni Arrighi prima di Il lungo XX secolo

di Giordano Sivini

31lugliocultrPer Giovanni Arrighi ne Il lungo XX secolo [1] l’evoluzione storica del capitalismo è caratterizzata dal progressivo ampliamento dell’area di accumulazione del capitale, dalle città-stato dell’Europa continentale al mondo quale è oggi, attraverso cicli sistemici, governati ciascuno da Stati che hanno avuto funzioni egemoniche, in fasi successive di espansione materiale e di espansione finanziaria. L’espansione materiale è il risultato di attività che mettono in movimento una crescente massa di merci, forza lavoro inclusa, producendo profitti. Quando i profitti calano a causa della crescente competizione tra i capitali, invece di essere reinvestiti fluiscono in forma liquida da tutto il sistema verso gli istituti finanziari alimentando l’espansione finanziaria. La capacità egemonica si indebolisce e gli altri Stati del sistema cercano di appropriarsene per orientarla verso nuovi orizzonti produttivi, finché emerge uno che, concentrando potenza economica e militare, diventa il perno di una nuova configurazione egemonica.

Arrighi definisce i cicli in termini di D-M-D’, entro il quale D-M è la fase di espansione economica e M-D’ quella di espansione finanziaria, così che il capitalismo può essere configurato come dominio del valore su aree di accumulazione di crescente ampiezza. L’obiettivo è di capire come si concluda al momento della sua massima espansione. Su questo terreno l’attività scientifica di Arrighi si sviluppa dopo l’abbandono di una diversa prospettiva epistemologica, basata sul rapporto antagonistico tra capitale e lavoro.

Nei primi anni ’70, direttamente coinvolto nelle lotte operaie, aveva prodotto il concetto di forza strutturale della classe, che è rimasto centrale nei suoi lavori fino alla fine degli anni ’80, quando, constatando l’incapacità del marxismo del movimento operaio di leggere le trasformazioni strutturali del capitalismo e percependo che l’omogeneità di classe si sta disgregando, viene a trovarsi in un cul de sac.

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mondocane

Imprevisto in M.O.: vincono Siria, Iraq, Yemen. E anche l'Iran sta meglio

Il papa e gli altri corrono ai ripari, la Russia tra un colpo al cerchio e uno alla botte

di Fulvio Grimaldi

Jorge Mario Bergoglio, oggi Francesco, ha inviato un appello-protesta. A Trump? A Mohamed bin Salman? A Netaniahu? A Erdogan? No, a  Bashar el Assad

IsisSiria, ce ne fossero

Da otto anni la Siria, Stato libero, laico, di impronta socialista, multinazionale e multiconfessionale, baluardo arabo della decolonizzazione, della resistenza alle aggressioni e ai complotti da vicino e lontano, del sostegno alla lotta di liberazione dei palestinesi e dei popoli arabi, della solidarietà ai paesi che si oppongono all’imperialismo, è sotto attacco da parte di una coalizione internazionale che vanta il più grande potere militare, economico e finanziario del mondo. Da otto anni, con l’appoggio dell’Iran e di Hezbollah e quello prezioso, ma piuttosto selettivo, della Russia, il popolo siriano subisce il terrorismo di bande di mercenari jihadisti reclutate, istruite, armate e pagate da Usa, Nato, Israele, monarchie del Golfo, Turchia e la devastazione umana e materiale di bombardamenti Usa, Nato e israeliani, contro i quali non dispone di quelle difese che la Russia avrebbe potuto e dovuto fornirle, come le ha fornite alla Turchia, all’India che martirizza il Kashmir e ad altri paesi.

Da otto anni, incredibilmente, il popolo, l’esercito, le forze popolari siriane stanno sostenendo questa aggressione di potenze infinitamente superiori, a costo di inenarrabili sacrifici, perdite, sofferenze, dando al mondo degli oppressi, aggrediti, offesi e sfruttati un esempio di eroismo e una prospettiva di vittoria. Già per questo può vantare vittoria contro un vero e proprio asse del male. Vittoria alla quale ora non manca che la liberazione degli ultimi territori invasi e occupati dal nemico: la provincia di Idlib, santuario del terrorismo internazionale espulso dal resto della Siria, protetto dall’esercito e dalle armi di Erdogan, e il Nord-Est, un terzo del territorio nazionale, in Occidente chiamato Rojava.

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Sudan: inizia il processo di transizione

di Giacomo Marchetti

hchvjftvgmIn Sudan è iniziato il processo di transizione, con la firma della bozza di Costituzione Transitoria del 4 agosto da parte sia del Consiglio Militare di Transizione (TMC) che ha preso le redini del Paese africano dopo il defenestramento l’11 aprile scorso di Omar Al-Bashir – che governava il Sudan dal colpo di stato del 30 giugno del 1989 – e la coalizione delle forze di opposizione del regime – le Forze della Libertà e del Cambiamento (FFC), di cui è parte integrante il raggruppamento delle varie associazioni dei settori sociali che sono stati la spina dorsale delle mobilitazioni dal dicembre scorso – la SPA.

La popolazione sudanese ha festeggiato la firma della Costituzione Provvisoria, che allontana lo spettro della “guerra civile” e pone le basi per far voltare pagina al Paese dopo quasi 30 anni di regime sanguinario, e forse chiude un periodo di grande incertezza che ha caratterizzato i mesi successivi alla deposizione del despota sudanese.

La mobilitazione popolare non è mai scemata, nemmeno dopo lo sgombero violento del presidio di fronte al QG dell’esercito della capitale il 3 giugno, e gli episodi di feroce violenza contestuali e successivi, non limitati a Khartoum, da parte con ogni probabilità di elementi delle RSF e con ilplacet di Arabia Saudita, EAU ed Egitto (insieme al Ciad), grandi sponsor della “giunta militare”.

In questi mesi si è assistito ad uno “stop and go” nelle trattative, che più volte si sono arenate, e ad un susseguirsi di conflitti interni, sia nel campo dell’esercito che dell’opposizione, con un ruolo attivo di attori internazionale, oltre quelli già menzionati, che ha visto un rinnovato protagonismo anglo-statunitense in Sudan ed un ruolo centrale dell’Unione Africana e dell’Etiopia – motore di una spinta decisiva nella ripresa delle trattative, dopo una rottura che sembrava irreversibile a causa della forzatura militare del 3 giugno e la conseguente escalation verso lo sciopero generale e la disobbedienza civile totale.

I rapporti di forza internazionali e la perseveranza delle mobilitazioni, che avevano il proprio perno su settori sociali importanti nella SPA e strumenti di organizzazione rilevanti come i “Comitati Popolari di Quartiere” ed i sindacati – che hanno retto anche dopo l’escalation militare –, hanno imposto una exit strategy diversa dalla possibile stroncatura manu militari, come quella conosciuta in Bahrein durante le cosiddette “primavere arabe”, o il putch di Al Sisi in Egitto, che ha destituito il primo presidente democraticamente eletto, Morsi, e sancito la fine della breve esperienza di governo della “Fratellanza Mussulmana”, riportata nell’illegalità.

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Hong Kong: tra narrazione dominante e contraddizioni reali

di Nicola Casale, Raffaele Sciortino

1hkQuella di Hong Kong è platealmente una “rivoluzione colorata”. Ma, come ogni rivoluzione colorata, poggia su effettive basi materiali.

Il primo aspetto è palese. Lo evidenziano l’appoggio esplicito dei politici statunitensi -da Trump alla Clinton- e inglesi, la foto di alcuni leader della rivolta assieme a una funzionaria del consolato sicuramente in organico Cia (v. foto accanto da https://www.zerohedge.com/news/2019-08-08/evidence-cia-meeting-hk-protest-leaders-china-summons-us-diplomats-over-viral-photo: “consultazione” che gli interessati non hanno potuto smentire), le bandiere a stelle e strisce sventolate nei cortei e quella di HK colonia britannica issata in occasione dell’irruzione al parlamento locale mentre nell’assalto del ventun luglio all’ufficio diplomatico di Pechino l’emblema cinese è stato distrutto (vedi foto da: https://www.scmp.com/news/hong-kong/politics/article/3023817/are-hong-kong-protesters-pro-american-or-british-when-they e foto da: https://www.workers.org/2019/08/16/whats-behind-hong-kong-protests/), le continue provocazioni violente chiaramente finalizzate a suscitare una risposta dura della polizia (comparirà anche qualche cecchino Cia-diretto che come a Maidan spara contro rivoltosi e poliziotti?), l’appoggio dei media occidentali - basta confrontare con il tipo di copertura mediatica sui gilets gialli o, per venire ai pennivendoli nostrani, sulle “ingiustificate violenze” dei NoTav - contro l’“autoritarismo di Pechino”, il supporto di Facebook, Twitter, ecc. e ovviamente l’azione neanche tanto nascosta delle Ong - lautamente sovvenzionate, ancor più che in occasione della protesta degli ombrelli dell’autunno 2014, dal National Endowment of Democracy, organo principale del soft power del Pentagono (https://www.strategic-culture.org/news/2019/08/17/the-anglo-american-origins-of-color-revolutions-ned/). Insomma, la Coalizione dei diritti civili non manca di appoggi di un certo peso…

Si potrebbe continuare. Ma, si diceva, come ogni rivoluzione colorata anche questa non è una pura costruzione mediatica o delle Ong, bensì poggia anche su basi materiali, con il presente incernierato in un pesante passato storico.

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marx xxi

"Segui i soldi" dietro le proteste di Hong Kong

di Sara Flounders*

hong kong usa trumpLe manifestazioni a Hong Kong, divenute un aperto confronto con la Repubblica popolare cinese, hanno un impatto globale. Quali sono le forze dietro a questo movimento? Come vengono reperiti i fondi e chi ne beneficia?

Le manifestazioni sempre più violente a Hong Kong sono accolte e sostenute con entusiasmo dai media statunitensi e da tutti i partiti politici imperialisti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Questo dovrebbe essere un segnale di pericolo per tutti coloro che lottano per il cambiamento e per il progresso sociale. L'imperialismo americano non è mai disinteressato o neutrale.

Le azioni dirompenti coinvolgono manifestanti con maschere ed elmetti che usano bombe molotov, mattoni ardenti, barre d'acciaio, appiccano incendi, attaccano gli autobus e chiudono l'aeroporto e i trasporti di massa. Tra gli atti più provocatori c'è stata un'irruzione organizzata alla legislatura di Hong Kong, dove gli "attivisti" hanno vandalizzato l'edificio e appeso la bandiera britannica.

Le bandiere coloniali di Stati Uniti, Gran Bretagna e Hong Kong sono prominenti in questi scontri, insieme alle bandiere e altri simboli deturpati della Cina popolare.

Il New York Times ha descritto la chiusura dell'aeroporto: "Le proteste all'aeroporto sono state profondamente tattiche, in quanto il movimento, in gran parte senza leader, colpisce un'arteria economica vitale. L'aeroporto internazionale di Hong Kong inaugurato nel 1998, l'anno dopo che la Cina ha recuperato il territorio dalla Gran Bretagna, funge da porta d'accesso al resto dell'Asia. Elegante e ben gestito, l'aeroporto ospita quasi 75 milioni di passeggeri all'anno e gestisce più di 5,1 milioni di tonnellate di merci". (14 agosto)

I media statunitensi hanno costantemente etichettato queste azioni violente come "pro-democrazia". Ma lo sono?

Anche se i leader di queste azioni reazionarie decidessero di ritirarsi dall'orlo del baratro e ricalibrare le loro tattiche, sulla base dei forti avvertimenti del governo cinese, è ugualmente importante capire un movimento che ha un sostegno così forte dagli Stati Uniti.

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mondocane

Cupola, i fronti delle milizie arcobalenghe: Mosca-Hong Kong-Lampedusa

Controcanto in Argentina

di Fulvio Grimaldi

Parte seconda

hong kong jazeera“Io sono convinto che è dovere di uno Stato proteggere i confini, espellere chi è irregolare e porre un freno all’immigrazione clandestina che puzza tanto di deportazione di massa a vantaggio del grande capitale” (Alessandro Di Battista, “Politicamente scorretto”, Paper First)

Media italiani? In geopolitica stiamo dove dobbiamo stare

La parte prima di questo dittico si chiudeva con il doveroso accenno al ruolo della nostra stampa: Sappiamo tutti, quei 13 gatti spelacchiati che leggono il manifesto, ora che è diventato enigmistico e offre fumetti agli analfabeti, che nel quotidiano comunista c’è chi è deputato dall’alto a picchiare la Russia e Putin, chi a spernacchiare la Resistenza afghana, chi a scatenare la foia razzista contro Gheddafi e Assad e chi a fare della Cina il Regno di Mordor. Offrono a costoro ampi spazi di empietà giornalistica le manifestazioni di questi giorni a Mosca e a Hong Kong, epicentri della guerra globalista contro le due nazioni che viaggiano in direzione ostinata e contraria sui binari del diritto internazionale e, quanto a bottino di devastazioni e morti inflitti, stanno a chi li avversa come i blob della Solfatara stanno all’eruzione del Vesuvio nel 79 dC. Ma tant’è, su Mosca e Hong Kong dove torme di violenti armati vengono contenuti con mezzi che rispetto a quelli di Macron sui Gilet Gialli sono da esercitazione di boyscout, con pochissimi feriti (molti di più tra gli agenti) e nessun morto, ci si stracciano le vesti. Sugli oltre 300 inermi o lanciatori di sassi fucilati e gli oltre 7000 mutilati e feriti di Gaza ci si straccia la coscienza.

 

Il fronte nostrano: etero-schiavismo per agevolare l’auto-schiavismo

Non ci volevano i tonitruanti proclami a vuoto dell’energumeno dei “pieni poteri”, finalizzati unicamente alla rabdomanzia dell’Italia liquida dei voti, perché gli italiani capissero, più o meno lucidamente, che cosa si nascondesse dietro a questa Grande Armada che invade l’Italia con bombe umane, fornitegli da altri cooperanti all’ultima fase del colonialismo a fini di globalizzazione militar-neoliberista.

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mondocane

Roma, Mosca, Hong Kong: in campo i colorati (arcobalenghi)

Controcanto argentino, dove le Ong del cortile di casa non bastano più

di Fulvio Grimaldi

Parte prima

mani 1Le mani sul bottino

Un breve giro sul carnevale estivo nostrano, in cui tutti paiono subire gli effetti fantasmagorici della canicola regalataci dei poteri politici ed economici del Sovramondo (con l’aiuto del famoso “mondo di mezzo” di Carminati, Buzzi e Al Capone). Un brano in coda sull’armageddon 5 Stelle dal solito pezzo analitico decisivo di Mario Monforte. E fari accesi, nella seconda parte, su un’America Latina, Argentina e Venezuela, dove la controffensiva imperialista si va arenando e su Hong Kong, dove la si prova con l’ennesima Maidan nazi-colonialista, alimentata dai soliti mezzi messi in campo da Cia, NED e, immancabile, il re dei regime change, delle deportazioni Ong dei popoli da disperdere e delle speculazioni ammazza popoli, George Soros.

 

Essi – i media – vivono (Carpenter)

Quel gioiello di stampa libera, coraggiosa e sdegnata negatrice di condizionamenti esterni o interni, che sono i nostri media, risplende di luce riflessa dall’alto su tutti i fronti. Da quelli in mano a imprenditori, finanzieri, bancarottieri, cementificatori, nulla ci aspettavamo e nulla di diverso dal solito coro unanime degli scherani del sistema abbiamo visto. Dai “sinistri” neppure nulla ci aspettavamo, ma fa impressione il Fatto Quotidiano per il ciarpame degli “esteri” rispetto allo spesso discutibile, ma dignitoso “interni” di Travaglio, Scanzi, Lillo, Caporale, Daniela Ranieri, Marco Palombi, l’eterodosso taliban Massimo Fini…

Un’invenzione Dada, alla Duchamp, è sempre più “il manifesto” con la sua testatina “comunista” su un organo della Cupola, ma il dadaismo è fuori moda da cent’anni e così la bacheca Usa in Italia si è messa a rimpinzare il magro seguito, accalappiando enigmisti da Terza elementare e fumettari semi-analfabeti dell’horror.

 

Il Manifesto: fumetti e cruciverba per chi non sopporta più gli articoli?

Sarò arrogantemente intellettualoide, ma ai miei tempi i ragazzetti, superati i libri di fiabe alla Pinocchio (mai superabile) dove, alla mano delle figure, si imparava a leggere e a ripensare, leggevano Topolino, Tex Viller, Bracciodiferro, fino ai 10 anni.

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ilpungolorosso

Lo Yuan cinese ha rotto la soglia del rapporto 7:1 rispetto al dollaro

E’ iniziata la guerra monetaria globale

di Jack Rasmus

a1339478819 16Proponiamo di seguito, tradotta in italiano, l‘ultima nota di Jack Rasmus sull’allargamento e l’intensificazione dello scontro commerciale tra Stati Uniti e Cina. Questo scontro e’ ora divenuto anche monetario: l’altro ieri (6 ago.) Trump si è appellato al FMI perché sanzioni e metta in riga la Cina.

Economista indipendente legato all’area Chomsky, (ma indipendente), Rasmus e’ tra quanti avevano previsto che difficilmente ci sarebbe stato un vero accordo commerciale tra Stati Uniti e Cina,  perché la questione della tecnologia informatica di avanguardia è troppo cruciale per entrambi i contendenti per consentire loro di mettersi agevolmente d’accordo. E ora rivendica naturalmente di avere visto giusto, e prova ad ipotizzare i prossimi passaggi, quasi obbligati, di questa contesa sul piano economico.

La sua analisi appare lucida. La traiettoria di fondo non è quella dell’accordo, ma quella dello scontro – quali che siano gli svolgimenti immediati. Ma quello che a noi interessa molto sul piano politico-sociale è la sua previsione – realistica – su chi pagherà il prezzo più alto di questo scontro: Europa e paesi “emergenti”. Dietro l’agitazione compulsiva di un Salvini per sembrare uno che si occupa delle necessità del “popolo”, e dietro la decisione, condivisa da tutto il quadro politico, di apprestare nuovi strumenti repressivi addirittura più pesanti di quelli della legislazione fascista, c’è la percezione, se non la convinzione, che stia effettivamente per arrivare lo sconquasso che Rasmus prevede, e che ci si debba preparare a neutralizzarne le conseguenze, potenzialmente esplosive.

* * * *

Durante questo fine settimana, lo yuan cinese è uscito dalla sua traiettoria e ha oltrepassato il rapporto 7 a 1 con il dollaro. Nello stesso tempo, la Cina ha annunciato che non avrebbe acquistato più prodotti agricoli statunitensi. La strategia commerciale statunitense Trump-Neocons è così appena implosa. Come previsto da chi scrive, la soglia è stata ora superata, e si è passati da una guerra commerciale tariffaria a una guerra economica più ampia tra gli Stati Uniti e la Cina, nella quale vengono ora implementate altre tattiche e misure.

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scenarieconomici

La dedollarizzazione dell’impero finanziario americano

Bonnie Faulkner intervista Michael Hudson

Abbiamo tradotto per voi questa interessantissima intervista all’economista americano Michael Hudson. Nonostante la lunghezza, ne consigliamo la lettura, in quanto ci aiuta a comprendere in modo molto chiaro come l’uso del dollaro e dei bond americani nel mondo sia determinante per la politica internazionale attuale e dei prossimi decenni. Buona lettura

Burning dollarsL’imperialismo è il conseguimento di qualcosa in cambio di niente. E’ una strategia per ottenere il surplus di altri paesi senza svolgere attività produttive, ma creando un sistema di rendita estrattivo. Un potere imperialista obbliga altri paesi a pagare un tributo. Ovvio, l’America non dice apertamente agli altri paesi “dovete pagarci un tributo”, come facevano gli imperatori Romani con le province che governavano.

I diplomatici statunitensi insistono semplicemente sul fatto che altri paesi investano gli utili della loro bilancia dei pagamenti e le riserve ufficiali della loro banca centrale in dollari americani, in particolare in titoli del Tesoro americano. Questo sistema di utilizzo dei buoni del tesoro americani trasforma il sistema monetario e finanziario globale in un sistema tributario in favore degli USA. E’ questo che consente agli USA di pagare i costi delle spese militari, incluse le 800 basi militari dislocate in tutto il mondo.

Il tema di oggi è la dedollarizzazione dell’impero finanziario americano.

Il dottor Hudson è un economista finanziario e anche uno storico. E’ presidente dell’Institute for the Study of Long-Term Economic Trend [Studio delle tendenze economiche a lungo termine], è analista finanziario a Wall Street e distinto professore di economia presso l’Università del Missouri, a Kansas City. Fra i suoi libri più recenti troviamo: And Forgive Them Their Debts…Lending [E perdona I loro debiti.., prestando], Foreclosure and Redemption from Bronze Age Finance and Jubilee Year [Preclusione e riscatto dalla finanza dall’età del bronzo al Giubileo], Killing the Host: How Financial Parasites and Debt Destroy the Global Economy [Uccidere l’ospite, come i parassiti della finanza e il debito distruggono l’economia globale]; e J is for Junk Economics: A Guide to Reality in an Age of Deception [J come “junk economy” (economia spazzatura), una guida alla realtà in un’era dell’inganno].

Torniamo oggi su una discussione dell’importante libro del 1972 del dottor Hudson, Super Imperialism: The Economic Strategy of American Empire [Super imperialismo: la strategia economica dell’impero americano], una critica del modo in cui gli Stati Uniti sfruttano le economie straniere attraverso il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.

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lantidiplomatico

Nicaragua, i costi della guerra a quarant'anni dalla rivoluzione

di Geraldina Colotti

fd7f8334fcf8ba9da7920a643be283efI costi. Non siamo più capaci di assumerci i costi: soprattutto nelle sinistre dei paesi capitalisti, dove pur ti insegnano a calcolare, ovvero a lucidare le scarpe del padrone, fin da quando emetti il primo vagito come “cittadino consumatore”. Intendiamo i costi dei cambiamenti veri, quelli che – da Spartaco a Lenin – hanno consentito agli oppressi di strozzare gli oppressori stringendogli al collo le loro catene. “Non importa se non mangiamo per un mese, perché non mangiamo da 44 anni”, gridava il popolo nicaraguense mentre lottava per liberarsi dalla morsa della dittatura somozista, la più longeva del continente.

Nell'anno che precede la vittoria del Frente sandinista, avvenuta il 19 luglio del 1979, mentre l'insurrezione popolare avanza, le forze imperialiste fanno di tutto per ottenere la resa della popolazione: oltre al cibo, manca la luce, l'acqua. Le scuole sono chiuse. Gli studenti hanno usato i banchi per costruire barricate, hanno scambiato i libri con armi di qualunque tipo: bombe artigianali, pistole, pietre...

Pochi mesi prima, il dittatore Somoza ha ricevuto in prestito dagli Stati Uniti 20.160.000 dollari per l'acquisto di armi con le quali ha promesso di liquidare “gli insorti, i sovversivi”. L'allora presidente USA Jimmy Carter gli ha inviato una lettera di congratulazioni per i miglioramenti ottenuti nel campo dei... diritti umani. Intanto, un ex reduce dal Vietnam pubblica apertamente sui giornali statunitensi un appello per reclutare mercenari da impiegare contro i sandinisti. Oltre 1000 rispondono all'appello altrettanto apertamente, senza che nessuna autorità intervenga per impedirlo.

Allora il mondo è ancora diviso in due blocchi, la lotta al comunismo è senza quartiere. Dal Cile al Brasile – che, insieme all'Argentina, alla Spagna, alla Francia e a Israele fornisce armi e mercenari a Somoza – sale l'allarme contro “il castro-comunismo che, grazie alla lotta contro Somoza in Nicaragua, sta mettendo un piede irremovibile nel continente”. I fautori delle democrazie di tipo occidentale, com'è allora quella venezuelana del presidente Carlos Andrés Pérez chiedono l'intervento dell'OSA per porre fine alla “guerra civile”.

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mysterion

I retroscena delle grandi manovre geopolitiche ed economiche nello scacchiere internazionale

intervista a Demostenes Floros

cina usa russiaMysterion si arricchisce di un nuovo spazio di approfondimento che affronta le più importanti questioni geopolitiche ed economiche odierne. L’intervista che segue è stata rilasciata qualche settimana fa (prima delle elezioni europee) ad un giornale tedesco, il “Deutsche-wirtschafts-nachrichten”, dall’esperto di geopolitica Demostenes Floros, il quale l’ha gentilmente concessa al nostro blog. In Italia soltanto la nostra rubrica e la pagina Facebook di Pandoratv.it di Giulietto Chiesa pubblicano questa preziosa intervista (l’originale in tedesco si può trovare attraverso il seguente link: https://deutsche-wirtschafts-nachrichten.de/2019/06/12/peking-wird-sich-dem-druck-des-weissen-hauses-nicht-beugen/). Senza rivelare i particolari dell’articolo mi permetto di fare una breve e personale considerazione sul tema qui sotto discusso in rapporto alle grandi manovre storiche che si stanno sviluppando, e delle quali questo contributo può offrire una chiara, lucida e importante chiave interpretativa dei rapporti di forza all’interno dello scacchiere internazionale, e inoltre anche un utile spunto di riflessione. L’oggetto di questa intervista, a mio avviso, va inserito in un contesto più ampio che tenga conto dell’importantissimo mutamento tecnologico a cui sta andando incontro il Pianeta e in particolare l’Occidente, e va legato ad uno scenario più strettamente militare molto pericoloso che ha fatto rinascere una nuova corsa agli armamenti nucleari. Per farla breve, stiamo attraversando una crisi gravissima e senza precedenti e alcuni delle riflessioni e dei fatti riportati sotto possono aiutarci a capire in che direzione e verso stiamo andando. Buona lettura.

* * * *

Gli Stati Uniti d’America hanno vietato a tutti gli altri paesi di acquistare petrolio iraniano. Quale leva hanno gli USA per far rispettare tale divieto?

In primo luogo, è opportuno precisare che le sanzioni comminate all’export di greggio iraniano a partire dal 5 novembre 2018 sono misure imposte unilateralmente dagli Stati Uniti e non dall’ONU quindi, non rispecchiano le norme del diritto internazionale.

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tempofertile

Sviluppi della “teoria della dipendenza”

di Alessandro Visalli

Lo sfruttamento minorileNell’arco di quasi quattro anni sul blog sono state prodotte molte letture in qualche modo riconducibili allo sviluppo storico della “teoria della dipendenza”, una complessa tradizione che matura tra gli anni cinquanta e sessanta e si concentra sulle relazioni tra i paesi in sviluppo (o “sottosviluppati”) e quelli dominanti (o “imperialisti”), la forma sociale capitalista è letta in tutto il suo sviluppo in chiave di interconnessione mondiale, ma con una significativa evoluzione nel tempo.

Gli autori centrali che abbiamo letto sono stati chiamati a volte “la banda dei quattro”, per la forte comunione di intenti che li caratterizzava, pur entro significative differenze. Della “banda” non è presente Immanuel Wallerstein (ma rimedieremo) e c’è l’inserimento di un autore meno centrale come Hosea Jaffe, ma, soprattutto di un libro decisivo nella costruzione di almeno parte delle radici intellettuali, quello di Baran.

Chiaramente si tratta di un lavoro in itinere, del tutto incompleto e parziale, che richiederà almeno il completamento di altre letture di Jaffe, della linea interpretativa di critica del ‘capitalismo monopolistico’ (scuola marxista americana), con altri testi di Baran, ma anche di Sweezy e O’Connor, e di qualche altro libro secondario di Samir Amin e dello stesso Giovanni Arrighi, ma anche Leo Huberman, Gunnar Myrdal e Terence Hopkins.

In ordine cronologico bisognerebbe partire dalla lettura del saggio di Paul Baran, “Il surplus economico”, del 1957, che si inserisce a pieno titolo in una linea genealogica di autori e saggi marxisti sull’imperialismo che vede superare ed inglobare l’analisi marxiana del colonialismo (che pure anticipa molti temi) con le analisi di Lenin, “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, del 1916, anticipate da John Hobson, “Imperialism, a study”, del 1902, Rudolf Hilferding, “Il capitale finanziario”, del 1910, e Rosa Luxemburg, “L’accumulazione del capitale”, del 1913. Si può ricordare anche il libro di Henryk Grossmann “Il crollo del capitalismo”, 1929, che tra le controtendenze equilibranti indica il mercato mondiale, ovvero la “ricostruzione della redditività con il dominio del mercato mondiale”, e quindi la “funzione economica dell’imperialismo”.

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lantidiplomatico

Venezuela, a proposito di tortura e dintorni

di Geraldina Colotti

intense photos show venezuela being rocked by the mother of all protestsVerso le ore 11 del 28 gennaio 1982, le forze speciali di polizia fanno irruzione in un appartamento di via Pindemonte, 2 a Padova dov'è tenuto prigioniero il generale USA James L. Dozier. Il generale è stato sequestrato qualche tempo prima a Verona dalla guerriglia marxista delle Brigate Rosse, attiva in Italia dagli anni '70. Dozier viene liberato e i cinque brigatisti arrestati vengono ferocemente torturati per giorni con modalità tante volte descritte nelle testimonianze dei sopravvissuti alle dittature del Cono Sur. Due anni dopo, un prudentissimo rapporto di Amnesty International registra un “allarmante aumento di denunce di maltrattamenti” da parte di arrestati nei primi tre mesi dell'82. Le denunce – scrive l'organizzazione – si riferiscono ai casi di tortura o maltrattamenti che sono avvenuti nell'intervallo tra l'arresto e il trasferimento in carcere, in commissariati di polizia, caserme di polizia e in altri posti che presumibilmente non possono venire identificati perché i fermati erano incappucciati o bendati.

I metodi di tortura riferiti ad Amnesty includono “percosse prolungate e il costringere gli arrestati a bere grande quantità di acqua salata. Sono state denunciate anche bruciature con mozziconi di sigaretta, getti di acqua ghiacciata, torcimento dei piedi e dei capezzoli, strappo dei capelli, strizzatura dei genitali e l'impiego di scariche elettriche”. Altre testimonianze con altrettanti riscontri medici, parlano di torture di natura sessuale subite da alcune guerrigliere. E si denunciano finte esecuzioni, dentro e fuori le carceri speciali, dove pestaggi, maltrattamenti e deprivazioni psico-sensoriali sono all'ordine del giorno, soprattutto in quell'anno.

Nel luglio dell'83, quattro ufficiali di polizia che erano stati oggetto di queste denunce, vengono riconosciuti colpevoli di “abuso di autorità” commesso durante gli interrogatori. Saranno condannati a pene da un anno a 14 mesi, con la condizionale. Un quinto viene prosciolto perché nelle elezioni politiche di giugno era stato eletto deputato, beneficiando così dell'immunità parlamentare. In Italia, a tutt'oggi non esiste il reato di tortura e quei poliziotti verranno poi prosciolti in appello. Il brigatista Cesare di Leonardo che, nonostante le torture non si è pentito, sta ancora scontando una condanna all'ergastolo in un carcere speciale, uno di quelli istituiti, con un semplice decreto ministeriale, a maggio del 1977.

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jacobin

Trump e il “momento fascista” del capitalismo

di George Caffentzis*

Molti provvedimenti di Trump sono in continuità con quelli di Obama, ma va analizzata con attenzione la teoria economica su cui si basa, che dà espressione politica allo spirito del capitalismo del nostro tempo

trump jacobin italia 990x361Malgrado l’introduzione di rigide misure di austerità, applicate soprattutto seguendo le direttive del Washington Consensus [espressione coniata nel 1989 dall’economista John Williamson per indicare una serie di indicazioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale destinate ai paesi in crisi, ndt], sembra che il sistema capitalistico globale sia entrato in un periodo di stagnazione, caratterizzato dalla caduta del tasso di profitto, dalla riluttanza delle grandi compagnie a investire, e dall’introduzione da parte dei governi di tassi di interesse molto bassi o vicini allo zero. Tutto ciò è sorprendente, dal momento che la fine della Guerra Fredda, nel 1989, avrebbe dovuto dare il via a un periodo di prosperità capitalista. Invece, come abbiamo visto, il sistema è entrato in una crisi prolungata su più fronti, ravvivando la discussione sulla «stagnazione secolare» tra gli economisti al massimo livello.

Quali sono state e quali sono le cause di questo declino? Io sostengo che la politica economica dell’amministrazione Trump sia una risposta a questa stagnazione. Che dietro al suo comportamento fuori dalle righe ci sia la decisione di incrementare i patrimoni del capitalismo statunitense, restaurarne l’egemonia e stimolare la crescita del sistema capitalistico sotto la bandiera del «Make America Great Again» (Maga).

Per sostenere questa tesi prendo in esame due elementi del pensiero politico ed economico di Trump sulla moneta e lo scambio, e cioè il suo supporto al ripristino del sistema aureo [un sistema monetario nel quale il valore della moneta è fissato dall’oro, ndt] e la sua determinazione nel porre fine alla cosiddetta «santità del contratto».

 

Trump è un normale politico capitalista?

È stato fatto notare che, sotto molti aspetti, le politiche di Trump sono in continuità con quelle dell’amministrazione Obama, che a loro volta, al contrario delle apparenze, non si erano allontanate molto dal Washington Consensus. Ci sono elementi significativi di continuità tra Obama e l’amministrazione Trump – così come c’erano tra l’amministrazione Carter e quella Reagan.

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tazebao

Sul protezionismo

Antitesi n.6

La guerra commerciale è parte della guerra imperialista

08a88424 9438 11e7 b116 f4507ff9df92 1280x720 121611“Gli Usa stanno aprendo il fuoco sul mondo”. Così recitava, a inizio luglio, il comunicato del ministero del commercio della Cina, in riferimento ai dazi varanti da Trump contro Pechino. Effettivamente, le misure protezioniste varate dall’attuale presidenza degli Usa hanno decisamente rappresentato una svolta nelle relazioni economiche internazionali, aggravando la contraddizione tra potenze imperialiste, in primis quelle tra Washington e Pechino, e ponendo in discussione come non mai negli ultimi decenni la concezione globalista e liberoscambista del capitalismo.

Infatti, secondo l’ideologia neoliberista, affermatasi a partire dalla fine degli anni settanta del secolo scorso come ispiratrice delle agende economiche delle principali potenze imperialiste, la libera circolazione di merci e capitali aldilà delle frontiere degli Stati è alla base dello sviluppo capitalistico mondiale e delle singole nazioni. Si tratta di un dogma che rientrava in quella sorta di “pensiero unico” liberista diventato definitivamente egemone sopratutto dopo il crollo dell’Urss e l’affermazione degli Usa come incontrastata potenza globale. In realtà, il liberoscambismo rientrava in una svolta delle strategie economiche capitalistiche, resa necessaria dalla fase di crisi apertasi all’inizio degli anni settanta e al fallimento, nel contrastarla, delle politiche keynesiane. [1] Attraverso la libera circolazione di merci e di capitali a livello globale, abbattendo limiti, tariffe e regolamentazioni, la borghesia imperialista si riproponeva il conseguimento di più ampi margini di valorizzazione del capitale, conquistando nuovi mercati, nuova forza lavoro e aprendo spazi alla circolazione finanziaria, via via più deregolamentata, per ottenere remunerazione fittizia dei capitali nella fase in cui il plusvalore e il profitto nell’economia reale tendevano a cadere.

 

Il protezionismo alle origini del capitalismo

Non sempre, però, il liberoscambismo ha contrassegnato il procedere dell’economia capitalistica. Fin dagli albori del capitalismo, la libera circolazione di merci e capitali si è alternata a misure per limitarla, di modo che i capitalisti di un singolo paese (cioè una singola formazione capitalistica nazionale), potessero tutelare i propri profitti a danno degli altri.