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lantidiplomatico

L’ipocrisia delle grandi potenze nel discorso all’ONU di Vucic

di Chiara Nalli

“I principi non si applicano solo ai forti, si applicano a tutti. Se non è così, allora non sono più principi”.

720x410c50jfvy.jpgIl primo estratto del discorso del presidente serbo Vucic davanti all'Assemblea generale dell'ONU è apparso sulla stampa serba intorno alle 17.00 di giovedì 21 settembre. Il principale quotidiano del Paese ha titolato “Dov'era il diritto internazionale quando avete attaccato la Serbia?”. E se il resoconto dei giornali nazionali è stato capace di suscitare un immediato entusiasmo, l’intero discorso, disponibile qui: https://www.youtube.com/watch?v=PXt1bBtHxVI - in inglese - può essere considerato, a pieno titolo, un intervento di portata storica. Tanto che la frase citata nel titolo è stata interrotta dagli applausi della sala.

In un consesso dominato dalle tematiche legate alla guerra in Ucraina, sgranellate dalla stampa con la consueta superficialità, il presidente serbo è intervenuto riportando al centro la vicenda del proprio Paese, sotto una duplice prospettiva: ricordando, da un lato, come le attuali situazioni di conflitto (con particolare riguardo all’Ucraina) siano in massima parte la conseguenza della violazione del diritto internazionale da parte delle grandi potenze, nell’ambito di un processo di espansione strategica avviato proprio con l’attacco NATO alla Serbia; dall’altro - denunciando l’attuale stato delle relazioni con il Kosovo, in cui le stesse superpotenze - USA e UE - coinvolte come meditatori, applicano sistematicamente “doppi standard” - capaci di portare alla cronicizzazione - o peggio l’inasprimento - del conflitto.

Vucic ha scelto di parlare del proprio Paese, con la consapevolezza della dimensione universale, profondamente politica e attuale, insita nella sua storia e nella sua posizione strategica:

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lantidiplomatico

È l’imperialismo umanitario che ha creato l’incubo libico

di Chris Hedges* Scheerpost

720x410c500nqw.jpg“Siamo venuti, abbiamo visto, è morto” ironizzò Hillary Clinton quando Muammar Gheddafi, dopo sette mesi di bombardamenti degli Stati Uniti e della NATO, fu rovesciato nel 2011 e ucciso da una folla che lo sodomizzava con una baionetta. Ma Gheddafi non sarebbe stato l’unico a morire. La Libia, un tempo il paese più prospero e uno dei più stabili dell’Africa, un paese con assistenza sanitaria e istruzione gratuite, il diritto per tutti i cittadini a una casa, elettricità, acqua e benzina sovvenzionate, insieme al tasso di mortalità infantile più basso e alla alta aspettativa di vita nel continente, insieme a uno dei più alti tassi di alfabetizzazione, si è rapidamente frammentata in fazioni in guerra. Attualmente ci sono due regimi rivali in lotta per il controllo della Libia, insieme a una serie di milizie canaglia.

Il caos che seguì l’intervento occidentale vide le armi degli arsenali del paese inondare il mercato nero, molte delle quali sequestrate da gruppi come lo Stato Islamico. La società civile cessò di funzionare. I giornalisti ripresero immagini di migranti provenienti dalla Nigeria, dal Senegal e dall'Eritrea picchiati e venduti come schiavi per lavorare nei campi o nei cantieri edili. Le infrastrutture della Libia, comprese le reti elettriche, le falde acquifere, i giacimenti petroliferi e le dighe, caddero in rovina. E quando ci sono piogge torrenziali come Storm Daniel – la crisi climatica è un altro regalo all’Africa da parte del mondo industrializzato – che ha travolto due dighe decrepite, muri d’acqua alti 20 piedi si sono precipitati giù per inondare il porto di Derna e Bengasi, provocando fino a 20.000 morti secondo Abdulmenam Al-Gaiti, sindaco di Derna e circa 10.000 dispersi.

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ilpungolorosso

I veri architetti e realizzatori del regime di supremazia ebraica di Israele

di Hagai El-Ad

ben givr.jpgLa smisurata ipocrisia degli oppositori democratici di Netanyahu e Gvir, che convivono benissimo con l’apartheid contro i palestinesi “Haaretz”

Riprendiamo dal sito di Assopace Palestina questo efficace, graffiante ritratto (comparso su Haaretz) degli oppositori democratici dell’ultra-sionista Ben Gvir e del suo capo di governo Netanyahu, accusati a buon diritto di difendere integralmente quel regime [militarista, razzista, coloniale] di apartheid, di “supremazia ebraica” sui palestinesi, di cui i due suddetti sanguinari personaggi sono soltanto l’estremizzazione.

Chi segue questo blog che interviene sistematicamente sulla “questione palestinese”, conosce la nostra risposta alla constatazione-domanda finale posta da Hagai El-Ad: “Il fatto è che, anche dopo 100 anni di sionismo, metà delle persone tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo sono palestinesi. Se siamo veramente intenzionati a vivere, dobbiamo trovare una risposta alla domanda logica: che tipo di vita costruiremo qui tutti insieme?“ (Red.).

* * * *

La grande maggioranza di coloro che sono così sprezzanti nei confronti di Ben-Gvir convive benissimo con l’apartheid israeliano, solo che non lo grida dai tetti.

Nei mesi trascorsi da quando il deputato Itamar Ben-Gvir (Otzma Yehudit/Sionismo Religioso) è stato nominato ministro della sicurezza nazionale israeliana, non c’è stata quasi settimana in cui un maggiore generale dell’esercito o della polizia in pensione non abbia espresso il proprio disprezzo nei confronti del “ministro della distruzione”, di una nullità che non capisce nulla e ha ancora meno esperienza, della “persona di rilievo” dello Shin Bet che è diventata il “ministro delle piadine” [si allude al divieto imposto ai prigionieri palestinesi di cuocersi le piadine, NdT] e così via.

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carmilla

Il nuovo disordine mondiale / 21: un’invenzione coloniale (in via di disgregazione)

di Sandro Moiso

Jean-Loup Amselle, L’invenzione del Sahel. Narrazione dominante e costruzione dell’altro, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 170, 16 euro

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Si muove, confusamente ma con energia, nel continente un nuovo anticolonialismo che non possiamo per ragioni di immagine adottare. Anche perché non lo controlliamo (ancora).[…] È ben diverso da quello degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, non si nutre di ideologia, non produce leader carismatici, libri o manifesti. Che risultava affascinante anche a una parte dell’Occidente, perché il marxismo africanizzato era un prodotto della nostra cultura. In fondo era esso stesso una esportazione colonialista.[…] Sì, il nuovo anticolonialismo è molto più primitivo […] Gli bastano le immagini: da un lato i grandi alberghi e le banche con le facciate alla Potentik, dall’altro il vuoto della savana, i villaggi e le periferie dove sono in agguato le malattie, la miseria. (Domenico Quirico, “La Stampa”, 5 agosto 2023)

Jean-Loup Amselle (Marsiglia, 1942) è un antropologo francese che ha realizzato ricerche sul campo in Mali, in Costa d’Avorio e in Guinea, concentrando la sua attenzione sui temi dell’etnicità, dell’identità, del multiculturalismo, del postcolonialismo e della subalternità. Inoltre è Directeur d’études presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e caporedattore della rivista internazionale “Cahiers d’études africaines”.

Un curricolo di studi e ricerche importante per l’autore di un testo (edito per la prima volta in Francia nel 2022) che esce in un momento di grave crisi politico-militare della struttura geopolitica e culturale imposta per lungo tempo dal colonialismo francese (ed europeo) all’Africa subsahariana. Come sottolinea Marco Aime nella sua prefazione al testo:

la nozione di Sahel appare per la prima volta nel 1900, nella penna del botanico Auguste Chevalier, come categorizzazione botanicogeografica o bioclimatica, legata alla latitudine e alle curve delle precipitazioni.

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lafionda

La questione ecologica vista dalla Cina

di Gianmatteo Sabatino

green china.jpg1. La posizione cinese sul cambiamento climatico

Come numerosi altri temi sensibili negli attuali, turbolenti anni dello sviluppo globale, anche quello del cambiamento climatico diviene, inevitabilmente, terreno di confronto tra approcci allo sviluppo ed ideologie politiche ed economiche differenti.

Con specifico riferimento alla Cina, la questione del qihou bianhua (appunto, il cambiamento climatico), è sinora riuscita in gran parte a sottrarsi, perlomeno a livello di dibattito, dall’agone politico internazionale, difendendosi dietro una prospettiva di neutralità e scientificità condivisa dalla stragrande maggioranza della comunità accademica internazionale. Tuttavia, la crescente polarizzazione del confronto geopolitico, l’ormai conclamata contrapposizione tra modelli e la rinnovata attenzione mediatica verso strategie (peraltro esistenti da tempo) di cooperazione multilaterale alternative a quelle a guida occidentale (come i paesi BRICS) sono tutti elementi che giustificano un minimo di sforzo chiarificatore. Uno sforzo che, peraltro, è chiaro in primo luogo al governo cinese, il quale, nel 2021, ha licenziato un Libro Bianco sulle politiche ed azioni in materia climatica[1]. È un documento che, ovviamente, va letto tenendo conto del suo scopo prettamente informativo e, se si vuole, propagandistico, ma che nondimeno offre importanti spunti su quale possa essere il ruolo della Cina nei prossimi decenni di lotta al cambiamento climatico.

In altri termini, vale la pena chiedersi quale sia oggi il modello cinese di contrasto al cambiamento climatico, in cosa differisca da altri modelli e quale valenza politica abbia sul piano tanto interno quanto delle relazioni internazionali. Sono tutti temi vastissimi, che qui possono essere richiamati solo sommariamente, ma su cui è opportuno riflettere criticamente.

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cumpanis

BRICS, Johannesburg attraverso la documentazione ufficiale, guardando al 2024

di Gianmarco Pisa*

XBZDXHNKFBPULJS2ZNZW3KMJLU.jpgIl recente vertice dei Paesi BRICS in Sudafrica, da buona parte degli osservatori giustamente definito «storico», ha segnato una tappa di sviluppo particolarmente significativa nell’evoluzione delle relazioni all’interno della piattaforma e, in generale, nella prospettiva della cooperazione sud-sud e degli equilibri internazionali.

Una chiara indicazione di tali conseguimenti è contenuta nella comunicazione diramata dalla presidenza sudafricana del vertice con la quale, lo scorso 24 agosto, sono stati annunciati i più importanti risultati conseguiti: si è deciso «di incaricare i Ministri delle Finanze… di prendere in esame la questione delle valute locali, degli strumenti e delle piattaforme di pagamento»; si è raggiunto un accordo «sui principi-guida, gli standard, i criteri e le procedure del processo di espansione dei BRICS» vale a dire della trasformazione progressiva dei BRICS in un vero e proprio BRICS+ con l’ingresso di nuovi Paesi. Si è deciso poi, a conclusione del vertice, di «invitare la Repubblica Argentina, la Repubblica Araba d’Egitto, la Repubblica Federale Democratica dell’Etiopia, la Repubblica Islamica dell’Iran, il Regno dell’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti a diventare membri a pieno titolo dei BRICS dal 1° gennaio 2024» e di «sviluppare ulteriormente il modello di partenariato dei BRICS e un elenco di ulteriori Paesi potenziali partner», in modo da ampliare il numero di Paesi che entreranno a fare parte di questo sistema.

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effimera

Diario della crisi | Gli spettri del debito cinese

di Christian Marazzi

AFP 33RD8HT keFI U34301452009015NAG 656x492Corriere Web Sezioni.jpgIn questa estate infuocata, una possibile tempesta (non solo meteorologica) potrebbe abbattersi sul sistema finanziario globale. Christian Marazzi analizza i rischi connessi al possibile scoppio di una bolla immobiliare in Cina. Il crescente indebitamento di alcuni colossi del real estate evidenziano le difficoltà dell’economia cinese a riprendersi dopo i lock-down del Covid. Anche se il sistema finanziario cinese è chiuso e non vi è libera circolazione dei capitali (per loro fortuna), le ripercussioni sui mercati finanziari globali potrebbero essere rilevanti. Tutto ciò si inquadra in un processo di ridefinizione degli assetti geopolitici, stretti tra il tentativo Usa di mantenere l’egemonia economico-finanziaria (sempre più in difficoltà) e l’aspirazione dei paesi Brics di costruire un mondo multipolare

* * * *

Il superciclo del debito

Intervistato da Eugenio Occorsio sulla crisi cinese (la Repubblica, 19 agosto), l’economista americano Kenneth Rogoff (Harvard) fissa così i termini della questione: “Purtroppo sta verificandosi quanto, con altri economisti come Larry Summers, avevamo immaginato da tempo: il ‘superciclo del debito’, lo stesso che aveva messo in ginocchio gli Stati Uniti nel 2008 e l’Europa nel 2010, ora si abbatte sulla Cina. Le conseguenze possono essere molto dolorose per tutti”. Il premio Nobel Robert Shiller, intervistato sempre da Occorsio il 21 agosto, introduce un altro fattore nella spiegazione della crisi in Cina, per ora circoscritta al settore immobiliare: “A questo punto non rimane che attendere i risultati delle misure d’emergenza approntate a Pechino, compreso il cambio di narrazione.

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contropiano2

Politica che comanda l’economia. Il segreto della Cina

di Redazione Contropiano - Guido Salerno Aletta

cina politica segreto.jpgRagionare in termini ideologici (non “teorici”, che è all’opposto attività molto seria) porta sempre i un buco nero del pensiero da cui non si sa più come uscire.

È quel che avviene quasi sempre quando si prova a dare un giudizio sulle società “di transizione” dal capitalismo come lo conosciamo qui in Occidente (il neoliberismo praticamente senza freni) ad altre forme più o meno “progettate”.

In genere ci si ferma quasi subito di fronte alla domanda “è socialismo oppure no?”. Siccome la domanda è posta quasi sempre in termini, appunto “ideologici” – come se una società reale potesse corrispondere a criteri astratti, per altro molto variabili da “pensatore” a “pensatore” – la risposta non può che essere sempre negativa. Sia che si parli dei Soviet negli anni Venti o successivi; sia che di parli di Cina (nei vari periodi post-rivoluzione); sia che si discuta di paesi latino-americani (da Cuba “in giù”).

In effetti si deve dire che nessuna di queste società è “perfettamente socialista”. E neanche i gruppi dirigenti di quei paesi sono così ingenui da sostenerlo.

Stanno guidando società complesse – certo molto di più dei ristretti circoli di “pensatori” che le giudicano – con risultati assai diversi tra loro. Del resto sono ognuna il risultato di evoluzioni, tradizioni, culture, risorse differenti. E nessuno mai, salvo che nei sogni solitari notturni, può pensare che basti uno schiocco di “decreti rivoluzionari” per avere il mondo perfetto.

La premessa serve ad introdurre un piano di riflessione molto più concreto e “laico”, non ideologico, appunto.

E l’occasioni giusta ci sembra questo articolo – come sempre acuto – di Guido Salerno Aletta apparso su MilanoFinanza, che certo è non il tempio del comunismo…

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lantidiplomatico

Il Niger e il neocolonialismo europeo in Africa: sul futuro di un’illusione

di Eusebio Filopatro

720x410c50nuyws.jpgIl 26 luglio 2023 gli uomini della guardia presidenziale nigerina hanno catturato il presidente Mohamed Bazoum, dando inizio ad un colpo di stato.

L’evento ha brevemente spostato i riflettori verso il Sahel, una delle regioni più trascurate e povere del mondo, che pure con buone ragioni è stata definita la frontiera meridionale d’Europa (da ultimo in una lettera di Roberta Pinotti a Repubblica).

Nella presente serie di articoli mi propongo (1) di contestualizzare il golpe nigerino nella sua storia e motivazioni, e in particolare sullo sfondo della travagliata dissoluzione del neo/postcolonialismo francese, (2) di valutare le prospettive e le difficoltà di un eventuale intervento ECOWAS, e (3) di inserire queste considerazioni nello scenario internazionale più ampio, in particolare rispetto alle aspirazioni realistiche che l’Europa se non l’intero Occidente può mantenere rispetto al suo (dis)impegno in Sahel e in Africa.

* * * *

I. Niger: Le ragioni di un golpe

In un articolo del 1989, Guy Martin ricostruiva le relazioni franco-africane da un punto di vista spinoso: l’estrazione dell’uranio. Martin introduceva la questione del Niger chiarendo senza troppi giri di parole che esso “può anche essere descritto come un'enclave neocoloniale dominata dagli interessi politici, economici, culturali e strategici francesi” (p. 634). In conclusione, alla sua disanima, Martin suggeriva anche un’interpretazione inquietante quanto plausibile del golpe del ’74:

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tempofertile

L’allargamento dei Brics, l’alba di un mondo nuovo?

di Alessandro Visalli

niger 1 330x173.jpgQuello che si è manifestato a Johannesburg appare essere un punto di svolta simile a quello degli anni Settanta[1]. Con l'ingresso nei Brics da gennaio 2014 si completa il passaggio dell'Arabia Saudita in nuove alleanze, preludio per l'annunciata chiusura delle basi americane (a giugno annunciata da Bin Salman[2]) e del consolidamento delle transazioni in altra valuta del petrolio. Insieme al gigante arabo entrano anche altri attori di primo piano come l'Egitto, gli Emirati Arabi e l'Iran, in Sud America l'Argentina. Infine, l’importante, sotto il piano simbolico, Etiopia[3].

Impossibile sottovalutare l'evento, se pure atteso (e che spiega lo sforzo per escludervi Putin incriminandolo[4]): tra le cose più importanti c’è che l'Occidente collettivo (ed in particolare l'Europa) perde ogni residua influenza sull'Opec+[5] e quindi sulla geopolitica dell'energia, aspettiamoci benzina a parecchi euro ed energia a valori stabilmente alti (con buona pace di coloro che si attardano contro il cambiamento climatico 'inventato', senza capire che è questione letteralmente di sopravvivenza e non solo del pianeta[6]); in Africa a questo punto abbiamo, da Nord a Sud, tutte le principali potenze schierate contro l'Occidente imperiale[7], o almeno capaci di rivendicare maggiore indipendenza da questo, nessuno può immaginare anche militarmente di andare in Africa contro Egitto, Algeria e Sud Africa insieme, o in Medio Oriente contro Arabia Saudita, Iran, Emirati, e i relativi alleati (senza considerare che ha fatto domanda anche la Turchia); si saldano due colossi d'ordine come Arabia Saudita e Iran (capolavoro della diplomazia cinese) e con Egitto e Emirati diventano il polo inaggirabile della regione; nel cortile di casa degli Usa si saldano Brasile e Argentina, in pratica il centro del subcontinente ha cambiato collocazione.

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I BRICS hanno cambiato l’equilibrio delle forze, ma non cambieranno da soli il mondo

di Vijay Prashad

brics equilibrio mondo 553x300.jpgNel 2003, alti funzionari dal Brasile, dall’ India e dal Sudafrica si sono incontrati in Messico per discutere dei reciproci interessi nel commercio di farmaci.

L’India era ed è uno dei maggiori produttori mondiali di vari farmaci, compresi quelli utilizzati per il trattamento dell’HIV-AIDS; il Brasile e il Sudafrica avevano entrambi bisogno di farmaci a prezzi accessibili per i pazienti affetti da HIV e da una serie di altri disturbi curabili.

Ma a questi tre Paesi è stato impedito di commerciare facilmente tra loro a causa delle rigide leggi sulla proprietà intellettuale stabilite dall’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Pochi mesi prima del loro incontro, i tre Paesi hanno formato un gruppo, noto come IBSA, per discutere e chiarire le questioni relative alla proprietà intellettuale e al commercio, ma anche per confrontarsi con i Paesi del Nord globale per la loro richiesta asimmetrica di cessare i sussidi agricoli dei Paesi più poveri. Il concetto di cooperazione Sud-Sud ha fatto da cornice a queste discussioni.

L’interesse per la cooperazione Sud-Sud risale agli anni ’40, quando il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite istituì il primo programma di aiuti tecnici per favorire il commercio tra i nuovi Stati post-coloniali di Africa, Asia e America Latina.

Sei decenni dopo, proprio in concomitanza con la nascita di IBSA, questo spirito è stato commemorato dalla Giornata delle Nazioni Unite per la Cooperazione Sud-Sud, il 19 dicembre 2004.

In quell’occasione, le Nazioni Unite crearono anche l’Unità speciale per la cooperazione Sud-Sud (dieci anni dopo, nel 2013, questa istituzione fu rinominata Ufficio delle Nazioni Unite per la cooperazione Sud-Sud), che si basava sull’accordo del 1988 sul Sistema globale di preferenze commerciali tra i Paesi in via di sviluppo.

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moneta e credito

Modelli di organizzazione economica e conflitti militari

Note in margine a La guerra capitalista

di Salvatore D'Acunto

Palombi.jpgNel volume La guerra capitalista, gli autori Brancaccio, Giammetti e Lucarelli (2022) sostengono che alle radici delle recenti tensioni internazionali vi siano gli imponenti processi di centralizzazione dei capitali che hanno caratterizzato l’ultimo trentennio, e la sempre più marcata tendenza del fenomeno a travalicare i confini degli schieramenti geo-politici. I paesi usciti vincitori dalla competizione sui mercati globali (in particolare Cina, paesi arabi e Russia) starebbero usando i saldi attivi in dollari accumulati negli anni scorsi per ‘scalare’ la proprietà dei capitali americani, e il governo degli Stati Uniti starebbe reagendo a questa minaccia con variegate restrizioni all’ingresso dei capitali stranieri nella proprietà dell’industria nazionale e con misure protezionistiche di politica commerciale. Secondo il punto di vista degli autori, questo conflitto economico starebbe generando una spirale di ritorsioni a catena, moltiplicando in tal modo il rischio di veri e propri conflitti militari. Questo modello interpretativo viene messo a confronto con le principali interpretazioni concorrenti circa il ruolo degli interessi materiali nella genesi dei conflitti militari, e si discutono alcune interessanti implicazioni dell’analisi rispetto al problema del design delle istituzioni di regolazione delle relazioni economiche internazionali.

* * * *

Un elemento comune a molte delle narrazioni dell’impetuoso ritorno dei venti di guerra in Europa è l’adesione dei commentatori ai canoni della drammatizzazione romanzesca o cinematografica, con il focus interamente centrato sul conflitto tra personalità connotate in senso moralistico: paladini della libertà versus autocrati fanatici, oppure ‘denazificatori’ versus persecutori di minoranze etniche.

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contropiano2

Il paradosso di Oppenheimer: il potere della scienza e la debolezza degli scienziati

di Prabir Purkayastha* Globetrotter - Newsclick

Oppenheimer e filmIl nuovo film di successo su Oppenheimer ha riportato alla memoria il ricordo della prima bomba nucleare sganciata su Hiroshima. Ha sollevato domande complesse sulla natura della società che ha permesso lo sviluppo e l’uso di tali bombe e l’accumulo di arsenali nucleari in grado di distruggere il mondo molte volte.

L’infame era McCarthy e la ‘caccia ai rossi’ ovunque hanno qualche relazione con la patologia di una società che ha soppresso il senso di colpa per il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, sostituendolo con la convinzione del proprio eccezionalismo?

Cosa spiega la trasformazione di Oppenheimer, che era emerso come l'”eroe” del Progetto Manhattan che costruì la bomba atomica, in un cattivo e poi dimenticato?

Ricordo il mio primo incontro con il senso di colpa americano per le due bombe atomiche sganciate sul Giappone.

Nel 1985 partecipavo a una conferenza sui controlli informatici distribuiti a Monterey, in California, e i nostri ospiti erano i Lawrence Livermore Laboratories. Si trattava del laboratorio di armi che aveva sviluppato la bomba all’idrogeno.

Durante la cena, la moglie di uno degli scienziati nucleari chiese al professore giapponese presente al tavolo se i giapponesi avessero capito perché gli americani avevano dovuto sganciare la bomba sul Giappone.

Che ha salvato un milione di vite di soldati americani? E molti altri giapponesi? Cercava l’assoluzione per il senso di colpa che tutti gli americani portavano con sé? Oppure cercava la conferma che ciò che le era stato detto e in cui credeva era la verità? Che questa convinzione era condivisa anche dalle vittime della bomba?

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ilpungolorosso

Niger e dintorni: Africa ribelle, Occidente in panne

di Tendenza internazionalista rivoluzionaria

niger afpAncora una volta un grido di lotta che si ode in tutto il mondo viene dall’Africa – questa volta dall’Africa “nera” occidentale.

Questo grido di lotta non è in nulla paragonabile, per potenza, estensione, protagonismo degli sfruttati, ai sommovimenti del 2011-2012 che percorsero in lungo e in largo come un’unica onda sismica l’intero mondo arabo, in Africa del nord e in Medio Oriente. Allora milioni di operai, sfruttati, diseredati, giovani senza futuro, donne senza diritti, riaprirono nelle piazze il processo della rivoluzione democratica ed anti-imperialista in una regione strategica del globo, dando un formidabile scossone alla stabilità del capitalismo globale a egemonia occidentale già alle prese con la più grande crisi finanziaria della storia – prima di essere sconfitti dalla reazione delle borghesie locali in combutta con le grandi potenze. E neppure è lontanamente paragonabile, quanto a diretto protagonismo proletario e a contenuti di classe, alle potenti lotte dei minatori del Sud Africa, con epicentro a Marikana, che nel 2012 diedero il via ad un biennio di scioperi “selvaggi” in agricoltura, nella metalmeccanica, nei trasporti, in edilizia, mettendo in luce la trama di interessi che lega, e subordina, il regime bianco-nero “post-apartheid” di Pretoria alle multinazionali delle vecchie potenze coloniali, e approfondendo il solco tra questo regime borghese e la sola forza che potrà portare a compimento la liberazione dell’Africa dal fardello dei vecchi e nuovi colonialisti: il suo giovane proletariato – e non si tratta solo del giovane proletariato sud-africano: al 2017 tra i primi trenta paesi al mondo per livelli di attività sindacale, dodici erano paesi africani.

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lacausalitadelmoto

Il Niger e il Ribollire Africano

di Alessio Galluppi 

niger9082Che succede in Niger, fra i paesi confinanti come il Burkina Faso, il Mali e tutta l’area del Sahel?

Dai giornali occidentali apprendiamo ci sarebbe stato un nuovo colpo di Stato diretto da una giunta di militari che comanda la Guardia Presidenziale dell’Esercito del Niger. Poi però le immagini mandate in onda su tutti i canali televisivi ci mostrano manifestazioni popolari di sostegno al “colpo di Stato”, non solo, ma che i manifestanti innalzano cartelli di condanna nei confronti della Francia e inneggianti a Putin. I riflettori dei media Occidentali si accendono sull’Africa commentando i fatti con serissima preoccupazione. Intanto, a Niamey c’è un fuggi fuggi generale di civili stranieri Francesi, Italiani ed Europei che si trovano in Niger, mentre le forze militari in missione di Stati Uniti, Francia e Italia si barricano nelle rispettive basi militari presenti nel paese. Gli Stati Uniti, che hanno decuplicato il numero delle basi militari in Africa dagli anni di Obama ad oggi (almeno una dozzina concentrata nella regione del Sahel e sei proprio in Niger), temono di perdere il loro migliore ed ultimo avamposto nel West Africa.

E allora cerchiamo di capirci di più, senza nasconderci dietro il dito e da subito diciamo che l’esultanza di masse di oppressi e sfruttati africani è un ulteriore segnale della fase di destabilizzazione del modo di produzione a egemonia occidentale, altrimenti detto: la rivoluzione procede il suo inarrestabile corso.

Questo colpo di mano di una unità d’élite dell’Esercito del Niger – di cui molti comandanti ed esponenti della nuova giunta militare sono stati addestrati dal Comando Operazioni Speciali dell’Esercito degli Stati Uniti presso la Base Aerea 201 o a Fort Benning in Georgia – è parte del medesimo processo caratterizzato da eventi improvvisi dello scorso anno, accaduti nei confinanti Burkina Faso e Mali.