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Meade e Kalecky vs. Mundell e Hayek

Il "Bancor" €uro-reloaded

di Quarantotto

L'interessante dibattito, (molto teorico e molto "compassato", considerando la portata degli eventi che incombono sulla realtà socio-economica italiana), sulla via "keynesiana" all'euro-exit, concretizzatasi in una sorta di "euro-Bancor" sorretto da una "International Clearing Union" (che è poi sostanzialmente un soggetto bancario "speciale", molto speciale), evidenzia uno snodo cruciale.

E cioè: se una rinegoziazione multilaterale, - con paesi portatori di interessi divergenti e in posizioni di forza contrattuale differenziate-, così difficile come quella del Bancor "reloaded" debba essere intrapresa, non è più semplice negoziare con un "congruo" numero di paesi dagli interessi affini la reintroduzione dei cambi flessibili, rifacendosi al realismo di Meade?

Che una negoziazione, cioè un accordo internazionale, ci debba essere, al riguardo, è concordemente visto come la via più razionale per attenuare gli effetti dell'euro-break. E' pacifico che quest'ultimo sarebbe altamente problematico in caso di "disorderly exit": lo ha detto Bagnai nel "Tramonto dell'euro" e lo ribadisce Sergio Cesaratto in un suo recentissimo paper.

E, nonostante ciò, il recupero dei cambi flessibili rimane, in ogni sua versione, la prospettiva "migliorativa" di medio-lungo periodo con maggior certezza di esito, per il complesso dell'attuale euro-area.

Tranne che per i tedeschi, ovviamente: ma preoccuparsi della loro "sensibilità" alla vigilia della rielezione della Merkel e del conseguente "attacco finale" di colonizzazione bismarckian-hayekkiana che si appresta a lanciare, è francamente oltre il limite della ragionevolezza, persino per un "internazionalista-€uropeista-sognatore-hayekkiano-"per fessi".


Il paper di Cesaratto lo consigliamo come integrale lettura, data la misura e la concretezza (anche politica) con cui illustra i problemi sul tappeto, connessi alle varie possibili soluzioni. E neanche ci sentiremmo di tacciarlo di pessimismo.


Quello che ribadiamo è che la "stanza di compensazione" del Bancor, col relativo sistema concertato di sanzioni a carico dei paesi in squilibrio, sia in deficit che surplus, non risultò tradotta in un trattato con clausole e meccanismi istituzionali che la rendessero interamente percepibile nel suo concreto funzionamento.

Sta di fatto che "l'autorità" indiscussa e prevalente di quella fase del diritto internazionale (gli USA) non lo accettò: e così, da sempre, funziona il diritto internazionale. Esso ratifica assetti corrispondenti ai rapporti di forza: anzi, persino nelle sue spinte c.d. "evolutive" (ad es; il concetto di "autodeterminazione dei popoli", quello di jus cogens, inclusivo dei "delitti contro l'umanità", come pure, e non a caso, la contrastante dottrina dell'intervento militare umanitario), il diritto internazionale gioca un ruolo rafforzativo dei rapporti di forza che si affermano di fatto nell'ordine mondiale.


Ora, prevedere che si accettino prelievi-sanzioni sui paesi in surplus, aumenti degli interessi pro-quota sugli investimenti esteri di questi ultimi, ovvero, sempre a carico degli stessi, aumenti di salari nominali e reali, appare, al di là della soddisfazione teorica dell'adeguamento della teoria del Bancor ai tempi e modi dell'Europa contemporanea, alquanto irrealistico.

Sul piano negoziale, l'accettazione di limiti e prescrizioni di questo tipo, da parte di chi è abituato, da 30 anni, a imporre agli altri vincoli unilateralmente (cioè senza bilateralità dei vantaggi), e nel proprio interesse "mercantilistico" espansivo, è una prospettiva tanto praticabile quanto quella di chiedere a costoro l'Unione politica e la creazione di un governo federale che gestisca un bilancio di "trasferimento", alquanto consistente: non diciamo quel 20% del PIL (dell'eurozona), cui fa riferimento Minsky parlando della golden age del capitalismo USA post Bretton Woods, ma forse neppure il 5% ipotizzato da Cesaratto (misura che, a detta di Sapir, non avrebbe sufficiente capacità risolutiva e di di correzione dell'attuale crisi €uristica).

E se parliamo di negoziazione necessariamente fondata sui rapporti di forza (cioè i trattati internazionali), l'unico modo di rimetterli in contestazione e, dunque, di "riaprire i giochi", è quello di coagulare gli interessi di chi si trova in posizione di deficit (o meglio di accumulo di posizione estera negativa, a seguito dell'euro), e che si trova a dover correggere svalutando la propria competitività (per farla breve). Ciò, almeno, avrebbe il pregio della chiarezza anche rispetto alla pseudo-solidarietà di alcune parti dell'opinione pubblica tedesca.

E sarebbe certo difficile, ma non così tanto.


Al riguardo, ci limitiamo a sottolineare come, acutamente, Cesaratto evidenzi la stessa sopravvenuta approvazione di Mundell circa gli esiti finali della scombinata €uro-OCA, la single currency "adespota"; essa starebbe per raggiungere quel risultato di disciplina dei salari e dell'inflazione, che in ultima analisi, è al suo acme proprio in questo momento. Per quanto gli effetti di back-fire possano colpire la stessa Germania (i neo-classici, come evidenzia Minsky, vagheggiano sempre equilibri e "crescite" puramente e costantemente immaginarie), la consonanza e la compattezza delle classi dirigenti di tutti i paesi coinvolti, fanno ritenere che la direzione delle future politiche UEM sia quella di un'accentuazione di questa soluzione del problema del "conflitto sociale".


E se tutti quelli che contano, sul piano politico ed economico, si sentono "vincitori", una volta adottate le coordinate esplicative di Kalecky (e non la contabilità nazionale e del PIL, in cui perdono esattamente quelli che "devono" essere sconfitti), perchè dovrebbero "mollare" nella dirittura finale della loro marcia trionfale?


Poichè questa criticità vale su tutto lo spettro delle soluzioni, almeno si può preferire quella più lineare e che, al contempo, implica il maggior risveglio democratico nei popoli interessati.

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