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orizzonte48

La sofferenza dei pochi che decide la "maggioranza" dei... pochissimi

Tra Padoan e Bentham, spiegando la Grecia

Quarantotto

jeremy20benthamMolti ricorderanno questa dichiarazione di Padoan, rilasciata in un'intervista al Wall Street Journal: "Il consolidamento fiscale sta producendo risultati, la sofferenza sta producendo risultati.

 Riferita, com'è, al consolidamento fiscale nell'area euro, per la sua provenienza, non costituisce una sorpresa. 

Nella sua visione, più volte espressa in diversi studi, l'indebitamento pubblico è il problema e un consolidamento, "amichevole" per la crescita, consiste nel backstop al default sovrano (stile ESM o, ancor, meglio l'ERF), che si unisca ad una condizionalità tale da portare alla riforma strutturale del mercato del lavoro, garantendo la flessibilità verso il basso dei salari e il taglio della spesa pubblica e dei "buchi" nel prelievo fiscale (ergo, da inasprire per presunzione assoluta).

 Anche la logica del "rinvio" circa il pareggio di bilancio era perfettamente scontata, in base a precedenti prese di posizione, come strumento pragmatico di miglior realizzazione dello scenario di consolidamento fiscale (Padoan ha detto, prosegue Reuters - ed eravamo nel 2013 -, che l'OCSE, da molto tempo un tifoso delle politiche economiche che hanno dettato la risposta di forte austerità dell'UE alla crisi del debito (!), sta chiedendo a Bruxelles di consentire all'eurozona un periodo di rinvio agli obiettivi di deficit per tenere conto della prolungata crisi ...

i targets devono essere rivisti al netto degli effetti della recessione e calcolati in termini strutturali. Ciò significa che l'Italia è attesa avere un deficit strutturale vicino all'equilibrio nel 2013").

Ma posta sul piano del "pragmatismo", - che presuppone la utilità di ogni policy che persegua "quell'"   assetto socio-economico considerato intangibile -, il riferimento alla sofferenza non è tanto una frase estemporanea determinata da inclinazioni psicologiche personali, quanto dall'adesione culturale ad una precisa visione della dottrina economica.

Quella per la quale  ogni "sofferenza" umana e sociale è giustificata dalla remunerazione del tornare a potersi rivolgere ai mercati nel collocamento del debito pubblico (!), prescindendo da ogni considerazione sulla crescita, sulla distribuzione del reddito, sulla sostenibilità del livello di disoccupazione nel frattempo provocato.

Ma dove ritroviamo gli esatti antecedenti di questa teoria della sofferenza salvifica per garantire l'esatta applicazione del governo dei mercati (e non altro)?

Il pensatore di riferimento è Jeremy Bentham (1748-1832), che, come ci dice Galbraith nella sua "Storia dell'economia" (pagg.134 ss.), venne in soccorso "dall'esterno" alla teoria economica neo-classica, messa a punto da Smith, Say e Ricardo e, più tardi, dagli scopritori della "utilità marginale", in un percorso che culminò nella costruzione consolidata di Alfred Marshall, in cui campeggia il dogma "universalista" della legge della domanda e dell'offerta, e quindi della determinazione di ogni prezzo e valore da parte dei "mercati". Che poi altro non sono che gli imprenditori lasciati nella piena libertà di operare le loro scelte "produttive".

E' lo stesso Marshall a dirci che Bentham, rispetto alla diffusa accettazione della teoria economica classica (e neo-classica) "tutto considerato fu il più influente degli immediati successori di Adam Smith".

Bentham partiva da un dato esistenziale che giustificava l'utilitarismo come legge suprema dell'intera organizzazione del consorzio umano. Scopo della vita umana era il perseguimento della felicità e questa aveva un immediato riferimento oggettivo: l'utilità di qualcosa di apprendibile dal mondo esterno all'individuo.

La felicità, e quindi l'utilità, era definita come "quella proprietà in forza della quale un qualsiasi oggetto tende a produrre beneficio, vantaggio, piacere, benessere o ... felicità", ovvero per la quale tale oggetto "impedisce danno, dolore, sciagura ... infelicità".

Incurante del problema relativo alla  "distribuzione" di tali oggetti e delle conseguenti dosi di felicità, o di infelicità "impedita", in capo ai singoli individui, e tantomeno della incomparabilità tra i gradi di soddisfazione determinati dalla potenziale diversità degli individui stessi, Bentham afferma che la massimizzazione della felicità procedeva, complessivamente, dalla massimizzazione della produzione di beni, ricollegandosi alla visione della produttività industriale sostenuta dai liberisti (abbiamo visto qui come Malthus avesse prospettato il problema delle classi "improduttive" ma consumatrici, che, in realtà, contraddiceva il dogma della materialità delle utilità prodotte. Ma doveva passare molto tempo prima che venisse superato. E non del tutto).

Comunque sia, per Bentham, nell'ottica utilitarista, la valutazione di qualsiasi azione economica e politica doveva guardare al suo effetto globale sulla produzione.

E qui viene il punto: ciò che promuoveva la produzione era utile e perciò benefico, anche se incidentalmente avesse dovuto risultarne una sofferenza per un minor numero di persone. L'utilitarsimo giustificava tale sofferenza laddove la società perseguisse la "massima felicità per il maggior numero". Con la conseguenza che la "infelicità del minor numero" dovesse essere accettata.

Anzi, di fronte a questo obiettivo di felicità - non ben riscontrata nella sua compresenza nella ipotizzata maggioranza - occorreva "indurirsi" contro i sentimenti di compassione per i pochi e addirittura respingere le iniziative a loro favore, per evitare che ne venisse danneggiato il maggior benessere dei molti.

A dimostrazione di come Marshall avesse ragione nel considerare Bentham un grande "influencer" del pensiero politico-economico, tramutatosi in senso comune per i seguaci del neo-liberismo contemporaneo (in UE, liberismo "ordinalmentale" a trazione, non casualmente, tedesca), può constatarsi come, in questa ottica, l'allargamento dei mercati, tipica dell'era della grande liberalizzazione dei capitali, con le sue conseguenze di base demografica, spiega perfettamente la disinvoltura con cui le sofferenze di milioni di greci possano essere considerate, come sostengono Schauble, la Merkel e i vari Olli, un costo accettabile se non addirittura trascurabile.

Con la stessa disinvoltura di Bentham, - per l'inerzia provocata dalle iperconvinzioni deduttivistiche che sono alla base dei calcoletti pretesamente "matematici" tipici dei neo-liberisti -, si tralascia di misurare quando questa minoranza sia effettivamente tale

Il punto è che, per i liberisti, la misura di ogni maggioranza ("felice"), anche in forza della rappresentatività politico-istituzionale rivendicata come imprescindibile, era, ma ancora è, la soddisfazione della classe imprenditoriale dominante: se la maggioranza di coloro che sono in grado di imporre e far risaltare il proprio sentire e la propria visione del mondo è soddisfatta, da una qualunque politica, normalmente conforme ai loro obiettivi del momento, il costo della sofferenza inflitta viene automaticamente considerato accettabile.

E' dunque una questione di rappresentatività, di peso del proprio giudizio socio-politico e, in definitiva, di sua rappresentazione diffusa, compiuta in via preferenziale dai mezzi di comunicazione.

Per questo esatto motivo il liberismo, una volta fissato il "metro" utilitaristico della maggioranza felice, - cioè la minoranza "pesante" ed effettivamente capace di orientare le azioni dei mercati così come dello Stato -, ha teorizzato che" 

«Il controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati […] in breve, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi». (F. von Hayek da "Verso la schiavitù", 1944).

Si vede bene, (ma chi non vuol vedere è inutile che si sforzi), che il problema del controllo sociale utilitaristico-liberista, per la intrinseca contraddizione, o forzatura, del considerare implicitamente risolto in partenza il problema della rappresentatività, (in base alla maggioranza formata da chi avesse "peso specifico"), ripropone, ad ogni suo tentativo di affermare la propria supremazia, la costante esigenza del controllo culturale e mediatico.

Adattandolo anche alla sopravvenuta (e fastidiosa) fenomenologia del voto a suffragio universale.

Quand'anche lo scontento, causato dalla diffusa sofferenza, fosse esso stesso a risultare maggioritario, e quindi idoneo ad accertare la "disutilità" di un certo assetto, provvederanno i meccanismi di controllo culturale. 

Perchè la democrazia (sempre von Hayek ipse) è un metodo idraulico, che deve comunque facilitare un risultato prefissato dai proprietari-operatori economici, giudici inappellabili del rispetto della Legge (della "loro" Natura); o altrimenti, va rigettata

O controllata con ogni mezzo che spenga i "valori" che, incidentalmente, si connettono al "metodo".

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quote-the-expression-often-used-by-mr-herbert-spencer-of-the-survival-of-the-fittest-is-more-accurate-charles-darwin-222680


A conferma della linea che unisce da Ricardo a von Hayek la visione dei liberisti e neo-liberisti, ci sovviene questa "splendida" autoproclamazione di Herbert Spencer (il darwinista sociale per eccellenza, che teorizzò che i "milionari sono un prodotto della selezione naturale"): 

 

"La funzione del liberalismo in passato fu quella di porre un limite ai poteri del re. La funzione del vero liberalismo in futuro sarà quella di porre un limite ai poteri del Parlamento".

Basti questo per comprendere come ogni pretesa libertaria di questa corrente di pensiero, che rivendica a sè, a partire dalla Glorious Revolution, l'affermazione dei Parlamenti, riveli con ciò tutta la strumentalità del sostenere gli stessi; nella fase di affermazione contro le monarchie, era perfettamente accettabile e si parlava di lotta alla "tirannia". Poi il parlamentarismo divenne un peso all'utilitarismo autolegittimante di una nuova oligarchia.

La citazione è tratta da un libro di Spencer che fu certamente di ispirazione per von Hayek, se non altro per il suo eloquente titolo "The Man Versus the State" (Caldwell, p.209)

 

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