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Antropologia e teoria delle istituzioni

Paolo Virno      

edipo dechirico2Non vi è indagine sulla natura umana che non porti con sé, come un passeggero clandestino, almeno l’abozzo di una teoria delle istituzioni politiche. L’analisi degli istinti e delle pulsioni della nostra specie contiene sempre un giudizio sulla legittimità del Ministero degli Interni. E viceversa: non vi è teoria delle istituzioni politiche degna di questo nome che non adotti, quale suo celato presupposto, l’una o l’altra rappresentazione dei tratti che distinguono l’Homo sapiens dalle altre specie animali. Per tenersi a un esempio liceale, poco si comprende del Leviatano di Hobbes se si trascura il suo De homine.

Il nesso tra riflessione antropologica e teoria delle istituzioni è stato formulato con grande schiettezza da Carl Schmitt nel settimo capitolo del suo Il concetto del ‘politico’ . Egli scrive:

Si potrebbe analizzare tutte le teorie dello Stato e le idee politiche in base alla loro antropologia, suddividendole a seconda che esse presuppongano, consapevolmente o inconsapevolmente, un uomo “cattivo per una natura” o “buono per natura”. […] Nell’anarchismo dichiarato è immediatamente chiara la stretta connessione esistente tra la fede nella “bontà naturale” e la negazione radicale dello Stato: l’una consegue all’altra ed entrambe si sorreggono a vicenda. […] Il radicalismo ostile allo Stato cresce in misura uguale alla fiducia nella bontà radicale della natura umana. […]

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eipcp

La potenza del sapere vivo

Crisi dell’università globale, composizione di classe e istituzioni del comune

Gigi Roggero

recession cardsI clienti della compagnia telefonica 3 che avessero bisogno dell’assistenza online, troveranno nell’area dedicata del sito una curiosa sorpresa. A rispondere non sono infatti dei tecnici pagati dall’azienda, bensì – attraverso un forum libero – altri clienti. 3 mette in palio per le migliori risposte modesti premi e cotillon: ricariche o telefonini, peraltro già acquisibili in comodato gratuito attraverso le offerte promozionali. Soprattutto, l’impresa stila delle classifiche mensili al cui interno i cooperanti del forum vedono riconosciuto il proprio valore e merito. Se, tuttavia, si invia un post in cui – dopo aver esposto il problema e ringraziato gli utenti per la loro bravura – si insinua il dubbio che quello di cui 3 utilizza è un lavoro non pagato, dopo pochi minuti il messaggio verrà cancellato dal libero spazio del forum.

Questo aneddoto, che rappresenta il funzionamento di un modello imprenditoriale tendenzialmente egemone non solo nel campo delle telecomunicazioni, ci fornisce gli elementi centrali di analisi del capitalismo contemporaneo. Mostra, innanzitutto, la natura ideologica della figura del prosumer, diffusa nella narrazione postmoderna sulla società della conoscenza: non è dunque il lavoratore che diventa consumatore, ma è al contrario il consumo che viene messo al lavoro. Non solo: è proprio sui soggetti della cooperazione sociale che viene scaricato il taglio dei costi del lavoro, riproducendo di continuo al suo interno linee di competizione individualistica – è questo il senso delle classifiche mensili di 3. Vengono, cioè, continuamente separati dall’appropriazione comune di ciò che producono in comune.

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wolfstep

Il paradosso di Abilene e la dittatura della massa.

 di Uriel

angeliSinora ho citato diverse volte il padadosso di Abilene, e mi hanno chiesto di spiegarlo. Contemporaneamente ho detto “dittatura della massa”, e anche questo termine e’ abbastanza oscuro. Cosi’ adesso vedo di sforzarmi di spiegare entrambe le cose, in un linguaggio semplice.

Il paradosso di Abilene.

Dunque: Nash ha dimostrato che il sistema raggiunga un equilibrio migliore se ogni giocatore si sforza di beneficiare anche il sistema (cioe’ di contribuire al risultato complessivo) oltre che a massimizzare il proprio punteggio. C’e’ pero’ un piccolo problema: se l’informazione non e’ completa, e’ possibile produrre un gioco paradossale assumendo che tutti i giocatori vogliano migliorare il sistema, senza sapere pero’ come farlo.

Il paradosso di Abilene prende il nome da un racconto nato per spiegarlo. Una famiglia che, come molte persone, crede che Abilene sia un posto bellissimo sta organizzando una gita. Nessuno dei partecipanti vorrebbe andare ad Abilene, ma tutti credono (poiche’ e’ risaputo che Abilene sia bellissima) che gli altri vogliano andarci.

Cosi’, poiche’ ognuno intende evitare di essere il tiranno del gruppo, ognuno decide di acconsentire ad andare abilene. Il risultato e’ una stravagante unanimita’, ottenuta rinunciando al proprio payoff a favore di un un presunto payoff globale. Il problema e’ che nessuno voleva andare ad Abilene, e il risultato e’ che nell’intento di massimizzare il payoff collettivo si e’ ottenuto il peggior payoff possibile sia per i singoli che per il gruppo.

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manifesto

Così è la vita

Felice Cimatti

SUPERARE IL DETERMINISMO GENETICO. Un incontro con il fisiologo Denis Noble, del quale è uscito da Bollati Boringhieri un saggio titolato «La musica della vita». Il codice del Dna - dice - somiglia a un cd perché convoglia informazioni digitali. Ma così come un disco non scrive la musica il Dna non «causa» la vita

dnaCos'è la vita? Da un punto di vista scientifico la risposta non è affatto ovvia. Che differenza c'è fra uno stesso gatto quando è vivo e quando è morto? Il gatto morto è composto della stessa materia di quello vivo, eppure, evidentemente, c'è una differenza radicale fra i due. La risposta non va cercata direttamente nella materia organica, perché essa è - come ci ricorda il biologo Denis Noble, di cui è stato da poco pubblicato La musica della vita (Bollati Boringhieri) - materia esattamente come quella non organica. Non c'è un'essenza della vita che si possa individuare al microscopio. Il libro di Noble affronta questo tema, così dolorosamente attuale, proponendo un orientamento singolare, e allo stesso tempo antico, allo studio dei fenomeni viventi. Oggi, e non solo nella biologia, prevalgono le spiegazioni riduzionistiche, che cercano di rendere conto dei fenomeni trattandoli come l'effetto superficiale di qualche meccanismo nascosto al loro interno (e il riduzionismo non è solo scientifico ma anche religioso). È un procedimento spesso molto fruttuoso, ma talvolta no: per esempio nel caso dei fenomeni complessi, o emergenti, in cui interagiscono una moltitudine di componenti elementari. Prendiamo il caso del battito cardiaco: come illustra Noble nel suo libro una spiegazione riduzionista di questo fenomeno biologico fondamentale semplicemente non esiste (non esiste, cioè, il gene del battito del cuore, così come non esiste il gene della vita). Altre spiegazioni le lasceremo allo stesso fisiologo di Oxford.


L'uso che lei fa della analogia fra la musica e la vita le serve a sostenere che i fenomeni vitali non hanno, al loro interno, qualche essenza misteriosa. Come la musica esiste soltanto se viene eseguita, così la vita c'è solo in quanto e finché è vivente. Nel sempre - lei dice - per dare conto di un fenomeno complesso è vantaggioso cercare una spiegazione riduzionista, cioè più semplice del fenomeno che intende spiegare.

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megachip

 Senza uguaglianza la democrazia è un regime

di Gustavo Zagrebelsky 

Riproduciamo qui un magnifico articolo del grande giurista Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte Costituzionale, pubblicato su «la Repubblica» del 26 novembre 2008. Pur lasciando del tutto inalterato questo testo di chiarezza esemplare, lo abbiamo collegato a un percorso di approfondimento con numerosi link. La bella riflessione di Zagrebelsky sulla «Costituzione in bilico» merita la massima attenzione dei lettori.

Poiché tra i cinque punti del documento d’intenti del progetto televisivo Pandoratroviamo la «difesa della Costituzione e della legalità democratica» e la «difesa dei diritti sociali e civili dei cittadini», la combinazione Costituzione-Uguaglianza esplicitata da Zagrebelsky ci appare il tasto più importante del nostro telecomando.

Regime o non-regime? Un confronto su questo dilemma, pur così tanto determinante rispetto al dovere morale che tutti riguarda, ora come sempre, qui come ovunque, di prendere posizione circa la conduzione politica del paese di cui si è cittadini, non è neppure incominciato. La ragione sta, probabilmente, in un’associazione di idee. Se il "regime", inevitabilmente, è quello del ventennio fascista, allora la domanda se in Italia c’è un regime significa se c’è "il" o "un" fascismo; oppure, più in generale, se c'è qualcosa che gli assomigli in autoritarismo, arbitrio, provincialismo, demagogia, manipolazione del consenso, intolleranza, violenza, ecc.

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deriveapprodi

Convertiti e pervertiti

di Augusto Illuminati

arteModernaUn altro africano, Agostino, arrivato clandestino in Italia per ragioni familiari, quando si decise, dopo lungo travaglio, alla conversione, non la sfoggiò pubblicamente né tanto meno pretese di aggiungere l'impegnativo nome di Cristiano al momento del battesimo. Durante il soggiorno milanese scrisse il De immortalitate animae, non editoriali ben pagati per il «Corriere della Sera». Vero che, alla fine della sua vita, ci andò giù con mano pesante nei confronti di donatisti e pelagiani, ma in complesso per un lungo tratto fu tollerante e puntò alla persuasione ecclesiale più che alla repressione imperiale. Il nostro Magdi Cristiano, invece, esordì con una sparata anticoranica che imbarazzò l'incauto pontefice-battezzatore e perfino il devoto Giulianone. Proseguì auspicando la demolizione o non-edificazione delle moschee italiche e l'espulsione degli imam e scatenando crociate contro le organizzazioni rappresentative islamiche con cui faticosamente trattavano i vari governi nazionali, insomma applicando al campo musulmano il noto stereotipo dell'ebreo odiatore di se stesso. O più semplicemente del convertito fanatico, di cui anche la politica ci ha offerto memorabili esempi. Ma si tratterebbe ancora di una patologia individuale, per quanto autorevolmente sponsorizzata dal Papa e pubblicizzata sulla stampa, un predicatore fondamentalista come ce ne sono tanti negli Usa e nel mondo islamico.

Quando però il Nostro si applica ai delicati temi dell'immigrazione, non possiamo dimenticare che parla ufficialmente il vice-direttore del «Corriere» (18 giugno 2008) e non più soltanto il born again schiumante risentimento.

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deriveapprodi

Mormorazioni nel deserto

di Paolo Virno

134151Il rapporto tra aspetti temibili della natura umana e istituzioni politiche è, senza dubbio, una questione metastorica. Per affrontarla, serve a poco evocare il caleidoscopio delle differenze culturali. Tuttavia, come sempre accade, una questione metastorica guadagna visibilità e pregnanza soltanto in una concreta congiuntura storico-sociale. L’invariante, cioè la congenita (auto)distruttività dell’animale che pensa con le parole, è messo a tema da crisi e conflitti contingenti. Detto altrimenti: il problema dell’aggressività intraspecifica balza in primo piano allorché lo Stato centrale moderno conosce un vistoso declino, costellato però da convulse spinte restaurative e da inquietanti metamorfosi. È nel corso di questo declino, e a causa di esso, che torna a farsi valere in tutta la sua portata antropologica il problema delle istituzioni, del loro ruolo regolativo e stabilizzatore.

Fu lo stesso Carl Schmitt a constatare, con palese amarezza, il tracollo della sovranità statale:

“L’epoca della statualità sta ormai giungendo alla fine […] Lo Stato come modello dell’unità politica, lo Stato come titolare del più straordinario di tutti i monopoli, cioè del monopolio della decisione politica, sta per essere detronizzato”.

Lo sgretolamento del “monopolio della decisione politica” deriva tanto dalla natura dell’attuale processo produttivo (basato sul sapere astratto e la comunicazione linguistica), quanto dalle lotte sociali degli anni Sessanta-Settanta e dal successivo proliferare di forme di vita refrattarie a un “patto preliminare di obbedienza”. Non importa, qui, soffermarsi su queste cause o ventilarne altre eventuali. Ciò che conta sono piuttosto gli interrogativi che campeggiano nella nuova situazione. Quali istituzioni politiche al di fuori dell’apparato statale? Come tenere a freno l’instabilità e la pericolosità dell’animale umano, là dove non si può più contare su una “coazione a ripetere” nell’applicazione delle regole di volta in volta vigenti? In che modo l’eccesso pulsionale e l’apertura al mondo che caratterizzano la nostra specie possono fungere da antidoto politico ai veleni che essi stessi secernono?

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manifesto

Quel che entra in gioco quando scegliamo

Felice Cimatti

neuro biologiaImmaginiamo una situazione futuribile, ma in realtà già praticabile: un uomo deve decidere se agire in un modo anziché in un altro e le due scelte sono fra loro incompatibili, anzi comportano conseguenze drasticamente diverse. L'uomo non sa decidersi, esita. A questo punto gli viene applicato intorno al cranio un potente macchinario, in grado di registrare l'attività metabolica del suo cervello. Ora il nostro uomo può vedere su un monitor quali aree del cervello si attivano, e con quale intensità, quando riflette alle due alternative fra le quali può scegliere. Pensa all'alternativa A e contemporaneamente vede accendersi, in particolare, due aree cerebrali; pensa all'alternativa B e si accendono quattro aree cerebrali. L'alternativa B sembra coinvolgere un maggior numero di aree cerebrali, perché, così pensa il nostro uomo (dopo aver spento il monitor), forse è quella che ha conseguenze più ramificate, e complesse e dunque imprevedibili. Decide allora per l'alternativa A.

Le conoscenze accumulate dalle neuroscienze sul funzionamento del cervello permettono di analizzare in sempre maggiore dettaglio quel che succede al suo interno quando pensiamo, desideriamo, speriamo e, soprattutto, quando siamo impegnati in una scelta. L'esperimento mentale che abbiamo descritto ci porta in un nuovo campo, quello della «neuroetica», un sapere dai confini assai incerti che «si colloca alla frontiera di neuroscienze e filosofia morale, psicologia, sociologia, pedagogia, diritto», come scrive Laura Boella nel suo Neuroetica. La morale prima della morale (Raffaello Cortina, 2008).

A un primo sguardo lo stesso termine «neuroetica» sembra intrinsecamente contraddittorio; se il campo dell'etica investe necessariamente l'atto di scegliere, quello dell'attività cerebrale, invece, ha a che fare con interazioni chimiche, che si verificano per cause esclusivamente fisiche. Detto altrimenti, per comprendere il funzionamento del cervello non abbiamo bisogno della nozione di scelta.

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materiali resistenti

L'egemonia proprietaria dell'«uomo nuovo»

di Roberto Ciccarelli

Dalla critica alle società del welfare state alla retorica di una libertà individuale incardinata su dispositivi securitari. Un percorso di lettura per mettere a fuoco le caratteristiche del pensiero «neoliberale»

La scomparsa della sinistra italiana dalla rappresentanza parlamentare non è solo l'ultimo colpo di coda dell'insensato cupio dissolvi che l'ha accompagnata dal 1989, ma il sintomo plateale della sua inadeguatezza rispetto alla trasformazione dell'ormai trentennale ciclo politico neoliberale in cui ci troviamo. Di questo ciclo, delle sue contraddizioni politiche e delle sue rotture storiche, questa sinistra nulla o quasi ha compreso, se non quando ha denunciato con qualche approssimazione e genericità l'«americanizzazione» della società italiana. La tonalità penitenziale che hanno assunto le analisi del voto convergono in gran parte su questo punto. È un gigantesco passo in avanti per chi non ha quasi mai praticato la virtù del dubbio, preferendo attribuire gli errori della propria proposta politica all'incapacità della società di coglierne il senso. Ammettere tuttavia di non avere compreso nulla della «realtà» è una conclusione imbarazzante che assomiglia ad una penosa autoassoluzione e non spiega la ragione per cui questo processo si è consolidato al punto da avere raggiunto conseguenze così imprevedibili.


Vittoria senza partito


È una salutare novità che alcuni protagonisti della sinistra politica abbiano invitato ad analizzare la sua disfatta politica a partire dai suoi presupposti culturali. Solo che non ci si può accontentare di pensare che le «culture della destra» si siano impadronite della società e che per questo motivo la sinistra non riesce più a capirla. Applicare lo schema «destra/sinistra» al ciclo politico neo-liberale può forse appagare l'istinto di conservazione di una cultura penalizzata dal suo originario storicismo, ma non spiega come una battaglia culturale potrebbe intervenire nella costruzione di un'identità politica alternativa. In un'intervista intitolata significativamente Building a New Left (Costruire una nuova sinistra), rilasciata addirittura alla fine degli anni Ottanta nell'Inghilterra di Margaret Thatcher, il filosofo (gramsciano) Ernesto Laclau ha spiegato che l'egemonia attribuita alla «destra» neo-liberista è un artefatto complesso che unisce tutti i livelli nei quali gli uomini condividono l'identità collettiva e le loro relazioni con il mondo (la sessualità, il privato, l'intrattenimento, il potere). L'egemonia non è dunque mai un partito, o un soggetto, ma l'espressione di molteplici operazioni che si cristallizzano in una configurazione, quella che Michel Foucault ha definito «dispositivo».

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Una geologia per il divenire dell'individuo sociale

Enrico Livraghi

Un denso saggio dedicato a Gilbert Simondon, l'epistemiologo francese che ha ispirato l'opera filosofica di Gilles Deleuze. E che ha sviluppato un innovativo concetto di «natura umana» e un «principio di individuazione» aperto a stimolanti approdi politici

In Italia il pensiero di Gilbert Simondon era poco più che sconosciuto prima che Gilles Deleuze lo indicasse come un referente cruciale, o meglio, come una delle fonti del concetto di singolarità e individualità da lui messo a punto (con Felix Guattari) negli anni Settanta. In ogni caso, Du mode d'existence des objets tèchniques, apparso nel 1958 e mai tradotto in italiano, era forse noto a pochi sparuti francofoni, mentre nessuno, almeno pubblicamente, sembrava sapesse nulla di L'individuation psychique et collective, pubblicato nel 1964 (e poi nel 1989). Come si sa, quest'ultima opera, che è poi la tesi principale di dottorato presentata da Simondon (mentre Du mode d'existence è invece la tesi secondaria), è stata invece editata anche in Italia nel 2001 da DeriveApprodi.


Sintesi di forma e materia


A qualche anno di distanza, tuttavia, gli studi su Simondon si può dire siano rimasti al palo, a parte i riferimenti di Paolo Virno nel suo Grammatica della moltitudine, la voce «Singolarità/singolarizzazione» scritta da Massimiliano Guareschi per Lessico postfordista (Feltrinelli) e poco altro. Si presenta quindi di notevole importanza la pubblicazione per l'editore Manni di Lecce di questo Gilbert Simondon: per un'assiomatica dei poteri (Euro 18), scritto dal giovane Giovanni Carrozzini (oggi ventiseienne). Si tratta del primo e finora unico tentativo di sondare in profondità l'opera del filosofo-epistemologo francese, tanto esigua sul piano quantitativo quanto complessa sul piano concettuale.

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La scommessa giocata nell'atelier del Principe

Roberto Ciccarelli

L'esperienza della rivista «Centauro» ripercorsa in un volume. L'incontro tra teorici tra loro eterogenei, ma accomunati dalla convinzione che la crisi della modernità coincideva con l'eclissi delle categorie del politico.

Nei diciotto numeri coordinati dal filosofo napoletano Biagio de Giovanni, la rivista di filosofia e politica Il Centauro ha espresso una delle caratteristiche che hanno reso la riflessione italiana sulla «politica» ad un tempo ardua e singolare. Ardua perché ha saputo tenere il polso dell'analisi filosofica del presente, senza mai rinunciare alla densità del linguaggio e all'articolazione dei concetti rispetto agli scarti imposti dalla realtà viva della politica. Singolare perché, sul finire di un decennio di grandi trasformazioni, gli anni Settanta, alcuni tra i più significativi intellettuali che fino ad allora avevano fatto base nel Partito comunista iniziarono ad interrogare la «crisi della modernità». Una formula che faceva eco al nascente dibattito sulla fine dei grandi racconti moderni sulla politica, sulla storia e sulla filosofia lanciato nel 1979 da Jean-François Lyotard ne La condizione postmoderna allargandosi presto ad una dimensione imprevista dal suo stesso promotore, quella della fine della storia, dell'irrapresentabilità del conflitto sociale e della razionalità come prerogativa di un processo di modernizzazione della politica.

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Quell'oscuro essere in cerca della sua rivoluzione

Augusto Illuminati

marxheidMarx dopo Heidegger. La rivoluzione senza soggetto di Giovanni Leone (Mimesis, pp. 144, euro 15) prende le mosse da interrogativi che si sono largamente diffusi con la crisi del marxismo: è possibile una tensione anticapitalistica senza soggetto rivoluzionario? Si può sottrarre Marx alla filosofia dialettica della storia e a una metafisica «necessarista» e finalista? Lo stesso superamento del termine comunismo, al di là del facile opportunismo di chi cambia nome per ragioni di mercato, non indica l'esigenza di distinguersi da un riferimento alla comunità, sia astratta che concreta, che Marx stesso ripetutamente sconfessa? Le argomentazioni di Leone sono indubbiamente valide e ricorrono spesso nel marxismo critico a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo: pensiamo alla polemica contro lo sviluppismo etnocentrico, il primato delle forze produttive sui rapporti di produzione, l'impianto dialettico sostanzialmente hegeliano, il retaggio feuerbachiano della «Specie Umana» o «Uomo Produttore» svuotati dall'alienazione e da restaurare in un nuovo comunitarismo.

Anche l'enfasi sulla prassi è stata tendenzialmente depurata dagli aspetti più smaccatamente produttivistici ed umanistici.

La riflessione heideggeriana sulla tecnica ha svolto un ruolo in tale rimodulazione, sia indirettamente attraverso la Scuola di Francoforte e Herbert Marcuse, sia direttamente con la tacita ma drastica mediazione di Louis Althusser. Il filosofo francese ha costruito un programma di reinterpretazione della storia come processo senza origine, soggetto e finalità, proponendo una lettura sintomale di Marx e individuando i punti di cesura fra il seguace di Hegel e Feuerbach e gli sviluppi più originali del suo pensiero.

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carmilla

Cosa può un corpo?

di Girolamo De Michele

Gilles Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, a cura di Aldo Pardi, Ombre Corte, Verona, 2007, pp. 202, euro 18.50

cosa puo un corpoCi sono molte ragioni per regalarsi la lettura delle lezioni su Spinoza di Gilles Deleuze, sino a ieri disponibili solo on line e adesso tradotte e curate col titolo Cosa può un corpo? da Aldo Pardi, autore di un densissimo saggio prefatorio, all’interno di una la felice congiuntura editoriale: sono da poco disponibili il Meridiano delle Opere di Baruch Spinoza, prima traduzione integrale dei testi spinoziani (qui l'ottima recensione di Toni Negri), e il primo dei due volumi che raccolgono tutti gli scritti brevi di Deleuze: L’isola deserta e altri scritti – 1953-1974. Tre testi che, letti in contaminazione, evidenziano come nel pensiero di Gilles Deleuze si esprima oggi la forma di spinozismo più adeguata al tempo presente.

La prima, fondamentale ragione è l’aspetto terapeutico che oggi riveste l’opera di Spinoza: in un’epoca caratterizzata dal governo politico delle passioni tristi, la sua lettura è liberatoria per la sua capacità di andare alla radice delle servitù che imprigionano le menti e i corpi. Ma attenzione: non si tratta di una fuga nell’intellettualismo, né di una riabilitazione dell’aspetto consolatorio della filosofia che lo stesso filosofo olandese disdegnava. La conoscenza dei rapporti tra mente e corpo è, per Spinoza come per Deleuze, sempre pratica: ciò che è in gioco è sempre un concreto incrociarsi e scontrarsi di rapporti di potere, affetti, costruzioni sociali. Lo stesso corpo individuale è una costruzione sociale, un progetto politico: la sua espressione (lo mette bene in luce Pardi nella Prefazione) e la sua interpretazioni sono impensabili senza la comprensione adeguata delle stabilizzazioni imposte dai dispositivi di assoggettamento e dalle forme di riproduzione del potere.

La prassi spinoziana (degli spinozisti come del cittadino Baruch Spinoza) era (ed è) affermazione, nel pensiero come nella vita, di un’altra società, di uno scarto rispetto al grado di esistenza e di libertà concesso dal potere: «una società dove il diritto si potesse compiutamente esprimere come potenza collettiva» (Pardi, p. 31).

Ma la potenza del pensiero spinoziano comporta un rischio: che lo spinozismo, magari proprio nella sua versione deleuziana, scada a riproposizione di affermazioni filosofiche con valore di slogan a fronte della crisi dei movimenti e dell’attuale inadeguatezza delle loro prassi.

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 materiali resistenti

Il ritorno della politica

Intervista a Toni Negri

di Marianna Canavese e Bruno Fornillo

morte di socrateIl saggista italiano annuncia la fine della postmodernità, almeno nel suo aspetto politico di indifferenza innanzitutto del bene comune. Dice che ricomincia la narrazione di un processo di liberazione. In questa chiacchierata analizza la situazione attuale del capitalismo e le sue derivazioni nel lavoro. Le sue posizioni hanno conosciuto le obiezioni di Laclau, Dri e Boròn, tra gli altri, che lo accusano di un eccesso di utopismo e di non tener conto delle dimensioni nazionali della lotta politica.
 
Suole dire che l'Italia della fine degli anni '60 e gran parte degli anni '70 era immersa in un grado di mobilitazione collettiva che operò come una sorta di laboratorio della politica di emancipazione. In Argentina, dopo aver visitato la Bolivia e il Venezuela, il filosofo Toni Negri - uno degli animatori di quel ciclo della rinnovazione di quel discorso - annuncia il tempo di una nuova narrazione delle pratiche politiche. Soggetto a multiple letture, interpreta che la ricezione locale della suo opera è stata "negativa e limitata" rispetto alle discussioni che determinò in altre regioni del continente.

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manifesto

La passione del fare politico

Rossana Rossanda

Rigore e semplicità. Le qualità de «Principia Iuris». Un'opera che interroga il secolo breve senza ritrarsi di fronte ai nodi che ha lasciato in eredità

principiajurisColoro che hanno seguito sia pur da lontano Luigi Ferrajoli nella stesura dei Principia Iuris sanno quanta fatica gli sia costato non l'impianto dell'opera, così radicato nella sua formazione intellettuale, quanto la determinazione a renderla come un pane da spezzare per qualsiasi cittadino che si interroghi sulle relazioni interindividuali e fra individui e società. Come darsi un sistema di regole al fine di garantire la reciproca libertà e sicurezza dei diritti? Antico problema, ma rivisto alla fine di un secolo che ha messo in causa sia le forme della democrazia, sia quello che si voleva un suo superamento in senso comunista. Ne è venuto un lavoro imponente e semplice, rigoroso e comunicante senza nulla togliere allo spessore dell'argomentazione, ai riscontri del e nel sistema, e alla genesi storica e teorica dei concetti.

Sembra impossibile che un titolo così severo e la mole delle pagine costituiscano un'opera che chiunque può prendere in mano senza sentirsi allontanato. Si deve certo all'eleganza della scrittura, ma soprattutto, credo, alla convinzione morale e politica di Ferrajoli che urge ricostruire un sistema di rapporti umani ormai a rischio di imbarbarimento. Bisogna e si può. È poi il fondamento del politico, una posta alta, il contrario d'un esercizio accademico. In questo Luigi Ferrajoli è proprio un illuminista, ne possiede (è posseduto da) quella passione di capire, dirimere e spiegare che si fonda sulla convinzione che la specie umana ha la capacità di darsi un senso e delle regole che ne consentano una terrena sopravvivenza.

Si potranno fare altre accuse all'illuminismo, non quello di non averci restituito la possibilità di quella salvezza, nei limiti della vita, che le religioni negano, rimettendo il nostro destino nelle nostre mani. Filo d'Arianna l'uso della ragione, strumento da usare e verificare nella sua struttura logica e fin matematica. Questa non è una fede, è una scelta. Controcorrente, a stare agli ormai trentennali assalti alla ragione tacciata di imperialismo occidentalista, astrazione, pretesa universalistica, misconoscenza delle differenze. E' proprio la sigla di Ferrajoli - si ricorderà Diritto e ragione - e non perché ignori quanto l'irrazionalità sia costituente dell'umano, ma per la persuasione che non è possibile fondare sull'irrazionale una rete di rapporti che garantisca la libertà. Libertà «di» e libertà «da».