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Dalla crisi di plusvalore alla crisi dell'euro
di Guglielmo Carchedi
Data la rapida sequenza degli avvenimenti, questo articolo sarà regolarmente aggiornato
Aggiornato all’11 Gennaio 2012
I. Una delle caratteristiche della crisi finanziaria scoppiata nel 2007 - e ancora irrisolta - è il suo intreccio con la crisi dell’euro. In sintesi, la tesi di questo articolo è che la crisi dell’euro è la manifestazione nella eurozona della crisi dei derivati. Questa, a sua volta, affonda le sue radici nella caduta secolare del tasso medio di profitto nei settori produttivi degli USA. Questa tesi è stata sviluppata in Dietro e Oltre la Crisi.1 Questo articolo prosegue su quella linea di indagine. A tal fine, sarà necessario riprodurre alcuni argomenti già presentati in Dietro e Oltre la Crisi, ma solo quelli strettamente necessari e in versione accorciata.
Consideriamo, per incominciare, i settori che producono beni materiali negli USA che per approssimazione possono essere considerati come rappresentanti di tutti i settori produttivi.
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Cosa possiamo fare?
di Andrea Zhok
Gli ultimi mesi hanno visto un’accelerazione dei processi di dissoluzione dei paradigmi democratici e dei diritti costituzionali inedita nella storia della Repubblica. Che di questa situazione una parte ampia della popolazione italiana non abbia alcuna contezza va registrato con rammarico, ma non può essere un motivo per rimanere alla finestra.
A) Qual è la situazione in cui ci troviamo?
Riassumiamo quanto accaduto negli ultimi mesi sotto il profilo democratico.
• Con la Certificazione Verde si è istituito di fatto un trattamento sanitario obbligatorio sotto mentite spoglie, in violazione dell’articolo 32 della Costituzione.
• Le massive proteste di piazza che si sono succedute per mesi in decine di città italiane sono state ignorate dall’esecutivo e rimosse dalla vista e dal giudizio dai media, salvo nelle occasioni in cui era possibile stigmatizzarne qualche eccesso. L’unica risposta alla protesta di milioni di persone è stata ad un certo punto l’imposizione di un divieto di manifestare, in violazione sostanziale dell’articolo 17 della Costituzione.
• Intanto su molti manifestanti, identificati nel corso di eventi pacifici, senza che gli venisse ascritto alcun reato, hanno iniziato a piovere provvedimenti di DASPO urbani, annuali o triennali.
• Per rendere facile l’operatività dei controlli e l’implementazione del sistema certificativo da inizio ottobre è stata modificata la normativa sulla Privacy, scavalcando il Garante e legittimando di default il trattamento dei dati personali da parte dell’amministrazione pubblica, ogni qualvolta venga dichiarato che tale trattamento avviene per ragioni di pubblico interesse.
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Le politiche di austerità: un'analisi critica
di Guglielmo Forges Davanzati*
1 – Alle origini della crisi
Nei principali media nazionali e internazionali, la crisi scoppiata nel 2007 è stata raccontata così. La crisi è crisi finanziaria, deriva da una deregolamentazione eccessiva dei mercati finanziari ed è, in ultima analisi, imputabile all’eccessiva avidità degli speculatori e degli operatori finanziari. Ciò che nella terminologia corrente viene definito il greed. La si risolve, o la si attenua, conseguentemente, ponendo un freno all’espansione non controllata della sfera finanziaria e riducendo gli stipendi dei manager delle grandi imprese. La gran parte degli economisti liberisti fa propria questa interpretazione e i principali provvedimenti di politica economica attuati a seguito dei numerosi vertici internazionali dell’ultimo biennio si sono coerentemente mossi lungo questa strada.
La radicale debolezza di questa tesi sta nel fatto che essa presuppone una sfera finanziaria totalmente autonoma rispetto all’economia reale, ovvero che l’economia reale possa risentire dell’instabilità finanziaria ma non generarla. A ben vedere, tuttavia, i nessi di causa-effetto si verificano semmai esattamente in senso contrario.
La crisi è stata causata da un’enorme e crescente disuguaglianza distributiva, sia all’interno dell’economia statunitense, sia su scala globale.
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Reddito di cittadinanza: una critica marxista
di Giulio Palermo1
Riceviamo dalla Federazione del PCI di Brescia e pubblichiamo quale contributo alla discussione. Da comunistibrescia.org
Il successo elettorale del Movimento 5 stelle ha portato il tema del “reddito di cittadinanza” (RdC) al centro del dibattito politico. Tecnicamente, la proposta pentastellata non è veramente un’applicazione del RdC ma è piuttosto una forma di “reddito minimo garantito”, uno strumento di sostegno finanziario simile al RdC, senza tuttavia gli stessi tratti di universalità. Ma non importa: mentre la crisi incalza, l’idea di aumentare i redditi, invece che di stringere la cinghia, piace un po’ a tutti. In effetti, le prime critiche che si sono levate contro il RdC non riguardano veramente i suoi limiti teorici bensì la sua mancata attuazione: in Italia, il RdC non ha veri oppositori, il problema è che i grillini non lo vogliono applicare veramente.
Sul piano teorico, il RdC, nella sua versione ideale, è difeso in particolare dagli economisti della scuola keyensiana. Secondo loro, questo strumento sostiene la domanda aggregata, la crescita e l’occupazione. I più radical, quelli che strizzano l’occhio a Marx, aggiungono che favorisce anche l’emancipazione dal lavoro salariato.
In questo articolo sostengo invece che il RdC non solo non può realizzare questi obiettivi ma finisce in realtà per andare in direzione opposta: aggravando la crisi, sviluppando il liberismo e accelerando i processi di precarizzazione del lavoro e di mercificazione della società.
Inizio inquadrando la proposta del Movimento 5 stelle nel dibattito teorico e mostrando i veri obiettivi perseguiti da questa forza politica. Contrariamente ai difensori dell’universalismo, argomento che le differenze tra la proposta di Di Maio & co e il modello ideale di RdC non depongono veramente a favore del secondo.
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Kit di pronto soccorso antifascista contro il nuovo lasciapassare. Un segnale importante che vale la pena amplificare
di Wu Ming
Clicca per ingrandire/scaricare l’infografica di Antifasciste contro il pass. Prima, però, ti chiediamo di leggere il testo qui sotto.
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Le lezioni del capitale
Che cosa ci rivelano l’assassinio di Gheddafi e l’osceno tripudio della Clinton
di Franco Soldani
Solo chi nuota controcorrente può sperare di risalire alla fonte.
Lao Tze
Premessa
A partire dall’11 settembre 2001, la data chiave con cui si apre veramente, e non solo sul piano cronologico, il nuovo secolo, le diverse amministrazioni statunitensi, coadiuvate in questo da tutto l’Occidente di cui sono la superpotenza dominante, ci hanno fatto precipitare in un mondo alla rovescia in cui viviamo ancora oggi. In particolare oggi direi, dopo dieci lunghi anni di rodaggio della nuova macchina della propaganda. E un decennio di stress collettivo a seguito della “war on terror” seguita a quell’avvenimento cruciale. Non a caso. Come ci spiega infatti Edward Hunter, <<la gente è molto più impressionabile dalla propaganda quando è già in un intenso stato di tensione>>. È per questo che tendono a tenerci permanentemente sulla corda. Con tutti i mezzi. Soprattutto, è appena il caso di dirlo, tanto è manifesta la cosa, con le varie forme di terrorismo che sanno orchestrare così bene.
Indipendentemente dalla nostra volontà e persino contro di essa, siamo ormai entrati in un lungo viaggio come quello di Alice, senza alcuno specchio però da attraversare. La sua superficie, anzi, ci rimanda nuovamente le immagini più consuete e ordinarie della realtà, e ci ripete di non aver nient’altro da mostrarci. Questo è tutto quello che c’è. E tu uomo più non dimandare.
Da questo punto di vista, la megamacchina in questione funziona ormai perfettamente e l’attuale presidente degli Stati Uniti, che ne ha preso formalmente il volante o, se si vuole, si è impadronito del suo joy stick, può con confidenza affidarsi al regno metaorwelliano che gli odierni Megamedia, con tutto il tenebroso fascino di una creazione dal nulla, hanno disegnato appositamente per noi. In questo reame delle loro brame finalmente realizzato si assiste ormai ad una inedita pièce postnovecentesca:
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Per capire la crisi più lunga
di Ernesto Screpanti
Sei lezioni di economia (Imprimatur, Reggio Emilia, 2016, 17 Euro) di Sergio Cesaratto è un libro importante che esce in un momento di grande confusione d’idee e di grande incertezza economica e politica. La lunga ondata di egemonia neoliberista che ha devastato il mondo negli ultimi 40 anni lo ha infine fatto naufragare nella grande crisi da cui non siamo ancora usciti. E ora il cittadino disorientato si guarda intorno in cerca di nuovi strumenti di comprensione della realtà. Questo libro di Cesaratto gli può essere d’aiuto, sia perché fornisce un’analisi approfondita della crisi in corso, sia perché lo fa usando strumenti teorici alternativi a quelli su cui si fonda l’egemonia liberista.
Il libro si divide in due parti. I primi tre capitoli presentano la ricostruzione storica di un sistema teorico di grande prestigio, che la teoria economica dominante però ha cercato di relegare nel sottomondo dell’eterodossia. Il primo capitolo espone l’approccio del sovrappiù sviluppato da Smith, Ricardo e Marx. Il secondo tratta della teoria neoclassica, versione raffinata di quella che Marx chiamava “economia volgare”. Il terzo si concentra sulla rivoluzione keynesiana. Ma non è un libro di storia del pensiero. Cesaratto presenta l’oggetto della sua ricostruzione come materia viva. Rilegge quella storia con gli occhiali di Marx, Keynes e Sraffa, e approda all’esposizione di un sistema teorico che è “se non del tutto giusto quasi per niente sbagliato”. In questo sistema i redditi non di lavoro sono spiegati non come remunerazioni dei contributi produttivi di fantomatici fattori di produzione, ma come un sovrappiù prodotto dai lavoratori.
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La rottura strutturale del capitale e il ruolo della critica categoriale
Intervista a Robert Kurz della rivista online "Shift", Zion Ediçoes
Come si inquadra l’attuale crisi finanziaria nel contesto dello sviluppo della crisi strutturale del capitale?
É teoricamente sbagliato parlare di una crisi finanziaria indipendente, la cui «ripercussione» sulla cosiddetta economia reale sarebbe incerta ed eventualmente moderata. Espressa nei termini della teoria di Marx, la crisi finanziaria può essere solo una manifestazione della caduta delle condizioni della valorizzazione reale del capitale. Il sistema finanziario e del credito non é un settore autonomo, ma una componente integrante della riproduzione ampliata del capitale totale. Qui sorge una contraddizione che progressivamente si aggrava. L’espansione del sistema del credito in sé non è nuova, ha già percorso un processo secolare. Ciò riflette un meccanismo descritto da Marx come «aumento della composizione organica del capitale». Con l’aumento della scientificizzazione della produzione, cresce la proporzione di capitale costante (macchine, equipaggiamento tecnologico di controllo, comunicazioni e infrastrutture, etc.) in relazione al capitale variabile (forza di lavoro produttivo di valore). Corrispondentemente, crescono i costi preliminari per poter applicare in forma redditizia la forza lavoro, l’unica fonte di plusvalore. I costi preliminari crescenti esigono un anticipo del plusvalore futuro nella forma del credito per mantenere in corso l’attuale produzione di plusvalore, sempre più differito nel futuro.
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Il comune in rivolta
di Judith Revel e Toni Negri
Non ci voleva molta immaginazione per « strologare » rivolte urbane nella forma delle jacqueries, una volta che l’analisi della crisi economica attuale fosse stata ricondotta alle sue cause ed ai suoi effetti sociali. In Commonwealth, fin dal 2009, era stato infatti previsto. Quello che non ci saremmo mai attesi, all’incontrario, è che in Italia, nel movimento, questa previsione fosse rifiutata. Sembrava infatti, ci fu detto, antica; si disse invece: ora è il momento di ricostruire fronti larghi contro la crisi, di stabilire nei movimenti forme di organizzazione-comunicazione-riconoscimento che tocchino la rappresentanza politica.
Bene, adesso ci si trova tuttavia di fronte a movimenti che si esprimono in forme insurrezionali più o meno classiche, ma che si danno ovunque, sradicando così la vecchia grammatica geopolitica nella quale alcuni continuavano ostinatamente a voler pensare. Si danno cioè:
1) laddove un proletariato nuovo – fatto di precari et di disoccupati – si congiunge a classi medie in crisi: soggetti diversi che si unificano in modo inedito nella lotta, come nei paesi del sud-mediterraneo, per chiedere nuove forme di governo, più democratiche.
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Il tradimento della sinistra
di Sergio Cesaratto
Il volume di Aldo Barba e Massimo Pivetti è di gran lunga la più importante provocazione intellettuale alla sinistra degli ultimi anni. Pivetti, il più senior della coppia e ben noto economista eterodosso (con fondamentali contributi di analisi economica), non è certo nuovo a queste provocazioni, tanto da meritarsi nel lontano 1976 l’appellativo di “simbionese” (più o meno sinonimo di “terrorista”) da parte di Giancarlo Pajetta. La sinistra avrà tre possibilità di fronte a questo libro: ignorarlo del tutto; criticarlo sulla base degli aspetti più “coloriti” del volume - quelli in cui gli autori s’indignano per certe posizioni della sinistra antagonista; discuterlo a fondo.
E’ facile pronosticare che gran parte della sinistra italiana, troppo intellettualmente pigra o troppo radical-chic per entrare seriamente nel merito, sceglierà le prime due strade (ah, sono solo aridi economisti se non peggio). Ma il volume è ora lì come un macigno a pesare su una sinistra che ha perso, in Italia ma non solo, ogni reale contatto con le classi che rappresentavano un tempo la propria ragione sociale. Una sinistra che non solo ha perduto questo contatto, ma che è ormai da tempo considerata dai ceti popolari come propria nemica. Raccontano gli autori che pare che François Hollande in privato si riferisca ai ceti popolari come agli “sdentati”. Siamo anche convinti che, tuttavia, il volume rappresenterà occasione di dibattito e un randello da usare in ogni occorrenza per quel che resta di una sinistra intellettualmente solida e che delle ragioni di ampi strati della popolazione fa la propria ragion d’essere.
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La fabbrica del falso e la guerra in Libia
di Vladimiro Giacché
“Attraverso la ripetizione, ciò che inizialmente appariva solo come accidentale e possibile, diventa qualcosa di reale e consolidato”
G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie del Geschichte, in Sämtliche Werke, Frommann, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1971, Bd. 11, p. 403.
L’attacco della Nato contro la Libia iniziato il 19 marzo 2011 rappresenta un caso emblematico a più riguardi. In primo luogo, conferma in modo eclatante una verità più generale: nel mondo contemporaneo la propaganda, la guerra delle parole e delle immagini è ormai parte della guerra stessa. In secondo luogo, evidenzia la confusione che regna in una sinistra che – anche quando si pretende “radicale” e conseguente – in Italia come in tutti i paesi occidentali, ha dimostrato una sorprendente arrendevolezza e subalternità rispetto alla propaganda e all’informazione ufficiale. Si tratta di un fenomeno tanto più significativo in quanto anche in questo caso – come già era accaduto per l’Iraq – gli stessi Paesi aderenti alla Nato si sono presentati all’appuntamento divisi: l’astensione della Germania già in sede Onu si è trasformata in decisa presa di distanza dalle operazioni, e la stessa Turchia ha manifestato il proprio dissenso rispetto alla conduzione della guerra. Ma mentre ai tempi della guerra di Bush le divisioni nel campo imperialista avevano grandemente giovato al movimento per la pace, in questo caso nulla di questo è avvenuto. Lo stesso gruppo parlamentare della GUE al Parlamento Europeo si è spaccato, e nel nostro Paese si è assistito al grottesco spettacolo di un PD assai più guerrafondaio degli stessi partiti di governo, mentre SEL ha tenuto un atteggiamento inizialmente ondivago (con una parte della base favorevole all’intervento) e soltanto la Federazione della Sinistra ha avuto da subito posizioni intransigenti sull’argomento.
In questo articolo esaminerò i principali dispositivi che la fabbrica del falso ha posto in essere nel caso della guerra di Libia, e proverò ad individuare i motivi di fondo che hanno indotto molti, anche a sinistra, a cedere alla propaganda di guerra. Nel mio argomentare metterò in gioco lo schema interpretativo che ho esposto più diffusamente nel mio libro La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea (DeriveApprodi, 20112). In questo testo proponevo un insieme di strategie di attacco alla verità non assimilabili alla menzogna pura e semplice. Vediamo come queste strategie sono entrate in gioco nel caso libico.
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Il virus dell'occidente
di Stefano G. Azzarà
Stefano G. Azzarà: Il virus dell'Occidente. Universalismo astratto e sovranismo particolarista di fronte allo stato d'eccezione, mimesis, 2020
La pandemia ha fatto emergere le contraddizioni delle società capitalistiche - stremate da decenni di politiche neoliberali all’insegna della guerra ai salari e ai diritti delle classi subalterne, delle privatizzazioni, della deregulation e dello smantellamento del Welfare - che le hanno rese sempre più disuguali. Incapace di immaginare un modello di società diverso e certo della propria eternità, l’Occidente ha creduto che il “virus cinese” colpisse solo i paesi arretrati o ritenuti autoritari e che mai potesse diffondersi nelle efficienti e trasparenti società liberali. Invece di prendere sul serio l’esperienza di altre realtà che hanno gestito meglio l’emergenza grazie alla capacità dello Stato e della politica di guidare l’economia e la produzione subordinando gli interessi privati a quelli della maggioranza, ha negato loro ogni riconoscimento, fino a procurarsi da solo un rischio estremo per eccesso di hybris. A questa incapacità suicida di aprirsi all’altro non è sfuggito il dibattito filosofico: sia le posizioni dirittumaniste astratte ispirate al liberalismo universalista, sia il sovranismo particolarista e populista – che del liberalismo rappresenta non l’alternativa ma una scissione conservatrice – condividono infatti di fronte allo stato d’eccezione il suprematismo occidentale, con il rifiuto di elaborare un universalismo concreto e di pensare una diversa configurazione del rapporto tra individuo, società civile e Stato ma anche dei rapporti tra le nazioni.
“Proprio il mancato riconoscimento dell’altro… ha impedito il riconoscimento della realtà stessa; impedendo al contempo di prendere le necessarie precauzioni ed esponendo l’Occidente a un rischio autoprocurato per eccesso di sicurezza e per presunzione di civiltà: in una parola, per hybris”.
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Ma che cos'è questa crisi
di Marcello De Cecco
Da dove origina e dove rischia di condurci la crisi che da sei anni affligge i principali paesi sviluppati? Che cosa accadrà dell'Europa e dell'euro? Pubblichiamo l'introduzione dell'ultimo libro di Marcello De Cecco, Ma che cos'è questa crisi, edito da Donzelli
La crisi affligge da sei anni i principali paesi sviluppati. Essa ha colpito il cuore dell’economia mondiale dopo avere investito, nel 1997-98, i paesi emergenti, specie quelli asiatici. Ora, secondo tradizione, pare voler abbracciare nella sua stretta mortale anche loro, che nell’attuale convulsione sembravano essere stati risparmiati e mostrare anzi un’invidiabile capacità di crescere e prosperare, malgrado le traversie del centro.
Da questa enorme convulsione l’economia ma anche gli assetti politici mondiali usciranno completamente cambiati. Non sappiamo cosa accadrà dell’Europa e dell’euro e nemmeno sappiamo quanto del cosiddetto modello europeo di organizzazione economica e politica sopravvivrà. Sappiamo che gli equilibri mondiali ne usciranno profondamente mutati, con l’ascesa che sembra inarrestabile della Cina e con il certo declino relativo dei paesi del centro: Europa, Stati Uniti e Giappone.
Che una grande crisi si stesse scatenando si poteva prevedere certamente nel 2007. Affermai che eravamo alla vigilia di un enorme sommovimento mondiale, nel maggio di quell’anno, a conclusione di una lezione che tenni all’Università di Waterloo, in Canada. C’era già stata qualche avvisaglia nelle difficoltà annunciate in febbraio da un paio di istituzioni finanziarie americane, che dichiaravano di avere problemi nel settore dei mutui subprime, una categoria della quale tutti sarebbero venuti a conoscenza di lì a qualche mese, ma che suonava ancora assolutamente sconosciuta ai non addetti ai lavori e anche a parecchi degli addetti.
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‘‘Proletarizzati di tutto il mondo unitevi... contro la bêtise!’’
Intervista a Bernard Stiegler
Bernard Stiegler, professore al Goldsmiths College di Londra, all'Université de Technologie di Compiègne e visiting professor alla Cambridge University, nonché Direttore dell'Institut de Recherche et d'Innovation du Centre Georges Pompidou di Parigi, è sicuramente uno dei filosofi più attenti alle trasformazioni della società contemporanea, come dimostrano i suoi numerosi libri pubblicati negli ultimi anni. A dispetto di alcuni titoli ''apocalittici'' delle sue pubblicazioni – come La misère symbolique o Mécréance et miscrédit – e delle analisi fortemente critiche per le quali è conosciuto anche in Italia (sebbene ancora poco tradotto), Stiegler si distingue sicuramente per la serena volontà di trasformazione sociale, economica, politica e culturale dello stato attuale delle cose, prendendo come bersaglio critico l'ignoranza in quanto fenomeno socialmente prodotto dall'ideologia e dalle tecnologie del consumo. Da questa volontà, condivisa con altri pensatori e studiosi, nasce il progetto di Ars Industrialis, l'associazione di cui Stiegler è presidente e uno dei fondatori. In particolare, l'ambizione di Ars Industrialis, è quella di essere “un'associazione internazionale per l'ecologia industriale dello spirito”, che sappia coniugare critica teorica e proposta programmatica su tutti i piani del sapere, a incominciare dalle scienze umane.
Stiegler ha inoltre pubblicato, qualche anno fa, un libro intitolato La télécratie contre la démocratie, offrendoci così un buon movente per accogliere le sue parole, attraverso un'intervista, in questo numero di Kainos.
1) Nel 2006 lei ha pubblicato La télécratie contre la démocratie, un libro che è ancora molto attuale rispetto alla situazione italiana. Se è lecito pensare che i dibattiti politici in Italia oggi risentano del «regno dell’ignoranza» di cui lei ha parlato, come si può fare per uscirne, al di là di un cambiamento istituzionale del potere?
STIEGLER: Si tratta di un’enorme questione, che mi pongo tutti i giorni. Penso però che vi sia un problema di traduzione, perché ciò che lei chiama il ‘‘regno dell’ignoranza’’, in quel libro è definito principalmente come il ‘‘regno della bêtise’’.
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Si può uscire dall'euro: ecco come
di Leonardo Mazzei
Un formidabile saggio di Leonardo Mazzei. Una guida pratica che spiega, a chi abbia già capito i perché, i COME si possa e si debba uscire dalla gabbia della moneta unica e riconquistare sovranità monetaria. "Non sarà una passeggiata ma l'Italia ha tutto da guadagnare". Cinque , in risposta agli euroinomani ed ai seguaci di T.I.N.A., i temi sviscerati: 1) la svalutazione, 2) l'inflazione, 3) la fuga dei capitali, 4) la ridenominazione del debito, 5) il presunto isolamento dell'Italia e le sue dimensioni ritenute troppo piccole per ritornare alla sovranità monetaria. Buona lettura.*
Quelli che... ormai è troppo tardi
Che l'euro sia un grave problema per l'economia italiana viene ormai riconosciuto con sempre maggior frequenza. Ma mentre la platea degli ultras della moneta unica si va pian piano svuotando, viene invece a riempiersi quella di chi, pur ammettendo i danni prodotti, sa solo concludere che ormai è troppo tardi per uscirne.
Insomma, se fino a qualche tempo fa si doveva assolutamente restare nell'eurozona per i presunti benefici di questa collocazione - moneta "forte", aggancio a sistemi produttivi considerati più avanzati, tutela del risparmio, eccetera - oggi si tende ad evidenziare i problemi connessi all'uscita. Segno dei tempi, senza dubbio, ma anche della manifesta impossibilità di continuare a sostenere la bontà di una scelta che ha fatto sprofondare l'Italia nella crisi più grave degli ultimi ottant'anni.
Certo, la recessione scoppiata nel 2008 ha avuto una dimensione non solo europea, ma il fatto che si sia rivelata più profonda e prolungata proprio nell'Unione, ed ancor più nell'eurozona, qualcosa dovrà pur dirci. Tanto più che tra i benefici dell'euro doveva esserci pure quello di attenuare i cosiddetti shock esterni. E' avvenuto invece il contrario, come dimostrato da tutti gli indicatori economici: da un lato l'Unione Europea è l'area dove la crisi ha picchiato più duro, dall'altro l'euro ha aumentato le asimmetrie tra le varie economie nazionali che la compongono. Detto in altri termini, la moneta unica ha innescato un meccanismo di redistribuzione della ricchezza al contrario, avvantaggiando i paesi più ricchi (Germania in primis) a danno di quelli considerati "periferici". Tra questi l'Italia.
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La classe operaia ed il "blocco dei produttori" berlusconiano-leghista
Chi ha rapito Cipputi?
di Domenico Moro
1. La fase post elettorale, di solito, è orfana di sconfitti e figlia di molti vincitori. Nelle elezioni europee 2009 ci sono, però, due sconfitti evidenti. Uno è il Pd, ma questo era nelle aspettative. L’altro era meno prevedibile. Si tratta del Pdl e del suo padrone, Silvio Berlusconi.
PD e PDL sconfitti nelle elezioni europee
Confrontando i voti assoluti delle europee del 2009 con le politiche del 2008, se il Pd, dato quasi per spacciato e sulla via della spaccatura interna, perde il 28% (includendoni voti dei radicali, che nel 2008 si erano presentati nella stessa lista), pari a 3,3 milioni di voti, il Pdl non va molto meglio, perdendo il 21%, equivalente a 2,8 milioni di voti.
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E questo è quanto
di Silvia De Bernardinis
“E questo è quanto. Storie di rivoluzionarie e rivoluzionari”. Il titolo della nuova collana edita da Bordeaux e curata da Ottone Ovidi esordisce con questo primo volume dedicato a Salvatore Ricciardi. Una storia e una vita di militanza, iniziata nelle piazze, con le grandi manifestazioni contro il governo Tambroni nel 1960 e la rivolta degli edili a Piazza SS. Apostoli nel 1963, stesso carattere e stessi contenuti della più nota Piazza Statuto torinese dell’anno precedente, uno snodo importante che comincia a dare fisionomia ad una nuova soggettività operaia, quella che farà da traino e sarà il collante del movimento di classe che emergerà chiaramente durante il biennio 68-69. La crescita politica di Salvatore, come lui stesso racconta, avviene nel contesto di queste lotte operaie, prima con gli edili e poi, soprattutto, nelle ferrovie, dove svolge attività sindacale nella Cgil e successivamente, cacciato dal sindacato, nel Cub-ferrovieri, di cui è uno dei fondatori. Sono gli anni, quelli tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, che sanciscono il passaggio dalla non ostilità alla rottura con la sinistra istituzionale, ed in particolare con il Pci, che nel corso degli anni 70 diventerà sempre più profonda. Nel 1977, l’entrata nella colonna romana delle Brigate Rosse. Sarà arrestato nel 1980, e come tutti i prigionieri politici sperimenterà il circuito delle carceri speciali e l’ultima grande rivolta carceraria, quella di Trani che, legata al contemporaneo sequestro D’Urso, porterà alla chiusura dell’Asinara. Ultima battaglia unitaria delle BR, dopo la quale si consumerà la scissione dell’organizzazione, diretta dall’interno del carcere, con la formazione del Partito Guerriglia al quale, diversamente dalla maggioranza dei prigionieri politici BR, Salvatore non aderirà. È un processo, questo che porta alla scissione, che Salvatore vive in parte fuori e in parte dentro il carcere, che inizia nel 1979 con una dura critica dei prigionieri politici all’Esecutivo, espressa attraverso le 20 tesi del “documentone” elaborate nel carcere di Palmi, con le quali si accusava l’organizzazione all’esterno di incapacità di innalzare lo scontro sociale e guidare un movimento che si immaginava, astrattamente ed erroneamente, fosse all’offensiva.
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La finanza è il segnale dell’“autunno”
di Giorgio Gattei*
1. Lo scambio capitalistico D–M–D’ (con D’>D) può presentarsi in tre modi: come capitale commerciale con cui si comperano merci a buon mercato per rivenderle più care giusto uno scambio a valori non equivalenti (quello che uno guadagna, l’altro lo perde): D<M<D’; come capitale industriale con cui si comperano mezzi di produzione e forza-lavoro per produrre merci poi vendute ad un valore superiore del valore anticipato per l’aggiunta del plusvalore ottenuto mediante lo sfruttamento del lavoro salariato: D=M...Produzione...M’=D’; infine come capitale finanziario, con cui si prestano denari per riceverli alla scadenza, senza nemmeno bisogno di transitare per le merci, maggiorati dell’interesse, così che lo scambio è di nuovo a valori non equivalenti: D<D’. Come si vede è soltanto il capitale industriale a rispettare la regola dell’equivalenza degli scambi, il che vuol dire che entrambe le parti implicate ci guadagnano perchè nuova ricchezza è creata, mentre nel capitale commerciale e finanziario ci scambi appena la ricchezza esistente.
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Orientarsi nel labirinto della lotta di classe
A proposito di un libro di Domenico Losurdo
Elena Maria Fabrizio
Non è stato l’Occidente a essere colpito dal mondo; è stato il mondo che è rimasto colpito - e duramente colpito - dall’Occidente
A. Toynbee, Il mondo e l’Occidente
Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 387
L’assenza cronica di visioni globali della storia è il più grave colpo inflitto dall’umore postmoderno alla contemporaneità. Di questa assenza soffre anche certa cultura marxista, spesso retrocessa a visioni che hanno rimosso dall’orizzonte storico la portata universalistica del conflitto di classe, qualche volta ridotto a semplice stagione del più ampio processo moderno di emancipazione, qualche altra a progetto fallimentare di cui solo la tradizione liberal-riformista avrebbe saputo tesaurizzare gli aspetti propulsivi.
In questa situazione culturale e politica analizzare i processi storici attraverso la categoria della lotta di classe è un’operazione coraggiosa perché tocca questioni ideologiche e etico-politiche che dal crollo del comunismo sovietico è politicamente scorretto, se non scandaloso, evocare. La critica dell’ideologia però resiste, in uno studioso che ne è tra i più illustri e forse ortodossi rappresentanti e di cui ci sono noti i meticolosi controcanti all’edificante apologia di quella storia che l’Occidente proclama come progressiva e propria. Con questo libro, Losurdo riprende il filo di una ben nota narrazione che si vuole far passare per fallita o passé, ma che forse non si conosce ancora abbastanza. Ne scandaglia l’interna complessità e senza riduzionismi di sorta ci restituisce una visione globale della storia nella quale la lotta di classe riceve il ruolo di spinta che le spetta nel processo di emancipazione e costruzione di unità del genere umano.
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Guerra in Ucraina, invio di armi e propaganda
Intervista al gen. Fabio Mini
"Negoziare, finirla con il pensiero unico e la propaganda, aiutare l’Ucraina a ritrovare la ragione e la Russia ad uscire dal tunnel della sindrome da accerchiamento non con le chiacchiere ma con atti concreti." E' il pensiero di Fabio Mini, generale di Corpo d’Armata dell’Esercito Italiano, già Capo di Stato Maggiore del Comando NATO del Sud Europa e comandante della missione internazionale in Kosovo. "E quando la crisi sarà superata, sperando di essere ancora vivi, Italia ed Europa dovranno impegnarsi seriamente a conquistare quella autonomia, dignità e indipendenza strategica che garantisca la sicurezza europea a prescindere dagli interessi altrui", dichiara a l'AntiDiplomatico. E' stato scritto correttamente come le voci più sensate nel panorama della propaganda a senso unico siano quelle dei generali, di coloro che conoscono bene come pesare le parole in momenti come questi. Come l'AntiDiplomatico abbiamo avuto l'onore di poter intervistare uno dei più autorevoli.
* * * *
L'INTERVISTA
Dal Golfo di Tonchino alle armi di distruzione di massa in Iraq- e tornando anche molto indietro nella storia - Generale nel suo libro “Perché siamo così ipocriti sulla guerra?” Lei riesce brillantemente a ricostruire i falsi che hanno determinato il pretesto per lo scoppio di diverse guerre. Qual è l’ipocrisia e il falso che si cela dietro il conflitto in corso in Ucraina?
Il falso è che la guerra sia cominciata con l’invasione russa dell’Ucraina. Questo in realtà è un atto nemmeno finale di una guerra tra Russia e Ucraina cominciata nel 2014 con l’insurrezione delle provincie del Donbas poi dichiaratesi indipendenti.
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La nuova scuola premia i signorsì senza spirito critico
Due menzogne: competenze e meritocrazia
Christian Raimo
Quando si parla del mondo del lavoro e del mondo della scuola sembra sempre che si parli di due questioni totalmente distinte. E invece, nell’Italia con il Pil che crolla, nel mare magnum delle fugacissime questioni estive, ci sono un paio di notizie che si accoppiano per farci capire come dobbiamo immaginarci il futuro prossimo.
La prima è la disfida modello western tra Fiom e Fiat, simboleggiata al meglio dal duello in pieno sole tra Marchionne e Landini: il contenzioso nello specifico è la sentenza della Cassazione che obbligherebbe la Fiat a dare spazio ai delegati della Fiom, mobbizzati e licenziati senza nemmeno quegli ultimi scrupoli che sono gli articoli della Costituzione. Dalla parte di Marchionne stanno quelli che invocano un modello d’industria nuovo, senza i laccioli di un sindacato-reliquia. Dalla parte di Landini i difensori di diritti lesi da una globalizzazione che è tale solo nella deregulation.
La seconda è che il concorso per docenti che ha coinvolto milioni di persone in Italia sta volgendo al termine: entro l’estate ci saranno i vincitori.
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Baffi e la crisi di oggi
di Pasquale Cicalese
Kaiserstrasse, 10, Frankfurt. E’ questo l’indirizzo della Banca Centrale Europea, sede del vero governo comunitario, da cui si diramano le direttive per i 17 paesi dell’eurozona.
Mutuata dall’esperienza del dopoguerra della Bundesbank, la Bce ha come scopo statutario unicamente la stabilità dei prezzi, in altri termini la deflazione reale.
Del resto era questo lo scopo dell’asse franco-tedesco quando nel 1972, a seguito della svalutazione del dollaro e del conseguente distacco della divisa americana dall’oro, decisione presa da Nixon nella notte del 14 agosto del 1971, avviò il processo di unificazione monetaria con il Piano Werner.
Lo stesso “asse” franco-tedesco è comunque una boutade storica dacché tutte le decisioni successive al 1972 furono prese dalla Bundesbank, con i francesi illusi di imbrigliare la forza teutonica.
Non fu affatto entusiasta del Piano Werner e del successivo serpente monetario il futuro governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi, il quale aveva due preoccupazioni: assorbire la disoccupazione giovanile degli anni settanta stimolando la crescita e sopire la ribellione di massa del proletariato italiano.
La deflazione monetaria insita nei piani egemonici tedeschi sarebbe stata, a detta di Baffi, deleteria per l’economia italiana per un motivo fondamentale. Da Palazzo Koch il governatore assisteva alla deflagrazione dell’apparato produttivo italiano con il progressivo smantellamento delle grandi imprese: il nano capitalismo, trionfante in quegli anni unicamente grazie alla svalutazione e all’evasione fiscale di milioni di “operatori economici”, non avrebbe resistito né alla rigidità monetaria della Bundesbank, né, tantomeno, alla solidità industriale tedesca, se non in una posizione subalterna, unicamente quale subfornitura.
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Complessità, scienza e democrazia
Paolo Bartolini intervista Giuseppe Longo
Prof. Longo, quali limiti intravede nell'utilizzo massivo delle metafore provenienti dall'informatica per spiegare il vivente e la complessità della natura umana?
Ho scritto molto su questo, in particolare in collaborazioni con biologi del cancro cui devo molto nei tentativi di esplorazione del vivente - questa tremenda malattia si può capire forse solo analizzando il rapporto triangolare tessuto-organismo-ecosistema, quindi con una buona teoria dell'organismo, in primis. Vediamo di sintetizzare una critica sviluppata altrove (mi permetterò di inserire riferimenti ad alcuni miei testi, talvolta in italiano, dove si può trovare la bibliografia, inevitabilmente molto ampia).
La nozione di informazione si è specificata in almeno due teorie scientifiche rigorose ed importanti: l'elaborazione dell'informazione, a partire da Turing, diciamo, e la trasmissione dell'informazione (Shannon). Entrambe hanno individuano fondamentali invarianti matematici, ovvero nozioni e strutture che possono esser trasformate da un contesto ad un altro, conservando quel che conta. Le caratteristiche dell'informazione, in entrambi i casi, non dipendono dalla codifica (se non per piccoli costi di trascrizione: 0 ed 1, o 0-9 od altri segni qualsiasi) e, soprattutto, non dipende dal supporto materiale: si possono elaborare segni in valvole, chips, silicio... o trasmettere segnali su cavi, tamburi, fumate... Questa grande ed antica invenzione, formalizzata da Turing nel 1936, ma poi essenziale anche a Shannon, ha permesso di distinguere il software dallo hardware e di proporre quindi una autonoma teoria della programmazione o della trasmissione indipendente dal supporto materiale (grande ricchezza della pratica informatica).
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"Gli errori di Darwin"
Intervista a Massimo Piattelli Palmarini
A un secolo e mezzo dalla pubblicazione delle sue prime opere sull’evoluzione biologica, Darwin fa ancora notizia. Anzi, infiamma gli animi e scatena polemiche. L’ultima, in ordine di tempo, è motivata dall’imminente pubblicazione di Gli errori di Darwin (Feltrinelli), annunciata per il 21 aprile, dopo altrettante polemiche suscitate negli States dall’edizione originale. Il volume, che ha richiesto tre anni di lavoro, è scritto a quattro mani da due scienziati di livello internazionale.
Uno, vanto italiano, è Massimo Piattelli Palmarini, docente di Scienze cognitive all’Università dell’Arizona, dopo una permanenza al Mit di Boston e successivamente al San Raffaele di Milano dove ha creato il dipartimento della sua disciplina. L’altro, Jerry Fodor, è anch’egli un’autorità nelle scienze cognitive, insegna filosofia del linguaggio alla Rutgers University del New Jersey. Ancor prima di uscire nel nostro Paese, il volume di Piattelli Palmarini e Fodor sta riempiendo le pagine culturali e scientifiche dei nostri giornali, con pepati botta e risposta tra scienziati che si occupano di queste tematiche.
Ho raggiunto Massimo Piattelli Palmarini a Venezia, durante una sua parentesi italiana, per un ciclo di seminari universitari. Gli ho chiesto di spiegarci le ragioni di così tanto scalpore per aver controbattuto alcune presunte idee “errate” del darwinismo.
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L'assenza della "lotta di classe" e i disastri che ne derivano
di Sandro Moiso
L'opportunità delle riflessioni che seguono mi è stata dettata in parte dall'intervento di Valerio Evangelisti sul tema del nazional-bolscevismo “de noantri” (di cui condivido pienamente i contenuti) e in parte dall'affaire Saviano – Dal Lago (che invece puzza su più fronti).
La lotta di classe di cui intendo pertanto parlare non è quella reale (che come avrò modo di affermare in altra parte di questo testo non viene mai a mancare nella storia delle società umane), ma piuttosto quella ormai del tutto assente sia nel dibattito politico contemporaneo che in gran parte della rappresentazione che la letteratura, o sarebbe forse meglio dire il mondo delle lettere, trasmette della realtà contemporanea o delle epoche passate. Con quest'ultima affermazione non si intende però affatto riproporre qui alcun ritorno al realismo naturalistico o, peggio ancora, a quello di stampo proletario o tardo-sovietico, quanto piuttosto sottolineare un rumoroso silenzio di fondo.
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A qualcuno piace freddo
Giorgio Salerno
Due consumati democristiani, Franco Marini e Pierferdinando Casini, hanno dato di Matteo Renzi, anch’egli di provenienza democristiana, un giudizio alquanto sprezzante; di valore il primo, di metodo il secondo. Marini ha definito il giovane sindaco di Firenze un ambizioso, il secondo un abile parlatore che usa molti fuochi d’artificio verbali. Ricorda un po’, il giudizio del segretario dell’UDC, quello che l’allora giornalista de l’Espresso Giampaolo Pansa affibbiò a Fausto Bertinotti, il 'parolaio rosso'. Siamo ora di fronte ad un parolaio ‘bianco’?
Cerchiamo di capire Renzi partendo da ciò che egli stesso dice, scrive, dichiara e proclama; Renzi attraverso Renzi, leggendo le sue interviste e consultando i suoi ultimi libri.
Che Renzi sia un abile parlatore è fuori di dubbio ma quali sarebbero i fuochi d’artificio che evoca Casini? Renzi usa nei suoi discorsi molte figure della poesia e della retorica quali l’assonanza, la rima, l’ossimoro, l’anagramma, il gioco di parole, il calembour, battute ad effetto, a volte ironiche, a volte irridenti.
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Tra due rive
di Karla
A ogni onda di movimento - internazionale o nazionale - riemergono i "cattivi pensatori" che sembrano incaricati da decenni di provare a deviarne il flusso verso lidi più rassicuranti per il potere. Due interventi apparsi nei giorni scorsi sulla stampa di sinistra ripropongono, opportunamente "attualizzata", questa vecchia e consolidata ricetta.
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Era tanto prevedibile quanto inevitabile: tutti i cani da guardia (di sinistra) della borghesia imperialista si sono sentiti in dovere di dire la loro. Lo hanno fatto Alessandro Dal Lago su Liberazione del 12 agosto, Judith Revel e Toni Negri su Uninomade il 13 agosto.
Due prese di posizione apparentemente agli antipodi ma, a uno sguardo solo un poco più attento, non poco affini. Decostruire la posizione di Dal Lago è sin troppo semplice. Da buon riformista e opportunista si guarda bene dal legare la condizione di crisi attuale al modo di produzione capitalista, che non si sogna minimamente di tirare in mezzo, preferendo accanirsi sul solo “liberismo”; come se questo involucro ideologico non fosse l’armamentario elaborato ad hoc dalle borghesie imperialiste per l’attuale fase imperialista, ma quasi il parto malefico di qualche mente rozza e plebea.
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I demolitori del 15 ottobre e il futuro del movimento
Intervista a Emiliano Brancaccio
Dalle piazze di Madrid, dove tutto è cominciato lo scorso 15 maggio, la protesta si è estesa nel resto del mondo. Sabato 15 ottobre gli “indignati” hanno sfilato per le strade di 950 città – da Honk Kong a Boston, da San Paolo a Kuala Lumpur, da Sidney a Tokyo – denunciando i drammatici effetti sociali della crisi economica scoppiata nel 2007/2008 e l'assenza di risposte all'altezza della gravità della situazione da parte della politica e dei governi. Non è un caso se le file di “indignados” sono composte sopratutto da giovani, i più colpiti dalla disoccupazione di massa legata alla brusca contrazione di produzione e reddito che si è registrata quando la crisi finanziaria si è scaricata sull'economia reale.
A Roma una grande manifestazione cui hanno preso parte oltre centomila persone è degenerata in violentissimi scontri. Il bilancio provvisorio è di 70 feriti (tre gravi), 12 arrestati, una città messa a ferro e fuoco per diverse ore e il solito, inevitabile, strascico di polemiche. Ancora una volta queste discussioni hanno oscurato le ragioni di una protesta che, come ha scritto Guido Rossi sul Sole 24 Ore, “nasce da mille, troppi disagi e merita di essere esplorata con spirito analitico”. Ne abbiamo parlato con Emiliano Brancaccio, economista dell'Università del Sannio assai critico con quelle politiche di austerità varate dai governi europei che, insieme alla Bce e al mondo della finanza, erano il bersaglio privilegiato degli slogan dei cortei di sabato. Brancaccio segue da anni le vicende dei movimenti e nel 2002 è stato relatore della proposta di legge di iniziativa popolare promossa da Attac per l’istituzione della Tobin tax.
Partiamo dalla giornata di sabato. Che idea si è fatto di ciò che è accaduto a Roma?
In tutta franchezza non intendo accodarmi alla consueta discussione etico-normativa su “violenza” e “non violenza”.
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[Libia: due interventi sul Manifesto contro l'assenza di memoria]
Libia un anno fa: memoria corta
di Manlio Dinucci
Uno degli effetti delle armi di distrazione di massa è quello di cancellare la memoria di fatti anche recenti, facendone perdere le tracce. È passato così sotto silenzio il fatto che un anno fa, il 19 marzo, iniziava il bombardamento aeronavale della Libia, formalmente «per proteggere i civili». In sette mesi, l'aviazione Usa/Nato effettuava 30mila missioni, di cui 10mila di attacco, con impiego di oltre 40mila bombe e missili. Venivano inoltre infiltrate in Libia forze speciali, tra cui migliaia di commandos qatariani facilmente camuffabili. Venivano finanziati e armati i settori tribali ostili al governo di Tripoli e anche gruppi islamici, fino a pochi mesi prima definiti terroristi. L'intera operazione, ha chiarito l'ambasciatore Usa presso la Nato, è stata diretta dagli Stati uniti: prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la Nato sotto comando Usa. È stato così demolito lo stato libico e assassinato lo stesso Gheddafi, attribuendo l'impresa a una «rivoluzione ispiratrice» - come l'ha definita il segretario alla difesa Leon Panetta - che gli Usa sono fieri di aver sostenuto, creando «una alleanza senza eguali contro la tirannia e per la libertà». Se ne vedono ora i risultati. Lo stato unitario si sta disgregando. La Cirenaica - dove si trovano i due terzi del petrolio libico - si è autoproclamata di fatto indipendente e, a capo, è stato messo Ahmed al-Zubair al Senussi. Scelta emblematica: è il pronipote di re Idris che, messo sul trono da Gran Bretagna e Stati uniti, concesse loro, negli anni '50 e '60, basi militari e giacimenti petroliferi. Privilegi cancellati quando re Idris venne deposto nel 1969. Ci penserà il pronipote a restituirli. E vuol essere indipendente anche il Fezzan, dove sono altri importanti giacimenti. Alla Tripolitania resterebbero solo quelli davanti alle coste della capitale.
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Chicken game: ancora sull’eurocrisi1
Raffaele Sciortino
A partire dalla scorsa estate la crisi globale ha investito pesantemente i debiti sovrani europei e l’Italia. Tra gli avvertimenti “performativi” dei soliti noti sul rischio (reale) di disfacimento della moneta unica e il delinearsi di una strategia di risposta di Berlino, si è iniziato a intravedere lo scontro in atto tra i centri finanziari anglosassoni e l’Europa. Ma il dito è rimasto puntato contro una generica “speculazione” e al tempo stesso, con il procedere incalzante delle politiche di austerity “consigliate” da Ue e Bce e portate avanti da “sobri” governi di tecnici, l’attitudine anti-tedesca è andata facendosi quasi senso comune.2
Si tratta di posizioni confuse e ancora fluide nello spettro politico, trasversali alle embrionali dinamiche sociali. E’ su questo sfondo, destinato a rapidi slittamenti, che si tratta di fare il punto sull’eurocrisi provando a individuare una logica specifica dietro gli eventi e quelle linee di tendenza che condizionano aspettative e umori delle classi sociali.3
Boccata d’ossigeno nell’empasse globale?
Dopo alcuni mesi di fuoco, con i cambi politici in Grecia Spagna e Italia e il declassamento finale dei debiti sovrani di mezza Europa, a inizio 2012 le prospettive per l’euro e l’Unione Europea sembrano a molti meno buie. Che i mercati permettano di tirare un po’ il fiato è dovuto in prima battuta all’operazione Draghi di fine dicembre grazie alla quale la Bce ha elargito alle traballanti banche europee quasi 500 miliardi di euro di finanziamenti a tre anni a tasso simbolico in cambio di collaterali svalutati o emessi ad hoc purchè, attenzione, garantiti dagli stati4 .
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