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I problemi della sinistra oggi
“Il movimento socialista è nato dall'incontro fra teoria scientifica e lotta di classe: da qui dobbiamo partire!”
#politicanuova intervista Domenico Losurdo
Domenico Losurdo, Professore emerito di Storia della Filosofia all'Università di Urbino, tra i maggiori intellettuali contemporanei, che recentemente ha pubblicato “La sinistra assente” (Carocci, 2014), un'analisi a proposito dell'assenza, in Occidente, di una forza d'opposizione in grado di incidere nella realtà e d'offrire la prospettiva della trasformazione sociale (A cura di Aris Della Fontana)
1. Lei afferma che «la sinistra dilegua proprio nel momento in cui è chiamata a reagire ai processi in atto». Come si spiega questa contraddizione?
Quando parlo del dileguare della sinistra, mi riferisco all'Occidente. La sinistra dilegua, per esempio, dinanzi all'aggravarsi della situazione internazionale. Oggi stiamo assistendo a una serie di guerre neo-coloniali, particolarmente nel Medio Oriente: è un dato di fatto che viene riconosciuto persino da commentatori borghesi, ma che la sinistra occidentale, invece, tace. E oggi i pericoli di guerra si stanno aggravando: ne “La sinistra assente” cito un illustre analista quale Sergio Romano, secondo cui gli Stati Uniti hanno come obiettivo l'acquisizione di una sorta di monopolio sostanziale dell'arma nucleare; e ciò, all'occorrenza, anche al fine di poter scatenare un primo colpo nucleare impunito. Ci troviamo, dunque, dinanzi a una prospettiva decisamente allarmante. Ma la sinistra occidentale latita. Nel libro spiego le ragioni storiche di questa latitanza, ma fermarsi a ciò non basta. Di fronte all'aggravarsi dei conflitti sul piano internazionale, delle tendenze neo-colonialiste e della minaccia imperialista, s'impone la necessità d'una chiara risposta da parte della sinistra – anche sul piano ideologico - e con ciò una sua riorganizzazione. Ma purtroppo siamo ancora disgraziatamente lontani da tale momento.
2. Di fronte alla «crisi economica e politica» e ad un «deteriorarsi della situazione internazionale» che desta importante preoccupazione in particolare per i venti di guerra che spirano sempre più forti, si pone, per la sinistra, la questione delle tempistiche, e cioè della necessità di agire in rapporto a margini non eternamente posponibili? Se la sinistra non si attiva ora, in seguito sarà troppo tardi?
Per quanto concerne lo stato della situazione internazionale, ribadisco quanto sostenuto poco sopra.
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È l’Europa, bellezza!
di Paolo Pini e Alessandro Somma [1]
Il Trattato di Lisbona del 2007, nella parte in cui elenca i fondamenti dell’Unione europea, menziona una formula carica di ambiguità: economia sociale di mercato. Molti ritengono che sia un richiamo al capitalismo dal volto umano, quindi a un ordine economico incompatibile con lo sconcertante epilogo della crisi del debito greco. Non è così: quella formula ha una lunga storia, tutta tedesca e tutta in linea con quanto avviene ad Atene.
Come si sa, il nazismo esattamente come il fascismo affossarono la democrazia ma non anche il capitalismo: la prima venne anzi sacrificata sull’altare del secondo, fatto che alla conclusione del secondo conflitto mondiale era considerato pacifico dai più. Tanto che nello scontro sulla costituzione economica della rinata democrazia tedesca era nettamente prevalente l’opzione per la democrazia economica: la situazione in cui lo Stato disciplina il mercato per renderlo un luogo nel quale le persone possono emanciparsi, se del caso contro il principio di concorrenza.
Gli oppositori della democrazia economica, detti ordoliberali, ritenevano invece che un mercato retto dalla concorrenza consentisse la migliore distribuzione della ricchezza, e che a queste condizioni l’inclusione sociale coincidesse con l’inclusione nel mercato.
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A qualcuno sembrava Stalingrado. Invece era Caporetto
Note a freddo sul risultato referendario del 17 aprile
Antiper
Sono ormai molti anni che l'asin/istra (extra o ex parlamentare) passa agilmente di sconfitta in sconfitta. Niente di male: in fondo - come si dice? - chi non lotta ha già perso. Quello che però non si era ancora visto - o che almeno non si era ancora visto con la chiarezza con cui lo si è visto domenica 17 aprile - è che l'asin/istra è ormai in grado di perdere, oltre le sue, anche le battaglie non sue.
Che con le trivelle, il referendum “contro le trivelle”, non avesse in realtà molto a che fare ad un certo punto era diventato chiaro anche ai sassi i quali avevano ben capito che il referendum aveva a che fare con altro: sul piano tecnico, con la durata delle concessioni e, sul piano politico, con lo scontro all'interno del PD e con quello dell'opposizione con il Governo.
Per fare un esempio del “corto circuito” propagandistico che si è presentato agli italiani basti fare un solo esempio. Renzi ha impostato buona parte della campagna per il no (e il suo stesso discorso auto-celebrativo nella “conferenza stampa della vittoria”) sul fatto che se avesse vinto il sì migliaia di lavoratori avrebbero perso il loro posto di lavoro. Si trattava evidentemente di una colossale menzogna, di quelle menzogne che, se mentire fosse un reato, costerebbero la sedia elettrica a chi le dice. E come menzogna è stata giustamente denunciata da tutti i sostenitori del si. Ma la verità del fatto che, se avesse vinto il sì, nessuno avrebbe perso il lavoro ha anche una lettura rovesciata: se avesse vinto il sì nessuno avrebbe perso il lavoro perché tutto sarebbe proseguito come prima.
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Lo Sciame Digitale, i Big Data e la Psicopolitica
di Domenico Talia
La nuova folla senza animo e spirito è lo sciame digitale. Così la pensa Byung-Chul Han, il filosofo nato a Seul che insegna filosofia e teoria dei media a Berlino. Negli ultimi anni Han ha pubblicato alcuni saggi sulla globalizzazione e sugli effetti delle nuove tecnologie sugli esseri umani e sulle loro società. Nello sciame. Visioni del digitale (ed. Nottetempo) è l’ultimo suo breve libro pubblicato in Italia. Le riflessioni di Han stavolta sono dedicate al nuovo popolo che vive nel mondo dei media digitali e che lui ha definito, appunto, “sciame digitale”. Una comunità composta da individui anonimi che solo apparentemente condividono pensieri e azioni, ma che spesso si perdono nella conta dei “mi piace” e dei preferiti e non riescono a trovare modalità efficaci per esprimere le loro energie collettive.
Una caratteristica della manifestazione dello stato di eccitazione dello sciame digitale è rappresentata dalle forme di scrittura più emotiva e informale che la comunicazione digitale favorisce: “La comunicazione digitale rende possibile un istantaneo manifestarsi dello stato di eccitazione.” Sono comunicazioni rapide e imperfette, vicine al parlato anche se sono scritte. Quella digitale, a differenza di quella del potere (La comunicazione del potere non è dialogica;) e di gran parte dei mezzi di comunicazione tradizionali (stampa, radio, televisione), è una comunicazione dialogica. Eppure la simmetria comunicativa potenziale non implica necessariamente una simmetria fattuale. Infatti, la comunicazione digitale può modificare i rapporti tra persone, gruppi e organizzazioni, renderli diretti e bypassare i ruoli e le gerarchie, ma spesso questa disintermediazione si realizza soltanto in apparenza, perché i rapporti di potere e di relazione consolidati non si fanno cortocircuitare facilmente dall’informalità e dalla velocità della comunicazione digitale.
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Il Regime del salario. Prefazione
di Ferruccio Gambino
Uscirà domani [4 settembre, n.d.r.] Il regime del salario, l’ebook del collettivo Lavoro insubordinato che raccoglie tutti gli interventi pubblicati sul Jobs Act e le trasformazioni che esso produrrà sull’organizzazione del lavoro in Italia. Pubblichiamo oggi in anteprima la prefazione di Ferruccio Gambino
Questa premessa intende rilevare alcuni effetti della politica del lavoro nell’Eurozona (19 paesi nel 2015) e in particolare in Italia, in considerazione del processo di mercificazione del lavoro vivo in corso. Seguono poi undici articoli che esaminano in modo circostanziato aspetti cruciali del regime del salario e delle sue tendenze in Italia. Questa premessa vuole limitarsi a offrire qualche coordinata per rammentare che il fenomeno di frammentazione della forza-lavoro è in realtà una serie di tentativi che procedono da tempo e che vanno di pari passo con più aggressivi esperimenti in altri continenti e in particolare nell’Asia orientale. Dunque, nell’Eurozona vanno sostenute quelle forze che si oppongono ai disegni dell’odierno capitale industriale e dei servizi e che sono motivate a non cedere terreno.
Le politiche adottate negli scorsi 35 anni nell’UE hanno mirato e mirano a deteriorare i salari e di conseguenza le condizioni di lavoro. L’onda lunga della casualizzazione del lavoro salariato si era sollevata già alla fine degli anni 1970 negli Stati Uniti con la politica antinflazionistica di Paul Volcker alla guida della Federal Reserve (agosto 1979) e il conseguente aumento della disoccupazione oltre il 10% nel 1981. L’onda è ben lontana dal placarsi. Di solito, l’abbassamento dei livelli di occupazione prepara l’attacco alla busta-paga. Nell’Eurozona la crisi dell’occupazione ha comportato una continua pressione sulla massa salariale che poi si è aggravata con il rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro. Nell’ultimo quadriennio (2008-2011) degli otto anni di direzione di Jean-Claude Trichet alla Banca centrale europea (BCE) il numero dei disoccupati è schizzato nell’Eurozona, fino a raggiungere la cifra da primato di 19 milioni nel 2012 (più dell’11% delle forze di lavoro), poco dopo l’uscita di scena del banchiere francese; né si vedono segni di significativa flessione del fenomeno nello scorso triennio.
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Filosofia, scienza e pseudoscienza nella crisi della conoscenza contemporanea
di Davide Di Tullio*
È la troppa cultura che porta all’ignoranza,
perché se la cultura non è sorretta dalla fede,
a un certo punto gli uomini vedono solo
la matematica delle cose.
E l’armonia di questa matematica diventa
il suo Dio, e dimentica che Dio ha creato
questa matematica e questa armonia
Giovannino Guareschi, Filosofia spicciola
L’odierna tecnocrazia è osteggiata da un rigurgito antiscientista, fenomeno sicuramente inquietante, ma non privo di una qualche giustificazione. Non si vuole qui imbastire l’apologia delle tendenze antiscientifiche che stanno prendendo sempre più piede nelle comunità iper-informate dei paesi più avanzati; piuttosto si tenterà di tracciare il quadro di una tendenza che rischia di minare la fiducia verso il fondamento stesso dell’essere umano: la ragione. Si cercherà, dunque, di comprendere il rapporto che intercorre tra scienza e filosofia oggi; si tenterà, inoltre di inquadrare il fenomeno delle pseudoscienze e definire le cause della crisi della conoscenza
Cosa si intende per “scienza”? Nel corso della storia a questo termine sono stati attribuiti funzioni ed ambiti che la scienza moderna qualificherebbe come pre-scientifici o semplicemente non-scientifici. Sono i criteri che la scienza moderna ha assunto per autodefinirsi che consentono di compiere quell’opera di discernimento tra quanti, tra gli atti del conoscere, possono definirsi propriamente scientifici e quanti no. In questo senso, accoglieremo la formula di Lucio Russo che conferisce l’attributo di “scientifico” alle teorie a) le cui «affermazioni non riguardano oggetti concreti ma enti teorici specifici», b) hanno «una struttura rigorosamente deduttiva» e c) le cui «applicazioni al mondo reale sono basate su regole di corrispondenza tra gli enti della teoria e gli oggetti concreti» (Russo, 2014, pp. 33-34). Alla luce di tale definizione, le teorie filosofiche non possono ritenersi “scientifiche”, venendo meno i presupposti espressi nei punti a) e c).
Dicotomia tra scienza e filosofia
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Keynes non basta più
di Guido Viale
Non è possibile prospettare una via d'uscita in un quadro nazionale o continentale privo dei riferimenti ai vincoli e alle opportunità offerte dalla crisi ambientale
La crisi ambientale offre all'economia delle opportunità e impone dei vincoli: le opportunità sono note (a chi ha interesse per la questione): sono le potenzialità di una conversione ecologica di produzioni e consumi verso beni e servizi meno dipendenti dai combustibili fossili, meno devastanti per la biodiversità, e verso la qualità e la disponibilità di risorse primarie; le potenzialità di una occupazione maggiore e diversa, caratterizzata a una più estesa valorizzazione delle facoltà personali e della cooperazione; le potenzialità legate alle caratteristiche fisiche, storiche e sociali di ogni territorio; i territori sono diversi uno dall'altro e la loro ricchezza dipende dalla conservazione di questa diversità.
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Le cause del debito europeo e il che fare
Domenico Moro
1. Un passaggio di fase storica
La crisi del debito sovrano europeo sta determinando una guerra non guerreggiata tra Stati, tra aree valutarie, soprattutto una guerra di classe. Oggetto di questa guerra sono i lavoratori, che subiscono un attacco senza precedenti al salario e al welfare, con possibili ripercussioni sui livelli di democrazia. I governi adottano politiche restrittive nel tentativo di ridurre il debito con l’effetto di ridurre la crescita e aumentare il peso percentuale del debito sul Pil. Praticamente l’economia europea si trova in un cul de sac. Confindustria ripete il solito refrain, la richiesta delle salvifiche “riforme” di struttura: privatizzazioni, riduzione delle tasse per le aziende, riduzione del costo del lavoro, aumento dell’età pensionabile, abolizione del contratto nazionale. Tutte misure, alcune già adottate nel passato, che ci hanno portato alla situazione in cui siamo, e che ora la aggraverebbero.
Il problema è che, in questo momento, l’attenzione è monopolizzata da due fenomeni. Il primo è il debito pubblico, che assurge al ruolo di male assoluto, tanto che si pretende l’introduzione nelle Costituzioni europee del pareggio di bilancio obbligatorio. Una decisione paradossale e nei fatti inattuabile, che va contro la storia economica, in cui il debito pubblico ha rappresentato il mezzo di affermazione del capitalismo e lo strumento per far decollare economie arretrate o tamponare le crisi. Il secondo è l’euro. Oggi, tutti si rendono conto che l’introduzione di una moneta unica senza un minimo di unità politica, e soprattutto senza un bilancio e un sistema fiscale comuni, affidandosi unicamente al libero mercato, è stata un errore. Il punto, però, è che debito pubblico ed euro rappresentano o delle conseguenze o delle aggravanti delle vere cause che, invece, rimangono sullo sfondo. Per individuare queste cause bisogna partire da due fatti. Il primo è la crisi del centro dell’economia capitalistica - Usa, Ue e Giappone - e il perdurare del ristagno della crescita di queste aree. Infatti, i problemi dell’euro si sono manifestati a seguito della crisi del 2008, e se ne è avuta una recrudescenza con il vanificarsi della ripresa. Il secondo, collegato al primo, è lo spostamento del baricentro economico mondiale dall’Occidente e dal centro dell’economia mondiale alla periferia, Cina, India, Brasile, ecc. Si tratta di un passaggio di fase storica, che avviene dopo cinque secoli di ascesa e due secoli di dominio europeo ed occidentale. Negli anni ‘80 e ‘90, il debito era il problema delle aree periferiche - Africa, Asia, Europa dell’Est e America Latina - caratterizzate da bancarotte e crisi di liquidità dovute alle decisioni finanziarie dei Paesi del centro. Ora, il debito è diventato il problema dei Paesi ricchi, dipendenti semmai dai finanziamenti di altre aree mondiali con forti surplus commerciali.
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La politica fuori luogo
di Walter Tocci
Ho scritto un saggio per la rivista di filosofia Il Pensiero, fondata da Vincenzo Vitiello, nel numero monografico dedicato alla figura del fuori luogo nelle diverse accezioni filosofiche. Di seguito si può leggere il testo
Abstract
Il "fuori luogo" della politica è inteso in due significati: come esodo dai luoghi della rappresentanza e come comportamento urticante o inopportuno. Esaurita la retorica della spoliticizzazione riemerge una potenza del negativo come nucleo metafisico del politico, che assume forme diverse tra "mare e terra", nel mondo anglosassone e nel continente europeo. Le forme politiche sono condizionate dalla "fase termidoriana" del capitalismo, che accentua i controlli e le norme dopo aver esaurito la fase rivoluzionaria della deregulation. Si inasprisce la frattura tra logica di sistema e mondi vitali, come definita da Habermas, ma non è ricomponibile con un'etica discorsiva. La causa dell'ingovernabilità è nello scarto tra potenza e saggezza, tra la formidabile forza di trasformazione e la debole capacità di regolarne gli esiti. Le soluzioni possibili sono da ricercare nelle dimensioni originarie del politico: l'educazione intesa a là Condorcet come capacità di governo della società; la città intesa a là Baudelaire come trasformazione a misura dell'umano.
* * * *
La politica è fuori luogo. Ciò vale nei due significati di questa espressione: la politica è lontana dai luoghi deputati alla sua rappresentazione e assume atteggiamenti inusuali che spesso appaiono urticanti o comunque inopportuni. Sono due facce della stessa medaglia. Lo svuotamento delle classiche istituzioni della democrazia - i Parlamenti, i partiti, gli Stati - determina uno spaesamento del politico che abbandona l'agorà deliberativa e cammina senza meta oltre le mura della polis. La sua manifestazione diventa incerta, appare dove non è atteso ed è assente dove è invocato. E proprio nel suo girovagare per il contado prende modi inurbani, selvaggi e in certi casi violenti, come se regredisse dalla civilizzazione che sembrava assicurata per sempre.
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Un libro di scritti di Minsky
Francesco Garibaldo
È uscita, per i tipi della casa editrice Ediesse, l’edizione italiana di una raccolta di scritti editi e inediti di Hyman Philip Minsky (1919-1996) pubblicata l’anno scorso negli Stati Uniti a cura del “Levy Economic Institute of Bard College”. Gli scritti, che spaziano dal 1965 al 1994, riguardano la lotta alla povertà, i problemi dello Stato Sociale e come raggiungere la piena occupazione.
Il lettore, oltre agli scritti di Minsky, dispone di tre saggi introduttivi che arricchiscono in modo significativo il contenuto di conoscenza del volume. Il primo saggio è stato scritto per questa edizione italiana da Riccardo Bellofiore e Laura Pennacchi; il secondo, la vera e propria prefazione, e il terzo, l’introduzione, sono stati scritti per l’edizione originale, rispettivamente da Dimitri Papadimitriou, presidente dell’Istituto Levy, e da Randall Wray, senior scholar dell’Istituto, oltre che professore di economia. Il saggio di Bellofiore e Pennacchi vuole aiutare i lettori italiani a “un possibile utile uso di Minsky oggi in Italia”, per usare le loro stesse parole. Il saggio di Papadimitriou illustra il contenuto dei sette capitoli del libro mentre quello di Wray contestualizza il volume nel dibattito statunitense.
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Irlanda ed Eurolandia, a saltare è il mercato
Domenico Moro*
La difficile situazione dell’euro, con l’estensione della crisi del debito sovrano all’Irlanda e potenzialmente a Portogallo e Spagna, è il prodotto di varie contraddizioni, che si approfondiscono, intrecciandosi tra loro. In primo luogo, il debito sovrano è figlio del modo in cui si è tentato dei risolvere la crisi del 2001, con il sostegno artificiale alla domanda. Il costo del denaro è stato ridotto quasi a zero, inondando di liquidità i mercati finanziari[1] e spingendo le banche a concedere mutui immobiliari con grande disinvoltura. I prezzi delle case sono lievitati, creando una bolla e permettendo alle famiglie, grazie ai rifinanziamenti dei mutui, di acquistare a credito e sostenere la crescita dell’economia in primo luogo degli Usa e poi di Regno Unito, Spagna, Portogallo e Irlanda, e indirettamente dei grandi paesi esportatori[2]. Quando la bolla immobiliare è scoppiata e i prezzi delle case sono crollati al di sotto dei mutui, le famiglie sono diventate insolventi e le banche hanno accumulato perdite enormi. Per scongiurare una catena di fallimenti bancari sono intervenuti gli Stati, i cui debiti sono cresciuti repentinamente. In Irlanda, il debito pubblico netto, che nel 2007 era il 12% del Pil, è schizzato in alto quando lo Stato è intervenuto a garantire obbligazioni bancarie pari al 30% del Pil[3]. Dunque, a saltare in Irlanda, come altrove, non è stato il pubblico, ma il privato, cioè il tanto decantato mercato.
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Gaia e Ctonia
di Giorgio Agamben
I.
Nel greco classico, la terra ha due nomi, che corrispondono a due realtà distinte se non opposte: ge (o gaia) e chthon. Contrariamente a una teoria oggi diffusa, gli uomini non abitano soltanto gaia, ma hanno innanzitutto a che fare con chthon, che in alcune narrazioni mitiche assume la forma di una dea, il cui nome è Chthonìe, Ctonia. Così la teologia di Ferecide di Siro elenca all’inizio tre divinità: Zeus, Chronos e Chtonìe e aggiunge che «a Chtonìe toccò il nome di Ge, dopo che Zeus le diede in dono la terra (gen)». Anche se l’identità della dea resta indefinita, Ge è qui rispetto ad essa una figura accessoria, quasi un nome ulteriore di Chtonìe. Non meno significativo è che in Omero gli uomini siano definiti con l’aggettivo epichtonioi (ctonii, che stanno su chthon), mentre l’aggettivo epigaios o epigeios si riferisce solo alle piante e agli animali.
Il fatto è che chton e ge nominano due aspetti della terra per così dire geologicamente antitetici: chton è la faccia esterna del mondo infero, la terra dalla superficie in giù, ge è la terra dalla superficie in su, la faccia che la terra volge verso il cielo. A questa diversità stratigrafica corrisponde la difformità delle prassi e delle funzioni: chthon non è coltivabile né se ne può trarre nutrimento, sfugge all’opposizione città/campagna e non è un bene che possa essere posseduto; ge, per converso, come l’eponimo inno omerico ricorda con enfasi, «nutre tutto ciò che su è chthon» (epi chthoni) e produce i raccolti e i beni che arricchiscono gli uomini: per coloro che ge onora con la sua benevolenza, «i solchi della gleba che danno vita sono carichi di frutti, nei campi prospera il bestiame e la casa si riempie di ricchezze e essi governano con giuste leggi le città dalle belle donne» (v.9-11).
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La fabbrica viva e disseminata
di Daniele Gambetta
Le relazioni uomo-macchina e capitale-lavoro, dalle anticipazioni di Antonio Caronia a oggi
Nel cercare di comprendere l’attuale fase (e crisi) economica e produttiva, emergono sempre più frequentemente temi all’apparenza sconnessi, o perlomeno appartenenti a differenti livelli di discorso, ma che si trovano a convergere in determinate circostanze. La digitalizzazione e quindi la robotizzazione dei processi, insieme alla datificazione delle vite, determinano spostamenti di capitali enormi, riportando al centro la questione della precarizzazione del lavoro culturale e cognitivo. Il dibattito sulle trasformazioni del lavoro ha incluso fin dagli anni Novanta il rapporto tra mente e macchina, rapporto che recentemente si è fatto sempre più simbiotico. Non sarà un caso se uno degli uomini più ricchi e influenti del pianeta abbia guadagnato la sua posizione grazie a una piattaforma che come prima cosa alla mattina ti chiede “a cosa stai pensando?”
Se la macchina è estensione del corpo, nei media proiettiamo la sfera intima ed emotiva, quindi la messa in rete dei dispositivi diventa terreno di riproduzione e modellizzazione delle reti sociali, delle relazioni. La data e sentiment analysis, la profilazione di utenti e l’interesse per il monitoraggio delle amicizie ci ricordano che l’estrazione che oggi avviene, e che determina i flussi, è un’estrazione di un lavoro diffuso nei tempi di vita, un plusvalore prodotto non solo dalla creazione immateriale individuale, ma dal valore aggiunto che è quello di corpi e menti messe in relazione, un plusvalore di rete.
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Le nuove incrinature del pensiero unico non deviano il corso della Ue
di Alfonso Gianni
Forse non c’era bisogno che Angela Merkel annunciasse al mondo che la crisi economica è destinata a durare ancora qualche anno, almeno cinque, e soprattutto che non si ha la più pallida idea di quando finirà, spegnendo così definitivamente quella luce in fondo al tunnel che a qualche visionario era parso di vedere. I dati che ci vengono sfornati ormai quotidianamente da centri studi istituzionali e non lo confermano già in modo praticamente unanime.
Da ultimo ci si è messa anche l’Istat, sfidando apertamente il divieto a sconfinare nel campo delle previsioni sul futuro, essendo i ricercatori dell’Istat, secondo alcuni, tenuti soltanto a fornire analisi del passato o fotografie del presente. Lo ha fatto ovviamente per quanto riguarda l’Italia, ma il suo contributo a spegnere i fuochi fatui della ripresa è stato impietoso con quell’11,4% di disoccupazione prevista per il 2013 (cui andrebbero aggiunti i sempre più numerosi lavoratori scoraggiati a cercare lavoro che perciò sfuggono alle statistiche ufficiali), connesso con uno 0,5% negativo per quanto riguarda l’aumento del Pil. Su quest’ultimo versante perciò la recessione rallenterebbe, mentre, com’era prevedibile, la disoccupazione e l’inoccupazione dei giovani aumenterebbero a ritmi molto rapidi.
Consistenti segnali di crisi anche per l’economia tedesca
Ma l’uscita della Merkel va intesa, da un lato, come un ribadimento che, malgrado gli insuccessi per il resto dell’Europa, la Germania deve continuare a soffiare sul fuoco del rigore, lo stesso che infiamma fuor di metafora le vie e le piazze di Atene; dall’altro lato come una mossa preelettorale, visto che in Germania si voterà nell’autunno del 2013, intendendo così rassicurare i propri cittadini riguardo a ciò che più temono, la mutualizzazione del debito.
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Teorie economiche e governi tecnocratici
di Francesco Saraceno
Le prossime elezioni italiane hanno innescato un interessante dibattito sulle scelte future, e sul ruolo dei governi tecnocratici. Pochi giorni fa la giornalista italiana Barbara Spinelli ha pubblicato sul quotidiano La Repubblica una magistrale analisi delle difficoltà incontrate da una sfera politica che sembra incapace, o che non ha la volontà, di riprendersi dai tecnocrati il compito di governare, e con questo intendo il diritto / dovere di scegliere tra politiche che comportano diverse conseguenze economiche e sociali.
Per un economista, l’analisi di Spinelli è una fonte di ulteriori riflessioni sul ruolo della scelta nella teoria economica e politica, con conseguenze importanti non solo per l’Italia ma anche per il percorso che la costruzione europea intraprenderà nei prossimi anni.
La seconda metà del ventesimo secolo è segnata dalla opposizione di (almeno) due diverse concezioni di politica economica, la cosiddetta tradizione “neoclassica”, e la teoria keynesiana. La scuola neoclassica, che ha dominato il panorama intellettuale per gran parte del secolo scorso, ha le sue radici nel tentativo fatto nel XIX secolo di costruire una teoria economica più vicina alla fisica e alle scienze naturali che alle scienze sociali. Nelle parole di Henry Moore,
“Nell’ultimo quarto del secolo scorso, gli economisti hanno nutrito grandi speranze nella capacità dell’economia di tradursi in “scienza esatta”. Secondo la visione dei teorici più importanti, lo sviluppo della dottrina dell’utilità e del valore aveva gettato le basi di una economia scientifica con concetti esatti, e sarebbe stato presto possibile erigere sopra il nuovo fondamento una solida struttura di parti interrelate che, nella loro determinatezza e forza di persuasione, avrebbero esercitato la suggestione della severa bellezza delle scienze matematico-fisiche … “
(Henry L. Moore, cicli economici, 1914: p.84-85)
E ‘difficile riassumere in poche righe più di un secolo di sviluppi teorici, quindi spero che mi si perdoni un certo grado di semplificazione e approssimazione.
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I predatori metropolitani
di Sandro Mezzadra
Il capitalismo contro il diritto alla città è il titolo scelto dalla casa editrice Ombre Corte per il piccolo libro di David Harvey da poco in libreria (pp. 106, 10 euro). È un libro, conviene dirlo subito, tanto piccolo quanto prezioso. Per chi non conosce il lavoro di Harvey, uno dei protagonisti indiscussi dei dibattiti marxisti internazionali, è un'ottima introduzione ai temi al centro della sua ricerca fin dall'inizio degli anni Settanta, qui rivisitati sullo sfondo della crisi contemporanea. Per chi è familiare con l'opera dell'autore inglese, da tempo trasferitosi negli Stati Uniti, la lettura dei tre capitoli che compongono il volume riserva qualche sorpresa - o meglio dischiude prospettive analitiche e politiche rimaste sotto traccia nel lavoro di Harvey degli ultimi anni (da La guerra perpetua a Breve storia del noeliberalismo, entrambi usciti in Italiano per Il Saggiatore, fino a L'enigma del capitale, pubblicato lo scorso anno da Feltrinelli).
Espropriazione urbana
Geografo di formazione, Harvey ha raccontato spesso come il momento decisivo nella sua radicalizzazione politica sia stato l'arrivo a Baltimora, nel 1969: «non avevo mai visto un tale livello di povertà», ha dichiarato ancora di recente in un'intervista con la rivista francese «Vacarme». Erano gli anni in cui, negli Stati Uniti, il dibattito pubblico era dominato dal tema della «crisi urbana», sullo sfondo delle grandi rivolte nei ghetti afro-americani.
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Il capitalismo alla rovescia di Pietro Ichino
di coniarerivolta
Raramente la stampa quotidiana offre spunti di respiro così ampio da riuscire a rappresentare una visione complessiva del mondo in poche righe. L’intervista rilasciata da Pietro Ichino al quotidiano Libero pochi giorni fa ha questo grande merito. Tuttavia il vero e impareggiabile merito di Ichino in questa e in altre esternazioni è quello di fornire una versione pura e senza fronzoli dell’ideologia liberista, aiutando così il lettore a comprendere quale sia l’obiettivo ultimo di società immaginato dai protagonisti della lotta martellante condotta contro i lavoratori da parte di chi ne vuole l’eterno sfruttamento e da parte di chi, consapevolmente o meno, di questo eterno sfruttamento costruisce le impalcature, attraverso presunte giustificazioni teoriche.
L’intervista è un botta e risposta veloce su temi ampi, tutti incentrati sulla crisi economica attuale e sulle misure adottate dal Governo italiano per farvi fronte.
Al margine di aspetti di minore importanza, sono almeno cinque i temi economici cruciali affrontati da Ichino (e altrettante le relative soluzioni prospettate, che costituiscono l’armamentario classico del liberismo oltranzista): 1) la libertà di licenziamento vista come volano per l’occupazione; 2) la causa della disoccupazione rintracciata nella formazione inadeguata dei lavoratori; 3) la convinzione che lo Stato debba ritrarsi dall’economia e non sia capace di “fare l’imprenditore”; 4) l’idea che il sindacato debba integrarsi nell’impresa condividendone i destini; 5) Il mito del lavoro agile a distanza come elemento di trasformazione della natura dei rapporti di lavoro dipendenti. Per non citare altre postille qua e là gettate al vento nell’intervista senza nemmeno la fatica di un’argomentazione minima: inevitabilità di una nuova riforma pensionistica restrittiva; reddito di cittadinanza come disincentivo al lavoro; le tasse come nemico dell’economia; i pubblici dipendenti visti pregiudizialmente come scansafatiche.
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Atlante, ovvero abbiamo tutti una costituzione da piangere
di Fant Precario
1. È notizia di qualche giorno fa che la Corte d’Appello di Tolosa, ha confermato la decisione di primo grado che aveva ritenuto privo di causa [(reale, e seria) perché senza fondamento economico)] il licenziamento di 191 dipendenti da parte di Molex, condannata al pagamento di “un’indennità” di 7 milioni di euro, che – ci avverte L’Humanitè - saranno corrisposti da un fondo pubblico, l’Assurance de garantie de salaires: (i) a parte l’ovvia, ma sempre efficace, considerazione che il capitale privatizza i profitti e socializza le perdite, (ii) a parte che non si hanno notizie sulla solidità patrimoniale e finanziaria della (già) datrice di lavoro e della possibilità di recupero della somma, (iii) quello che risalta è l’esiguità della somma rispetto al rilievo dato alla notizia; secondo i padroni si tratterebbe di condanna (oltreché ingiusta in quanto limitativa della libertà di impresa) esorbitante, i sindacati, tronfi d’ottusità, confermano la natura esemplare della condanna.
Abituati, quantomeno dai tempi di Lama a non credere ai sindacati (da sempre ai padroni) facciamo qualche conto. Ecco i numeri: 8 anni di lotta giudiziaria (il che la dice lunga sul potenziale scarsissimo del ricorso alle toghe, più o meno rosse), 191 esseri umani sul lastrico, 7.000.000 di euro di indennizzo.
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Lavoro e diritti: l'insegnamento dell'Internazionale
di Marcello Musto
Il manifesto del 2 ottobre ha recensito, in occasione del 150° anniversario di fondazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, il volume curato da Marcello Musto, studioso di Marx e tra i curatori della «Mega2». Il volume che ha per titolo “Prima Internazionale, Indirizzi, Risoluzioni, Discorsi, Documenti”, a cura di Marcello Musto (Donzelli, pp. XVI-256, euro 25), si distingue per due obiettivi, entrambi raggiunti. Una messa a punto della ricerca attuale su questo fondamentale episodio della storia dei mondi del lavoro e una sua riproposizione come esperienza esemplare che ritrova nel presente una nuova attualità. Di Musto pubbliamo un articolo uscito su A l’encontre.
Il 28 settembre del 1864 la sala del St. Martin’s Hall, un edificio situato nel cuore di Londra, era affollatissima. A gremirla erano accorsi circa 2.000 lavoratrici e lavoratori, per ascoltare il comizio di alcuni sindacalisti inglesi e colleghi parigini. Grazie a questa iniziativa nacque il punto di riferimento di tutte le principali organizzazioni del movimento operaio: l’Associazione Internazionale dei Lavoratori.
In pochi anni, l’Internazionale suscitò passioni in tutta l’Europa. Grazie a essa, il movimento operaio poté comprendere più chiaramente i meccanismi di funzionamento del modo di produzione capitalistico, acquisì maggiore coscienza della propria forza e inventò nuove forme di lotta. Viceversa, nelle classi dominanti, la notizia della fondazione dell’Internazionale provocò orrore. Il pensiero che gli operai reclamassero maggiori diritti e un ruolo attivo nella storia generò ripugnanza nelle classi agiate e furono numerosi i governi che la perseguitarono con tutti i mezzi disponibili.
Le organizzazioni che fondarono l’Internazionale erano molto differenti tra loro. Il suo centro motore iniziale furono le Trade Unions inglesi, che la considerarono come lo strumento più adatto per lottare contro l’importazione della mano d’opera dall’estero, durante gli scioperi.
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La scuola fabbrica di Capitale Disumano
di Rossella Latempa
Scuola, Università, Ricerca, Lavoro, Vita intera: tutto è colonizzato dal culto del Capitale Umano. L’individuo deve diventare puro investimento di sé, “performer obbligato” costretto a mettere continuamente in scena la rappresentazione che meglio risponde alle “regole dello spettacolo”: quelle del mercato. Il soggetto, tuttavia, non sceglie liberamente di partecipare alla messa in scena, ma va educato a farlo. Per questo quella del Capitale Umano “è una pedagogia” che ha bisogno delle Grandi Istituzioni Totali, “custodi della Verità”- Scuola e Università – e dei loro “sacerdoti della valutazione”. Il libro di Roberto Ciccarelli: “Capitale Disumano, la vita in alternanza scuola lavoro” (Manifestolibri, 2018) è un misto di inchiesta, riflessione teorica, ricostruzione storica, esortazione poetica alla liberazione. Una liberazione che riguarda tutti perché tutti, volenti o nolenti, in parte o completamente, siamo Capitale Umano. Quella “maestosa astrazione” che “abita la regione intermedia tra linguaggio, percezione e prassi” non è un principio naturale ma un paradosso storico, un feroce sortilegio che rende in-umani generando una guerra spietata di tutti contro tutti. Nel libro si avvicendano, pagina dopo pagina, le terre di conquista di quella “creatura fantastica” che “parla con la nostra bocca e cammina sulle nostre gambe”, nuovo fondamento della cultura contemporanea.
* * * *
Per introdurre il libro di Roberto Ciccarelli: “Capitale Disumano, la vita in alternanza scuola lavoro” (Manifestolibri, 2018) proviamo a partire dal suo rovescio. La metafora del rovesciamento (di senso, di condizioni, di vita) è spesso presente nelle pagine dell’autore, a cominciare dal titolo. Proprio il “capovolgimento nell’opposto” rappresenta lo stato d’animo di “scissione permanente” (p.31) dell’individuo che vive da Capitale Umano. Qualche anno fa, Piero Cipollone e Paolo Sestito, nomi noti a chi segue le vicende politiche scolastiche (ex commissari straordinari INVALSI, oltre che economisti della Banca d’Italia) scrivevano “Il capitale umano, come far fruttare i talenti” (Il Mulino, 2010).
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Yours for the Revolution
di Valerio Evangelisti
La Nova Delphi Libri ha appena pubblicato, in una nuova traduzione di Andrea Aureli, Il tallone di ferro di Jack London (pp. 368, € 14,00). Questa è l'introduzione di Valerio Evangelisti al volume
Ai partigiani italiani, durante la Resistenza, i comandi suggerivano una serie di letture da fare nei momenti di pausa, tra un’azione e l’altra. Tra i libri consigliati non mancava mai Il tallone di ferro di Jack London, spesso associato a La madre di Gorki. Una sorta di scuola quadri letteraria.
E’ solo uno dei segni della straordinaria fortuna del romanzo, fin dal momento della sua pubblicazione, nel 1907. Nel giro di pochi anni era già tradotto in una quantità di lingue, e conosceva ristampe che si sarebbero moltiplicate fino ai giorni nostri. Eppure non è l’opera migliore di London: ha parti fortemente didascaliche, le psicologie sono appena abbozzate, a eccessi di dialoghi dal ritmo di un catechismo incalzante succedono capitoli di frettolosa narrazione dei fatti.
Cosa fa, dunque, de Il tallone di ferro un libro formidabile, capace di passare da generazione a generazione? London lo scrisse, secondo la testimonianza della figlia Joan, dopo la sconfitta della rivoluzione russa del 1905, e perché allarmato dal moderatismo crescente che stava impregnando il Partito socialista americano, cui apparteneva. Intendeva divulgare in forme accessibili i principi fondamentali del marxismo, e specialmente della sua variante rivoluzionaria. Quella a cui aveva aderito nel 1896, quando si era iscritto all’intransigente Socialist Labor Party di Daniel De Leon.
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Il Titanic Europa e le illusioni di Fassina
di Guido Iodice
Da alcuni mesi l'ex viceministro dell'economia si è unito al coro degli antieuro, auspicando un “superamento cooperativo” della moneta unica. Ma la vaghezza regna sovrana nella sinistra Pd e la sua analisi rischia di non reggere il confronto con la realtà, mentre rimangono fumosi i contorni della proposta politica.
Un repentino cambio di fronte
Le critiche di Stefano Fassina all'Europa si sono spinte negli ultimi mesi fino alla messa in discussione della moneta unica. Secondo l'ex viceministro, la situazione dell'eurozona sarebbe insostenibile. Ciò implicherebbe la necessità, da parte del nostro paese, e in particolare da parte della sinistra, di promuovere un “superamento cooperativo” dell'euro. Continuare sulla strada attuale sarebbe iniquo perché “se non si può svalutare la moneta, si svaluta il salario”.
Un concetto (che abbiamo già criticato su Micromega online) ripetuto anche nella direzione Pd alla vigilia del Jobs act. In quella sede, l'ex viceministro aveva spiegato che la cancellazione dell'articolo 18 era un diktat imposto dall'Europa e accettato da Renzi al fine di riequilibrare i differenziali di competitività nella zona euro.
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La Marcegaglia in soccorso di Trichet
Marco Cedolin
Fra gli avvoltoi che planano in cerchi sempre più bassi, attendendo con impazienza di spolpare la carogna di questo disgraziato paese, non potevano certo mancare i prenditori d'accatto che da sempre vivono alla grande foraggiati dai sussidi statali, ma fra una puntatina a Porto Cervo, un briefing di alta finanza e una delocalizzazione produttiva, non mancano mai di tessere le lodi del libero mercato, declinato come il luogo dove si socializzano le perdite, privatizzando al contempo i profitti (leciti ed illeciti) derivanti dalla macelleria sociale.
Degna portavoce di questa congrega di sciacalli che vestono Prada e Max Mara, ma strizzano l’occhio alla sinistra chic e si fingono interessati alle sorti dei lavoratori (italiani o cinesi non si comprende bene) non poteva essere che Emma Marcegaglia , la quale a sostegno di Draghi e Trichet e dei molteplici affari di famiglia, sta in queste ore producendosi nell’ennesimo sforzo per “salvare il paese” dalla remota possibilità che gli italiani non seguano i greci nel tunnel della disperazione.
Oggetto dello sforzo un documento denominato "manifesto per la crescita" (non si comprende bene di cosa) imposto ai camerieri di governo e sindacati, sotto forma di ultimatum o ricatto, indispensabile perché Confindustria non faccia saltare qualsiasi tavolo di dialogo.
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Per una critica del populismo
di Mauro Pasquinelli
Non sono poche le occasioni in cui SOLLEVAZIONE ha ospitato riflessioni sulla questione del "populismo". Anni addietro, non solo noi, promuovemmo sul tema convegni di studio. Una categoria politica, quella del "populismo", polisemica e insidiosa quant'altre mai. Il terremoto elettorale del 4 marzo 2018, l'avvento al potere di due formazioni considerate populiste, il fatto dunque che l'Italia diventa il principale laboratorio politico europeo, obbliga a tornare sul punto ed a riaprire la discussione. Iniziamo con questo contributo. Inutile ricordare che pubblicare un contributo non significa che la redazione lo condivida. Il dibattito proseguirà
Populismi senza popolo, popoli senza socialismo
Ai tempi di Marx l’opposizione destra-sinistra non esisteva ma si presentava nelle vesti di alternativa tra Monarchia o Repubblica democratico-borghese. Non diverso era ai tempi di Lenin, dove destra significava fascismo, bonapartismo, reazione, militarismo e sinistra socialdemocrazia, democrazia, riformismo, pacifismo. Mai, tuttavia, abbiamo visto dirigenti o teorici del socialismo, tranne quelli di matrice riformista, posizionarsi nel secondo campo delle opzioni della classe dominante. Dal terzo campo rivoluzionario, si poteva al massimo fornire un appoggio tattico al secondo campo per porre un argine o battere l’ipotesi del primo, quella più autoritaria.
Al dualismo storico destra sinistra nel campo delle opzioni borghesi, che data dall’affare Dreyfus (1894) oggi si aggiunge, o forse si sostituisce, quello tra popolo ed élite, per la precisione tra populismo e globalismo, sovranismo e cosmopolitismo.
Cercherò di dimostrare perché il populismo non è un alternativa vera al cosmopolitismo, come la sinistra non lo è mai stata alla destra.
Queste riflessioni vogliono essere un invito alla discussione sul tema del populismo all’interno dellasinistra patriottica, per una ridefinizione del suo posizionamento tattico e strategico, che tutt’ora, ahimè, staziona all’interno del secondo campo populista, presidiato in Occidente da forze politiche per lo più xenofobe e rozzo-brune.
Lancio subito una provocazione concettuale che sarà più chiara dopo aver letto questo breve saggio, e che a me serve per renderlo più appetitoso: il populismo agisce in nome del popolo. Il socialista agisce per il popolo e con il popolo. Questione di preposizioni? No questioni di sostanza e lo vedremo alla fine.
“L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi” scriveva Marx in esergo al proclama di fondazione della Prima internazionale. Ed aveva ragione: il socialismo è la prima forma sociale, nella storia dell’umanità che per essere realizzata richiede il protagonismo e la partecipazione attiva e permanente della comunità degli uomini.
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Le anime elettriche del capitale
Benedetta Pinzari e Salvatore Cominu intervistano Ippolita
Abbiamo intervistato il collettivo Ippolita che da anni analizza gli effetti delle nuove tecnologie di rete sulla soggettività, le ricadute sociali dell’innovazione e le pratiche di autodifesa digitale
Partiamo dal vostro ultimo libro “Anime elettriche”, che dialoga esplicitamente con Foucault e affronta il tema della produzione di soggettività in età tardo-capitalistica (nel “rumore bianco” della rete). Questa contiguità tra individuo e tecnologia da una parte ha innescato un processo di “smaterializzazione” del corpo biologico degli utenti, le cui possibilità di relazionarsi diventano pressoché illimitate, dall’altra ha prodotto forme ibride di socializzazione in cui il confine fra “realtà” e “rete” non è più distinguibile. Questa ibridazione, che ha investito in parte anche le pratiche dei movimenti sociali, lungi dal favorire il “divenire collettività” - organizzata o meno - dentro la rete, e nei social network in maniera più specifica, sembra piuttosto avere avviato una forma distopica di ricomposizione nella de-socializzazione e nell’individualismo, con modalità che sembrano ricalcare l’individualizzazione della relazione fra capitale e lavoro. Vorremo iniziare col chiedervi se ritenete irreversibile questa deriva o se ci sono nella rete (per come è strutturata) anche le possibilità di una sua messa in crisi?
Il corpo non si smaterializza. La mente è coestensiva al corpo, il corpo è coestensivo alla mente. Noi siamo ciò che il nostro corpo è.
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Il giocattolo rotto di Bernanke
di Pasquale Cicalese
Crea moneta, spara moneta, compra carta straccia, butta soldi dall’elicottero e la crisi “finirà”.
E’ la Greenspan put, in vigore dal crollo borsistico del 1987, il peggiore in un giorno nella storia di Wall Street. Ripresa con forza con lo sboom della new economy del 1999 e dal 2001, causa Torri Gemelle, protrattasi fino al 2007. Ancora un crollo nel 2008 ed essa viene “sostituita” dalla Bernanke Put, un micidiale mix di acquisto titoli tossici e tassi di interesse pari allo 0% che invade i mercati monetari, obbligazionari e azionari del mondo. In una parola, “asset inflation”: Wall Street ai massimi storici, prezzi delle case nuovamente in crescita, “effetto ricchezza”, boom di consumi di beni di lusso.
Effetti sull’economia? Venti giorni fa le statistiche americane informavano il mondo che il pil congiunturale dell’ultimo trimestre del 2012 in USA era pari a -01%; i dati sui sussidi di disoccupazione sono in crescita, gli indici produttivi segnalano rallentamenti.
Avevano iniziato i Brics a criticare la Bernanke Put. Nel 2009 Zhou Xiaochuan informava la comunità finanziaria mondiale che la Cina propende per l’abbandono del dollaro ed è favorevole alla diffusione dei diritti speciali di prelievo presso il Fondo Monetario, composti da un paniere di valute, possibilmente anche yuan.
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Bellofiore, considerazioni su crisi, Europa e… barbarie
di Alfonso Gianni
«Il primo dovere della sinistra è - puramente e semplicemente - il rigetto senza ambiguità delle politiche di austerità», afferma perentoriamente Riccardo Bellofiore in La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra (Trieste, Asterios, 2012, pp. 74, euro 7). Il libro, di poca mole ma di grande sostanza, (che reca in esergo un verso di Heinrich Heine, «Il posto è vacante! Le ferite aperte» dedicato alla memoria di Edoarda Masi e Lucio Magri) esce accompagnato dal suo gemello La crisi capitalistica, la barbarie che avanza (Trieste, Asterios, pp. 77, euro 7). L’argomento è la grande crisi economica mondiale, ma più esattamente si dovrebbe dire il marxismo e la crisi. Il nocciolo di entrambi i libri consiste, infatti, nella critica da un punto di vista marxista delle diverse letture della crisi e allo stesso tempo nella critica dei comportamenti della sinistra di fronte alla crisi.
Va da sé, infatti, che l’affermazione di cui sopra non sta avendo i successi desiderati. La sinistra moderata, quella che Bellofiore definisce social-liberista, non solo ai tempi di Toni Blair, ma nelle spire di una crisi che per l’Europa, con l’eccezione della Germania e del suo satellite, la Polonia, appare ancora più grave di quella che prese le mosse dal crollo di Wall Street nell’ottobre del 1929, ha assunto pratiche e atteggiamenti anche più liberisti del neoliberismo, mettendo in mostra il tipico entusiasmo dei parvenu. Quando questa rivista uscirà dalla tipografia, sarà già stata modificata la nostra Costituzione, con l’introduzione nell’articolo 81 dell’obbligo del pareggio di bilancio, vero mantra del credo neoliberista.
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Aspettando il peggio
di Marino Badiale e Massimo Bontempelli
I. Una crisi per scherzo?
“Strana guerra” o “guerra per scherzo” (drole de guerre) è l’espressione con la quale l’opinione pubblica francese alludeva alla guerra in corso con la Germania nazista, nel periodo dal settembre 1939 al maggio 1940. Si tratta, come è noto, di un periodo in cui la guerra, formalmente dichiarata fra Germania da una parte e Francia e Inghilterra dall’altra, non viene in pratica combattuta sul fronte franco-tedesco. C’era una guerra ma non c’erano combattimenti, non c’erano né morti né distruzioni. Per qualche mese i francesi poterono illudersi che la drole de guerre avrebbe risparmiato loro le grandi sofferenze della Prima Guerra Mondiale. E’ noto che queste illusioni vennero spazzate via dalla grande offensiva tedesca iniziata il 10 maggio 1940, che portò in breve tempo al crollo della Francia, all’occupazione di Parigi e di larga parte del territorio nazionale, al regime di Vichy e a tutto quello che seguirà.
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Crisi delle borse o crisi del capitalismo?
di Danilo Corradi
Coordinamento nazionale sinistra critica
Dodici banche americane fallite, la più grande nazionalizzazione a stelle e strisce dal ’29, fusioni “difensive” che cambiano il panorama mondiale della finanza, ultimi trimestri negativi per Usa e Ue e recessione tecnica per l’Inghilterra. A poco più di un anno dall’esplosione della “bolla speculativa” sui mutui subprime l’economia mondiale sembra tutt’altro che fuori dalla crisi.
In questa sede possiamo semplicemente elencare alcuni nodi analitici e alcune conseguenze socio-politiche che l’attuale crisi capitalistica ci obbligherà ad affrontare:
1) la teoria che più viene proposta dai guru dell’economia mondiale considera la crisi come conseguenza dei pochi controlli sui sofisticati strumenti finanziari (i derivati) che sono andati moltiplicandosi negli ultimi 15 anni fino a raggiungere un controvalore negli scambi trimestrali di oltre 600trilioni di dollari (oltre 12 volte il PIL mondiale). Pochi controlli e diverse mele marce che hanno “speculato” oltre i limiti della ragione economica. Una teoria che farebbe sorridere se non fosse la più accreditata. Qualcuno forse dimentica che tutto il sistema ha partecipato alla grandissima ascesa della finanza. Hanno partecipato le banche centrali fornendo denaro a costo zero per oltre un decennio, hanno partecipato tutte le grandi aziende che hanno investito in media oltre il 50% delle risorse in strumenti finanziari (nel ’79 il rapporto era 2% investimenti finanziari 79% produttivi ), hanno partecipato i governi sino agli enti locali che hanno acquistato direttamente derivati o promosso truffe come i fondi pensione integrativi.
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La Troika, il 2011 e l'Italia
di Alessandro Gilioli
Gli eventi greci hanno ringalluzzito i media e i fan di Berlusconi, che in questi giorni propongono un parallelo tra la fuoriuscita del Cavaliere nel 2011 e la prova di forza muscolare con cui la Troika ha piegato Tsipras, mettendo probabilmente fine alla sua parabola politica.
In parte, i berlusconiani hanno ragione. Nel senso che il 2011 è stato l'anno dirimente per l'Italia, quello in cui i mercati e la Troika hanno imposto il cambio di governo. E a pagarne le conseguenze politiche è stato anche l'allora premier.
Tuttavia consiglio a tutti di mettere bene in fila i fatti di quell'anno per provare a capire cos'è successo davvero: quali paure avevano i vaporieri della Ue rigorista e quali strategie hanno messo in campo. Evitando ogni complottismo e ogni cospirazionismo, certo: ma senza nemmeno mettersi le fette di salame sugli occhi rispetto alle pressioni politiche internazionali che - come mi pare acclarato negli ultimi giorni - esistono eccome. (post lunghetto)
Per capire bene cosa successe in Italia, anzitutto, bisogna calarsi il più possibile in quel periodo, al netto delle vicende successive: ad esempio, oggi sembra quasi ridicolo pensare che la Troika potesse temere (anche) uno come Nichi Vendola, ma nel 2011 la paura di un'uscita a sinistra dell'Italia dal berlusconismo era invece piuttosto forte, quasi come oggi quella verso Podemos.
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