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Desperate Capitalism

di Pierluigi Fagan

seated dancer in pink tights 1890Diciamo subito che “Capitalismo, desiderio e servitù” di Frederic Lordon, (Derive ed Approdi 2015) ci ha interessato molto. Il capitalismo in sé ma sempre più nella più recente versione neoliberale, appare a Lordon come un macchinario del desiderio. L’essere umano è un animale desiderante sofisticato, nel senso che alle necessità e bisogni animali, aggiunge appunto la dimensione del desiderio, dimensione imprecisabile poiché animata da una instancabile meccanica della possibilità (poter desiderare questo e quello…) a fronte della quale, il desiderio esiste prima ed al netto del suo possibile oggetto (tesi già di Freud).  Non è quindi detto che tale pulsione fondamentale possa mai avere una soddisfazione, se non momentanea. Molte cose della nostra natura sono fatte per svolgere una funzione ma noi, che siamo il prodotto dell’interrelazione di queste funzioni, possiamo trovarci e spesso ci troviamo alle prese col problema di armonizzarle. Ridurre il loro molteplice ad uno e convivere con le contraddizioni strutturali che ci creano è un difficile lavoro che non sempre ha felice esito.

Nel ’68, si credette che il desiderio avesse addirittura un potenziale rivoluzionario. In realtà, il macchinario che chiamiamo capitalismo, nacque proprio per produrre un ordine alimentandosi della cosa meno apparentemente ordinata che c’è, appunto, il “desiderio”.  Se note sono le origine meccaniche del macchinario, le enclosures e la frantumazione dei commons, meno note sono le origini psichiche o spirituali. La variegata famiglia dei discepoli della libertà (in effetti ogni discepolo è di sua natura schiavo) che comprende il neo-liberismo, il liberismo, i libertariani, i liberali, origina storicamente da una prima elementare ma precoce manifestazione, quella dei libertini.

La rivolta libertina francese del XVII° secolo, anticipa quel manifesto fondativo del macchinario del desiderio che è “Vizi privati, pubblici benefici” ovvero la Favola delle api di B. Mandeville (1705). Di quell’epoca in cui l’ordine oppressivo del macchinario della fede comune, il dominio dell’ordinatore religioso che aveva connotato il medioevo, segnava inceppi e malfunzionamenti a ripetizione ed in cui si cercava una alternativa rivendicando i diritti di libertà (di pensiero, di stile di vita, di costume, sessuale, del desiderio e delle passioni ma anche della ragione, sacrificate entrambe dalla tirannia dogmatica esercitata dalle conseguenze nella fede collettiva) che solo poi sfociarono nel sistema liberale, ovvero nell’economia capitalistica sincronizzata alla democrazia delle élite, fu testimone significativo Baruch Spinoza.

Lordon è uno spinozista convinto, tant’è che programma del suo libro è l’accoppiamento strutturale di Marx con Spinoza, impresa già tentata da altri (ad esempio Negri) ma usando più i trattati politici dell’olandese mentre Lordon, spinozista nei fondamenti, usa proprio l’Etica, inclusa una sua rivisitazione della dimostrazione geometrica del discorso. Integrare la lettura del fenomeno (il capitalismo) con la filosofia morale del XVII° secolo che univa una proto-psicologia con una proto-antropologia, arricchisce senz’altro la risoluzione del fenomeno stesso che sfortunatamente, soprattutto dopo Marx, è stato sezionato nelle tante lenti disciplinari quante se ne contano nel sistema della conoscenza occidentale.

Il sistema della conoscenza occidentale è ad occhio di mosca ma senza la mosca. L’occhio della mosca ha circa dodicimila prismi recettivi con ogni prisma dotato di sei facce laterali più una superiore ma tutto ciò, alla fine, afferisce all’unità neurale del cervello di una specifica mosca.  Il sistema della conoscenza occidentale ha meno di dodicimila prismi (le discipline) ma più facce per ogni prisma (le specializzazioni per ogni disciplina), solo che non è connesso a nessun cervello, neanche un cervello di mosca. Così ci tocca collezionare visioni separate delle cose e dei fenomeni e sopportare le predicazioni di verità di chi ha solo visioni economiche (ultimamente anche entusiasti delle visioni “solo” monetarie), chi ha solo visioni storiche, chi ha solo visioni sociologiche, chi ha solo visioni politiche etc. . Integrare quindi la lettura che diede Marx, una lettura che comunque integrava storia, sociologica ed economia con un po’ di fondamentale psico-antropologia filosofica spinoziana, è un buon/ottimo servizio allo sforzo di ricollegare tra loro i nostri neuroni e con essi, tanto la visione della cosa che il pensiero che sviluppiamo di essa.

Il capitalismo ricostruito secondo le direttrici non solo delle necessità e bisogni ma anche dei desideri, diventa una enorme macchina delle passioni, tristi le prime ma gioiose le seconde. Queste passioni fanno l’umano non meno delle ragioni e il macchinario le armonizza in un sistema che al contempo è sistema sociale quindi soluzione e regolamento del vivere associato, sistema adattativo quindi armonizzazione del sistema sociale a gli altri sistemi sociali ed ambientali, sistema sostentantivo quindi soddisfazione di necessità ma anche dei desideri, trasformatore di vizi in virtù ed anche un sistema di realizzazione personale quindi produttore di senso di esistenza.

In esso si riflettono e si combinano i desideri di potere e di dominio, di auto-realizzazione, di sicurezza, di espressione, di soddisfazione, di appartenenza, di riconoscimento, financo quelli di creatività, di affetto, di esibizione. E’ così che il macchinario dei desideri diventa impresa di tutti poiché tutti desiderano qualcosa, o meglio, più cose. Diventando di tutti, diventa intrascendibile, i suoi problemi vengono introiettati come problemi di tutti e i sinistri scricchiolii che accompagnano la recente parabola della sua lunga e profonda crisi, trovano tutti pronti alla negazione, alla rimozione, all’ostinata difesa di quel gioco che sebbene sia un giogo, non può finire, non può lasciare i giocatori senza la giocata come il desiderio non può esser lasciato senza almeno una vaga promessa di una sua possibile soddisfazione.

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Lordon è un economista ma con forti venature sociologiche (e filosofiche) e mostra una discreta conoscenza di quegli aspetti della sociologia del lavoro e delle organizzazioni che invece sfuggono all’economia algoritimica. L’immane diffusione dello spirito del desiderio di seduzione che circola nel marketing, nella pubblicità, nelle convention, nei seminari, nelle tecniche di motivazione, nel coaching, nelle uffici delle “risorse umane”, nelle tecniche di formazione, nella corporate identity, nella sentiment analysis, nell’indagine psicografica, le soft skills, financo nella ruvida finanza dove le imprese si dividono in “sexy” e non, dice che l’ingegneria del desiderio è una della più rilevanti preoccupazioni dei manutentori e sviluppatori del macchinario. E’ soprattutto dagli anni ’70, da quando le economie occidentali hanno rilasciato progressivamente la stanca agricoltura e la dura industria per dedicarsi allo sviluppo dei servizi, ovvero alla transazione diretta tra dispensatore di performance umane ed acquirente di quella stessa performance, che all’accezione economica di capitale sociale (il fondo di dotazione costituito dai soci di una impresa) si è affiancata quella sociologica (corpus di regole che facilitano la collaborazione all’interno dei gruppi e tra essi). Nei “servizi” che ormai rappresentano circa il 70% del Pil delle economie avanzate (80% in quelle anglosassoni)  il capitale umano è l’unità di misura che trasforma il secondo in primo.   E’ così che il macchinario, l’intera società che vi si conforma e le imprese che ne costituiscono le parti funzionali sprigiona da sé quel potere che “conduce gli uomini in modo tale che a loro paia, non di venir condotti, bensì di vivere secondo il proprio giudizio e per propria libera decisione1. Esso diventa quel sistema che,  come rileva Lordon, si rivela privo di centro, privo di una assegnabile ingegneria della volontà, dunque assimilabile ad una semi-necessità auto-costituita. Una sorta di leibniziana armonia prestabilita dal fatto che ogni monade riflette in sé l’essenza del tutto, desidera il desiderio di tutti che fanno il tutto, appunto, il macchinario di cui tutti sono clienti ed agenti, fornitori e distributori.

Quanto allo specifico dell’azione e del lavoratore, questa richiesta di perfetto allineamento dei desideranti, la richiesta introiezione dell’interesse aziendale come interesse proprio ha del paradossale. Ai tempi del “capitalismo disperato” infatti, l’azienda non chiede più solo la mano all’opera a cui corrisponde sicurezza, salario, protezione sociale, essa produce il paradosso di chiedere anche l’anima ma di contro toglie dalla transazione la sicurezza, abbassa il salario e diminuisce la protezione sociale. Chiede di più con meno, il dipendente deve comportarsi da dirigente alle condizioni che avrebbe avuto a suo tempo il suo apprendista,  sintomo di quella irrazionalità che ci fa dire disperata la condizione oggettiva del macchinario, se non altro in occidente. Disperata anche perché costretto a ricorrere al sottile ricatto per cui l’interesse del macchinario è l’interesse di tutti e così tutti debbono immolarsi perché il macchinario non smetta di funzionare, il desiderio non si disperda nella drammatica impossibilità della sua soddisfazione. L’impresa diventa così una cooperativa della paura, paura di non soddisfare gli azionisti, paura di perdere il proprio status, paura ossessiva di esser superati dalla concorrenza, paura di perdere il lavoro in un regime in cui è assai difficile ritrovarlo.

Dopo aver contestato la fondatezza della teoria marxiana del valore – plusvalore e la sua presunta oggettività ma senza che questo infici la constatazione di sfruttamento che rientra comunque nel legittimo conflitto di distribuzione, Lordon giunge al bivio fondamentale nel quale, secondo lui, apparentemente ci troviamo: totalitarismo o comunismo? Il totalitarismo è l’attuale deriva dell’impresa neo-liberale che non sembra fermarsi nel suo divaricare il chiedere sempre più, dando sempre di meno, oltretutto sollecitando quelle qualità di creatività, indipendenza, intraprendenza necessarie a mantenere il profitto in condizioni di mercato sempre più difficili. Queste stesse richieste, per Lordon, sollecitano condizioni per un superamento di questa deriva, ovvero la costituzione di una res comune, una impresa di uomini e donne che vogliono “fare qualcosa assieme”, un fare impresa in base al regolamento politico della democrazia radicale e non più del conatus individuale di chi presuppone che il suo voler fare debba esser sposato da tutti gli altri senza i quali non potrà fare quello che lui vuol fare.

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L’analisi di Lordon, dicevamo, ci ha interessato e su molti punti concordiamo, incluso la speranza di un esito politico verso un sistema di democrazia integrale, come sembra trasparire anche dall’incompiuto Trattato politico di Spinoza. L’unica eteronomia sopportabile è quella che scaturisce dal mero conteggio dei voleri autonomi di tutti. Vorremo però mettere in luce un aspetto generale che riteniamo fondamentale per la comprensione dei tempi che ci son toccati in sorte di vivere. Questo aspetto è l’accoppiata neo-liberismo / crisi ed ad un livello ancorpiù generale, l’idea che il capitalismo sia assurto ad un livello semi-delirante tale per cui si sente la necessità di aggettivarlo tipo: capitalismo totalitario, capitalismo assoluto, turbo-capitalismo etc. .

La faccenda è molto complicata, lo stesso termine “capitalismo” c’induce nell’illusione di poter dire di un sistema iper-complesso la cui essenza e natura ci sembra “una” dato che lo sussumiamo in un unico termine, quando invece è  assai molteplice. Inoltre qui siamo in sede di recensione di un libro e non in uno spazio teorico dedicato alla riflessione complessa.  Ciononostante…

A volte si ha l’impressione che il nostro vissuto del sistema economico-sociale che chiamiamo capitalismo sia di timore. Un timore misto a disprezzo, due passioni forse non ben calibrate. Timore per la sua immane potenza, timore per la sua apparente invincibilità, timore per il senso di totalità senza resistenza che sprigiona anche quando, come nei tempi che corrono, sprigiona altresì talmente tante assurdità e contraddizioni che al posto della prepotenza senza resistenza che si manifesta, ci aspetteremo invece il sorgere dei processi che portano al suo superamento. Invano.

In particolare, non è chiaro come i critici s’immaginano l’origine dell’accoppiata neoliberismo – crisi, se tra le due cose vi sia un nesso e quale. Non è chiaro cosa è in crisi e perché. Chi ha deliberato la svolta globalizzante, quella finanziarizzante, quella liberalizzante e quella de-regolamentante che costituiscono il pacchetto di ciò che chiamiamo neo-liberismo di cui per altro, noi qui in Europa, viviamo la versione tedesca, cosiddetta “ordo-liberale”, da cosa era mosso? Ancora più precisamente, quello che non sembra chiaro è il come rispondiamo alla domanda: perché tutto ciò?

Perché è natura del sistema avvitarsi in una fenomenologia a spirale per cui tende all’hegeliano assoluto? Perché le élite hanno avuto un soprassalto di avidità? Perché i “padroni del mondo” hanno pianificato una fase suprema del loro delirio di potere? Perché è nella natura del fenomeno trascendere il suo specifico economico e dopo aver innervato ormai totalmente il sociale, il politico esso tende addirittura al religioso?

A noi pare che questa recente svolta del sistema sia dovuta ad una forma di disadattamento, a qualcosa che non era più possibile continuare a fare in un dato modo e però si voleva in tutti i modi continuare a fare, questo qualcosa è una delle essenze del capitalismo: il profitto. E’ la promessa di profitto a muovere l’imprenditore e gli agenti economici senza i quali il macchinario del desiderio appassisce.

A partire già dalla fine degli anni ’60 nei paesi anglosassoni e poi anche in Giappone ed Europa, una grandinata di disgrazie si è abbattuta sul nostro modo di condurre i fatti economici. In ordine sparso contiamo: 1) la drammatica riduzione di peso demografico dell’Occidente vs Resto del mondo; 2) la conseguente perdita di controllo che l’Occidente aveva sul Resto del Mondo, perdita che ha mostrato la fragilità della nostra dipendenza energetica, nella fornitura di materie prime, nel controllo dei mercati internazionali e di quelli specifici che erano subordinati ai nostri; 3) la riduzione di innovazione materiale, ormai si era inventato quasi tutto il necessario ed anche molto superfluo; 4) la quasi-saturazione della domanda nel senso di un quasi raggiunto limite nell’assorbimento di una produzione che proveniva da decenni di incrementi di produttività. A questo si univa un effetto di ciclo storico. Stava terminando il glorioso periodo dei famosi trenta anni keynesiani, periodo che non ha funzionato perché l’ideologia economica era positiva e le forze lavoratrici e politiche che la spingevano erano vigorose ma perché l’immane distruzione della Seconda guerra mondiale aveva, schumpeterianamente creato le condizioni per una nuova stagione di creazione. In effetti, tra guerre e depressioni, era dai primi del secolo che il sistema aveva smesso di funzionare in maniera “normale” e finita la ricostruzione, già dava segni di soffocamento nel suo sempre più limitato “spazio vitale”.

Giunto già ai primi anni ’60, per accelerare il consumo parossistico, il sistema è ricorso compulsivamente a continue iniezioni di euforia:  dopo l’obsolescenza programmata, il marketing, il diluvio di pubblicità, promozione, seduzione continua a ritmi sempre più nevrotici per i quali al lancio di un modello seguiva il lancio del nuovo modello e del nuovo del nuovo modello. Poi il credito-debito perché l’iper-produzione esuberava sempre più la sua possibilità di assorbimento. La macchina economica si andava impantanando in una palude in cui la fornitura di imput e l’assorbimento di output diventava sempre più problematica, lo spazio della creazione e dell’innovazione si stringeva oggettivamente (ed infatti questi concetti diventavano dei mantra invocati ossessivamente quasi che le parole potessero sostituire le cose), la domanda aveva raggiunto l’insuperabile fase di picco della curva logistica. Questo combinato, stringeva sempre più  le possibilità di crescita e quindi di profitto, cuore della motivazione ad intraprendere, fare impresa, creare lavoro, distribuire quel salario che anima la doppia vita del lavoratore-consumatore, consumatore senza il quale il ciclo non si chiude, ciclo che se non si chiude, fa crollare l’intero meccanismo, la società che vi dipende organicamente, il desiderio e la sua promessa di soddisfazione che traina l’agire di tutti gli individui connessi al macchinario. Insomma il cosiddetto capitalismo tendeva a non funzionare più come prima, era giunto ad un limite strutturale ovvero quello per il quale aveva felicemente portato a compimento la sua missione, aveva raggiunto il suo limite di funzione.  Le società occidentali e in particolare quelle che su esso hanno fondato la loro leadership mondiale, si trovarono in un impasse per cui il sistema da cui dipendevano e da cui dipendeva il loro ruolo geo-politico, non funzionava più come in passato perché era giunto al limite della sua funzione.

Se si scompone il quadrivio dispositivo che più che neo-liberismo, si era soliti chiamare Washington consensus, perché più che scaturire dalla teoria economica, scaturiva dalla prassi politica essendo Washington l’hot spot del potere politico della nazione hot spot del sistema tanto capitalistico che occidentale, si possono facilmente leggere le razionali di queste disposizioni. La fase del capitalismo paradossale o disperato doveva imporre quelle disposizioni per comprare tempo, darsi un po’ di ossigeno, allargare il suo spazio vitale, nell’attesa di capire cosa fare davanti al problema dei suoi raggiunti limiti di funzione. Cos’è la deregolamentazione se non la iperlubrificazione di un meccanismo che sempre più difficile da far muovere non deve incontrare alcun attrito al suo funzionamento già così problematico? Cos’è la privatizzazione se non la necessità di darsi nuovi territori da colonizzare dato che quelli qualitativi della creatività ed innovazione non ne sorreggevano più il funzionamento e quelli quantitativi dei mercati del secondo e terzo mondo erano destinati all’auto-organizzazione? Cos’è la globalizzazione se non il tentativo di mantenere un po’ di residuo controllo su questo mondo sfuggente aprendo autostrade per le contratte multinazionali ed aprendo i mercati interni dell’Occidente ad un po’ di merce a buon mercato che mantenesse viva la coazione del desiderio dei consumatori che in quanto lavoratori andavano sempre più a soffrire della contrazione delle loro possibilità? E cos’è la finanziarizzazione con il suo portato di promessa di un capitalismo delle rendite diffuse, con l’illusione che la politica monetaria espansiva potesse sostituire l’espansione prodotta dall’intero ciclo materiale di produzione e scambio, con la creazione di montagne debitorie del tutto inestinguibili, se non il degno complemento di questa condizione disperata? E cos’è ancora la finanziarizzazione, come molti altri hanno già detto, se non il disaccoppiamento strutturale tra capitale ed impresa con il primo deragliato in un mondo di specchi che ne moltiplicano l’immagine ma con il sempre presente rischio che ci si accorga che l’immagine di centro talleri non è il concreto valore di cento talleri reali. Dietro ogni tossicodipendenza c’è un frammento di disperazione e la bulimia consumistica, mercatistica, monetarista questo è: disperazione effervescente.

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Insomma, a noi pare che il sottostante l’accoppiata neo-liberismo / crisi, sia il sintomo di una disperazione, la disperazione per il fatto che in occidente, l’economia ordinata dal sistema di produzione e scambio che abbiamo chiamato capitalismo, semplicemente, non poteva più svolgere pienamente la sua funzione, non riusciva più ad ordinare la società. Le élite da una parte hanno varato una manovra di dilazione, dall’altra hanno scaricato la somma dei malfunzionamenti del sistema su i sottostanti, questi sono paralizzati dalla minaccia costante di inibizione di ogni loro desiderio che la finale paralisi del macchinario porterebbe. La reazione totalitaria è sintomo.

Di ogni forma totalitaria si può dire che sia il sintomo di un malfunzionamento di una sistema che per non perire, si irrigidisce. L’Inquisizione fu un fenomeno del XVI° secolo, quando cioè il sistema medioevale ecclesiastico si apprestava alla fine ultima. Così per le due società europee che più avevano resistito all’avvento della modernità: l’Italia col fascismo e la Germania col nazismo. Così per lo stalinismo sovietico che tentava la resistenza alla liquefazione del suo modello, un modello che evidentemente non funzionava. Così il tiranno invocato coscientemente nelle poleis greche quando la stasis tendeva alla massima entropia. Così come ogni forma di dominio esageratamente occhiuto e paranoico denota la paura, la paura della perdita del controllo, la paura del massimo disordine conseguente la perdita delle sue facoltà ordinanti. L’irrigidimento totalitario annuncia sempre il rigor mortis.

Il capitalismo occidentale è disperato e quindi diventa sempre più totalitario ed irrazionale perché ha perso le sue condizioni di possibilità. La sua coazione accrescitiva è sempre più problematica, la sua performance mondiale è sempre più sbiadita, la sua creatività è diventata nevrotica, la sua diseguaglianza insopportabile, il suo costo sociale, ambientale, politico, insostenibile. Tanto più tarderà l’idea del suo sostituto, tanto più al posto di una onorevole eutanasia e conseguente sepoltura, dovremmo altresì sopportarne il conato ostinato a rimanere in vita, l’irrigidimento progressivo che porta diffusa irrazionalità, la sempre più diffusa introiezione ad una servitù volontaria che difende l’esistente morente perché ha paura del massimo disordine, il moto che accetta un male per evitare un peggio. Già stiamo familiarizzando con una idea che solo cinque anni fa sarebbe sembrata folle, l’idea di una prossima guerra tra grandi potenze perché se si accetta un male per evitare un peggio, occorre ricordarsi anche che al peggio non c’è mai fine.

Due recensioni, l’una del manifesto, l’altra la Premessa del libro di Lordon pubblicata da Micromega.
1 Trattato Politico, cap. X, 8 p. 1774 di B. Spinoza, Tutte le opere, Bompiani, Milano, 2010-11 trad. it. A. Sangiacomo

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