La conricerca contro l’industrializzazione dell’umano
di Emiliana Armano e Devi Sacchetto
Breve nota sul convegno: “Romano Alquati. Immagini e percorsi soggettivi e collettivi di una ricerca”
L’itinerario personale, politico e intellettuale di Romano Alquati si intreccia indissolubilmente con la storia del secondo dopoguerra, quando una generazione di militanti misero in secondo piano l’importanza della propria professione e per sopravvivere cercarono occupazioni in grado di “servirci anche per la nostra militanza politica!”. Essi diedero vita a una modalità nuova di fare politica che fece da spartiacque anche per le successive generazioni, sino a oggi.[2]
L’intento degli organizzatori non era di proporre una visione unitaria, coesa delle categorie alquatiane, ma al contrario di dare spazio ai piani molteplici del discorso: politico, teorico, emotivo ed esistenziale. Nell'incontro è prevalso un taglio biografico e narrativo, affrontando anche alcune delle tematiche teoriche che Alquati aveva caparbiamente portato alla luce.[3] La potenza della macchina narrativa ha consentito una riappropriazione collettiva della storia che i convenuti avevano vissuto e sulla quale, anche individualmente, avevano riflettuto.
Per l’occasione si sono quindi ripercorse anche le tappe della ricerca di Romano Alquati indirizzata al rinnovamento radicale dello studio della sociologia industriale e allo sviluppo della conricerca sociale in Italia. In queste note cercheremo di dar conto delle diverse angolazioni affrontate dagli interventi.
1. Rotture e riparazioni del diventare adulti
Nell’intervento di apertura Renato Rozzi, psicanalista e caro amico fin dall’infanzia, sottolinea a più riprese gli elementi di rottura, nella criticità del “diventare adulti” in quella peculiare fase storica. Romano Alquati nasce in una famiglia della medio-alta borghesia come lui stesso racconta in una intervista autobiografica[4]. Il padre Carlo Alquati, generale del Regio Esercito e amico di Gabriele D’Annunzio, viene mandato in Croazia per le sue posizioni di sinistra all’interno del Partito fascista; qui Romano nasce e vive i suoi primi anni di infanzia. Nel 1945 a dieci anni perde il padre, giustiziato dai partigiani nella zona di Vercelli. Alla caduta in povertà si somma dunque “il crollo sociale” e gli anni di un dopoguerra “che stentava a finire”[5].
La centralità degli anni di formazione e militanza a Cremona – dove si è trasferito -è messa in risalto anche da Fabrizio Merisi, pittore e amico fin dai primi anni ’50 di Alquati, che ricorda come “l’aria cremonese lo contamini anche somaticamente pur a distanza di decenni”, sebbene egli non fosse tenero con “una cremonesità troppo accomodante in contrasto col suo profondo rigore etico e intellettuale.” Merisi ricorda il passato di pittore di Alquati attratto dallo scorrere lento del tempo sullo spiaggione del fiume Po.
Cremona negli anni ’50 è, fortunatamente, un vero laboratorio politico che garantisce sia un’ampiezza di orizzonti sia lo sviluppo di rapporti sociali e politici in Italia e all’estero. In particolare per Romano gli incontri decisivi sono quelli “[con Danilo] Montaldi (tramite il Club Ulisse) e poi [con] Renato Rozzi, che diventerà un paziente e sapiente mio fratello maggiore, e poi [con] Giovanni Bottaioli, vecchio militante politico operaio internazionalista”.[6] D’altra parte, secondo Gianfranco Fiameni è possibile ritrovare in Alquati una sorta di “protoperaismo” a largo spettro “stretto ai processi reali, alle presenze di quanti incontravamo nei giri del periodo cremonese 'delle fabbriche' e in tante letture e confronti”.
Alquati è “abbastanza cattolico” fino all’adolescenza, ma in seguito si allontana dalla Chiesa cattolica e si tiene a debita distanza dal Partito comunista.[7] Fortemente socializzato dall’ambiente politico e da quello artistico intorno ai venti anni, le prime esperienze politiche attraverso Danilo Montaldi lo portano a Milano prima e a Torino in seguito dove partecipa attivamente con Raniero Panzieri alla redazione della rivista Quaderni Rossi, un passaggio cruciale per la formazione della nuova sinistra. Dopo la rottura all’interno di Quaderni Rossi, dal ’63 darà vita insieme con Mario Tronti e Toni Negri all’esperienza di Classe Operaia, vero luogo di nascita di quello che sarà conosciuto come operaismo. In questo crogiolo di esperienze collettive egli vive a stretto contatto con una nuova figura di classe operaia, quelle “forze nuove” dell’operaio massa potenzialmente antagonistiche con il neocapitalismo e assai distanti nei comportamenti e nella mentalità dal vecchio movimento operaio. E’ all’interno di questa collettività che si elaborano categorie di analisi fondamentali come quella di composizione di classe e si propone un approccio di studio/intervento con il “metodo” della conricerca.[8]
La traiettoria di Romano Alquati va letta nella trasformazione tra composizione di classe e sue espressioni nella composizione politica e di ciò che ha rappresentato l’operaismo. Come ha notato Sergio Bologna[9], gli ‘operaisti’ cercavano di coniugare un’interpretazione eterodossa di Marx con la realtà di fabbrica. La teoria assumeva così un valore strumentale poiché essa poteva esistere solo a partire da questo confronto costante con le dinamiche produttive, consci della complessità e della durezza del lavoro di fabbrica.
Alquati vive sempre in ristrettezza economica e, seppure per brevi periodi, fa esperienza diretta di lavoro prima nei cantieri edili e poi anche di lavoro sindacale di base. Negli anni ‘60-‘70, l’Università italiana elitaria viene scardinata e molti militanti politici forgiati nei cicli di lotte che si susseguono dentro e fuori la fabbrica si inseriscono in qualità sia di studenti sia di docenti. E’ in questa congiuntura che Romano Alquati, ricercatore militante, vi approda , prima come “incaricato precario” per essere assunto in seguito in qualità di professore associato. Come molti altri compagni dell’epoca evita come la peste di perseguire la carriera accademica: “non volli mai fare davvero un concorso per diventare ordinario per evitare certi condizionamenti soprattutto da parte di una certa sinistra istituzionale.” In seguito, come ha scritto Guido Borio, “per sopravvivere ha fatto per decenni il docente universitario, molto seguito dagli studenti e poco considerato dai colleghi, anzi sovente isolato dall’Accademia che non ha mai accettato né riconosciuto la sua diversità intellettuale”.[10]
2. Le innovazioni alquatiane
Nell’ambito del convegno ogni intervento ha sottolineato la sostanziale capacità di Alquati di innovare la scienza sociale italiana. Anche quanti si sono soffermati maggiormente su ricordi personali non hanno potuto fare a meno di evidenziare come Romano Alquati sia tra i pochi intellettuali italiani del suo tempo in grado di imporre all’attenzione generale alcune categorie e strumenti concettuali. Ci concentreremo qui su alcuni di questi e in particolare sulle questioni relative a: soggettività, conricerca, analisi della composizione di classe, processi di iper-industrializzazione e ambivalenza.
2.1 Soggettività
Un prima tema emerso durante il convegno, strettamente connesso con tutto l’itinerario alquatiano, è senza dubbio quello della “scoperta” dei processi di soggettivazione e dell’“irrompere della soggettività” nelle categorie politiche. Si tratta di un argomento sottolineato in particolare negli interventi del gruppo dei cremonesi Renato Rozzi, Gianfranco Fiameni e Fabrizio Merisi, incentrati sulla costruzione sociale delle relazioni personali nell’humus di una generazione di lotta.
Come abbiamo visto, l’esperienza politica di Romano muove da quella componente minoritaria ma importante dei giovani “ricercatori scalzi” degli anni ‘50 che, pur continuando ad abitare criticamente il movimento operaio, in particolare le sue organizzazioni sindacali, matura da subito una rottura profonda rispetto alle sue rappresentanze istituzionali e alle vie nazionali al socialismo; al tempo stesso essi rimangono distinti, anche per un tratto generazionale, dall’opposizione antistalinista “storica”. In questo atteggiamento, egli anticipa insieme ad altri quella straordinaria cesura che maturerà compiutamente solo con il ’68. Romano Alquati cresce in un humus culturale che in quegli anni è alla ricerca di un marxismo libero da incrostazioni, capace di indagare e intercettare la classe operaia per quello che è, e non per come dovrebbe essere secondo le rappresentazioni canoniche del Partito comunista. Come ha sottolineato Sergio Bologna,[11] gli operaisti dovevano confrontarsi con due culture della “sinistra” italiana: da un lato la tendenza del Partito comunista a concentrarsi sulle problematiche del governo del paese, dall’altro lato quanti nei settori anticapitalisti ritenevano prioritario il sostegno alle lotte di liberazione nei paesi del “Terzo mondo”. Romano Alquati, come altri, se ne sta a debita distanza da tali prospettive, preferendo piuttosto indagare, sulla scia del lavoro di Danilo Montaldi, la classe operaia a partire dalla sua soggettività. E’ una ricerca che in parte affina vecchi strumenti, in altri casi produce vera e propria innovazione metodologica: viene rifiutata l’inchiesta positivistica intesa come mera riproduzione di retoriche ideologiche, per mettere in campo una ricerca che mira a costruire, con i soggetti indagati, un sapere nuovo. Si tratta di una forma comprendente capace di conoscere le intenzioni, i desideri e i valori anche inattesi per come si esprimono dentro la classe.
Renato Rozzi sottolinea in questo senso come Alquati abbia una “concezione della classe operaia, intesa come un continuo divenire; [essa] è vista non come quella che deve conquistare il potere, ma come una grande popolazione che viene studiata su quel livello che è tipico dell'antropologia, del continuo divenire delle culture del mondo”.[12] Già in passato Rozzi ha sostenuto[13] come nella visione del Partito comunista italiano la soggettività operaia era invece annessa e del tutto subordinata alla soggettività politica. Questo discorso sulla soggettività è premessa e fondamento della conricerca.
2.2 Conricerca
Molti degli altri interventi si sono soffermati sulla pratica della conricerca vero nodo generale attorno a cui ruota la produzione intellettuale nonché la costruzione di rapporti politici di Romano Alquati. La conricerca che nasce nei primi anni '60 come ricerca militante sul campo con operai della Fiat Mirafiori e di altre fabbriche piemontesi (Olivetti, Lancia), è allo stesso tempo attività d'inchiesta e processo di conoscenza e di trasformazione reciproca dell’identità del ricercatore e di quella che si comincia a chiamare in quegli anni soggettività operaia. La conricerca è una pratica d'intervento che ponendo il ricercatore militante sullo stesso piano del soggetto indagato annulla la figura separata dell’“avanguardia” tanto cara alla logica della sinistra e consente di riformulare orizzontalmente e circolarmente il rapporto teoria-prassi-organizzazione. La conricerca è un rapporto sociale e politico non formalizzabile in metodo che permette di leggere, anche nei periodi di passività, i segnali della conflittualità a venire, l’organizzazione informale e le ambivalenze costitutive che si collocano nello scarto tra composizione tecnica (articolazione oggettiva della forza-lavoro) e composizione politica della classe[14].
Secondo Luigi Berzano la conricerca di Alquati è l’effetto di una “rottura” epistemologica, poiché crea nuovi rapporti “tra determinazione di un oggetto scientifico e modo di esposizione dei risultati della ricerca e della relativa scienza”. La (con)ricerca produce quindi effetti nello stesso momento viene costruita collettivamente, poiché è uno spazio in cui la soggettività dei con-ricercatori e dei ricercati si può esprimere. Si tratta quindi di un’attività che permette di costruire nuove possibilità e che come sottolinea Andrea Sormano affronta “una questione che tutto può dirsi essere, oggi come ieri, fuorché risolta.”
Non a caso la questione della formazione rimane cruciale per Alquati che vi dedicava notevoli energie anche nella preparazione del corso di Sociologia industriale che ha tenuto fino al 2003 all’Università di Torino. Come hanno sottolineato alcuni suoi allievi le lezioni erano attraversate dalla “tensione a inseguire un disegno concettuale preciso, sebbene mai definito una volta per tutte… una sorta di macchina per pensare il presente, per tentare di dare forma al ‘non ancora’ e per provare a immaginare il ‘nuovo’” Questa narrazione ricca e articolata, rinnovata anno dopo anno, portava alcuni studenti a reiterare quei corsi spontaneamente negli anni successivi, “fuori da qualsiasi percorso ufficiale, ma mossi dall’interesse per un discorso che sembrava non finire mai e procedere verso nuovi traguardi” (Maurizio Pentenero) poiché frutto di un’intelligenza e di un percorso collettivo di lavoro.
Di fronte ai pacchetti di informazione in power point di tanta parte della sociologia contemporanea, Alquati dava vita a “uno spettacolo… attraverso una lezione frontale, ma anche una interlocuzione diretta con i partecipanti… permettendo loro di sbirciare al di là del proprio orizzonte culturale.” Egli non si soffermava certo dentro le anguste pareti della sociologia industriale, ma si proiettava “nel cuore della moderna fabbrica, toccando gradualmente le questioni della riproduzione, del consumo, della formazione, della comunicazione” (Maurizio Pentenero). Le sue conoscenze spaziavano su diversi campi e garantivano continui stimoli. D’altra parte egli stesso trattava sovente semplici laureandi come veri e propri ricercatori in nuce poiché ne coglieva le capacità e la “forza-invenzione” umana e soggettiva. Come lo stesso Alquati asserisce in un’intervista: “La didattica è un luogo di distribuzione della conoscenza già prodotta altrove. E’ come il commercio. Distribuisce conoscenze procedurali pre-confezionate. E questo piace agli studenti! Che non capiscono la miseria di ciò”.[15]
La conricerca di Alquati è quindi incontro e apertura di nuove possibilità politiche da costruire insieme, “momenti non facilmente prefigurabili di organizzazione e di azione” (Alessandro Casiccia). Eppure, come lo stesso Alquati ammette, “per il semplice fatto di parlare e usare metodi qualitativi, non sono mai stato creduto un vero scienziato”.[16] Una beffa per chi, come lui, aveva svolto una tesi di laurea a Trento con metodi quantitativi, quando quasi nessuno ancora li usava.
2.3 I processi di industrializzazione dell’attività umana: ovvero il tentativo di costruire una nuova scienza sociale
L’estrema capacità nel saper cogliere le cesure, prioritaria in lui rispetto a ogni percorso politico e organizzativo, porta Romano Alquati già nei primi anni '70 - che pure segnano il culmine della conflittualità dell’operaio massa - a individuare nei processi di industrializzazione dell’attività umana in quanto tale, evidenti nell’incipiente terziarizzazione, il ridislocarsi della sussunzione capitalistica che esce dalla fabbrica e si estende al "sociale". Risalgono a questo periodo gli studi su Università di ceto medio e il proletariato intellettuale,[17] che aprono alle successive ricerche su formazione comunicazione e intellettualità di massa, sui servizi come prodotto del capitale e più in generale sulla riproduzione mercificata della capacità-umana-vivente. Si prende atto della fine di un ciclo della composizione di classe e di una fase del capitalismo che richiede di andare oltre le letture operaistiche. Nel suo pensiero si fa così strada l’esigenza di elaborare nuovi strumenti - anche in costante, sebbene isolato, dialogo con grandi sociologi come Zygmunt Bauman della modernità liquida e Alain Touraine - all’altezza di quella che definirà l’iperindustrializzazione come sussunzione effettiva in atto dell’intera esperienza umana e messa a valore dell’intera riproduzione sociale.
Il nodo di fondo è quello dell’ambivalenza: i saperi e le attività possono essere curvate favorendo l’autonomia dei soggetti oppure espropriati nella codificazione del linguaggio formalizzato tecnico-scientifico del capitale. La domanda è: a quali condizioni gli iperproletari, socializzati dalle tecnomacchine flessibili della produzione e riproduzione capitalistica, possono aprirsi ad una prassi emancipatrice? Lo studio della soggettività umana, leggibile in filigrana anche sotto l’apparente “gabbia d’acciaio” permetteva a Romano di cogliere la continua ambivalenza della “forza-invenzione” in grado di rimanere a lungo latente, per poi emergere e irrompere nei gangli della società e del lavoro nei momenti di crisi, finendo per costituire un alimentatore fondamentale del cambiamento (Maurizio Pentenero). Negli anni ’80 i temi dell’(iper)industrializzazione e dell’ambivalenza sono affrontati da Alquati all’interno di seminari militanti utilizzando ancora l’università di massa come possibile luogo di produzione collettiva di conoscenza critica; si tratta di anni di formazione fondamentali per coloro che sono poi diventati i suoi allievi.
I temi dei processi di industrializzazione dell’attività umana e della composizione di classe sono stati messi in luce nell’intervento di Ferruccio Gambino che ha proposto una lettura interpretativa degli scritti più recenti e ancora inediti di Romano Alquati.[18] Si tratta del lascito certamente più ricco, denso e complesso nel quale è possibile notare come Alquati cerchi di “rilanciare lo studio della società industriale contro una sociologia generale che oggi ‘rimuove l’industrialità dell’agire’”, proprio mentre nel fare industriale è immerso ormai quasi un quinto dell’umanità (Ferruccio Gambino). Una caratteristica della contemporaneità è la pervasività del fare industriale che si è imposto grazie a estesi processi di disciplinamento e che è in grado di plasmare le stesse capacità umane. Si tratta di quella iper-industrialità che non ha certo risparmiato i saperi e i processi di formazione dentro l’Università nel corso dell’ultimo trentennio.
Nel saggio Nella società industriale d'oggi, Alquati sottopone a critica anche il concetto di società di Marx, presentando una sua definizione adeguata alla fase attuale di iper-industrializzazione: “‘una trama d’attività\lavori cui sono stati addetti attori\lavoratori (capaci)’. Regolata da un mix di mercato e gerarchia (quindi – fra l’altro – non è una trama di relazioni fra persone…)”. La caratteristica dell’attuale società è la condizione salariale di individui intercambiabili che si mascherano “da individui e da persone, anche simulando false piccole autonomie e originalità esteriori: di superficie”. In effetti, come Ferruccio Gambino nota nella sua relazione, Alquati enfatizza come la trasformazione di un individuo in “individuo presunto” è una caratteristica tipica di un’epoca che ha espulso il conflitto e il collettivo dal suo agire quotidiano: “l’individuazione é tanto più forte (e libera) quanto più ha luogo in un collettivo forte e libero, almeno con momenti davvero autonomi…Quanto più sono deboli e vuoti ed uguali i cosiddetti individui tanto più cresce l’ideologia individualistica…c’erano più individui quando le lotte proletarie spezzavano la chiusura bassa nei ruoli e gusci bassi di funzionalità sistemica immediata, di quanti ce ne siano oggi in stagione ossessivamente ‘individualistica’”.[19]
L’insistenza di Romano Alquati sull’analisi delle forme di valorizzazione e la sua attenzione nei confronti di quello che egli definiva capitale-mezzi, cioè dei processi di incorporamento e sussunzione, ci forniscono importanti chiavi interpretative per leggere i recenti sviluppi del capitale e l’economia delle reti come meta-macchina.[20]
Conclusioni
Il seminario organizzato a Torino ha quindi evidenziato come Romano Alquati ci abbia lasciato un pensiero forte che ha squadernato in maniera controintuitiva alcuni nodi fondamentali delle forme attuali della valorizzazione capitalistica. Come ha ben evidenziato Guido Borio: “Romano ci ha lasciato incredibili e indistruttibili ‘macchine per pensare’ che sono stati sia saggi pubblicati: dai ‘Quaderni rossi’ a ‘Classe operaia’, dalle dispense universitarie a scritti sparsi e inediti, sia relazioni e incontri individuali”.[21] Una prima preziosa ricognizione bibliografica realizzata in occasione del convegno è acclusa a questa nota; essenziali sono poi i corposi testi ancora inediti e vari appunti ritrovati a più di un anno di distanza dalla sua scomparsa - sui quali la discussione è appena iniziata - che continuano a invitarci a riflettere e a proseguire nel lavoro di ricerca.
L’esempio che Romano Alquati ci ha lasciato è quello di una persona che non ha certo ceduto all’attrazione del ruolo professionale, quanto piuttosto ha continuato a mettere in campo modalità di ricercare con-gli-altri. Il suo rifiuto di voler essere o di voler formare i “dirigenti” della classe operaia, gli ha permesso di rimanere a debita distanza dalla cultura e dalla tradizione comuniste. Come ha sottolineato Sergio Bologna, egli “aveva però chiaro in testa che c’è chi è in grado di tirare, chi ha le idee più chiare degli altri, chi vede più lontano e chi no.”[22]
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